La storia di un pianeta che vive la sua ultima stagione di luce prima del buio intergalattico

«Un vagabondo, un viaggiatore senza meta, una scoria della creazione: il pianeta Worlorn era tutte queste cose. Per innumerevoli secoli aveva continuato a cadere, da solo, senza scopo, precipitando tra i freddi e solitari spazi che si aprono fra le stelle. Ma lui non apparteneva a nessuna di quelle stelle. In un certo senso non faceva nemmeno parte della galassia, anche se rotolava attraverso il piano della galassia come un chiodo che attraversa la tonda superficie di un tavolo. Non faceva parte di niente...» Poi Worlorn passa vicino alla Ruota di Fuoco, la supercostellazione che gli darà qualche anno di luce prima che esso piombi di nuovo nella notte senza fine cui sono destinati i mondi senza sole.

E nel momento in cui il pianeta solitario si avvicina, forse per l’ultima volta, al fuoco della vita, gli uomini decidono di trasformarlo per i loro fini riposti. La luce morente è una storia di superscienza, ma anche di esseri umani posti di fronte a un ennesimo simbolo dell’esistenza precaria che conduciamo, sul Margine dell’universo.

É il primo romanzo di George R.R.Martin, un grande affresco spaziale del lontano futuro, dove tutto è azione, poesia, meraviglia.

George R.R. Martin

La luce morente

Prologo

Un vagabondo, un viaggiatore senza meta, una scoria della creazione; questo mondo era tutte queste cose.

Per innumerevoli secoli aveva continuato a cadere, da solo, senza scopo, precipitando tra i freddi e solitari spazi che si aprono tra le stelle. Generazioni di stelle si erano presentate l’una dopo l’altra in sciami maestosi nei suoi cieli sterili. Ma lui non apparteneva a nessuna di quelle stelle. Era un mondo in se stesso e di se stesso, completamente. In un certo senso non faceva nemmeno parte della galassia, anche se rotolava attraverso il piano della galassia come un chiodo che attraversa la tonda superficie di un tavolo… Non faceva parte di niente.

Ed il niente era davvero vicino. All’alba della storia umana, il mondo vagabondo perforò una cortina di polvere interstellare che ricopriva una piccolissima area presso il bordo superiore delle grandi lenti della galassia. Sotto c’era una manciata di stelle… una trentina, più o meno; proprio una manciata. Poi il vuoto, una notte più grande di quella che qualsiasi altro mondo vagante avesse mai scorto.

Là, precipitando attraverso quella tenebrosa regione di confine, incontrò la gente del Margine.

I primi a trovarlo furono gli Imperiali Terrestri, all’apice della loro vertiginosa, ubriacante espansione, quando l’Impero Federale di Vecchia Terra stava ancora tentando di governare tutti i mondi dell’umanità estesi attraverso incommensurabili, impossibili abissi. Ci fu una nave da guerra che si chiamava Mao Tse-Tung, che venne colpita durante un attacco agli Hrangani e l’equipaggio mori, ma ognuno rimase al suo posto. I motori continuarono ad accendersi di tanto in tanto, facendo passare la nave fuori e dentro l’iperspazio: questa fu la prima nave dell’impero umano che superò il Velo Tentatore. La Mao era solo un relitto, privo di aria e pieno di cadaveri grotteschi che traballavano senza scopo per i corridoi e sbattevano contro le paratie una volta ogni secolo, più o meno; ma i computers funzionavano ancora, ripetendo ciecamente la loro routine, ed erano in grado di rilevare perfettamente la presenza dell’innominato pianeta vagabondo e di riportarla sulle carte quando la nave fantasma emerse dall’iperspazio a pochi minuti-luce da quel mondo. Passarono quasi sette secoli prima che un mercante proveniente da Tober si imbattesse nella Mao Tse-Tung e ritrovasse quell’annotazione.

Da allora non se ne parlò più; il mondo dovette essere riscoperto.

La seconda a scoprirlo fu Celia Marcyan. Il suo Cacciatore d’Ombre girò attorno al buio pianeta per un intero giorno standard, durante la generazione dell’Interregno che seguì il Collasso. Ma il vagabondo non aveva niente per Celia, c’erano solo rocce e notte senza fine, per cui poco dopo lei si allontanò. Tuttavia, lei era una che dava dei nomi e prima di lasciarlo, gli diede un nome. Lo chiamò Worlorn e non disse mai che cosa significasse, per cui restò Worlorn. Poi Celia si allontanò verso altri mondi ed altre avventure.

Il successivo visitatore fu Kleronomas, nel 46-di. La sua nave di rilevamento fece alcuni passaggi e tracciò alcune mappe su quei deserti. Il pianeta rivelò i suoi segreti ai sensori scientifici; era più grande e più ricco di molti altri pianeti, si scopri. Aveva degli oceani ghiacciati ed un’atmosfera gelata che aspettavano di essere liberati.

Si racconta che i primi ad atterrare su Worlorn furono Tomo e Walberg, nel 97-di, durante il loro folle tentativo di attraversare la galassia. È vero? Probabilmente no. Tutti i mondi conquistati dall’uomo hanno una storia su Tomo e Walberg, ma la Puttana Sognante non ebbe mai a ritornare, per cui nessuno può dire dove atterrò e dove non atterrò.

Le ultime osservazioni furono più circostanziate e meno leggendarie. Senza stelle, inutilizzabile e solo marginalmente interessante, Worlorn diventò una semplice annotazione sulle carte stellari del Margine, quei mondi sparpagliati e scarsamente popolati posti tra la cortina di gas scuri de! Velo Tentatore ed il Grande Oceano Nero.

Poi nel 446-di, un astronomo di Lupania si mise a studiare Worlorn e per la prima volta ci fu qualcuno che si prese la briga di mettere insieme tutte le coordinate. A questo punto le cose cambiarono. L’astronomo Lupano si chiamava Ingo Haapala e quando uscì dalla stanza del computer era enormemente eccitato come spesso succede ai Lupani. Perché Worlorn era destinato ad avere un giorno… un giorno lungo e luminoso.

La costellazione chiamata Ruota di Fuoco splendeva nel cielo di tutti i mondi dello spazio esterno; la sua meravigliosa particolarità era già nota fin dai tempi di Vecchia Terra. Il centro del sistema era una rossa supergigante, il Mozzo, Occhiodaverno, il Grasso Satana… aveva una decina di nomi. In orbita attorno, equidistanti tra di loro, sistemate in maniera perfetta, come se fossero sei birilli di fuoco che corressero in un’unica scanalatura, c’erano le altre stelle: i Soli Troiani, i Figli di Satana, la Coronadaverno. I nomi non erano importanti. La cosa importante era la Ruota, sei stelle di media dimensione che rendevano omaggio alla loro vasta madre rossa: si trattava del più improbabile e stabile tra i sistemi multipli che mai fossero stati scoperti. La Ruota fece sensazione per una settimana, un mistero nuovo per un’umanità ormai stufa dei vecchi misteri. Sui mondi più progrediti gli scienziati costruirono teorie per spiegare la cosa; al di là del Velo Tentatore nacque un culto ed uomini e donne parlarono di una razza scomparsa formata da ingegneri stellari che avevano saputo muovere soli interi per costruire un monumento a se stessi. Le speculazioni scientifiche e le superstizioni crebbero febbrilmente per alcune decadi, poi cominciarono a svanire; poco tempo dopo, l’intera faccenda era stata dimenticata.

Il Lupano Haapala annunciò che Worlorn sarebbe scivolato attorno alla Ruota di Fuoco per una sola volta, in una larga, lenta iperbole, senza mai entrare nel sistema vero e proprio, ma facendosi abbastanza vicino. Cinquanta anni standard di sole; poi sarebbe di nuovo uscito precipitandosi nel buio del Margine, al di là delle stelle più lontane, nel cuore del Grande Oceano Nero del vuoto intergalattico.

Questi erano i secoli frenetici in cui Alto Kavalaan e gli altri mondi esterni provavano il sottile gusto dell’orgoglio ed erano perciò ansiosi di trovare un loro posto nelle molteplici storie dell’umanità. E tutti sanno ciò che capitò. La Ruota di Fuoco è stata sempre considerata con orgoglio dai mondi esterni, ma era una gloria completamente priva di pianeti, fino a questo momento.

Ci fu un secolo di tempeste mentre Worlorn si avvicinava alla luce: anni ed anni in cui i ghiacci si fondevano ed i vulcani si risvegliavano scatenando terremoti. L’atmosfera ghiacciata sorse, a poco a poco, a nuova vita e venti spaventosi gemettero come infanti mostruosi. Gli abitanti dei mondi esterni si trovarono di fronte a tutte queste difficoltà e le fronteggiarono.

Da Tober-nel-Velo giunsero i terraformer, da Cupalba vennero i controllori del tempo; poi arrivarono altri gruppi di persone da Lupania e Kimdiss, di-Emerel e dal Mondo dell’Oceano Nerovino. La supervisione venne condotta dagli uomini di Alto Kavalaan. La lotta richiese più di un secolo e quelli che vi morirono sono ancora adesso considerati come figure quasi mitiche da tutti i bambini del Margine. Ma alla fine Worlorn fu domato. Poi vi sorsero le città e strane foreste fiorirono sotto la luce della Ruota e vennero liberati degli animali per fornire una vita al pianeta.

Nel 589-di si aprì il Festival del Margine; Grasso Satana occupava un quarto del cielo ed i suoi figli gli scintillavano tutto intorno. In quella prima giornata, i Toberiani fecero scintillare il loro stratoscudo, in modo che le nuvole e i raggi solari formassero dei tortuosi riflessi caleidoscopici. Seguirono altri giorni e vennero le navi. Vennero da tutti i mondi esterni e dai mondi anche più in là, da Tara e Daronne dall’altra parte del Velo, da Avalon e dal Mondo di Jamison, da posti lontani, come Nuova Holme e Vecchia Poseidone ed addirittura da Vecchia Terra. Per cinque anni standard, Worlorn si mosse verso il perielio; per cinque anni se ne allontanò. Nel 599-di il festival si chiuse. Per Worlorn incominciò il crepuscolo e precipitò verso la notte.

1

Dietro la finestra l’acqua sbatteva contro i pali che sostenevano le passatoie di legno lungo il canale. Dirk t’Larien sollevò gli occhi e guardò una barca nera e bassa che passava lentamente sotto la luce della luna. Una figura solitaria era posta a poppa, in piedi, piegata su di un palo nero e sottile. L’immagine si stagliava in maniera assai netta, perché la luna di Braque si stava alzando nel cielo, grande come un pugno chiuso e luminosissima.

Dietro l’astro c’era calma e tenebra fumosa, una cortina di polvere e gas, pensò lui. Il Velo Tentatore.

Il principio venne di gran lunga dopo la fine: una gemma mormorante.

Era avvolta in strati di argento e di morbido velluto scuro, così come lui l’aveva data alla donna, anni prima. Quella notte l’uomo aprì il pacchetto, seduto presso la finestra della sua stanza che si affacciava sul largo canale su cui affiorava il sudiciume, dove i mercanti spingevano instancabilmente con i lunghi pali barconi pieni di frutta. La gemma era proprio come se la ricordava Dirk: rosso scura, striata di sottili linee nere, fatta a forma di lacrima. Gli venne in mente il giorno in cui l’éspero la tagliò per loro, quando si trovavano su Avalon.

Passò gran tempo prima che si decidesse a toccarla.

Era liscia e freddissima a contatto con la punta delle dita e, nel profondo del suo cervello, mormorava. Ricordi e promesse che lui non aveva scordato.

Non si trovava su Braque per una ragione speciale, e non riusciva a capire come avessero fatto a rintracciarlo. Eppure c’erano riusciti e Dirk t’Larien aveva riavuto il suo gioiello.

«Gwen», disse piano, solo a se stesso, solo per ridar forma ancora una volta alla parola e sentire il familiare calore sulla punta della lingua. La sua Jenny, la sua Ginevra, protagonista di perduti sogni.

Erano passati sette anni standard, pensò lui, mentre le sue dita accarezzavano la gemma fredda, freddissima. Ma pareva che fossero trascorse sette intere vite. E tutto era finito. Che cosa poteva volere lei da lui adesso? L’uomo che lei aveva un tempo amato, l’altro Dirk t’Larien, quello che-faceva-promesse e quello che-donava-gioielli era da tempo morto.

Dirk alzò una mano per allontanare una nuvola di capelli grigio-bruni dagli occhi. Ed ecco che improvvisamente, senza alcuna ragione, si ricordò del gesto con cui Gwen gli allontanava i capelli dalla fronte quando aveva intenzione di baciarlo.

Allora si sentì stanchissimo, e assai solo. Il cinismo che aveva amorevolmente costruito attorno a sé, ebbe a vacillare ed un gran peso gli cadde sulle spalle, uno spettro, il peso della persona che lui era stato un tempo e che adesso non era più. Era davvero cambiato in tutti questi anni e si era detto che stava diventando più saggio, ma adesso tutta la sua saggezza pareva diventata aspra. Pensò a tutte le promesse che lui aveva spezzato, ai sogni che aveva messo da parte e poi smarrito, agli ideali con cui era venuto a dei compromessi, il suo splendido futuro perduto nel tedio e nel decadimento.

Perché lei glielo aveva fatto ricordare? Era passato troppo tempo, gli erano capitate troppe cose… probabilmente era successo ad entrambi. Tra l’altro, lui non aveva mai davvero creduto che lei avrebbe usato la sua gemma mormorante. Era stato un gesto stupido, l’atteggiamento di un adolescente giovane e romantico. Nessun adulto avrebbe tenuto un simile pegno assurdo. Non sarebbe andato, si capisce. Aveva appena il tempo di visitare Braque, aveva la sua vita, cose importanti da fare. Dopo tutto questo tempo, Gwen non si sarebbe dovuta aspettare che lui si precipitasse sulla prima nave per imbarcarsi verso i mondi esterni.

Un po’ risentito allungò la mano e prese la gemma nel palmo, chiudendo il pugno attorno a quella piccola cosa. Ecco, l’avrebbe gettata dalla finestra, decise, via, nelle cupe acque del canale, lontano assieme a tutto ciò che l’oggetto rappresentava. Ma non appena ebbe la gemma in pugno, gli parve un inferno di ghiaccio ed i ricordi erano lame.

…perché lei ha bisogno di te, mormorava la gemma. Perché tu le hai promesso.

La sua mano non si mosse. Il pugno rimase chiuso. Il freddo che sentiva sul palmo diventò più che doloroso e poi sordo.

Era quell’altro Dirk, quello più giovane, il Dirk di Gwen. Era lui che aveva promesso. Ma anche lei aveva promesso, lui se lo ricordava. Tanto tempo fa, ad Avalon. Il vecchio éspero, un Emereli rugoso con un Talento minimo e capelli rosso-oro, aveva tagliato due gemme. Egli aveva letto in t’Larien, aveva sentito tutto l’amore che Dirk aveva per la sua Jenny e poi aveva messo tutto ciò che aveva sentito nella gemma, per quanto gli avevano permesso le sue deboli capacità psioniche. Poi aveva fatto la stessa cosa con Gwen. Loro avevano acquistato i gioielli.

Era stata un’idea sua. Potrebbe non essere sempre così, aveva detto a lei, citando un’antica poesia. Così avevano promesso, tutti e due: manda questa memoria ed io verrò. Non importa dove sarò, o quando, o ciò che sarà passato tra di noi. Io verrò e non ci saranno domande.

Ma la promessa venne infranta. Sei mesi dopo che lei lo lasciò, Dirk le aveva mandato il gioiello. Lei non era venuta. Dopo di ciò, egli non si sarebbe mai aspettato che lei avrebbe fatto appello alla promessa che Dirk stesso aveva fatto. Eppure ora era successo.

Lei credeva che lui sarebbe davvero andato?

E Dirk sapeva, con tristezza, che l’uomo che egli era stato allora, quell’uomo sarebbe ritornato da lei, non importava che cosa, o quanto l’avesse odiata… o amata. Ma quello sciocco era da tempo sepolto. Il tempo e Gwen lo avevano ucciso.

Eppure ascoltava ancora la gemma e provava ancora l’antico sentimento e la nuova stanchezza. Alla fine sollevò gli occhi e pensò, be’, forse non è ancora troppo tardi malgrado tutto.

Ci sono parecchi modi per muoversi tra le stelle ed alcuni sono più veloci della luce, alcuni no, ma tutti sono lenti. Ci vuole quasi tutta la vita di un uomo per spostarsi da una parte all’altra della galassia abitata dall’uomo e la galassia abitata dall’uomo — gli sparsi mondi umani e l’enorme quantità di vuoto che li divide — non costituiscono che una minima parte dell’intera galassia. Ma Braque era vicino al Velo ed ai mondi esterni che c’erano dall’altra parte, per cui c’erano dei collegamenti con questi ultimi, sicché Dirk riuscì a trovare una nave.

Si chiamava il Tremito dei Nemici Dimenticati ed andava da Braque a Tara e poi attraversava il Velo verso Lupania, poi Kimdiss e finalmente Worlorn. Il viaggio, anche se fatto tutto in pvl, richiedeva più di tre mesi standard. Dirk sapeva che, superato Worlorn, la nave avrebbe proseguito alla volta di Alto Kavalaan, poi di-Emerel, fino alle Ultime Stelle, prima di ritornare a ripercorrere a ritroso la sua noiosa rotta.

Lo spazioporto era stato costruito per poter ospitare venti navi al giorno; ora ne atterrava forse una al mese. La maggior parte degli impianti erano chiusi, bui ed abbandonati. Il Tremito si era posato al centro della piccola zona ancora tenuta in attività, facendo apparire ridicolmente minuscole le navi private, riunite in un grappolo e le navi da carico Toberiane parzialmente smantellate.

Una zona del gigantesco terminal appariva ancora automatizzata ed era illuminata briosamente, ma Dirk l’attraversò rapidamente, per immergersi nella notte, la notte vuota di un mondo esterno che gridava un disperato bisogno di stelle. Loro erano là, che. lo aspettavano, proprio sotto la porta principale, più o meno come si era aspettato. Il capitano aveva inviato un messaggio laser non appena la nave era emersa dall’iperspazio.

Gwen Delvano era venuta a riceverlo, proprio come lui aveva chiesto. Ma non era venuta da sola. Gwen e l’uomo che lei aveva portato con sé stavano parlando a voce bassa tra di loro, guardandosi attorno, quando lui emerse dal terminal.

Dirk si fermò appena superata la porta, sorrise con l’aria più disinvolta che riuscì a trovare e lasciò cadere a terra l’unica leggera valigia che si era portato. «Ehi», disse piano. «Ho sentito che è in corso un festival».

Lei si voltò sentendo la sua voce e rise, con quella risata che lui aveva così ben conosciuto. «No», disse lei. «Sei in ritardo di quasi dieci anni».

Dirk strizzò gli occhi e scosse il capo. «Diavolo», disse. Poi sorrise ancora e lei gli venne vicino e si abbracciarono.

Quell’altro uomo, lo straniero, rimase lì in piedi a guardarli, senza dar segno di farci caso.

Fu un abbraccio breve. Dirk non aveva nemmeno avvolto le braccia intorno a lei che già Gwen gliele allontanava. Dopo essersi separati rimasero molto vicini e tutti e due si osservarono per constatare i danni che il tempo aveva loro arrecato.

Lei era più vecchia, ma era rimasta quasi la stessa, e le cose che lui ora trovava diverse erano probabilmente un difetto della sua memoria. I suoi grandi occhi verdi, ad esempio, non erano così grandi o così verdi come lui si ricordava e lei pareva un po’ più alta di quanto gli sembrasse e forse un po’ più appesantita. Ma ora lei era lì vicino; la donna sorrise allo stesso modo ed aveva gli stessi capelli di un tempo, fini e scuri, che le cadevano sulle spalle come una cascata scintillante più nera di una notte in un mondo esterno. Indossava un pullover bianco col collo a tartaruga e pantaloni con cintura di robusta tela camaleontina che ora era sbiadita nel colore nero della notte. Sul capo aveva una spessa fascia, così come già amava portare su Avalon. Ora aveva anche un braccialetto che un tempo non portava. Sarebbe stato più giusto chiamarlo avambraccialetto. Era un oggetto massiccio di freddo argento in cui era stata incastonata della giada che le copriva tutto l’avambraccio sinistro. La manica del pullover era stata arrotolata in su, allo scopo di farlo notare.

«Sei dimagrito, Dirk», disse lei.

Dirk si strinse nelle spalle ed infilò le mani nelle tasche della giacca. «Sì», disse lui. Per la verità era quasi emaciato, anche se le spalle erano un po’ curve per la sua abitudine di camminare ingobbito. Gli anni lo avevano invecchiato e non lo avevano risparmiato; i suoi capelli ora erano più grigi che castani, mentre un tempo era stato ben diverso e lui li portava quasi lunghi come quelli di Gwen, ma i suoi erano una massa di riccioli e di onde.

«Tanto tempo», disse Gwen.

«Sette anni standard», rispose lui scuotendo il capo. «Non pensavo che…».

L’altro uomo, lo straniero in attesa, allora tossicchiò, come se volesse ricordar loro che non erano soli. Dirk alzò gli occhi e Gwen si voltò. L’uomo si avvicinò e si chinò con deferenza. Piccolo, paffuto e biondissimo — aveva i capelli che sembravano quasi bianchi — indossava un abito di seta dai colori smaglianti, verde giallo ed un piccolo cappello nero lavorato a maglia che rimase fermamente al suo posto malgrado il profondo inchino.

«Arkin Ruark», disse a Dirk.

«Dirk t’Larien».

«Arkin lavora con me al progetto», disse Gwen.

«Progetto?».

Lei batté gli occhi. «Non sai nemmeno perché io sono qui?».

Non lo sapeva. La gemma mormorante era stata mandata da Worlorn, così lui non sapeva altro se non dove poterla trovare. «Tu sei un’ecologa», disse Dirk. «Su Avalon…».

«Sì. All’Istituto. Tanto tempo fa. Ho finito con quel posto, ho ritirato le mie credenziali e mi sono trasferita su Alto Kavalaan. Finché non sono stata mandata qui».

«Gwen è con l’Unione Ferrogiada», disse Ruark. Aveva atteggiato il viso ad un sorriso sottile e tirato. «Io rappresento l’Accademia di Città Impril. La conosce?».

Dirk annuì. Allora Ruark era un Kimdissi, un abitante dei mondi esterni, proveniente da una delle loro università.

«Impril e Ferrogiada, be’ quasi la stessa cosa, sa? Ricerche sull’interazione ecologica di Worlorn. Non sono mai state fatte a dovere durante il periodo del festival, dato che i mondi esterni non erano granché preparati sui problemi ecologici, nessuno. Una scienza dimenticata nel di, come si dice presso gli Emereli. Ecco in cosa consiste il progetto. Gwen ed io ci conoscevamo già da prima, così ci siamo detti, bene siamo qui per la stessa ragione, allora sarà meglio lavorare insieme ed apprendere tutto ciò che c’è da apprendere».

«Mi pare giusto», disse Dirk. Per il momento il progetto non lo interessava più che tanto; avrebbe voluto poter parlare con Gwen. La guardò. «Mi dirai tutto più tardi. Quando parleremo. Suppongo che tu mi voglia dire qualcosa».

Gwen lo guardò in modo strano. «Sì, naturalmente. Dobbiamo parlare di un sacco di cose».

Dirk raccolse la sua valigia. «Dove si va?» chiese. «Vorrei fare un bagno e mangiare qualcosa».

Gwen scambiò uno sguardo con Ruark. «Arkin ed io stavamo appunto parlando di questo. Ti sistemerà lui. Stiamo nella stessa casa. Solo a qualche piano di distanza».

Ruark annuì. «Ben lieto, ben lieto. È un piacere aiutare gli amici ed entrambi siamo amici di Gwen, non le pare?».

«Ah», disse Dirk. «Però pensavo che avrei potuto stare con te, Gwen».

Lei non fu in grado di guardarlo per qualche istante. Guardava Ruark, poi guardò per terra, il nero cielo notturno, quindi fissò lo sguardo su di lui. «Forse», disse, senza più sorridere adesso, con tono di voce misurato. «Ma non subito. Non penso che sarebbe la cosa migliore. Ma andremo a casa. Abbiamo l’auto».

«Da questa parte», intervenne Ruark, prima che Dirk potesse dire una parola. C’era qualcosa di molto strano. Si era immaginato il loro incontro per centinaia di volte a bordo del Tremito durante i lunghi mesi di viaggio ed a volte lo aveva immaginato tenero ed appassionato, a volte era stato un confronto iroso e spesso era stato commovente… ma non era mai stata una cosa come questa, goffa e spigolosa, con un estraneo sempre presente durante il colloquio. Cominciava a chiedersi chi fosse esattamente Arkin Ruark e se i suoi rapporti con Gwen fossero proprio quelli che loro avevano detto. Del resto, non avevano quasi detto niente. Non sapeva che cosa dire o pensare, perciò si strinse nelle spalle e li seguì verso la loro aerauto.

Camminarono ben poco. Quando Dirk vide l’auto ne fu molto sorpreso. Aveva visto un mucchio di aerauto durante i suoi viaggi, ma nessuna come questa; gigantesca e grigia come il ferro, con ali triangolari e curve che parevano muscoli. Pareva una cosa viva, come una grande manta aerea costruita di metallo. Tra le ali era stata ricavata una piccola cabina con quattro posti e sotto la punta delle ali si vedevano luccicare delle barre dall’aspetto sinistro.

Dirk fissò Gwen e indicò gli apparati. «Non sono laser?».

La donna annuì, sorridendo appena un po’.

«Cosa accidenti è?», chiese Dirk. «Si direbbe una macchina da guerra. C’è pericolo di essere assaliti dagli Hrangani? Non ho più visto una cosa del genere dalla mia ultima visita ai musei di Avalon».

Gwen rise, gli prese la valigia e la gettò sul sedile posteriore. «Sali, su», gli disse. «Si tratta di un’aerauto perfettamente funzionante costruita su Alto Kavalaan. È solo da poco che hanno cominciato a costruirle. È fatta in modo che abbia l’aspetto di un animale, la banscea nera. Si tratta di un predatore volante che viene considerato l’animale fratello dell’Unione di Ferrogiada. Ha un posto importante nelle loro tradizioni, quasi un simbolo totemico».

Gwen salì a bordo e si pose dietro alla barra di guida e Ruark la seguì un po’ goffamente, scavalcando un’ala per passare dietro. Dirk non si mosse. «Ma ha i laser!», insistette.

Gwen sospirò. «Non sono collegati e non lo sono mai stati. Tutte le auto costruite su Alto Kavalaan hanno delle armi di un qualche tipo. La loro cultura lo richiede. E non solo la cultura dei Ferrogiada, ma anche quella dei Rossacciaio, dei Braith e della Fortezza di Scianagate».

Dirk girò attorno all’auto e si issò accanto a Gwen ma aveva il viso cadaverico. «Che cosa?».

«Si tratta delle quattro coalizioni di granlega di Kavalar», lei gli spiegò. «Devi immaginarle come delle piccole nazioni, oppure delle grandi famiglie. Sono un po’ tutte e due le cose».

«Ma perché i laser?».

«Alto Kavalaan è un pianeta violento», rispose Gwen.

Ruark fece una risatina secca. «Ah, Gwen», disse. «Questo è essenzialmente falso, essenzialmente!».

«Falso?» scattò lei.

«Sì», disse Ruark. «Sì, essenzialmente, perché ciò che dici è quasi la verità, ma una mezza verità, non tutta ed è peggio di una bugia completa».

Dirk si voltò sul suo sedile per fissare il Kimdissi paffuto e biondo. «Che?».

«Alto Kavalaan era un pianeta violento, vero. Ma ora, per la verità, i violenti sono i Kavalari. Si tratta di gente ostile, tutti quanti, spesso sono xenofobi, razzisti. Orgogliosi e gelosi. Con tutte le loro storie di granguerre ed il loro codice duellesco, sì, è proprio per quella ragione che le auto dei Kavalari hanno i laser. Per combatterci, mentre volano! La metto in guardia t’Larien…».

«Arkin!», sibilò Gwen tra i denti e Dirk sobbalzò nel sentire la malevolenza del suo tono. Improvvisamente lei trasse la griglia gravitazionale, toccò la barra e l’apparecchio scattò in avanti e lasciò il suolo con un gemito di protesta, sollevandosi velocemente. Il porto sotto di loro era tutto illuminato nel punto in cui si ergeva il Tremito dei Nemici Dimenticati tra le altre navi più piccole, ma in tutti gli altri punti era tenebroso. Tutto attorno c’erano tenebre, fino all’invisibile orizzonte, dove la terra nera si mescolava con il cielo ancor più nero. La notte era illuminata soltanto da una sottilissima polvere stellare. Questo era il Margine, da una parte lo spazio intergalattico e dall’altra la polverosa cortina del Velo Tentatore. Quel mondo pareva immerso in una solitudine peggiore di quella che Dirk aveva immaginato.

Ruark se ne era stato zitto, borbottando appena ed un silenzio pesante si era posato sull’aerauto per un lungo momento.

«Arkin viene da Kimdiss», disse alla fine Gwen e fece una risatina stentata. Dirk si ricordava dei suoi modi troppo bene per lasciarsi trarre in inganno, però; la donna non era nemmeno un po’ meno tesa di quando aveva zittito Ruark un istante prima.

«Non capisco», disse Dirk, che si sentiva assai sciocco, poiché tutti pensavano che la spiegazione avrebbe dovuto essere sufficiente.

«Lei non è un abitante dei mondi esterni», disse Ruark. «Avalon, Baldur, qualsiasi sia il suo mondo non ha importanza. Voi che abitate dall’altra parte del Velo non potete conoscere i Kavalari».

«Oppure i Kimdissi», disse Gwen, un po’ più calma.

Ruark grugnì. «Un sarcasmo», disse a Dirk. «I Kimdissi ed i Kavalari, be’, non andiamo troppo d’accordo, capisce? Per cui Gwen le sta dicendo che i miei sono tutti pregiudizi e perciò lei non mi deve credere».

«Sì, Arkin», disse la donna. «Dirk non conosce Alto Kavalaan, non comprende la cultura del suo popolo. Come tutti i Kimdissi, lui ti farà vedere solo la parte peggiore, ma è tutto assai più complesso di ciò che lui ti vuol far credere. Per cui ricordati sempre di questo quando questo chiacchierone e brigante ti racconta le sue verità. Non dovrebbe essere difficile. Ai vecchi tempi tu mi dicevi sempre che ogni problema ha per lo meno trenta diverse angolazioni».

Dirk rise. «È abbastanza suggestivo», disse, «ed anche vero. Anche se in questi ultimi anni ho cominciato a pensare che trenta è un numero un po’ basso. Comunque, continuo a non capire che cosa significhi tutto ciò. Prendiamo ad esempio l’auto… Ti serve per il tuo lavoro? Oppure devi andare su di una trappola simile solo perché lavori con l’Unione Ferrogiada?».

«Ah», disse forte Ruark. «Non si lavora per l’Unione Ferrogiada, Dirk. No, ci si appartiene, capito… ci sono solo due possibilifà. Se non si è dei Ferrogiada, non si lavora per i Ferrogiada!».

«Sì», disse Gwen e la sua voce era di nuovo tagliente. «Ed io sono dei Ferrogiada. Vorrei che tu te ne ricordassi, Arkin. Ci sono delle volte in cui cominci ad annoiarmi».

«Gwen, Gwen», disse Ruark che pareva molto agitato. «Tu sei un’amica, una cara compagna, davvero. Abbiamo affrontato grandi problemi noi due. Non ti potrei mai offendere, mai. Comunque tu non sei una Kavalar, non lo sarai mai. Per prima cosa sei troppo donna, troppo donna, non sei una semplice eyn-kethi e nemmeno una betheyn».

«No? Dici di no? Io porto il vincolo di giada-e-argento, però». Voltò gli occhi verso Dirk ed abbassò la voce. «Per Jaan», disse lei. «In verità quest’auto è sua ed è per questo che io la uso, tanto per rispondere alla tua precedente domanda. Per Jaan».

Silenzio. L’unico rumore era quello del vento che si muoveva attorno a loro mentre essi precipitavano nelle tenebre; il vento che lanciava in alto i lunghi capelli di Gwen ed i riccioli di Dirk. Le sue folate colpivano come lame i sottili abiti di foggia Braque. Dirk si chiese perché l’aerauto non avesse una cupola a bolla, ma soltanto un piccolo parabrezza che risultava quasi inutile. Poi si strinse strettamente le braccia contro il corpo e scivolò in basso sul sedile. «Jaan?» chiese piano. Era una domanda. La risposta sarebbe arrivata e lui ne aveva paura, solo a sentire il modo in cui Gwen ne aveva detto il nome, come se fosse una sfida.

«Lui non lo sa», disse Ruark.

Gwen sospirò e Dirk vide che era tutta tesa. «Mi dispiace, Dirk. Pensavo che avresti dovuto sapere. È passato tanto tempo. Pensavo, be’, era uno di quelli che abbiamo conosciuto su Avalon. A suo tempo te ne ho parlato di sicuro».

«Non ho mai più visto nessuno», disse Dirk con circospezione. «Di quelli che abbiamo visto insieme. Sai. Io viaggio parecchio. Braque, Prometeo, Mondo di Jamison». La sua voce aveva un suono vuoto ed inutile alle sue stesse orecchie. Fece una pausa ed inghiotti. «Chi è Jaan?».

«Jaantony Riv Lupo alto-Ferrogiada Vikary», disse Ruark.

«Jaan è mio…». Lei esitò. «Non è facile da spiegare. Io sono la betheyn di Jaan, cro-betheyn con il suo teyn Garse». Alzò gli occhi, un’occhiata breve al di là degli strumenti dell’aerauto, poi guardò di nuovo avanti. Non c’era cenno di comprensione sul volto di Dirk.

«Marito», lei disse allora, alzando le spalle. «Mi dispiace Dirk. Non è proprio così, ma è il modo più semplice per esprimere il concetto con una parola sola. Jaan è mio marito».

Dirk si raggomitolò sul suo sedile con le braccia incrociate e non disse niente. Aveva freddo e stava male e si chiedeva perché mai fosse lì. Gli venne in mente la gemma mormorante e se ne chiese ancora il motivo. Lei doveva avere avuto qualche ragione per mandargliela, certamente, e prima o poi glielo avrebbe detto. A dire il vero, lui non si doveva aspettare che Gwen fosse da sola. Al porto aveva addirittura pensato, per un breve momento, che forse Ruark… e la cosa non l’aveva preoccupato.

Dato che lui era rimasto zitto per troppo tempo, Gwen gli lanciò un’altra occhiata. «Mi dispiace», ripeté. «Dirk. Davvero. Non avresti mai dovuto venire».

E lui pensò, ha ragione.

Tutti e tre proseguirono senza parlare. Si erano detti delle parole, ma non erano le parole che Dirk avrebbe voluto sentire e le parole non avevano cambiato niente. Egli era qui su Worlorn e Gwen era di nuovo accanto a lui, eppure era divenuta improvvisamente un’estranea. Tutti e due erano estranei. Lui se ne stava rannicchiato sul suo sedile, solo con i propri pensieri, mentre il vento gelato gli flagellava il viso.

Certe volte, su Braque, aveva pensato che l’invio della gemma mormorante significasse che lei lo voleva ancora accanto, che lei lo voleva ancora. L’unico problema che lo aveva preoccupato era se egli avesse dovuto andare, se avesse dovuto ritornare da lei, se ancora Dirk t’Larien fosse stato in grado di amare e di essere amato. Ma non si trattava di tutto ciò, adesso lui lo sapeva.

Manda questa memoria ed io verrò e non ci saranno domande. Questa era stata la promessa, l’unica promessa. Niente di più.

Si sentì irritato. Perché lei gli faceva questo? Anche lei aveva sentito i sentimenti racchiusi nel gioiello. Avrebbe dovuto capire. Quale strana voglia di Gwen poteva essere più importante di questo tenero ricordo?

Poi, finalmente, la quiete si stese ancora su Dirk t’Larien. Se teneva gli occhi stretti stretti riusciva ancora a vedere il canale su Braque e la solitaria e lunga barca che gli era allora parsa di così scarsa importanza. E si ricordò della sua decisione di riprovare, di essere quello che era stato, di venire da lei per darle tutto ciò che sarebbe stato in grado di darle, tutto ciò che le sarebbe occorso… l’avrebbe fatto per se stesso e per lei.

Si distese, con grande sforzo, allungò le braccia, aprì gli occhi e si risollevò nel vento pungente. Poi fissò deliberatamente Gwen e le dedicò il suo vecchio sorriso timido. «Ah, Jenny», le disse, «dispiace anche a me. Ma non importa. Non so, ma non importa. Sono contento di essere venuto ed anche tu dovresti essere contenta. Sette anni sono troppi, no?».

Lei lo fissò, poi riportò lo sguardo agli strumenti e si passò nervosamente la lingua sulle labbra. «Sì. Sette anni sono troppi, Dirk».

«Incontrerò Jaan?».

La donna annuì. «Ed anche Garse, il suo teyn».

Dirk sentì da qualche parte al di sotto scorrere dell’acqua, un fiume perduto nell’oscurità. In breve tempo scomparve; si muovevano in fretta. Dirk guardò oltre il bordo dell’aerauto, al di là delle ali, nelle tenebre mobili, poi in alto. «Ci vorrebbero più stelle», disse cogitabondo. «Mi pare di essere cieco».

«Ti capisco», disse Gwen. Sorrise e quasi subito Dirk si sentì meglio di come si era sentito da parecchio tempo.

«Ti ricordi il cielo su Avalon?», disse lui.

«Sì. Naturalmente».

«C’erano un mucchio di stelle laggiù. Era un mondo affascinante».

«Anche Worlorn ha una sua bellezza», disse lei. «Tu che cosa sai di Worlorn?».

«Poco», rispose Dirk che continuava a guardarla. «So del festival e so che il pianeta è un vagabondo; non so molto altro. Una donna sulla nave mi ha detto che il posto è stato scoperto da Tomo e Warberg durante la loro escursione verso i limiti della galassia».

«Non è vero», disse Gwen. «Certo che la leggenda è affascinante. Comunque, tutto ciò che si vede qui attorno fa parte del festival. Ne fa parte tutto il pianeta. Hanno partecipato tutti i mondi del Margine ed ognuna delle culture si riflette qui in una delle città. Ci sono quattordici città che rappresentano quattordici mondi del Margine. Al centro c’è lo spazioporto e il Comune, che è una specie di parco. Ci stiamo volando sopra proprio adesso. Il Comune non è molto interessante, nemmeno di giorno. Durante il periodo del festival vi si facevano feste e giochi».

«Dove è il vostro progetto?».

«Nei boschi», disse Ruark. «Al di là delle città, oltre le montagne».

Gwen disse: «Guarda».

Dirk guardò. All’orizzonte riuscì a mala pena a distinguere una catena di montagne, una tenebrosa barriera dentellata che si alzava dal Comune coprendo le stelle più basse. Un bagliore di luce sanguigna era posto su di un monte e divenne Sempre più grande man mano che loro si avvicinavano. Si fece più lunga e più alta, anche se non diventava più brillante; il colore rimaneva di una tonalità rossocupa, quasi minacciosa, che a Dirk ricordò in qualche modo la tinta della gemma mormorante.

«Casa nostra», annunciò Gwen mentre la luce si faceva più evidente. «La città di Larteyn. In antico Kavalar lar significa cielo. Questa è la città costruita da Alto Kavalaan. La chiamano anche Fortezza di Luce».

Si capiva subito perché. Era costruita nel cuore della montagna, roccia davanti e roccia dietro alla città; la città Kavalar pareva proprio una fortezza… spessa e quadrata, con mura massicce su cui si aprivano strette feritoie. Perfino le torri che si alzavano sulle mura erano solide e pesanti. E basse: la montagna torreggiava sulle torri, con i picchi tenebrosi macchiati dalla rossa luce riflessa. Ma le luci della città non erano riflesse; le mura e le strade di Larteyn lucevano di un loro intrinseco fuoco.

«Pietraluce», gli disse Gwen come rispondendo a una sua domanda inespressa. «Assorbe luce durante il giorno e la restituisce di notte. Su Alto Kavalaan si usava soprattutto per lavori di oreficeria, ma la estrassero a tonnellate e la caricarono sulle navi per portarla a Worlorn per il festival».

«Barocco ed impressionante», disse Ruark. «Molto Kavalar ed impressionante». Dirk si limitò ad annuire.

«Avresti dovuto vederla nei vecchi giorni», disse Gwen. «Larteyn si nutriva della luce dei sette soli durante il giorno e di notte illuminava la catena di montagne. Pareva una spada di fuoco. Adesso le pietre sono scialbe… La Ruota si fa sempre più lontana di ora in ora. Tra dieci anni la città sarà buia come un tizzone esaurito».

«Non mi sembra molto grande», disse Dirk. «Quanta gente ci stava?».

«Un milione di persone, una volta. Tu vedi solo la punta dell’iceberg. La città è costruita dentro la montagna».

«Molto Kavalar», disse Ruark. «Una fortezza degli abissi, un forte fatto di pietra. Ma vuoto ormai. Venti persone, secondo l’ultimo censimento, noi compresi».

L’aerauto passò sopra le mura esterne, poste accanto al dirupo dalla parte in cui il declivio della montagna era più ampio, in modo da creare un alto abisso formato di roccia e pietraluce. Al di sotto Dirk vide ampi camminamenti, file di stendardi che si muovevano pigramente e grandi cariatidi scolpite con gli occhi di pietraluce fiammeggiante. Gli edifici erano fatti di pietra bianca e di ebano e strisce rosse delle rocce fiammeggianti si riflettevano sui loro fianchi, come ferite aperte di qualche buia bestia mostruosa. Volarono su torri, cupole e strade, viali tormentati ed ampi boulevards, cortili spalancati ed un immane teatro all’aperto con migliaia di posti.

Vuoto, tutti i posti erano vuoti. Nessuna figura umana si muoveva per le strade inzuppate di luce rossa a Larteyn.

Gwen scese giù a spirale sul tetto di una torre cupa e quadrata. Quando lei fece posare l’apparecchio rilasciando la griglia di gravità che li teneva sollevati, Dirk notò che c’erano due altre auto sull’eliparco sottostante: una era una specie di lacrima gialla, tutta lustra e l’altra era una vecchia volante militare che pareva aver fatto un secolo di guerre per di più. Era verde oliva, quadrata e rivestita con corazze, con cannoni a laser sulla parte anteriore e tubi ad impulso dietro.

Gwen fece atterrare la sua manta di metallo tra le altre due auto e tutti uscirono sulla parte superiore. Quando raggiunsero la zona degli ascensori, Gwen si voltò a guardare in faccia Dirk: aveva il viso che avvampava in maniera curiosa nella vibrante luce rossastra. «È tardi», disse, «è meglio che andiamo tutti a dormire».

Dirk non ebbe molto da dire per quel congedo. «Jaan?», disse.

«Lo vedrai domani», rispose lei. «Prima gli voglio parlare io».

«Perché?», chiese lui, ma Gwen si stava già allontanando verso le scale. Poi arrivò la cabina e Ruark gli mise una mano sulle spalle e lo spinse all’interno.

Si avviarono verso il basso, per dormire e per sognare.

2

Dirk si riposò ben poco quella notte. Tutte le volte che cominciava ad addormentarsi, i sogni lo risvegliavano di soprassalto: spasmodiche visioni che avevano a che fare con il veleno e che da sveglio non riusciva più a ricordare bene, come ebbe a rendersene conto più volte durante la notte. Alla fine si arrese. Cominciò così a rovistare fra le sue cose finché non trovò la gemma avvolta in velluto e argento e rimase seduto nel buio a berne le fredde promesse.

Passarono le ore. Poi Dirk si alzò e si vestì. Fece scivolare la gemma in una tasca ed uscì fuori, da solo, per vedere la Ruota che si sollevava nel cielo. Ruark dormiva sodo, ma la porta era stata codificata anche per Dirk, per cui non ci furono problemi ad uscire. Prese la cabina che andava verso il tetto ed attese che scomparissero le ultime impurità della notte: si sedette sulla fredda ala metallica dell’aerauto grigia.

Fu un’alba strana, pallida ed insidiosa ed il giorno che la seguì fu cupo. In un primo tempo ci fu come una vaga nube lucente sull’orizzonte, una macchia nera e rossa che echeggiava debolmente con la pietraluce della città. Poi spuntò il primo sole: una pallottola minuscola e gialla che Dirk riuscì a vedere anche ad occhio non protetto. Dopo qualche minuto apparve una seconda stella, un po’ più grande e brillante, in un’altra zona dell’orizzonte. Ma tutti e due i soli, anche se si vedeva che non erano delle semplici stelle, gettavano meno luce della grassa luna di Braque.

Passarono pochi minuti ed il Mozzo cominciò a sollevarsi al di sopra del Comune. In principio apparve come una sottile linea di fioca luce rossa che si perdeva nel consueto sanguigno dell’alba, ma poi prese a diventare sempre più brillante ed alla fine Dirk capì che non era un riflesso luminoso, bensì la corona di un incommensurabile sole rosso. Quando sorse il mondo divenne color cremisi.

Dirk guardò le strade di sotto. Tutte le pietre di Larteyn erano adesso scolorite; il lucore si vedeva solo dove cadevano le ombre e solo appena appena. Sulla città si era depositata come una tenebra, simile ad un manto funebre di color grigiastro solo un po’ macchiato di un rosso slavato. Nella luce debole e fredda, tutte le illuminazioni notturne erano morte e le strade silenziose echeggiavano di morte e di desolazione.

Il giorno di Worlorn. Eppure era già crepuscolo.

«L’anno scorso era più luminoso», disse una voce dietro di lui. «Ora ogni giorno che viene è più buio, più freddo. Due delle sei stelle di Coronadaverno sono nascoste dietro a Grasso Satana e non servono a far luce. Le altre sono sempre più piccole e distanti. Lo stesso Satana, che pure illumina Worlorn, ha una luce sempre più rossa e debole. Per cui Worlorn vive un eterno tramonto. Ancora pochi anni ed i sette soli diventeranno sette deboli stelle e verrà di nuovo il ghiaccio».

La persona che parlava era rimasta immobile a guardare l’alba, con gli stivali leggermente separati e le mani sui fianchi. Era un uomo alto, magro e muscoloso, a torso nudo malgrado il mattino fosse ancora freddo. Aveva la pelle color del bronzo che pareva ancor più rossa sotto la luce di Grasso Satana. Aveva alti zigomi spigolosi, una grande mascella quadrata e capelli che gli arrivavano fino alle spalle, neri come quelli di Gwen. Sul braccio — aveva le braccia scure ricoperte di sottili peli neri — portava due braccialetti, entrambi massicci. Giada ed argento sul braccio sinistro, ferro e rossa pietraluce sul destro.

Dirk non si mosse dalla sua posizione sull’ala della manta. L’uomo lo guardò. «Tu sei Dirk t’Larien ed un tempo sei stato l’amante di Gwen».

«E tu sei Jaan».

«Jaan Vikary», dell’Unione Ferrogiada», disse l’altro. Fece un passo avanti e sollevò le mani con le palme in fuori.

Dirk conosceva il significato del gesto perché lo aveva visto da qualche parte. Si alzò in piedi e premette le mani contro quelle del Kavalar. Allora notò qualcosa d’altro. Jaan portava una cintura di metallo nero dall’aspetto oleoso ed una pistola laser al fianco.

Vikary notò la direzione del suo sguardo e sorrise. «Tutti i Kavalar vanno in giro armati. È un’abitudine… un’abitudine molto rispettata. Spero che tu non sia così scosso e mal influenzato come l’amico di Gwen, il Kimdissi. Se così fosse sarebbe colpa tua, non nostra. Larteyn fa parte di Alto Kavalaan e non ti aspetterai che si sia noi a conformarci alle tue abitudini».

Dirk si risedette. «No. Me lo sarei dovuto aspettare, direi, visto ciò che mi hanno detto ieri sera. Lo trovo strano. C’è forse qualche guerra in corso?».

Vikary fece un sorrisetto tirato… e mostrò i denti, deliberatamente. «C’è sempre una qualche guerra, t’Larien. La vita è una guerra». Fece una pausa. «Il tuo nome: t’Larien. Inconsueto. Non mi è mai capitato di sentire prima un nome del genere e non è capitato nemmeno al mio teyn Garse. Da dove provieni?».

«Baldur. È parecchio distante, dall’altra parte di Vecchia Terra. Ma non me ne ricordo quasi. I miei genitori si trasferirono ad Avalon quando ero giovanissimo».

Vikary annui. «E poi hai viaggiato, mi ha detto Gwen. Quali mondi hai visitato?».

Dirk alzò le spalle. «Prometeo, Rhiannon, Talsasso, il Mondo di Jamison e qualche altro. Avalon, naturalmente. Per lo meno un’altra dozzina, per lo più posti più arretrati di Avalon, dove avevano bisogno di gente esperta. Di solito si trova lavoro facilmente se si è stati all’Istituto, anche se non si è tanto abili e geniali. Per me andava bene. Mi piace viaggiare».

«Però non sei mai stato dall’altra parte del Velo Tentatore fino a questo momento. Sei stato solo nei convolvi e mai nei mondi esterni. Le cose sono molto diverse qui, t’Larien».

Dirk aggrottò la fronte. «Com’è la parola che hai usato? Convolvi?».

«I convolvi», ripeté Jaan Vikary. «Ah. Si tratta di un modo di dire Lupano. I mondi convolvi, o sconvolti, come vuoi tu. Un modo di dire che ho imparato dai miei amici Lupani durante gli studi su Avalon. Si tratta dei mondi che si trovano nella sfera compresa tra i mondi esterni e Vecchia Terra nella colonizzazione della prima e della seconda generazione. Fu proprio nei convolvi che gli Hrangani saturarono le stelle e crearono le razze schiave per combattere gli Imperiali Terrestri. Quasi tutti i pianeti che tu hai nominato prima erano già noti in quel periodo e vennero duramente colpiti dall’antica guerra e furono sconvolti durante il collasso. Lo stesso Avalon è una colonia della seconda generazione ed un tempo era un settore capitale. La cosa è ben diversa rispetto al mondo che è adesso in questi secoli di sparpagliamento.

Dirk annuì. «Sì. Conosco un po’ di storia anch’io, ma tu sembri molto ben informato».

«Io sono uno storico», disse Vikary. «La maggior parte del mio lavoro è consistita nell’estrarre i fatti storici dai miti del mio mondo, Alto Kavalaan. Ferrogiada mi ha mandato su Avalon, affrontando notevoli spese, per fare delle ricerche nelle banche di memoria dei vecchi computer e solo per quella ragione. Dopo aver trascorso due anni in quello studio, mi sono trovato con parecchio tempo a mia disposizione, per cui ho sviluppato la mia ricerca sulla più vasta storia dell’uomo».

Dirk non disse niente, ma si limitò a fissare nuovamente lo sguardo verso la luce dell’alba. Il rosso disco di Grasso Satana era ormai sollevato per metà nel cielo e si poteva vedere anche una terza stella gialla. Era leggermente più a nord delle altre e pareva una semplice stella. «La stella rossa è una supergigante», meditò Dirk, «ma vista da qui pare appena un po’ più grande del sole di Avalon. Deve essere ben lontana. La temperatura dovrebbe essere più fredda, ormai ci dovrebbe essere il ghiaccio qui attorno. Invece fa appena freddo».

«Per merito nostro», gli rispose Vikary con evidente orgoglio. «Per la verità non è merito di Alto Kavalaan, comunque è sempre merito dei cittadini dei mondi esterni. Tober ha conservato molta tecnologia sui campi di forza di quella già nota agli Imperialisti Terrestri durante il collasso ed anzi, i Toberiani hanno aggiunto delle nuove cognizioni da quell’epoca. Se non avessero alzato il loro campo, il festival non sarebbe stato possibile. Al perielio il calore della Coronadaverno e di Grasso Satana avrebbe incendiato l’intera atmosfera di Worlorn facendo ribollire gli oceani, ma lo scudo toberiano è servito ad arrestare quella furia, così abbiamo avuto una lunga e luminosa estate. Adesso, in modo analogo, lo scudo contribuisce a mantenere il calore. Comunque ha anche lui i suoi limiti come tutte le cose. Il freddo verrà».

«Non pensavo che ci saremmo incontrati in questo modo», disse Dirk. «Come mai sei venuto qui?».

«Ho tirato ad indovinare. Parecchi anni fa. Gwen mi aveva detto che ti piaceva osservare l’alba. Mi ha detto anche altre cose, Dirk t’Larien. So molto più io di te di quanto tu sappia di me».

Dirk rise. «Be’, è vero. Io non sapevo nemmeno che tu esistessi, fino all’altra sera».

Il viso di Jaan Vikary era duro e serio. «Ma io esisto. Ricordatelo, ed allora potremo essere amici. Speravo di trovarti da solo proprio per dirti questo prima che si svegliassero gli altri. Questo non è Avalon, t’Larien, ed oggi non è più ieri. Questo è un mondo da festival che muore, un mondo senza legge, per cui ognuno di noi deve avvinghiarsi ai suoi propri codici morali. Non cercare di mettere alla prova il mio. Fin dagli anni di Avalon ho sempre cercato di considerarmi semplicemente Jaan Vikary, ma sono pur sempre un kavalar. Non costringermi a diventare Jaantony Riv Lupo alto-Ferrogiada Vikary».

Dirk si alzò in piedi. «Non sono sicuro di capire ciò che dici», rispose. «Ma penso di poter essere sufficientemente amabile. Non ho niente contro di te, Jaan».

Queste parole parvero soddisfare Vikary. Annuì lentamente ed infilò una mano nella tasca dei pantaloni. «Un simbolo della mia amicizia e della mia stima», disse. Nella sua mano c’era una spilla da collare di metallo nero, una minuscola manta. «La porterai per il tempo che rimarrai qui?».

Dirk gliela prese di mano. «Se tu lo vuoi», disse, sorridendo della formalità dell’altro. Fissò la spilla al colletto.

«Qui l’alba è cupa», disse Vikary, «ed il giorno non è granché meglio. Scendi da noi. Io sveglierò gli altri, così potremo mangiare qualcosa».

L’appartamento che Gwen divideva con i due Kavalar era immenso. Il soggiorno con il soffitto alto era dominato da un focolare alto due metri e lungo due volte tanto con una cappa di lastre grige su cui si ergevano delle baluginanti cariatidi appollaiate per far la guardia alle ceneri. Vikary condusse Dirk dall’altra parte, facendogli superare uno spesso tappeto nero, in una stanza da pranzo che era quasi altrettanto grande. Dirk si sedette in una sedia di legno dallo schienale alto, una delle dodici che erano sistemate attorno al grande tavolo, mentre il suo ospite era andato a prendere il cibo ed a svegliare la compagnia.

Ritornò poco dopo, portando un piatto con della carne affettata a fette sottili ed un canestro di biscotti freddi. Mise il tutto di fronte a Dirk, poi si voltò e si allontanò di nuovo.

Se ne era appena andato che un’altra porta si aprì ed entro Gwen sorridendo ancora mezzo addormentata. Indossava una vecchia sciarpa sul capo, pantaloni stinti ed un informe giaccone verde con le maniche larghe. Dirk vide il luccichio del suo pesante braccialetto di argento e giada, attorno al. braccio destro. Un passo dietro di lei venne un altro uomo, alto quasi come Vikary ma di parecchi anni più giovane e molto più magro, vestito con una tuta intera dalle maniche corte fatta di tessuto camaleontino rosso-bruno. Fissò intensamente Dirk con i suoi occhi azzurrissimi, gli occhi più azzurri che Dirk avesse mai visto, posti in un viso affilato al di sopra di una barba completamente rossa.

Gwen si sedette. Quello con la barba rossa si piazzo davanti alla sedia in cui era seduto Dirk. «Io sono Garse Ferrogiada Janacek», disse. Gli offrì i palmi aperti. Dirk si alzò in piedi e glieli premette.

Dirk notò che Garse Ferrogiada Janacek portava una pistola laser alla cintola in un fodero di pelle posto su di una cintura d’argento a rete. Attorno all’avambraccio destro aveva un braccialetto nero, gemello con quello di Vikary… ferro e, pareva, pietraluce.

«Probabilmente sai chi sono», disse Dirk.

«Certo», rispose Janacek. Aveva un ghigno piuttosto malevolo. Entrambi si sedettero.

Gwen aveva già cominciato a masticare un biscotto. Quando Dirk si risedette, lei allungò una mano attraverso il tavolo e gli toccò la piccola spilla a forma di manta sul colletto e sorrise, come per uno scherzo segreto. «Vedo che tu e Jaan vi siete già trovati», disse lei.

«Più o meno», rispose Dirk e proprio in quel momento ritornò Vikary, con la mano destra avvolta goffamente attorno ai manici di quattro boccali di peltro, mentre con la sinistra teneva una brocca di birra scura. Depositò tutto al centro del tavolo, poi si avviò un’ultima volta verso la cucina per prendere piatti e posate, oltre ad una coppa di vetro piena di pasta dolce, gialla, che lui consigliò di spalmare sui biscotti.

Nel momento in cui si era allontanato, Janacek aveva spinto le caraffe attraverso il tavolo di fronte a Gwen. «Mesci», le disse, con un tono un po’ perentorio, poi rivolse ancora la sua attenzione a Dirk. «Mi si dice che lei è stato il primo uomo che la signora abbia mai conosciuto», disse mentre Gwen versava la birra. «Quando lei l’ha lasciata, la ragazza aveva un imponente numero di basse abitudini», disse, sorridendo freddamente. «Sarei quasi tentato di considerarmi insultato e di invitarla fuori per chiedere soddisfazione».

Dirk parve sconvolto.

Gwen aveva riempito tre delle caraffe con birra e con schiuma. Ne mise una di fronte al posto di Vikary, la seconda di fronte a Dirk e trasse un gran sorso dalla terza. Poi si passò il dorso della mano sulla bocca, sorrise a Janacek e gli diede la caraffa vuota. «Se hai deciso di spaventare il povero Dirk per via dei miei modi», lei disse, «allora io dovrei sfidare Jaan per tutti questi tremendi anni in cui ho dovuto sopportarti».

Janacek rivoltò il boccale vuoto tra le mani e guardò torvo. «Vacca-betheyn», disse con il più normale tono mondano. Poi si versò la birra da solo.

Vikary tornò un istante dopo. Si sedette, trasse un gran sorso dal suo boccale, poi cominciarono tutti a mangiare. Dirk scoprì presto che la birra a colazione gli piaceva. Anche i biscotti erano eccellenti, se spalmati con uno spesso strato di pasta dolce. La carne era un po’ asciutta.

Janacek e Vikary continuarono a fargli delle domande per tutto il tempo, mentre Gwen rimase seduta con l’aspetto un po’ stupito e non disse molto. I due Kavalar erano notevolmente diversi. Jaan Vikary parlava tutto piegato in avanti (era sempre a torso nudo ed ogni tanto sbadigliava e si grattava distrattamente) e manteneva un tono generale di gentile interessamento, sorridendo frequentemente e pareva molto più a suo agio di prima, sulla terrazza. Eppure a Dirk parve un atteggiamento studiato, come se fosse una persona tesa che cercasse di rilassarsi; anche la sua maniera di essere informale — i sorrisi, il grattarsi — pareva studiata e formale. Garse Janacek invece si sedeva in maniera più eretta di Vikary e non si grattava mai e parlava con tutte le formalità tipiche del manierismo Kavalar, però pareva più genuinamente rilassato, come se godesse delle restrizioni che la sua società gli imponeva e non avesse la minima intenzione di liberarsene. Parlava in un modo vivace ed abrasivo; sparpagliava insulti nello stesso modo in cui una mola sparpaglia scintille e la maggior parte erano diretti a Gwen. Anche lei gli rispondeva male, ma più debolmente; Janacek sapeva giocare meglio di lei. Il più delle volte pareva un casuale, simpatico dare ed avere, ma c’erano delle volte in cui a Dirk pareva di scorgere dell’ostilità autentica. Vikary era solito aggrottare la fronte ad ogni scambio.

Quando capitò a Dirk di parlare del suo viaggio su Prometeo, Janacek colse la palla al balzo. «Mi dica t’Larien», disse, «per lei gli Uomini Modificati sono umani o no?».

«Oh certo», disse Dirk. «Sono umani. Sono stati preparati dagli Imperiali Terrestri parecchio tempo fa, durante la guerra. I moderni Prometeani sono solo i discendenti delle antiche Truppe di Guerra Ecologica».

«Per la verità», disse Janacek, «io non sarei molto d’accordo con le sue conclusioni. I loro geni sono stati manipolati ad un tal punto che hanno perso ogni diritto di chiamarsi uomini; così la penso io. Uomini libellula, uomini sottomarini, uomini che respirano veleni, uomini che vedono al buio come Hruun, uomini con quattro braccia, ermafroditi, soldati senza stomaco, scrofe che allattano senza alcun sentimento… queste creature non sono uomini. O non-uomini per essere precisi».

«No», disse Dirk. «Ho già sentito il termine non-uomini. È termine comune su molti mondi, ma si intende quella parte di razza umana che ha subito delle mutazioni tali da non renderla più in grado di generare persone se si unisce al normale ceppo umano. I prometeani hanno fatto molta attenzione ad evitare una cosa del genere. I loro capi — sa, è gente dall’aspetto assolutamente normale, se si escludono delle alterazioni minori, come ad esempio la longevità e cose simili — i loro capi, dicevo, scendono spesso su Rhiannon e Talsasso, sa, a far razzie. Lo fanno per catturare degli umani di tipo terrestre…».

«Perfino sulla Terra non c’è più la razza di tipo terrestre in questi ultimi secoli», interruppe Janacek. Poi alzò le spalle. «Non dovrei lasciarmi trasportare, che ne dice? Ad ogni modo la Terra è troppo lontana. Da noi le notizie arrivano che sono ormai vecchie di secoli. Continui».

«Be’, questa è la mia idea», disse Dirk. «Gli Uomini Modificati sono pur sempre uomini. Anche le classi più infime, le più grottesche, gli esperimenti falliti scartati dai loro chirurghi, anche quelli possono generare. Ecco perché li sterilizzano: hanno paura che la razza dilaghi».

Janacek ingoiò una sorsata di birra e fissò Dirk con quei suoi occhi intensamente azzurri. «Così possono generare, lei dice». Sorrise. «Mi dica, t’Larien, negli anni che lei ha passato su quel mondo ha avuto occasione di verificarlo personalmente?».

Dirk arrossi e si trovò a fissare intensamente Gwen, come se la colpa di tutto fosse solo sua. «Non ho fatto il voto di castità in tutti questi anni, se è questo che intende», sbottò.

Janacek concesse una risata a questa risposta e fissò Gwen. «Interessante», le disse. «Quest’uomo passa parecchi anni nel tuo letto e poi, così all’improvviso, diventa un animale».

Il viso di Gwen fu alterato dalla rabbia; Dirk la conosceva ancora abbastanza bene da accorgersene. Però nemmeno Jaan Vikary pareva troppo soddisfatto. «Garse», disse infatti in tono minaccioso.

Janacek fece un cenno di sottomissione. «Le mie scuse Gwen», disse. «Non c’era insulto. Evidentemente t’Larien ha imparato ad apprezzare le sirene e le donne maggiolino indipendentemente da te».

«Andrai fuori sulle lande, t’Larien?», chiese forte Vikary, strappando deliberatamente la conversazione dalle mani dell’altro Kavalar.

«Non lo so», disse Dirk, sorseggiando la sua birra. «Dovrei?».

«Ah, non ti perdonerei mai se tu non lo facessi», disse Gwen sorridendo.

«Be’, allora ci andrò. Che cosa c’è di tanto interessante?».

«L’ecosistema… si forma e muore, tutto nello stesso istante. L’ecologia è stata una scienza per gran tempo dimenticata qui sul Margine. Anche adesso i mondi esterni non vantano più di dodici eco-ingegneri esperti. Quando si decise per il festival, Worlorn venne inseminato con delle forme di vita provenienti da quattordici mondi diversi e non si è quasi pensato all’interrelazione tra di loro. Per la verità ne sono stati coinvolti più di quattordici mondi, se si vogliono contare anche i trapianti… animali portati dalla Terra su Newholme, su Avalon, su Lupania e da lì a Worlorn, o qualcosa del genere.

«Arkin ed io facciamo proprio uno studio su come sono andate le cose. Sono già un paio di anni che ci stiamo lavorando e c’è da lavorare per almeno altri dieci anni. I risultati interesserebbero i contadini di tutti i mondi esterni. Saprebbero quale fauna e quale flora potrebbero introdurre con buona sicurezza sul loro mondo ed in quali condizioni e quali cose risulterebbero dannose all’ecosistema».

«Gli animali che vengono da Kimdiss si sono rivelati particolarmente dannosi», ghignò Janacek. «Proprio come i maneggioni loro padroni».

Gwen gli fece un gran sorriso. «Garse è inquieto perché pare che la banscea nera si stia a poco a poco estinguendo», disse a Dirk. «Per la verità è una vergogna. Su Alto Kavalaan le hanno cacciate scriteriatamente sicché la specie è chiaramente in pericolo. Perciò sono stati portati qui alcuni esemplari, sperando che potessero vivere in libertà e moltiplicarsi. La cosa è successa vent’anni fa. L’idea era quella di ricatturarli per riportarli su Alto Kavalaan prima che arrivasse il freddo. Pare che la cosa non sia andata come si sperava. La banscea è un predatore temibile, ma sul suo mondo non può certo competere con l’uomo e su Worlorn ha trovato sulla sua strada un’infestazione di spettri-d’albero provenienti da Kimdiss».

«Ci sono tanti Kavalar che pensano alla banscea come ad una piaga e ad una minaccia», spiegò Jaan Vikary. «Nel suo habitat naturale uccide anche gli uomini ed i cacciatori di Rossacciaio, della Fortezza di Scianagate e di Braith considerano la banscea l’ultima cosa con cui giocare, ma c’è un’antica leggenda fin dal tempo di Kay Ferro-Fabbrio e del suo teyn Rolando Lupo-Giada. Si dice che stessero cacciando da soli un intero plotone di demoni sulle colline di Lameraan. Kay era caduto e Rolando, in piedi su di lui, stava sempre più indebolendosi, quando da dietro le colline vennero le banscee. Erano tante e volavano tutte assieme, nere e spesse da oscurare i raggi del sole. Piombarono sui demoni ed erano affamate e li mangiarono tutti, fino all’ultimo, lasciando vivi ed integri Kay e Rolando. Più tardi quando i teyn-e-teyn ritrovarono la caverna delle loro donne ed istituirono la prima granlega di Ferrogiada, la banscea divenne il loro animale fratello ed il loro sigillo. Nessun Ferrogiada ha mai ucciso una banscea e la leggenda vuole che quando un uomo di Ferrogiada è in pericolo, debba apparire una banscea per guidarlo e per proteggerlo».

«Una bella storia», disse Dirk.

«È ben più di una storia», disse Janacek. «C’è un legame tra Ferrogiada e la banscea, t’Larien. Può darsi che sia un legame di tipo extrasensoriale, oppure può darsi che quegli animali siano intelligenti, o forse è tutta questione di istinto. Non pretendo di saperlo. Eppure un legame esiste».

«Superstizioni», disse Gwen. «Non devi farti delle idee sbagliate su Garse. Non è colpa sua se non ha mai ricevuto un’educazione adeguata».

Dirk spalmava la pasta sul biscotto e fissava Janacek. «Jaan mi ha detto di essere uno storico. So cosa fa Gwen», disse. «E lei? Lei che cosa fa?».

Gli occhi celesti lo fissarono freddamente. Janacek non disse niente.

«Ho l’impressione», disse Dirk continuando, «che lei non sia un ecologo».

Gwen rise.

«È un’impressione misteriosamente esatta, t’Larien», disse Janacek.

«Allora, che cosa ci fa su Worlorn? Per la verità…», spostò lo sguardo su Vikary… «non capisco che cosa ci faccia uno storico in un posto come questo».

Vikary racchiuse il suo boccale di birra tra le grandi mani e lo bevve pensieroso. «È piuttosto semplice», disse. «Sono un altolegato dell’Unione Ferrogiada, vincolato a Gwen Delvano con giada-e-argento. La mia betheyn è stata mandata su Worlorn per i voti del consiglio degli altolegati, per cui è naturale la mia presenza qui. Ed anche quella del mio teyn. Mi capisci?».

«Mi pare. Per cui tieni compagnia a Gwen?».

Janacek parve subito ostile. «Noi proteggiamo Gwen», disse glaciale. «Per lo più dalla sua stessa follia. Lei non avrebbe dovuto venirci per niente in questo posto, ma ha voluto venirci, così ci dobbiamo essere anche noi. Per quanto riguarda la sua prima domanda, t’Larien, io sono un Ferrogiada, teyn con Jaantony alto-Ferrogiada. Posso fare tutto ciò che la mia granlega mi debba richiedere: cacciare o seminare, duellare, fare l’altaguerra contro i nostri nemici, fare bambini nel grembo delle nostre eyn-kethi. Cioè, proprio ciò che faccio. Ciò che io sono lei lo sa già. Le ho già detto come mi chiamo».

Vikary lo fissò e gli impose il silenzio con un unico gesto di taglio fatto con la mano destra. «Pensaci come dei turisti ritardatari», disse a Dirk. «Studiamo ed andiamo in giro, navighiamo sulle foreste e sulle città morte, ci divertiamo. Vorremmo catturare delle banscee in modo da riportarle su Alto Kavalaan, ma purtroppo non siamo riusciti a trovare nessuna banscea».

Si alzò e nello stesso tempo scolò la sua ultima birra. «I giorni vanno alla fine e noi ce ne stiamo seduti», disse dopo aver posato il boccale sul tavolo. «Se vuoi andare nella landa, allora devi andarci adesso. Ci vuole parecchio tempo ad attraversare le montagne, anche con l’aerauto e non è prudente star fuori quando diventa buio».

«Ah!». Dirk terminò la sua birra e si pulì la bocca con il dorso della mano. Pareva che i tovaglioli non facessero parte dei servizi da tavola dei Kavalar.

«Le banscee non sono mai stati gli unici predatori presenti su Worlorn», disse Vikary. «Ci sono ammazzauomini e bestie feroci provenienti da quattordici mondi diversi nella foresta e non sono la cosa più pericolosa. I peggiori sono gli uomini. Al giorno d’oggi Worlorn è un mondo facile e vuoto e le sue ombre e le sue lande sono piene di cose strane».

«Sarebbe meglio che ci andaste armati», disse Janacek. «O meglio ancora, potremmo venire Jaan ed io con voi, per vigilare sulla vostra sicurezza».

Ma Vikary scosse il capo. «No, Garse! Devono andare da soli, per parlare. È meglio così, mi capisci? Lo voglio io». Poi prese su una bracciata di stoviglie e si avviò verso la cucina. Ma giunto presso la porta si fermò e si voltò guardando al di sopra della sua spalla ed i suoi occhi incontrarono per un istante quelli di Dirk.

E Dirk si ricordò delle sue parole, su in cima al tetto, all’alba. Io esisto, aveva detto Jaan. Ricordati di questo.

«Da quand’è che non vai più su di un aeroscooter?» gli chiese Gwen poco tempo dopo, quando si incontrarono sul tetto. Lei aveva indossato una specie di tuta in un pezzo solo fatta di tessuto camaleontino, un abito con cintura che la copriva dagli stivali al collo, di color rosso cupo e grigiastro. Il nastro che le teneva a posto i capelli era fatto dello stesso materiale.

«L’ultima volta è stato da bambino», disse Dirk. Anche lui era vestito nello stesso modo. Gwen gli aveva dato quel vestito perché così avrebbero potuto mimetizzarsi nella foresta. «Fin da quando ero su Avalon. Ma ci voglio provare. Una volta ero piuttosto bravino».

«Allora va bene», disse Gwen. «Non sarà necessario né andare in fretta, né lontano, ma la cosa non dovrebbe essere importante». La donna aprì il portello del baule della manta grigia ed estrasse due pacchetti argentei e due paia di stivali.

Dirk rimase seduto sull’ala dell’aerauto per cambiare gli stivali e per allacciarli. Gwen aprì gli scooter, due piccole piattaforme di tessuto di metallo sottile, larghe appena da poterci stare su. Quando Gwen le allargò per terra, Dirk vide i punti in cui si incrociavano i fili delle griglie di gravità, messi nella parte di sotto. Egli salì su uno degli scooter, con molta attenzione sistemò i piedi e le suole di metallo e gli stivali si bloccarono al loro posto, come se la piattaforma fosse diventata rigida. Gwen gli passò il dispositivo di controllo che lui si sistemò al polso, in modo che gli finisse nel palmo della mano.

«Arkin ed io usiamo gli scooter per andare in giro nella foresta», gli disse Gwen mentre era chinata ad allacciarsi gli stivali. «Un’aerauto ha una velocità dieci volte maggiore, si capisce, ma non è sempre facile trovare una radura abbastanza ampia per atterrarvi. Gli scooter sono adatti ad un lavoro a distanza ravvicinata, a patto che non si debba trasportare un equipaggiamento troppo pesante, o che non si abbia fretta. Garse dice che sono dei giocattoli, ma…». Si alzò in piedi, salì sulla sua piattaforma e sorrise. «Pronto?».

«Ci puoi scommettere», disse Dirk e soffregò tra le dita la cialda d’argento nel palmo della mano destra. Però un po’ troppo forte. Lo scooter saltò in alto e si allontanò, portando via anche i piedi di Dirk che si ritrovò con la testa sotto ed i piedi in alto. Ci mancò poco che non si rompesse la testa contro il tetto e salì nel cielo ridendo selvaggiamente, penzolando appeso allo scooter.

Gwen gli venne dietro, in piedi sulla sua piattaforma, arrampicandosi nel vento crepuscolare con l’abilità nata dalla gran pratica; pareva un djing dei mondi esterni che cavalcasse un cimelio a forma di tappeto volante d’argento. Quando raggiunse Dirk, lui si era dato da fare con i controlli ed era riuscito a raddrizzarsi, anche se continuava ad oscillare avanti e indietro nel tentativo di bilanciarsi. Al contrario delle aerauto, gli scooter non avevano giroscopi.

«Eeeehi», gridò quando lei fu vicina. Gwen si mosse ridendo dietro di lui e gli diede una cordiale pacca sul sedere. Dirk non aspettava altro per scattare di nuovo lontano e cominciò a scorazzare per il cielo di Larteyn caprioleggiando.

Gwen gli si mise dietro e gridò qualcosa. Dirk sbatté gli occhi e vide che stava quasi per schiantarsi contro un’alta torre di ebano. Manovrò i controlli e scattò in alto, sempre lottando per stare in equilibrio.

Dirk si trovava al di sopra della città quando lei lo acchiappò. «Sta lontana», l’ammoni sorridendo e si sentiva stupido, goffo e giocherellone. «Colpiscimi ancora ed io prenderò il cannone volante e ti sbatterò giù dal cielo a colpi di laser, donna!». Oscillò da un lato, si riprese, poi sovraccompensò la spinta e si portò dall’altra parte gridando.

«Sei ubriaco», gridò Gwen attraverso il lamento del vento. «A colazione hai bevuto troppa birra». Adesso lei era su di lui, con le braccia piegate contro il petto, osservandolo mentre si dava da fare per star dritto e facendo finta di disapprovarlo.

«Questi affari sembrano molto più stabili se si sta a testa sotto», disse Dirk. Era finalmente riuscito a raggiungere una specie di equilibrio, però si vedeva dal modo in cui teneva le braccia, allargate all’infuori, che non si sentiva troppo sicuro di riuscire a mantenerlo.

Gwen si sistemò alla sua altezza e gli si mise di fianco, con le gambe ben ferme e sicure, coi capelli scuri che le volavano dietro simili ad una nera bandiera. «Come va?», gridò lei quando furono uno di fianco all’altra.

«Mi pare di avercela fatta!», annunciò Dirk. Per adesso era ancora in piedi.

«Bene. Guarda sotto!».

Lui guardò giù, al di là della magra protezione della piattaforma che aveva sotto i piedi. Sotto di loro non c’era più Larteyn con le sue torri cupe e le sbiadite strade di pietraluce. Invece c’era un lungo lunghissimo abisso che portava nel lontano Comune, aprendosi in un cielo crepuscolare. Riuscì a vedere un fiume, un intreccio di scure acque in movimento nella breve luce inverdita. Allora la testa gli prese a girare vertiginosamente, strinse le mani e venne nuovamente sbattuto di lato.

Questa volta Gwen si mise sotto di lui, non appena Dirk si fu capovolto. Gwen incrociò le braccia al petto come aveva già fatto prima e gli fece un sogghigno. «Tu sei uno stronzo, t’Larien», gli disse. «Perché mai non voli in posizione diritta?».

Lui grugni, o per lo meno tentò di grugnire, ma il vento si portò via il suo fiato e riusci solo a fare delle smorfie. Poi si capovolse. Le gambe gli cominciavano a dolere per tutto questo lavoro. «Tiè!», gridò e guardò in basso con gesto di sfida, per provare che l’altezza non sarebbe riuscita a giocargli un secondo tiro.

Gwen gli si rimise di fianco, lo guardò ed annui. «Qualsiasi bambino di Avalon ti considererebbe una calamità, e la stessa cosa penserebbero quelli che vanno su gli scooter sugli altri mondi», disse lei. «Ma probabilmente sopravviverai. Allora, vuoi vedere questa landa?».

«Fammi strada, Jenny!».

«Allora gira. Stiamo andando dalla parte sbagliata. Dobbiamo superare le montagne». Lei allungò la mano libera e prese quella di Dirk, poi cominciarono a girare assieme in una grande spirale, ascendente e discendente, con davanti le montagne e Larteyn. La città aveva un aspetto grigio e slavato per la distanza, la sua orgogliosa pietraluce era un sole spento nel nero. Le montagne erano una grande mole buia.

Andavano verso le montagne assieme, guadagnavano altezza con regolarità e ben presto si trovarono al di sopra della Fortezza di Luce, abbastanza in alto da poter superare il picco. Si trovavano più o meno alla massima altezza raggiungibile con un aeroscooter; naturalmente un’aerauto poteva arrivare parecchio più in alto. Ma per Dirk era alto più che abbastanza. Le tute fatte di tessuto camaleontino erano diventate tutte grigie e bianche e lui si rallegrò che quegli abiti fossero così caldi; il vento era gelato e l’incerto giorno di Worlorn non era molto più caldo delle sue notti.

Sempre tenendosi per mano e gridando dei rari commenti, Gwen e Dirk cavalcarono al di sopra di una montagna, aprendosi la strada nel vento. Poi scesero lungo una valle piena di rocce ombrose, poi ancora su e ancora giù e su ancora, superando rocce simili a spade e rocce verdi e nere, superarono alte cascate e precipizi ancora più alti. Ad un certo punto Gwen lo sfidò alla corsa e lui gridò che era d’accordo. Poi scattarono avanti a tutta la velocità possibile per gli scooter e per la loro abilità, finché Gwen fu colta da pietà per lui e ritornò indietro a riprenderlo per la mano.

Ad ovest la montagna precipitava verso il basso tanto improvvisamente come si era sollevata ad est e costituiva un’alta barriera che oscurava la foresta impedendole di vedere ia Ruota che stava ancora cercando di sollevarsi. «Giù», disse Gwen e lui annuì. Iniziarono una lenta discesa verso il guazzabuglio verde scuro che c’era sotto di loro. In quel momento era già più di un’ora che erano in volo; Dirk era mezzo intorpidito a causa del vento pungente di Worlorn e la maggior parte del suo corpo protestava per il maltrattamento.

Atterrarono ben all’interno della foresta, presso un lago che avevano visto mentre scendevano. Gwen fece una specie di picchiata graziosa con una curva degradante e si posò in perfetto equilibrio sulla riva muschiosa dello specchio d’acqua. Dirk aveva paura di atterrare male e di rompersi una gamba così diede il colpetto alla sua griglia di controllo un attimo troppo presto e cadde giù per l’ultimo metro.

Gwen lo aiutò a staccare gli stivali dallo scooter, poi lo aiutò a togliersi di dosso la sabbia umida ed il muschio che si erano attaccati ai suoi vestiti ed ai capelli. Poi gli si sedette vicino e gli sorrise. Anche lui sorrise e la baciò.

O per lo meno ci provò. Non appena lui allungò il braccio e glielo mise attorno alle spalle, lei glielo tirò via e lui si ricordò. Lasciò cadere le mani mentre un’ombra gli passava davanti al volto. «Mi dispiace», disse mangiandosi le parole. Guardò da un’altra parte, verso il lago. L’acqua era come olio verde e la superficie calma del lago era punteggiata da piccole isole di funghi. L’unico movimento era quello degli insetti quasi invisibili che volavano sulle acque basse. La foresta era anche più cupa della città, perché le montagne schermavano ancora il Grasso Satana.

Gwen allungò una mano e toccò Dirk sulla spalla. «No», disse piano. «Mi dispiace. Anche io me ne ero dimenticata. Pareva quasi di essere ad Avalon».

Lui la guardò e si sforzò di sorridere: si sentì perso. «Sì, quasi. Io ti ho perduta, Gwen, malgrado tutto. Ma dovrei dire una cosa del genere?».

«Probabilmente no», disse lei. Gli occhi di lei evitarono di nuovo gli occhi di lui e vagarono lontano, dall’altra parte del lago. La riva lontana era perduta nella foschia. Gwen fissò per parecchio tempo un punto distante, senza muoversi, tranne una volta in cui dovette tremare per il freddo. Dirk la osservò e vide che i suoi vestiti stavano lentamente cambiando colore e diventavano biancastri e verdi, per adeguarsi al colore della riva su cui erano seduti.

Alla fine Dirk allungò la mano per toccarla, incerto. Lei si scrollò la mano di dosso. «No», disse.

Dirk sospirò e prese una manciata di sabbia, facendola scorrere tra le dita ed intanto pensava. «Gwen». Dirk esitò. «Jenny, io non so…».

Lei lo fissò e si incupì. «Quello non è il mio nome, Dirk. Non mi sono mai chiamata in quel modo. Nessun altro mi ha mai chiamata così, tranne te».

Lui sussultò, colpito. «Ma perché…».

«Perché quella non sono io!».

«Nessun’altra», disse lui. «É una cosa che mi è venuta in mente fin da quando si era su Avalon, ti stava bene ed io ti ho chiamata così. Credevo che ti piacesse».

Lei scosse il capo. «Una volta. Tu non capisci. Tu non capisci mai. Cominciò poi a significare per me molto più di quanto significasse all’inizio, Dirk. Sempre di più, di più, di più e le cose che quel nome mi ricordava non erano piacevoli. Avevo cercato di dirtelo, anche allora. Ma è stato un sacco di tempo fa. Ero più giovane allora, una bambina. Non avevo le parole».

«Ed adesso?». Nella sua voce si sentivano degli spigoli rabbiosi. «Hai le parole adesso, Gwen?».

«Sì. Per te sì, Dirk. Più parole di quelle che io possa usare». Sorrise, come per qualche segreta barzelletta e scosse il capo gettando i lunghi capelli nel vento. «Sai, i nomignoli sono simpatici. Possono essere una cosa speciale. Con Jaan mi succede proprio così. Gli altolegati hanno nomi lunghi perché occupano diverse cariche. Lui può diventare Jaan Vikary per un amico Lupano che lo venga a trovare su Avalon, ma è alto-Ferrogiada nei consigli delle Unioni. Poi diventa Riv per i momenti di preghiera e Lupo durante l’altaguerra e poi un altro nome ancora a letto, un nome privato. E c’è qualcosa di giusto in tutto questo, perché tutti questi nomi sono lui. Io me ne rendo conto. Ci sono parti di lui che mi piacciono più di altre, mi piace più Jaan che Lupo o alto-Ferrogiada, ma sono tutti degli autentici lui. I Kavalar hanno un detto, che un uomo è la somma di tutti i suoi nomi. I nomi sono importantissimi su Alto Kavalaan. I nomi sono importanti dappertutto, ma i Kavalar conoscono meglio di altri questa verità. Una cosa che non abbia un nome non ha nessuna sostanza. Se è esistita, allora avrà dovuto avere un nome. E nello stesso modo, se dai un nome ad una cosa, in qualche punto, ad un qualche livello, la cosa nominata esisterà, verrà fuori. Si tratta di un altro detto dei Kavalar. Mi capisci Dirk?».

«No».

Lei rise. «Sei imbranato come al solito. Senti, quando Jaan è venuto su Avalon, lui era Jaantony Ferrogiada Vikary. Questo era il suo nome, il nome completo. La parte più importante era costituita dalle prime due parole… Jaantony è il suo nome vero, il suo nome di nascita e Ferrogiada è la granlega a cui è stato affiliato. Vikary è un nome costruito, che lui ha assunto al tempo della sua pubertà. Sono nomi che tutti i Kavalar assumono; solitamente sono nomi di altolegati che loro ammirano, oppure figure mitiche, o eroi personali. Ci sono un sacco di cognomi terrestri che in questo modo hanno resistito al tempo. Si pensa che se il ragazzo assume il nome di un eroe, automaticamente acquisti delle qualità di quell’uomo. Pare che su Alto Kavalaan la cosa funzioni.

«Il nome che ha scelto Jaan, Vikary, è un tantino inconsueto per molti versi. Parrebbe un nome della Vecchia Terra, di seconda mano, ma non è così. Effettivamente Jaan fu un bambino strano… faceva molti sogni, spesso di malumore, fin troppo introverso. Gli piaceva sentir cantare le eyn-kethi e gli piaceva quando gli raccontavano le storie da piccolo. Per un ragazzo Kavalar non è una bella cosa. Le eyn-kethi sono le donne che allevano i bambini, le eterne madri della granlega ed un bambino normale non dovrebbe stare assieme a loro più di tanto. Quando Jaan diventò più vecchio, passava quasi tutto il tempo da solo; ad esplorare caverne e miniere abbandonate, su in montagna. Se ne stava a distanza di sicurezza dai confratelli di granlega. Non lo posso biasimare. Era continuamente oggetto di punzecchiature, per lo più per niente amichevoli, finché non incontrò Garse. È parecchio più giovane di lui, ma ha fatto di tutto per proteggere Jaan fin da quando lui stesso era un bambino. Poi tutto è cambiato. Quando Jaan si avvicinò all’età in cui sarebbe stato soggetto alle leggi del duello, cominciò ad interessarsi di armi ed imparò ad usarle in fretta. Jaan è veramente notevole; al momento è velocissimo ed è considerato pericolosamente mortale, fin meglio di Garse, che possiede un’abilità essenzialmente istintiva.

«Però non è stato sempre così. Comunque, quando è venuta l’ora per Jaantony di scegliersi il nome, lui pensava a due grandi eroi, ma non se la sentiva di proporre nessuno dei due agli altolegati. Nessuno dei due era Ferrogiada e, peggio ancora, erano entrambi dei mezzi paria, dei cattivi nella storia dei Kavalar, capi carismatici che combatterono per cause perdute e furono soggetti a secoli di insulti. Per cui Jaan mescolò assieme i due nomi e compose i suoni fino ad ottenere un qualcosa che paresse un cognome importato dalla Terra. Gli altolegati lo accettarono senza pensarci. In fondo si trattava del suo nome scelto, la parte meno importante della sua identità. Il nome che viene per ultimo».

Corrugò la fronte. «Ed ecco il punto di tutta la storia. Jaantony Ferrogiada Vikary venne ad Avalon e fu soprattutto Jaantony Ferrogiada. Ma Avalon è un posto dove i cognomi sono assai importanti, per cui egli scoprì di essere quasi sempre Vikary. All’accademia venne registrato con quel nome ed i suoi istruttori lo chiamarono soprattutto Vikary e dovette vivere con quel nome per due anni. Diventò quasi subito Jaan Vikary, oltre ad essere Jaantony Ferrogiada. Credo che la cosa non gli dispiacesse. Da allora ha sempre cercato di restare Jaan Vikary, anche se non fu facile dopo che ritornammo su Alto Kavalaan. Per i Kavalar è sempre rimasto Jaantony».

«Dove ha preso tutti gli altri nomi?», si ritrovò a chiedere Dirk, malgrado le sue intenzioni. La storia che Gwen gli aveva raccontato lo aveva affascinato e pareva fornire nuovi punti di vista a ciò che Jaan Vikary gli aveva detto all’alba, sul tetto.

«Quando ci sposammo, lui mi portò al Ferrogiada e diventò un altolegato, automaticamente un membro del consiglio degli altolegati», disse lei. «Per questa ragione è stato aggiunto un "alto" al suo nome e gli diede il diritto di possedere cose sue indipendentemente dalla granlega e di fare sacrifici religiosi, oltre a guidare i suoi kethi, i confratelli della granlega, nelle azioni di guerra. Per cui assunse anche un nome di guerra, una specie di rango, ed un nome religioso. Una volta questi nomi erano molto importanti. Adesso non più tanto, ma è rimasto l’uso».

«Capisco», disse Dirk, ma non aveva capito tutto. Pareva che i Kavalar attribuissero un’insolitamente grande importanza al matrimonio. «Ma tutto questo che cosa c’entra con noi?».

«Parecchio», disse Gwen, ridiventando serissima. «Quando Jaan arrivò su Avalon e la gente cominciò a chiamarlo Vikary, divenne un altro. Diventò Vikary, un ibrido dei suoi due idoli iconoclasti. Ecco che cosa può fare un nome, Dirk. E questo è stato anche il punto in cui noi siamo caduti. Io ti amavo, sì. Parecchio. Io ti amavo e tu amavi Jenny».

«Ma Jenny eri tu!».

«Sì, no. La tua Jenny, la tua Ginevra. Continuavi a ripeterlo. Tu mi chiamavi con quei nomi almeno altrettanto spesso di quanto mi chiamassi Gwen, ma avevi ragione. Quelli erano i tuoi nomi. Sì, mi piacevano. Che ne sapevo dei nomi o del dare i nomi? Jenny andava bene e Ginevra aveva un’alea di leggenda. Che ne sapevo?

«Ma poi l’ho imparato, anche se non avevo le parole per dirlo. Il problema era che tu amavi Jenny… ma Jenny non ero io. Era una figura basata su di me, magari, ma era soprattutto un fantasma, un desiderio, un sogno che ti eri costruito da solo. Tu l’hai collegata a me e ci amavi tutte e due. Succedeva che a volte io fossi Jenny. Dà un nome ad una cosa ed in qualche modo diventerà reale. Tutta la verità è nei nomi, come tutta la menzogna, perché non c’è niente che distorca le cose come un falso nome, un falso nome che cambi la realtà secondo ciò che sembra.

«Io volevo che tu amassi me, non lei. Io ero Gwen Delvano ed io volevo essere la migliore Gwen Delvano che fosse possibile, ma volevo restare me stessa. Osteggiai Jenny e tu cercavi di tenerla in vita e non hai mai capito. Ecco perché ti ho lasciato». Terminò con voce fredda e sicura, il suo viso era una maschera; poi guardò dall’altra parte.

Così alla fine lui capì. Per sette anni non aveva mai capito, ma ora, per un breve attimo, aveva afferrato. Allora era questo, pensò, per questo aveva mandato la gemma mormorante. Non per chiamarlo, non per questo. Ma per dirgli finalmente, perché l’aveva piantato. E tutto ciò aveva un senso. La sua rabbia era improvvisamente scolorita in stanca malinconia. La sabbia gli scorreva fredda tra le dita e lui la ignorava.

Lei vide la sua espressione e la sua voce si fece più dolce. «Mi dispiace, Dirk», disse lei. «Ma tu mi hai di nuovo chiamata Jenny ed ho dovuto dirti la verità. Non ho mai dimenticato e non sapevo se tu te ne ricordassi. Sono anni che ci penso. Si stava veramente bene, quando andava bene, pensavo. Come ha fatto ad andare male? La cosa mi spaventava, Dirk. Mi spaventava davvero. Pensavo, se Dirk ed io abbiamo potuto sbagliare, allora non c’è niente di sicuro, niente su cui si possa contare. Per due anni rimasi paralizzata dalla paura. Ma poi, con Jaan, ho capito. Ed ora ti ho dato la risposta che ho trovato. Mi dispiace, è una risposta dolorosa per te, ma dovevi conoscerla».

«Avevo sperato…».

«No», lo ammonì lei. «Non cominciare Dirk. Non fare di nuovo così. Non ci provare nemmeno. Per noi è finita. Riconoscilo. Ci ammazzeremmo da soli se ci provassimo».

Dirk gemette, bloccato su tutto il fronte. Per tutta la lunga conversazione, lui non l’aveva nemmeno toccata. Gli parve d’essere disperato. «Suppongo che Jaan non ti chiami Jenny?», chiese finalmente con un sorriso amaro.

Gwen rise. «No, Come Kavalar ho anch’io un nome segreto e lui mi chiama con quello. Però io ho assunto quel nome, per cui non ci sono problemi. È il mio nome».

Dirk si limitò a fare spallucce. «Allora sei felice?».

Gwen si alzò in piedi e si tolse con una mano la sabbia dalle gambe. «Jaan ed io… be’, ci sono un mucchio di cose che non sono tanto facili da spiegare. Tu una volta eri un amico, Dirk, e forse eri il mio migliore amico. Ma sei stato via per tanto tempo. Non essere troppo insistente. Adesso ho bisogno di un amico. Di solito parlo con Arkin, lui mi ascolta e ci prova, ma non riesce ad essermi di molto aiuto. Lui è troppo interessato, accecato dall’odio per i Kavalar e per la loro cultura. Jaan, Garse ed io abbiamo dei problemi, sì, se è questo che vuoi sapere. Ma non è facile parlarne. Dammi tempo. Aspetta, se ti va, e saremo di nuovo amici».

Il lago era calmissimo nell’eterno tramonto grigio e rosso. Dirk guardò le acque, spesse delle incrostazioni di funghi e si ricordò dei canali di Braque. Allora lei aveva bisogno di lui, pensò. Forse non era come lui aveva sperato, ma c’era pur qualcosa che le poteva dare. Si aggrappò a quel pensiero; lui voleva dare, lui aveva delle cose da dare. «Qualsiasi cosa», disse alzandosi. «C’è qualcosa che non capisco, Gwen. Troppe cose. Continuo a pensare che metà della conversazione dell’altro giorno è ormai passata sul mio cervello, eppure non so ancora quale sia la domanda giusta da farsi. Ma ci posso provare. Ho bisogno di te, immagino. Ho bisogno di te, in un modo o nell’altro».

«Aspetterai?».

Starò ad ascoltare, quando verrà il tempo».

«Allora sono contenta che tu sia venuto», disse lei. «Avevo bisogno che venisse qualcuno, qualcuno da fuori. Sei arrivato proprio in tempo. Una bella fortuna».

Che strano, pensò lui, una bella fortuna dopo che lei mi ha fatto chiamare. Ma non disse niente. «E adesso?».

«Adesso, se ti va, possiamo visitare la foresta. Del resto siamo venuti qui proprio per questo».

Raccolsero i loro scooter e si allontanarono dal lago silenzioso, avviandosi verso la spessa foresta in attesa. Non si potevano seguire dei sentieri, ma il sottobosco era rado e si camminava facilmente, come se ci fossero parecchie piste. Dirk era calmo, studiava i boschi che lo circondavano, con le spalle curve e le mani sprofondate nelle tasche. Gwen fu l’unica a parlare, per quelle poche cose che c’erano da dire. Parlava con voce bassa e riverente, come il sussurro di un bambino in una grande chiesa. Ma per lo più si limitava ad indicare le cose perché lui le osservasse.

Gli alberi che circondavano il lago erano tutti vecchi amici che Dirk aveva già visto migliaia di volte. Perché questa era la cosiddetta foresta di casa, i boschi che gli uomini si erano portati dietro da sole a sole e che avevano piantato su tutti i mondi in cui avessero posato piede. Quegli alberi avevano radici su Vecchia Terra, la foresta nostrana, ma non era tutta terrestre. Su tutti i pianeti nuovi l’umanità trovava dei nuovi favoriti, piante ed alberi che subito diventavano parte della linfa di quelli portati da casa all’inizio. E quando le navi stellari, se ne andavano da quel mondo, le piante di quel posto se ne andavano con i due volte estirpati nipoti della Terra e così cresceva la foresta di casa.

Dirk e Gwen passarono lentamente attraverso la foresta, come altri avevano camminato per la stessa foresta su una decina di altri mondi. E loro conoscevano gli alberi. Acero da zucchero, là ed aceri del fuoco, querce e falsequerce, boscargenti e pini tossici, asteni. Gli abitanti dei mondi esterni li avevano portati qui, proprio come i loro antenati li avevano portati sul Margine, per aggiungere una nota che ricordasse la loro casa, a prescindere da dove si trovasse la loro casa.

Ma qui, questi boschi parevano diversi.

Era per via della luce, capì Dirk dopo un po’. La luce piovigginosa che scendeva così scarna dal cielo, la debole luminosità rossa che era il giorno di Worlorn. Era una foresta crepuscolare. Chiusa in un tempo più lento del solito — in un autunno più vasto di qualsiasi altro — la foresta stava morendo.

Allora Dirk guardò più attentamente e vide che gli aceri da zucchero erano completamente nudi; alla base dei tronchi c’erano le foglie cadute. Non sarebbero mai più rinverdite. Anche le querce erano spoglie. Dirk si fermò e tirò una foglia da un acero del fuoco e vide che la sottile venatura rossa era diventata nera. Ed i boscargenti erano tutti rosso ruggine.

Tra poco sarebbe venuta la marcescenza.

In certe parti della foresta c’erano già degli alberi marci. In una radura abbandonata dove l’humus era più spesso e più nero che in altri punti, Dirk notò uno strano odore. Guardò interrogativamente Gwen. Lei si chinò e prese una manciata di roba nera e gliela mise vicino al naso. Dirk si girò dall’altra parte.

«È un letto di muschio», gli disse con tono di scusa. «Lo hanno portato qui da Eshellin. Un anno fa era tutto verde e rosso, con mille fiori vivaci. In breve è diventato tutto nero».

Si spinsero ancora più dentro la foresta, lontano dal lago e dalla montagna. I soli erano al massimo della loro orbita, Grasso Satana era pallido e gonfio come una luna inzuppata di sangue, circondato in maniera irregolare da quattro piccole stelle-soli. Worlorn era ormai troppo lontano ed era andato dalla parte sbagliata; l’effetto della Ruota non si sentiva più.

Avevano camminato per più di un’ora ed il carattere della foresta che li circondava aveva cominciato a mutare. Lentamente, sottilmente, era cambiata, in maniera quasi troppo graduale per poter essere notato da Dirk. Ma Gwen glielo fece notare. Il familiare insieme che costituiva le foreste di casa si stava rarefacendo e si stava formando qualcosa di strano, qualcosa di unico, qualcosa di selvaggio. Smilzi alberi neri con foglie grigie, alti muri di radica a puntini rossi, cadenti velette di un azzurro fosforescente, grandi forme bulbose infestate di scure macchie fioccose; Gwen indicò tutti questi alberi e li chiamò per nome. Un tipo divenne sempre più comune: un vegetale torreggiante e giallastro che allungava rami tortuosi dal tronco cereo ed escrescenze più piccole da quei rami ed altre ancora più piccole da quelle, in modo da costruirsi attorno una specie di labirinto ligneo. «Soffocatori», li chiamò Gwen e subito Dirk capì perché. Uno dei soffocatori era cresciuto qui, in mezzo al bosco, vicino ad un regale boscargento, gettando gialli e :ontorti rami cerosi che si mescolavano coi maestosi rami grigi, infilando le radici al di sotto ed attorno quelle dell’altro albero, costringendo il rivale ad un ruolo subordinato sempre più costrittivo. Ormai il boscargento si vedeva appena: un lungo bastone morto perduto nel soffocatore che si gonfiava.

«I soffocatori sono originari di Tober», disse Gwen. «Ormai stanno impadronendosi della foresta qui, come è già successo là. Avremmo potuto dir loro che poteva capitare, ma non ci avrebbero fatto caso. Comunque le foreste erano già tutte condannate, prima ancora che fossero piantate. Anche i soffocatori moriranno, però saranno gli ultimi ad andarsene».

Proseguirono ed i soffocatori si fecero sempre più abbondanti e dopo un po’ dominavano la foresta. Qui i boschi erano più densi, più cupi; era più difficile passare. Si inciampava in radici semisepolte, mentre i rami tortuosi su di loro si intrecciavano come braccia distese di lottatori giganti. Nel punto dove due o tre o più soffocatori crescevano vicino, parevano mescolarsi in un unico nodo contorto e Gwen e Dirk erano costretti a cambiare strada. Le altre piante quasi non esistevano. C’erano solo letti di funghi bianchi e viola che crescevano ai piedi degli alberi gialli, assieme a cordoni di telaschiuma parassita.

Ma c’erano degli animali.

Dirk li vide muovere tra i bui intrecci dei soffocatori e ne udì gli alti gridi trillanti. Alla fine ne vide uno. Era seduto proprio sulle loro teste su di un gonfio ramo giallo e li guardava; grande come un pugno, immobile ed in qualche modo… trasparente. Toccò una spalla di Gwen e fece cenno verso l’alto.

Ma lei sorrise e poi rise leggermente. Quindi allungò un braccio verso il punto in cui era appollaiata la piccola creatura e la frantumò tra le mani. Quando Gwen aprì il pugno, c’era solo più polvere e tessuto morto.

«Ci deve essere un nido di spettri-d’albero qui attorno», spiegò lei. «Cambiano la pelle quattro o cinque volte prima della loro maturità e lasciano gli involucri di guardia per spaventare gli altri predatori». Allungò un dito. «Eccone uno vivo, se ti interessa».

Dirk guardò e riuscì appena a scorgere una cosina gialla che scappava con denti acuminati ed enormi occhi marroni. «Volano pure», gli disse Gwen. «Hanno una membrana che va dalle braccia alle gambe e permette loro di volare da un albero all’altro. Sono predatori, sai. Cacciano a branchi e possono abbattere creature cento volte più grandi di loro. Ma di solito non attaccano gli uomini, a meno che non si inciampi in un loro nido».

Lo spettro d’albero se ne era andato, invisibile in mezzo a quel labirinto di rami di soffocatori, ma Dirk credette di vederne un altro, per un breve istante, con la coda dell’occhio. Studiò i boschi che lo circondavano. Gli involucri di pelle trasparente erano dappertutto e lo osservavano ferocemente nella luce crepuscolare dalle loro grucce come piccoli spettri tenebrosi. «Sono queste le cose che sconvolgono così tanto gli Janacek, non è vero?», chiese lui.

Gwen annuì. «Gli spettri sono una peste su Kimdiss, ma qui si trovano nel loro elemento naturale. Si adattano perfettamente ai soffocatori e riescono a muoversi tra i labirinti di rami più velocemente di qualsiasi altra cosa che io abbia visto. Li abbiamo studiati in maniera piuttosto completa. Stanno ripulendo le foreste. Poco per volta uccideranno tutto ciò che è vìvo e moriranno anche loro di fame. Però non ne avranno il tempo. Lo scudo si guasterà ben prima e verrà il freddo». Mosse le spalle in un gesto di indifferenza e posò il braccio su di un ramo leggermente in pendenza. Le loro tute erano ormai diventate dello stesso color giallo sporco dei boschi che li circondavano, ma la manica di Gwen si spostò su e giù mentre lei accarezzava il ramo e Dirk vide il cupo luccichio di giada-e-argento riflettersi sui soffocatori.

«È rimasta molta vita animale?».

«Abbastanza», disse lei. La pallida luce rossa faceva apparire strano l’argento. «Non quanta ce n’era prima, si capisce. La maggior parte degli animali selvatici ha abbandonato la foresta. Questi alberi stanno morendo e gli animali lo sanno. Ma gli alberi dei mondi esterni sono più robusti, più o meno. Dove hanno piantato le foreste del Margine, si trova ancora vita, ancora forte, ancora attiva. I soffocatori, gli alberi fantasma, i vedovi azzurri… saranno fiorenti fino alla fine. Ognuno di loro ha i suoi abitanti, vecchi e nuovi, finché verrà il freddo».

Gwen mosse un braccio pigramente, da una parte e dall’altra ed il braccialetto baluginò, pareva gridasse. Vincoli, ricordi e negazioni, tutto assieme, un giuramento d’amore di giada-e-argento. E lui aveva solo una piccola gemma mormorante fatta a forma di lacrima e piena di ricordi che svanivano.

Dirk alzò gli occhi, guardando al di là di zigzaganti rami di gialli soffocatori, dove troneggiava l’Occhiodaverno in una tenebrosa fetta di cielo ed appariva più stanco che infernale, più spiaciuto che satanico. Ed egli rabbrividì. «Torniamo indietro», disse a Gwen. «Questo posto mi deprime».

Non disse niente altro. Trovarono uno spiazzo lontano dai soffocatori che li premevano da tutte le parti, un posto in cui potevano stendere l’argenteo tessuto metallico dei loro scooter. Poi salirono insieme per il lungo volo che li avrebbe riportati a Larteyn.

3

Fecero di nuovo le corse sulle montagne e questa volta Dirk si comportò un po’ meglio, perdendo meno terreno di quello che aveva perso prima, ma il suo umore non migliorò granché. Per la maggior parte dello stanco viaggio, volarono in silenzio, separati, Gwen alcuni metri più avanti di lui. Alle loro spalle c’era la Ruota di Fuoco spezzata, mutata, e Gwen era una vaga figura di strega che si stagliava contro il cielo, sempre irraggiungibile. La malinconia delle foreste morenti di Worlorn era gocciolata nelle carni di lui e vedeva Gwen tra le palpebre contaminate, una figura di bambola con un abito scolorito come la disperazione, i neri capelli coperti di oleosa luce rossa. Gli vennero in mente delle cose in un caos di colori mentre il vento gli passava accanto ed una cosa era più insistente delle altre. Lei non era la sua Jenny, non lo era e non lo era mai stata.

Per due volte durante il volo, Dirk vide — o gli parve di vedere — il lampo della giada-e-argento, che dava fastidio, come gli aveva dato fastidio quando erano nella foresta. Si costrinse ogni volta a guardare da un’altra parte e vide nuvole nere, lunghe e sottili, che scorrevano per il cielo nudo e vuoto.

L’aerauto a forma di manta e la macchina da guerra verde oliva se ne erano andate dal tetto, quando essi raggiunsero Larteyn. Solo l’apparecchio a forma di goccia di Ruark era rimasto. Loro atterrarono lì accanto — Dirk fece un altro atterraggio goffo e cadde, ma questa volta non era ridicolo, solo stupido — si tolsero gli scooter e le scarpe di volo sulla terrazza, da dove poi le portarono via. Dissero qualche parola presso la cabina, ma Dirk non riuscì a ricordarsi le parole, nemmeno un momento dopo che le aveva dette. Poi Gwen lo lasciò.

Arkin Ruark attendeva pazientemente nelle sue stanze alla base della torre. Dirk trovò un letto reclinabile tra le pareti color pastello, le sculture ed i vasi di piante Kimdissi. Si sdraiò e voleva solo riposarsi, senza pensare, ma lì c’era Ruark che ridacchiava e scuoteva il capo e faceva danzare i capelli biondi e bianchi e che gli metteva un alto bicchiere verde in mano. Dirk lo prese e si sedette. Il bicchiere era di un bel cristallo sottile, liscio e senza fronzoli, con solo una patina di ghiaccio che si scioglieva rapidamente. Bevve ed il vino era molto verde e freddo, incenso e cinnamomo giù per la gola.

«Lei mi pare essenzialmente stanco, Dirk», disse il Kimdissi dopo essersi preso a sua volta qualcosa da bere e si sedette sulla sedia a sdraio di tela con un tonfo, sotto l’ombra di una pianta nera e spiovente. Le foglie lanceolate gettavano ombre striate sul suo viso sorridente e paffuto. Sorseggiò, succhiando rumorosamente la bibita e per un breve momento Dirk lo disprezzò.

«Una giornata lunga», disse vagamente.

«Vero», convenne Ruark. «Eh, la giornata dei Kavalari è sempre lunga. La dolce Gwen, poi Jaantony ed alla fine Garse, ce n’è abbastanza per far sembrare eterna una qualsiasi giornata. Che ne dice?».

Dirk non disse niente.

«Ma adesso», disse Ruark, sorridendo, «ha visto. Volevo proprio questo io, che lei vedesse. Prima di parlarle. Ma avevo promesso che gliene avrei parlato, una promessa che avevo fatto a me stesso. Gwen, lei me ne ha parlato. Si parla, sa, da amici ed io conoscevo la ragazza ed anche Jaan fin da quando si era su Avalon. Ma qui ci siamo conosciuti meglio. Lei non ne parla volentieri, mai, ma con me parla, per lo meno lo ha fatto, ed io devo dirglielo. Senza far violenza alla verità. Lei è proprio la persona che deve sapere».

Il liquore mandava dita gelate nel suo stomaco e Dirk sentì che la stanchezza se ne andava. Gli pareva di essere mezzo addormentato, come se Ruark avesse continuato a parlare per un tempo lunghissimo e come se lui non avesse capito niente. «Di che sta parlando?», disse. «Cos’è che dovrei sapere?».

«Ma come? Che Gwen ha bisogno di lei», disse Ruark. «Perché ha mandato… la cosa. La lacrima rossa. Lo sa. Io lo so. Me lo ha detto lei».

Improvvisamente Dirk fece attenzione, interessato ed incuriosito. «Glielo ha detto», cominciò, poi si fermò. Gwen gli aveva chiesto di aspettare e la promessa che lui aveva fatto tanto tempo fa… però corrispondeva. Forse avrebbe dovuto ascoltare, forse era difficile per lei dirglielo. Ruark doveva sapere. Era suo amico, aveva detto lei nella foresta, l’unico con cui poteva parlare. «Che cosa?».

«Deve aiutarla, Dirk t’Larien, in un modo o nell’altro. Non so come».

«Ma cosa debbo fare?».

«Ad essere libera. A scappare».

Dirk mise giù il bicchiere e si grattò la testa. «Da chi?».

«Da loro. I Kavalari».

Si accigliò. «Vuol dire Jaan? L’ho incontrato stamani, lui e Janacek. Gwen ama Jaan. Non capisco».

Ruark rise, succhiò la sua bibita, rise ancora. Era vestito con un abito a tre pezzi a quadri alternati marroni e verdi, come un buffone e visto lì, seduto a sputar sentenze, pareva davvero un matto.

«Lo ama, sì, lei ha detto così?», disse Ruark. «Lei ne è proprio sicuro, sì? Davvero?».

Dirk esitò e cercò di ricordarsi le parole, mentre conversavano presso il placido lago verde. «Non ne sono sicuro», disse. «Ma era qualcosa del genere. Lei è… come ha detto?».

«Betheyn?», suggerì Ruark.

Dirk annuì. «Sì, betheyn, moglie».

Ruark ridacchiò. «No, essenzialmente sbagliato. Ho sentito anch’io in macchina. Gwen non ha detto la verità. Be’, non proprio, così lei è giunto ad una conclusione sbagliata. Betheyn non vuol dire moglie. Una parziale verità è la più grande di tutte le bugie, si ricorda? Che cosa crede che sia teyn.

La parola lo fermò. Teyn. Aveva sentito quella parola centinaia di volte su Worlorn. «Amico?», provò ad indovinare, perché non sapeva ciò che significasse.

«Betheyn è più moglie di quanto teyn sia amico», disse Ruark. «È meglio che lei impari il linguaggio dei mondi esterni, Dirk. No. Betheyn è una parola in antico Kavalar che indica un rapporto di una donna verso un uomo, che vuol dire facente le funzioni di moglie vincolata dalla giada-e-argento. Ora, ci può essere grande affetto nella giada-e-argento, molto amore, sì. Ma lei conosce la parola di origine terrestre e quel significato non c’è nell’antico Kavalar. Interessante, no? Si può amare se non c’è nemmeno una parola per dirlo, amico t’Larien?».

Dirk non rispose. Ruark si strinse nelle spalle, bevve e continuò. «Be’, non importa, ma ci pensi. Ho parlato di giada-e-argento e sì, succede spesso che questo vincolo abbia dell’amore, amore della betheyn per l’altolegato. È più raro dall’altolegato verso la betheyn. Se non è amore, per lo meno si piacciono. Ma non sempre e non necessariamente! Mi capisce?».

Dirk scosse il capo.

«I vincoli Kavalar sono un costume ed un obbligo», disse Ruark, piegandosi in avanti per dar più enfasi al discorso, «e l’amore è completamente accidentale. Gente violenta, le ho detto. Legga la storia, guardi le leggende. Gwen incontrò Jaan su Avalon, lei lo sa, e lei è una che non legge. Non a sufficienza. Lui era Jaan Vikary di Alto Kavalaan, e che era mai, un pianeta da qualche parte? La ragazza non ne sapeva niente. Vero. Così cominciarono a piacersi — se vuole lo possiamo chiamare amore — qualche rapporto sessuale, poi lui le offre la sua giada-e-argento con una forma tutta lavorata. Ed ecco che lei diventa immediatamente la sua betheyn, sempre senza saperne niente. In trappola».

«In trappola? Perché in trappola?».

«Legga la storia! La violenza di Alto Kavalaan è di antica data, la sua cultura è immutata. Gwen è betheyn di Jaan Vikary, betheyn pseudomoglie, sua moglie, sì, la sua amante ed ancora di più. Proprietà e schiava, lei è pure questo, un dono. Lei è il dono che lui ha fatto all’Unione Ferrogiada, con lei lui ha comperato i suoi aitinomi, si. Lei dovrà avere dei bambini, se lui glielo ordina, sia che lei lo voglia o no. Inoltre deve prendere anche Garse come amante, che lo voglia o no. Se Jaan dovesse morire in duello con un uomo di una granlega diversa da Ferrogiada, un Braith, oppure un Rossacciaio, lei passerebbe a quell’uomo come se fosse una valigia, proprietà… per diventare la sua betheyn, oppure una semplice eyn-kethi se il vincitore ha già la sua giada-e-argento. Se Jaan muore per cause naturali, oppure in duello con un altro Ferrogiada, Gwen passa a Garse. Quello che ne pensa lei non ha nessuna importanza in questo affare. Chi se ne frega se lei lo odia? Non certo i Kavalari. E se dovesse morire Garse? Be’, a suo tempo diventerebbe una eyn-kethi, una allevatrice della granlega, degradata per sempre, di libero utilizzo per uno qualsiasi dei kethi. Kethi significa confratelli della granlega, più o meno, gli uomini della famiglia. L’Unione Ferrogiada è un’enorme famiglia, fatta da migliaia e migliaia di famiglie ed uno qualunque la può avere. Com’è che ha chiamato Jaan, marito? No. Carceriere. Ecco che cosa è. Tutti e due, lui e Garse. Carcerieri-amanti, magari, se lei pensa che questa parola possa avere per loro lo stesso significato che ha per lei e per me. Jaantony onora la nostra Gwen ed è ben logico, visto che lei adesso è una Ferrogiada, lei è il suo dono-betheyn e se lei muore o lo lascia, lui diventa un lib-Ferrogiada, un vecchio, deriso, a mani vuote, senza alcuna voce in consiglio. Ma lui la rende schiava, non l’ama ed ormai son passati anni dai tempi di Avalon, lei è più vecchia e più saggia ed ora ha capito». Ruark disse le ultime parole senza fiato e rabbiosamente, con le labbra tirate.

Dirk esitò. «Allora lui non l’ama?».

«Nello stesso modo in cui lei ama le cose di sua proprietà. È così che un altolegato ama la sua betheyn. Si tratta di un vincolo stretto, giada-e-argento, che non si può spezzare, ma è un vincolo di obblighi e di possesso. Non d’amore. L’amore esiste, ammesso che i Kavalar ne siano capaci, in altre cose, come scelto-per-fratello, nello scudo-e-l’amico-del-cuore e l’amoroso guerriero gemello, nel sempre-leale procuratore-di-piacere ed il portatore-di-colpi e nel sollevatore-delle-pene, nel gran-vincolo della vita».

«Teyn», disse Dirk come intorpidito, mentre con la mente correva.

«Teyn!», annui Ruark. «Malgrado la loro violenza, i Kavalari hanno una grande poesia. La maggior parte dei poemi celebra il teyn, il vincolo di ferro-e-pietraluce, ma nessuno parla della giada-e-argento».

Le cose cominciarono a sistemarsi lentamente al loro posto. «Lei dice», cominciò Dirk, «che Gwen e Jaan non si amano, che Gwen non è altro che una schiava. Eppure non lo pianta?».

La faccia paffuta di Ruark era tutto un fuoco. «Piantarlo? Essenzialmente assurdo! Si limiterebbero a costringerla a tornare. Un altolegato deve tenersi e proteggere la sua betheyn. E uccidere tutti quelli che cercano di rubargliela».

«E lei mi ha mandato il gioiello…».

«Gwen parla con me, io so tutto. Aveva forse delle altre speranze? I Kavalari? Jaantony ha già ucciso due volte in duello. Nessun Kavalar la toccherebbe. Che ne ricaverebbero se lo facessero? Io? Le sembro di poter essere una speranza, io?». Si spazzolò il vestito con le mani morbide e parve disprezzarsi. «Lei t’Larien. Solo lei è la speranza di Gwen. Lei è sua. Una volta l’ha amata».

Dirk senti la propria voce che pareva venire da lontano. «Io la amo ancora», disse.

«Bene. Penso che lei sappia, che Gwen… anche se credo che non lo direbbe mai, credo… anche lei le vuol bene. Come una volta. Cosa che non è mai successa per Jaantony Riv Lupo alto-Ferrogiada Vikary».

La bibita, quello strano vino verde, lo aveva colpito più di quanto si sarebbe immaginato. Un bicchiere solo, un unico bicchiere alto e la camera estranea che lo circondava aveva preso a girare. Dirk t’Larien si risollevò con uno sforzo e riuscì a sentire cose impossibili e cominciò a farsi domande. Ruark diceva cose senza senso, pensò, eppure avevano fin troppo senso. Aveva spiegato tutto, in maniera plausibile e tutto era chiaro e brillante ed era chiaro anche ciò che doveva fare Dirk. Ma era quello? La stanza oscillò, si fece scura e poi di nuovo chiara, scura e poi chiara e Dirk era per un secondo sicurissimo e poi non era più sicuro per niente. Che cosa doveva fare? Qualcosa, qualcosa per Gwen. Doveva scoprire la realtà delle cose, poi…

Si portò una mano alla fronte. Tra le ciocche di capelli grigi e bruni che gli ballavano sugli occhi c’erano perle di sudore. Improvvisamente Ruark si alzò, con il viso allarmato. «Oh», disse il Kimdissi, «il vino l’ha fatta star male! Sono stato essenzialmente uno stupido! Ho sbagliato io. Vino dei mondi esterni e stomaco di Avalon, ecco tutto. Ci vorrebbe del cibo, sa. Cibo». Sgattaiolò via, sfregando contro le nere foglie lanceolate che cominciarono a ballare e ballonzolare davanti agli occhi di Dirk.

Dirk sedette quasi immobile. Udì in distanza il tintinnare dei piatti e delle pentole, ma non ci fece caso. Continuava a sudare con la fronte aggrottata per pensare, ma la cosa gli riusciva stranamente difficile. La logica pareva eluderlo, ed anche la cosa più chiara svaniva nel momento in cui gli pareva di afferrarla. Tremava, mentre sogni morti ricominciavano a vivere, mentre i boschi di soffocatori avvizzivano nella sua mente e la Ruota riprendeva a bruciare calda e fiera sui boschi fioriti di un caldo mezzogiorno a Worlorn. Lui poteva farlo capitare, costringere la natura, far risvegliare tutto, metter fine al lungo crepuscolo e riavere Jenny, la sua Ginevra, sempre al suo fianco. Si. Sì!

Quando Ruark ritornò con le forchette, le tazze di formaggio molle e dei tuberi rossi con carne calda, Dirk era più calmo, di nuovo freddo. Prese una scodella e mangiò, un po’ in trance, mentre il suo ospite cicalava. Domani, promise a se stesso. Li avrebbe incontrati a colazione, avrebbe parlato con loro, avrebbe cercato di capire quale fosse la verità. Poi avrebbe agito. Domani.

«…non è inteso alcun insulto», stava dicendo Vikary. «Tu non sei uno sciocco Lorimaar, ma in questo caso direi che ti comporti in modo sciocco».

Dirk rimase impietrito presso la porta, la pesante porta di legno che egli aveva aperto senza pensare di bussare. Tutti si voltarono a guardarlo, quattro paia di occhi. C’ultimo a voltarsi fu Vikary, e non prima di aver terminato ciò che stava dicendo. Gwen gli aveva detto di venire a far colazione con loro quando si erano salutati la sera prima (lui da solo, perché Ruark ed i Kavalari preferivano non incontrarsi se era possibile). Questa era proprio l’ora giusta, appena dopo l’alba. Ma la scena non era quella che lui si sarebbe aspettato di vedere.

Ce n’erano quattro nella stanza di soggiorno cavernosa. Gwen stava seduta sul bordo del divano di legno e cuoio posto di fronte al caminetto ed alle cariatidi che gli facevano la guardia ed aveva i capelli scarmigliati e gli occhi pieni di sonno. Garse era in piedi accanto a lei con le braccia incrociate ed il viso corrucciato, mentre Vikary ed un altro si tenevano testa presso la cappa. Tutti e tre gli uomini erano vestiti in maniera molto formale ed erano armati. Janacek indossava gambali e camicia larga di color grigio antracite, con il colletto largo ed una doppia fila di neri bottoni di ferro lungo il torace. La manica destra della camicia era stata tagliata per far vedere il pesante braccialetto di ferro e di pietraluce che brillava debolmente. Anche Vikary era tutto vestito di grigio, ma non aveva le file di bottoni; la parte davanti della camicia era a forma di V che arrivava fin quasi alla cintura ed aveva un medaglione di giada appeso ad una catena di ferro che scintillava contro i peli neri del petto.

Quello nuovo, lo stranièro, fu il primo a parlare con Dirk. Aveva la schiena voltata verso la porta, ma si voltò quando gli altri voltarono gli occhi da quella parte e corrugò la fronte. Era più alto di tutta la testa sia di Vikary, che di Janacek e torreggiava al di sopra di Dirk, anche se era distante parecchi metri. Aveva la pelle molto scura, soprattutto pareva scura in confronto all’abito bianco latte che indossava al di sotto di un corto mantello pieghettato di color violetto. Aveva capelli grigi striati di bianco, che gli ricadevano sulle larghe spalle ed i suoi occhi… erano schegge di ossidiana incastonate nel volto bruno che aveva centinaia di piccole rughe e rughette… Quegli occhi non erano amichevoli. Nemmeno la sua voce. Lanciò un rapido sguardo a Dirk, poi disse, molto semplicemente: «Se ne vada».

«Come?». Non ci poteva essere una risposta più stupida, pensò Dirk dopo aver detto quella parola, ma non gli venne in mente altro.

«Ho detto di uscire», ripeté il gigante vestito di bianco. Aveva tutti e due gli avambracci scoperti, come Vikary, per far vedere i due braccialetti quasi gemelli: giada-e-argento al braccio sinistro e ferro-e-fuoco sul destro. Ma la forma e le incastonature dei braccialetti dello straniero erano molto differenti. L’unica cosa che era uguale a quella di Vikary, esattamente, era la pistola che aveva al fianco.

Vikary intrecciò le braccia, come aveva già fatto Janacek. «Qui è casa mia, Lorimaar alto-Braith. Non hai alcun diritto di fare il prepotente con quelli che vengono perché io li ho invitati».

«Non credo che tu sia stato invitato, Braith», aggiunse Janacek con un sottile sorriso velenoso.

Vikary fissò il suo teyn, poi scosse il capo decisamente e vigorosamente. No. Ma perché? Si chiese Dirk.

«Vengo da te con grande mestizia, Jaantony alto-Ferrogiada, per parlare seriamente», ruggì il Kavalar vestito di bianco. «Dobbiamo proprio trattare davanti ad uno che viene da altri mondi?». Fissò ancora Dirk, sempre con la fronte aggrottata. «Un falsuomo, per quel che ne so».

La voce di Vikary era tranquilla ma decisa quando rispose. «Abbiamo finito di trattare, amico. Ti ho già dato la mia risposta. La mia betheyn è sotto la mia protezione, così come il Kimdissi, ed anche quest’uomo»… indicò Dirk con un gesto della mano, poi incrociò di nuovo le braccia… «e se prendi una di queste persone, allora preparati a prendere anche me».

Janacek sorrise. «Lui non è nemmeno un falsuomo», disse asciutto l’uomo con la barba rossa. «Si tratta di Dirk t’Larien, korariel di Ferrogiada, che ti piaccia o no». Janacek si voltò di pochi centimetri verso Dirk ed indicò lo straniero vestito di bianco. «t’Larien, questo è Lorimaar Reln Volpebianca alto-Braith Arkellor».

«Uno dei nost’ri vicini», disse Gwen dal divano, parlando per la prima volta. «Anche lui abita a Larteyn».

«Lontano da voi, Ferrogiada», disse l’altro Kavalar. Non pareva felice. Il cipiglio che aveva sul viso era profondamente incavato e gli occhi neri si muovevano da uno all’altro, pieni di rabbia gelida, poi si posarono su Vikary. «Tu sei più giovane di me, Jaantony alto-Ferrogiada, ed il tuo teyn è più giovane ancora e non ho nessuna voglia di fronteggiarvi in duello. Del resto il codice ha le sue regole, come tu ed io sappiamo bene e nessuno di noi desidera andare troppo oltre. Voi, giovani altolegati, vi spingete sovente un po’ troppo vicini a questi limiti, mi pare, e la cosa capita soprattutto agli altolegati di Ferrogiada, e…»

«E, tra quelli di Ferrogiada, succede soprattutto a me», disse Vikary, terminando la frase al posto dell’altro.

Arkellor scosse il capo. «Un tempo, quando io ero appena un bambinetto nella granlega di Braith, si faceva un duello quando solamente uno interrompeva un altro, come hai fatto adesso tu. È vero: i vecchi tempi sono andati. Gli uomini di Alto Kavalaan si fanno dei mollaccioni davanti ai miei occhi»:

«Tu pensi che io sia un mollaccione?», chiese calmo Vikary.

«Sì e no, alto-Ferrogiada. Tu sei strano. Possiedi una certa durezza che nessuno può negare, e questa è una buona cosa, ma Avalon ti ha lasciato il puzzo da falsuomo, ti ha toccato con la debolezza e la stoltezza. Non mi piace la tua vacca-betheyn e non mi piacciono i tuoi "amici". Se fosse capitato quando ero più giovane… sarei venuto da te furibondo e ti avrei mostrato l’antica saggezza della granlega, quella che tu pari aver tanto facilmente dimenticato».

«Ci chiami ai duello?», chiese Janacek. «Dici cose forti».

Vikary districò le braccia e fece un gesto vago con la mano. «No, Garse. Lorimaar alto-Braith non ci sta chiamando al duello. Che ne dici, amico altolegato?».

Arkellor attese per diversi momenti, fin troppo prima di rispondere. «No», disse. «No, Jaantony alto-Ferrogiada, non era inteso alcun insulto».

«Nessun insulto è stato acquisito», disse Vikary, sorridendo.

L’altolegato Braith non sorrise. «Buona fortuna», disse malvolentieri. Andò presso la porta a lunghi passi, aspettando solo l’istante che occorse a Dirk per levarsi di torno in gran fretta, poi passò oltre e si avviò verso il tetto. La porta si chiuse alle sue spalle.

Dirk fece per andare verso gli altri, ma il gruppo si stava muovendo. Janacek aggrottò la fronte e fece un cenno con il capo, poi si avviò verso un’altra stanza, velocemente. Gwen si alzò, pallida e scossa e Vikary fece un passo verso Dirk.

«Questa era una cosa che tu non dovevi sentire», disse il Kavalar. «Ma forse servirà ad illuminarti. Comunque mi dispiace che tu fossi presente. Non vorrei che tu avessi la stessa impressione di Alto Kavalaan che ha il Kimdissi».

«Non capisco», disse Dirk. Vikary gli mise un braccio attorno alle spalle e lo trascinò verso la sala da pranzo. Gwen stava subito dietro a loro. «Di che cosa si stava parlando?».

«Ah, di tante cose. Ti spiegherò. Ma ti devo confessare una seconda cosa che non mi è piaciuta: che non fosse ancora stata preparata la colazione che ti era stata promessa». Sorrise.

«Posso aspettare». Entrarono nella sala da pranzo e si sedettero. Gwen era sempre silenziosa e preoccupata. «Com’è che mi ha chiamato Garse?», chiese Dirk. «Kora-qualcosa, che cosa vuol dire?».

Vikary parve esitare. «La parola è korariel. Si tratta di una parola in antico Kavalar. In tutti questi secoli il suo significato originale è cambiato. Oggi e in questo posto, se usata da Garse, o da me, significa protetto. Protetto da noi, dai Ferrogiada».

«Questo è ciò che tu vorresti significasse, Jaan», disse Gwen, con la voce spinosa ed arrabbiata. «Digli il significato vero!».

Dirk aspettò. Vikary incrociò le braccia e gli occhi cominciarono a spostarsi dall’uno all’altra. «Benissimo, Gwen, se lo vuoi tu». Si voltò verso Dirk. «Il vecchio significato è letteralmente proprietà protetta. Spero proprio che tu non ti senta insultato per questo. Non è inteso insulto. Korariel è usato per tutte le persone che non fanno parte di una granlega, ma vengono considerate e rispettate».

Dirk si ricordò delle cose che Ruark gli aveva detto la sera prima, di quelle parole che lui aveva a mala pena percepito in mezzo alla foschia provocatagli dal vino verde. Sentì la rabbia che gli si arrampicava addosso come una marea rossa e dovette farsi forza per tenerla a freno. «Non sono abituato ad essere una proprietà», disse mordacemente, «e non me ne importa niente se sono molto considerato. E da che cosa mi dovresti proteggere?».

«Da Lorimaar e dal suo teyn Saanel», disse Vikary. Si piegò attraverso il tavolo ed afferrò Dirk saldamente per un braccio. «Può darsi che Garse abbia usato la parola un po’ troppo leggermente, t’Larien, però al momento gli deve essere senz’altro sembrata la cosa migliore: una vecchia parola per un vecchio concetto. Sbagliato… sì, non ho difficoltà ad ammetterlo. È sbagliato per te che sei un essere umano e non appartieni a nessuno. Però era la parola giusta da usarsi con uno come Lorimaar alto-Braith, che capisce solo questo e poco altro. Se la cosa ti disturba tanto — e so quanto fastidio dia a Gwen — allora sono enormemente dispiaciuto che il mio Teyn abbia usato questa parola».

«Va bene», disse Dirk, cercando di dimostrarsi ragionevole, «ti ringrazio per le scuse, ma non bastano. Io non so ancora che cosa sta succedendo. Chi era Lorimaar? Che cosa, voleva? E perché dovrei essere protetto da lui?».

Vikary sospirò e lasciò andare il braccio di Dirk. «La questione non si risolve semplicemente rispondendo alla tua domanda. Ti dovrei raccontare la storia del mio popolo, quel poco che so e quel molto che ho immaginato». Si voltò verso Gwen. «Potremmo mangiare mentre parliamo, se siamo tutti d’accordo. Puoi portare la colazione?».

Lei annui e si allontanò, ritornando parecchi minuti più tardi con un grande vassoio ed un’altissima pila di pane nero, tre tipi diversi di formaggio e uova sode con i gusci blu vivace. E birra, si capisce. Vikary si piegò in avanti, in modo da poggiare i gomiti sul tavolo. Gli altri mangiavano e lui parlava.

«Alto Kavalaan è stato un mondo violento», disse. «È il più vecchio dei mondi esterni, fatta eccezione per la Colonia Dimenticata, e la sua lunga storia è una storia di lotte. Purtroppo, questi fatti sono largamente costruiti e leggendari, pieni di bugie etnocentriche. Eppure a queste favole ci si credeva, fino al tempo in cui ritornarono le navi spaziali subito dopo l’Interregno.

«Nelle granleghe dell’Unione Ferrogiada, ad esempio, si insegnava ai bambini che l’universo ha solo trenta stelle ed Alto Kavalaan è al centro. La razza umana si è generata lì, dove Kay Ferro-Fabbro ed il suo teyn Rolando Lupo-Giada nacquero dall’unione tra un vulcano ed una tempesta. Uscirono fumiganti dalla bocca del vulcano e camminarono in un mondo pieno di demoni e di mostri e se ne andarono in giro per diversi anni un po’ qua e un po’ là, avendo varie avventure. Alla fine giunsero in una profonda caverna al di sotto di una montagna e dentro ci trovarono una decina di donne, le prime donne del mondo. Le donne avevano paura dei demoni e non volevano uscire fuori. Allora Kay e Rolando si fermarono, afferrarono bruscamente le donne e le fecero diventare eyn-kethi. La caverna diventò la loro granlega, le donne ebbero molti figli e così cominciò la civiltà dei Kavalari.

«La strada non era delle più facili, ci dice la leggenda. I ragazzi che nascevano dalle eyn-kethi erano della stessa pasta di Kay e Rolando, irosi, pericolosi e con una volontà di ferro. Ci furono un mucchio di litigi. Uno dei figli, l’astuto e malvagio John Nero-Carbone, era solito uccidere i suoi kethi, i suoi fratelli di granlega, in momenti di invidia causati dal fatto che lui non riusciva a cacciare bene come loro. Sperando di acquistare anche lui un po’ della loro abilità e fòrza, cominciò a mangiare i loro corpi. Rolando lo trovò un giorno mentre stava celebrando uno di questi festini e corse dietro al ragazzo per le colline e lo batté con una grande frusta. Dopo di che, John non ritornò a Ferrogiada, ma fondò la sua granlega in una miniera di carbone e per teyn si prese un demone. Così nacque la granlega di altolegati cannibali detta Siti del Carbone Profondo.

«Nello stesso modo vennero fondate le altre granleghe, anche se Ferrogiada dà ben più credito agli altri ribelli di quanto ne abbia dato a Nero John. Rolando e Kay erano dei padroni inflessibili ed era difficile starci assieme. Shan lo Spadaccino, ad esempio, era un bravo ragazzo, forte, che lasciò il suo teyn e la sua betheyn dopo una violenta disputa con Kay, che non aveva rispettato la sua giada-e-argento. Shan fu il fondatore della Fortezza di Scianagate. I Ferrogiada hanno riconosciuto pienamente umana la sua linea, da sempre. Così è stato per quasi tutte le granleghe. Quelle che poi si sono estinte, come i Siti del Carbone Profondo, sono piombate ben presto nella leggenda.

«Queste leggende sono piuttosto ampie e molte sono anche illuminanti. Ad esempio c’è la storia dei kethi disobbedienti. I primi Ferrogiada sapevano che l’unico posto in cui l’uomo potesse abitare si trovava sotto terra, una fortezza nella roccia, una caverna o una miniera. Eppure quelli che vennero dopo non ci credettero; le pianure parevano aperte ed invitanti ai loro occhi ingenui. Per cui uscirono, con le eyn-kethi ed i bambini ed eressero alte città. Questa fu la loro follia. Dal cielo caddero fuochi che li distrussero, fusero e contorsero le torri che avevano eretto, bruciarono gli uomini delle città ed i sopravvissuti fuggirono terrorizzati sottoterra, dove le fiamme non avrebbero potuto raggiungerli. E quando le loro eyn-kethi ebbero dei bambini, questi furono dei demoni, non più degli uomini. A volte si aprirono la strada al di fuori del grembo materno mangiando le carni della madre».

Vikary fece una pausa e trasse un sorso dal boccale. Dirk aveva quasi finito la colazione e spinse un paio di croste di formaggio sul piatto, senza nessun motivo e corrugò la fronte. «È una cosa molto affascinante», disse, «Ma non vedo che cosa c’entri, temo».

Vikary bevve di nuovo e diede un rapido morso al formaggio. «Abbi pazienza», disse.

«Dirk», disse Gwen asciutta, «le storie delle quattro coalizioni di granlega che sono sopravvissute sono sotto molti aspetti differenti, ma ci sono due grossi avvenimenti sui quali tutti sono d’accordo. Questi sono le pietre miliari del mito dei Kavalari. Ognuno di loro ha una diversa versione dell’ultima storia, cioè l’incendio delle città. Viene chiamato il Tempo del Fuoco e dei Demoni. Una leggenda successiva, la Peste Dolorosa, viene ripetuta in pratica parola per parola in tutte le granleghe».

«Vero», disse Vikary. «Queste storie… questi sono solo i resoconti degli antichi giorni su cui dovevo lavorare io. Fin da quando sono nato io, non c’era nessun Kavalar sano di mente che credesse a queste cose».

Gwen tossicchiò significativamente.

Vikary la guardò e sorrise. «Sì, Gwen mi corregge», disse. «Ci sono pochi Kavalari sani di mente che ci credono». Poi proseguì. «Eppure quelli che non sono convinti non hanno molte altre cose in cui credere, nessuna verità alternativa a cui aderire. Ai più la cosa non interessa granché. Quando sono ripresi i viaggi spaziali e ad Alto Kavalaan sono arrivati i Lupani, i Toberiani e più tardi i Kimdissi, ci hanno trovati tutti ansiosi di imparare la perduta arte della tecnologia ed infatti ci insegnarono proprio questo, in cambio delle nostre gemme e dei metalli pesanti. In breve tempo avemmo le navi spaziali, ma ci mancava ancora una storia». Sorrise. «Durante i miei studi su Avalon, io ho scoperto le verità che attualmente possediamo. Erano poca cosa, però abbastanza. Nascoste nella grande banca di dati dell’Accademia, ho trovato le registrazioni relative alla colonizzazione originaria di Alto Kavalaan.

«È stato verso la fine della Doppia Guerra. Un gruppo di coloni parti da Tara per raggiungere un mondo al di là del Velo Tentatore, dove speravano di trovare la pace, sfuggendo agli Hrangani ed alle razze-schiave degli Hrangani. I computer indicarono che per qualche tempo ci riuscirono. Scoprirono un pianeta brullo e straniero, eppure ricco. In breve tempo costituirono una colonia ad alto livello, basata sulle operazioni minerarie. Nelle registrazioni c’è traccia dei traffici tra Tara e la Colonia per circa vent’anni, poi il pianeta al di là del Velo è improvvisamente scomparso dalla storia umana. Tara quasi non se ne accorse. Questi furono gli anni più cruenti di tutta la guerra».

«E tu pensi che quel pianeta fosse Alto Kavalaan?», chiese Dirk.

«È un fatto noto», rispose Vikary. «Le coordinate coincidono, così come altri affascinanti pezzi di informazione. La colonia si chiamava Cavanaugh, ti dice niente? Forse anche più impressionante, il capo della prima spedizione si chiamava Kay Smith, cioè Kay Fabbro, una donna».

Gwen sorrise a sentire queste parole.

«C’era anche qualcosa d’altro che scoprii», continuò Vikary, «quasi per caso. Ti devi ricordare che la maggior parte dei mondi esterni non furono mai coinvolti nella Doppia Guerra. Le civiltà del Margine sono Figlie del Collasso, o addirittura comparvero nel post-collasso. Nessun Kavalar ha mai visto un Hrangano, né tanto meno una delle razze-schiave. Nemmeno io, finché non venni su Avalon e non cominciai ad interessarmi degli aspetti più vasti della storia umana. Allora, in un resoconto che parlava del conflitto nei convolvi, vidi delle illustrazioni che riproducevano vari schiavi semi-senzienti degli Hrangani, che avevano lo scopo di spaventare le truppe dei mondi che secondo loro non erano meritevoli della loro immediata attenzione. Senza dubbio, dato che tu sei un uomo dei convolvi, conosci queste razze aliene, mio caro Dirk. I guerrieri notturni Hruun, che erano avvezzi alle alte gravità, di forza immensa ed estremamente selvaggi, quelli che vedevano bene negli infrarossi. I Dattiloidi alati, che hanno preso il loro nome perché somigliavano più o meno a certe bestie preistoriche terrestri. Ma peggiori ancora erano i githyanki, i succhiatori d’anima, con i loro terribili poteri psi».

Dirk annuiva. «Ho visto un paio di Hruun durante i miei viaggi. Le altre razze sono quasi estinte, non è vero?».

«Può darsi», disse Vikary. «Ho osservato a lungo le illustrazioni che avevo trovato ed ogni tanto ritornavo a guardarle. C’era qualcosa che mi disturbava. Alla fine riuscii ad intrawedere la verità. Gli Hruun, i dattiloidi ed i githyanki… ogni razza conservava l’aspetto delle cariatidi che sono poste davanti agli ingressi di ogni granlega Kavalari. Capito Dirk? Erano i demoni dei nostri miti!».

Vikary si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, continuando a parlare con voce piana e controllata e dimostrando il proprio eccitamento nel solo atto di andare su e giù. «Quando Gwen ed io ritornammo su Alto Kavalaan, io esposi la mia teoria, basata sulle vecchie leggende, sul ciclo dei Demoncanti del grande poeta-avventuriero Jamis-Leone Taal e sulla banca di dati dell’Accademia. Traduci tutto in termini storici: la colonia di Cavanaugh era, con le sue città, sulle pianure ed eseguiva operazioni minerarie. Gli Hrangani livellano le città con delle bombe nucleari. I sopravvissuti vivono solo in profondi rifugi, altrimenti nelle miniere. Per appropriarsi del pianeta, gli Hrangani fanno atterrare anche dei contingenti delle loro razze-schiave. Poi se ne vanno e non ritornano più per un secolo. Le miniere diventano le prime granleghe, altre sono costruite in seguito, scavate profondamente nella pietra. Dato che le città non ci sono più, i minatori si orientano verso un tipo di cultura che garantisce la sopravvivenza. Per innumerevoli generazioni combattono contro le razze-schiave e tra di loro. Ad un certo momento, ecco che sorgono delle mutazioni umane, tra le rovine radioattive delle città…».

A questo punto Dirk scattò in piedi. «Jaan», disse.

Vikary smise di camminare, si voltò e corrugò la fronte.

«Sono stato maledettamente paziente», disse Dirk. «Capisco che queste sono cose che a te interessano moltissimo. È il tuo lavoro. Ma io voglio delle risposte e le voglio subito». Alzò una mano e conteggiò le domande sulle dita. «Chi è Lorimaar? Che cosa voleva? E perché io devo essere protetto da lui?».

Anche Gwen si alzò. «Dirk», disse lei. «Jaan si limita a fornirti le informazioni base che ti servono per capire. Cerca di non…».

«No!», Vikary la fece zittire con un cenno della mano. «No, t’Larien ha ragione, io mi entusiasmo un po’ troppo quando parlo di queste cose». Poi disse a Dirk: «Allora ti risponderò direttamente. Lorimaar è un Kavalar assai tradizionale, talmente tradizionale che è fuori posto anche su Alto Kavalaan. È una creatura di un’altra epoca. Ti ricordi l’altra mattina, quando ti ho dato la spilla e sia io che Garse esprimemmo preoccupazione per la tua salute al calar del giorno?».

Dirk annuì. Sollevò una mano e toccò la piccola spilla, strettamente attaccata al suo colletto. «Sì».

«Lorimaar alto-Braith ed altri del suo tipo erano il motivo per cui noi eravamo preoccupati, t’Larien. Le ragioni non sono facili da spiegare».

«Permetti», disse Gwen. «Dirk, ascolta. I Kavalari altolegati, la gente delle granleghe, si sono sempre rispettati l’uno con l’altro attraverso i secoli… Be’, hanno combattuto e guerreggiato, a tal punto che una ventina di granleghe e di coalizioni sono andate distrutte completamente e sono rimasti solo quattro grandi gruppi, che sono le granleghe attuali. Comunque si riconoscevano l’un l’altro come esseri umani, soggetti alle regole dell’altaguerra ed al codice duellesco dei Kavalari. Ma c’erano altri, sai… gente solitaria delle montagne, gente che abitava al di sotto delle rovine delle città, agricoltori. Si tratta di idee — mie e di Jaan — ma il punto è che questa gente effettivamente esiste, sopravvissuti al di fuori dei campi minerari. Bene, gli altolegati non riconoscono questi sopravvissuti come autentici uomini e donne. Vedi, Jaan ha lasciato qualcosa fuori da tutta questa storia… Oh, insomma, calmati. Lo so che era una storia lunga, ma era importante. Tu ti ricordi di quelle tre ragazze-schiave degli Hrangani che corrispondevano ai demoni del mito Kavalar? Bene, l’unico problema era che c’erano tre razze-schiave, ma c’erano quattro tipi di demoni. I demoni più cattivi e pericolosi erano i falsuomini».

Dirk aggrottò la fronte. «Falsuomini? Lorimaar mi ha chiamato falsuomo. Pensavo che volesse dire qualcosa come non-uomo, più o meno».

«No», disse Gwen. «Non-uomo è un termine comune, mentre falsuomo è usato solo su Alto Kavalaan. Cambia-aspetto, li chiama la leggenda, licantropi e mentitori. Possono assumere qualsiasi forma, ma assumono preferibilmente quella di uomini e cercano di infiltrarsi nelle granleghe. Una volta dentro, travestiti da uomini, possono colpire in segreto ed uccidere.

«Questi altri superstiti — gli agricoltori, le famiglie delle montagne, i mutanti, gli sfortunati, gli altri esseri umani che stavano su Cavanaugh — questi erano i falsuomini, i licantropi. Loro non potevano arrendersi, perché le regole dell’altaguerra per loro non venivano applicate. I Kavalari li sterminarono, mai credendo che potessero essere umani. Erano considerati degli animali alieni. Dopo parecchi secoli, quelli che erano rimasti venivano cacciati per sport. Gli uomini delle granleghe cacciano sempre a due a due, teyn-e-teyn, in modo che ognuno dei due possa giurare sull’umanità del compagno quando fanno ritorno».

Dirk pareva atterrito. «E questa cosa va ancora avanti?».

Gwen si strinse nelle spalle. «Raramente. I Kavalari moderni ammettono lo sbaglio dei loro antenati. Ancor prima che ritornassero i viaggi spaziali, Ferrogiada e Rossacciaio, le coalizioni più progressiste, avevano bandito la caccia ai falsuomini. I cacciatori avevano un’usanza. Quando non volevano uccidere immediatamente un falsuomo, per una ragione qualsiasi, ma lo volevano tenere come loro preda personale per più tardi, lo segnavano come korariel e nessun altro lo poteva toccare, pena la possibilità di essere sfidato a duello. I Ferrogiada ed i Rossacciaio allora, andarono fuori a prendere tutti i falsuomini che potevano, li sistemavano nei villaggi e cercavano di riportarli ad un buon grado di civiltà, perché nel frattempo erano diventati selvaggi. Tutti quelli che prendevano venivano detti korariel. Ci fu anche una breve altaguerra per queste cose, Ferrogiada contro Scianagate. Vinse Ferrogiada e korariel assunse il nuovo significato di proprietà protetta».

«E Lorimaar?», domandò Dirk. «Che cosa c’entra lui?».

Lei sorrise maliziosamente; per un secondo gli fece venire in mente Janacek. «In ogni cultura ci sono cose dure a morire, cose credute vere, dogmatiche. Braith è la più conservatrice delle coalizioni e per lo meno un decimo di loro — secondo le stime di Jaan — crede ancora nei falsuomini. Si tratta soprattutto di cacciatori, che vogliono crederci a tutti i costi. Sono quasi tutti dei Braith. Lorimaar ed il suo teyn, oltre ad un pugno di altri kethi sono qui per cacciare. Il gioco è più vario che non su Alto Kavalaan e non c’è nessuno che li obblighi a seguire certe regole del gioco. Infatti qui non ci sono regole. I patti in vigore per il festival sono caduti parecchio tempo fa. Lorimaar può uccidere chiunque».

«Anche gli esseri umani», disse Dirk.

«Se riescono a trovarli», disse lei. «Larteyn ha venti abitanti, credo… ventuno con te. Noi ed un poeta chiamato Kirak Rossacciaio Cavis, che abita su di una vecchia torre d’osservazione ed un paio di regolari cacciatori di Scianagate. Gli altri sono Braith. Cacciano i falsuomini e fanno altri giochi quando non riescono a trovare dei falsuomini. Una generazione più vecchia di quanto è Jaan, per lo più, e sono tutti assetati di sangue. Non sanno niente delle vecchie cacce, tranne le storie che hanno sentito nella loro granlega e forse qualche uccisione illecita di uomini che hanno visto sulle Colline Lameraane. Conoscono solo le leggende. Tutti quanti sono pieni di tradizioni e di frustrazioni».

Gwen sorrise.

«E la cosa continua? Nessuno fa niente?».

Jaan Vikary incrociò le braccia. «Ti devo fare una confessione t’Larien», disse in tono grave. «Ti abbiamo mentito, ieri. Garse ed io, quando tu ci avevi chiesto perché fossimo qui. Per la verità, sono stato io a mentirti. Garse ti aveva detto per lo meno una parziale verità… dobbiamo proteggere Gwen. Lei è una che viene da altri mondi, non è una Kavalar ed i Braith la ucciderebbero volentieri dichiarandola un falsuomo, se non avesse la protezione di Ferrogiada. Lo stesso vale per Arkin Ruark, che non sa niente di tutto questo, nemmeno che ha la nostra protezione. Eppure è così. Anche lui è korariel di Ferrogiada.

«Comunque la ragione per cui siamo qui va al di là di queste motivazioni. Era una cosa vitale per me lasciare Alto Kavalaan nel momento in cui l’ho fatto. Quando ho assunto i miei aitinomi ed ho pubblicato le mie teorie, sono immediatamente diventato assai potente nel consiglio degli altolegati ed anche molto odiato. Molti uomini di religione hanno considerato un insulto personale la mia affermazione che Kay Ferro-Fabbro era una donna. Fui sfidato sei volte, solo per quel motivo. Nell’ultimo duello Garse uccise un uomo, mentre io ferii il suo teyn in malo modo, sicché non potrà mai più camminare. Non volevo che una cosa del genere continuasse. Pareva che qui a Worlorn non ci fossero nemici. Alle mie sollecitazioni, il consiglio di Ferrogiada assegnò il progetto ecologico a Gwen.

«Però, nello stesso tempo, venni a conoscenza delle attività di Lorimaar quaggiù. Lui aveva già guadagnato il suo primo trofeo e ne era giunta voce a Braith e quindi a noi. Garse ed io discutemmo della cosa e decidemmo di por fine a questa attività. La situazione è estremamente esplosiva. Se i Kimdissi venissero a sapere che i Kavalari stanno di nuovo dando la caccia ai falsuomini propagherebbero la notizia a tutti i mondi esterni. Non corre molta simpatia tra Kimdiss ed Alto Kavalaan, come tu certo saprai. Noi non temiamo i Kimdissi, che hanno aderito ad una religione e ad una filosofia di non-violenza, come anche gli Emereli. Altri mondi del Margine sono più pericolosi. I Lupani sono sempre in movimento, erratici; i Toberiani possono por termine ai loro commerci se sanno che i Kavalari cacciano i loro turisti pelandroni. Forse anche Avalon si rivolterebbe contro di noi, se tali notizie dovessero arrivare al di là del Velo e noi saremmo banditi dall’Accademia. Questo è un rischio che non possiamo correre. Lorimaar ed i suoi amici non se ne curano ed i consigli delle granleghe non possono farci niente. Non hanno alcuna autorità qui e solamente i Ferrogiada si preoccupano un po’ di quello che capita su di un mondo morente a parecchi anni luce di distanza. Sicché Garse ed io siamo da soli a combattere contro i cacciatori di Braith.

«Fino ad adesso non siamo ancora giunti ad un conflitto aperto. Viaggiamo in lungo ed in largo, visitiamo tutte le città, a cercare quelli che ancora abitano su Worlorn. Tutti quelli che troviamo li facciamo diventare korariel. Ne abbiamo trovati pochi… un bambino che viveva allo stato selvaggio, abbandonato durante il festival, alcuni Lupani che andavano attorno a Città di Haapala, un cacciatore di ferrocorni di Tara. A tutti ho dato un segno della mia stima», sorrise, «una piccola spilla di ferro fatta a forma di banscea. È una specie di segnale di preavviso, che serve a far capire ad un cacciatore che è troppo vicino a qualcosa che non deve cacciare. Se toccassero qualcuno che indossa la mia spilla, uno dei miei korariel, sarebbe un’offesa meritevole di un duello. Lorimaar può blaterare ed arrabbiarsi fin che vuole, ma non farebbe mai un duello con noi. Sarebbe la sua fine».

«Capisco», disse Dirk. Allungò una mano verso il colletto, aprì la piccola spilla di ferro e la gettò sul tavolo tra i resti della loro colazione. «Be’, è una cosa simpatica, ma ti puoi riprendere la tua spilla. Io non appartengo a nessuno. Ho badato a me stesso per tanto tempo e posso continuare a badare a me anche adesso».

Vikary si incupì. «Gwen», disse, «non lo puoi convincere che sarebbe più sicuro se…».

«No», disse lei decisa. «Apprezzo ciò che stai tentando di fare, Jaan, tu lo sai. Ma capisco ciò che prova Dirk. Non piace nemmeno a me di essere protetta e rifiuto di essere considerata proprietà». La sua voce fu secca, decisa.

Vikary la fissò senza speranza. «Benissimo», disse. Raccolse la spilla che Dirk aveva scartato. «Ti devo dire qualcosa t’Larien. Siamo stati più fortunati dei Braith a trovare la gente, perché noi abbiamo cercato nelle città, mentre loro vanno a cacciare nelle foreste, in quanto sono rimasti irrevocabilmente schiavi delle vecchie abitudini. È ben raro che riescano a trovare qualcuno nelle foreste. Fino ad adesso non hanno mai capito ciò che facevamo Garse ed io. Ma questa mattina Lorimaar alto-Braith è venuto da me assai rattristato perché il giorno prima erano usciti lui ed il suo teyn per seguire il loro gioco e non erano riusciti a giocare.

«La loro preda era un uomo che indossava un aeroscooter e volava da solo sulla montagna». Sollevò la spilla a forma di banscea. «Senza di questa», disse, «ti avrebbe costretto ad atterrare o ti avrebbe abbattuto a colpi di laser, ti avrebbe rincorso in mezzo alla foresta e finalmente ti avrebbe ucciso». Si mise la spilla in tasca, fissò significativamente Dirk per un minuto e se ne andò.

4

«È stata una sfortunata eventualità che tu ti sia imbattuto in Lorimaar stamattina», disse Gwen quando Jaan se ne fu andato. «Non c’era nessuna ragione per immischiarti in questa faccenda e speravo di doverti risparmiare tutti i cupi dettagli. Spero che considererai queste informazioni confidenziali quando lascerai Worlorn. Lascia che siano Garse e Jaan a preoccuparsi dei Braith. Non c’è nessun altro che ci possa fare qualcosa, comunque, tranne che parlare della cosa e fare delle maldicenze sugli innocenti che stanno su Alto Kavalaan. E soprattutto, non parlarne ad Arkin! Lui detesta i Kavalari ed in un attimo potrebbe arrivare su Kimdiss». Si alzò in piedi. «Per il momento, suggerirei di parlare di argomenti più piacevoli. Abbiamo pochi momenti da trascorrere insieme; posso farti da guida turistica per poco, perché poi devo ritornare al mio lavoro. Non c’è ragione per permettere a quei macellai di Braith di rovinarci i pochi giorni che abbiamo».

«Come vuoi tu», rispose Dirk, ansioso di farle piacere, ancora scosso dall’intera faccenda di Lorimaar e dei falsuomini. «Hai in mente qualcosa?».

«Ti potrei condurre di nuovo nelle foreste», gli disse Gwen. «Cambiano e cambiano continuamente. Ci sono centinaia di cose affascinanti da vedere nei boschi: laghi pieni di pesci più grandi di noi, montagne che sono nidi di insetti più grandi di questa casa, mentre gli insetti sono più piccoli di un’unghia; poi c’è un’incredibile sistema di caverne che è stato scoperto da Jaan dall’altra parte delle montagne… Jaan è uno speleologo nato. Comunque direi che per oggi è meglio andarci piano. È inutile versare altro sale nelle ferite di Lorimaar, altrimenti lui ed il suo teyn ci cacceranno lo stesso e Jaan si troverà nei guai. Oggi ti farò vedere le città. Anche loro hanno un fascino ed una macabra bellezza. Come ha detto Jaan, Lorimaar non ha ancora pensato ad andare a cacciare lì».

«Va bene», disse Dirk, con scarso entusiasmo.

Gwen si vestì in fretta e lo condusse fino al tetto. Gli scooter aerei erano ancora là dove li avevano lasciati loro il giorno prima. Dirk si piegò per prenderli, ma Gwen gli prese di mano le sottili strisce di metallo e le gettò sui sedili di dietro della manta grigia. Poi prese gli stivali da volo e le apparecchiature di controllo e le buttò davanti. «Oggi niente scooter», disse lei. «Dovremo fare un percorso troppo lungo».

Dirk annuì, poi tutti e due piroettarono al di sopra delle ali dell’auto e si misero sui sedili anteriori. Il cielo di Worlorn gli dava l’impressione di star tornando da una spedizione e invece stava partendo.

Il vento gridava attorno all’aerauto e Dirk tenne un momento l’asta di controllo in modo che Gwen avesse tempo di legarsi i lunghi capelli neri dietro. Anche la sua zazzera grigio-bruna andava da tutte le parti come se fosse presa da folli convulsioni mentre correvano per il cielo, ma era così concentrato nei suoi pensieri che nemmeno se ne accorgeva, non gli davano nemmeno fastidio.

Gwen mantenne l’apparecchio alto al di sopra delle montagne e si diresse verso sud. Il placido Comune con le tonde colline erbose ed i fiumi tortuosi si stendeva in distanza alla loro destra, fin dove il cielo scendeva a toccarlo. Lontano sulla sinistra, quando le montagne si abbassarono, riuscirono a scorgere il bordo delle foreste. Anche da così in alto si vedevano le aree infestate dai soffocatori… gialli cancri che si stendevano in mezzo al verde scurissimo.

Camminarono per quasi un’ora. Dirk era perduto nei suoi pensieri e cercava di mettere una cosa assieme all’altra senza riuscirci. Alla fine Gwen lo fissò con un sorriso. «Mi piace volare con l’aerauto», disse. «Anche con questa, Mi fa sentire libera e pulita, al di fuori di tutti i problemi che ci sono laggiù. Capisci cosa voglio dire?».

Dirk annuì. «Sì. Non sei la prima a dire una cosa del genere. C’è un mucchio di gente che ha le stesse sensazioni. Anch’io».

«Sì», disse lei. «Di solito ti portavo a spasso, ti ricordi? Su Avalon? Avrei volato per ore ed ore, dall’alba a! tramonto e tu te ne stavi seduto con un braccio fuori dal finestrino e guardavi lontano ed in basso con lo sguardo sognante sul viso». Lei sorrise ancora.

Lui se ne ricordava. Quei viaggi erano stati specialissimi. Non avevano mai parlato molto, solo ogni tanto si guardavano e tutte le volte che i loro occhi si incontravano, ridevano. Era inevitabile; anche se lui cercava di non farlo, quella risata arrivava sempre. Ma adesso sembrava tutto terribilmente lontano e perduto.

«Perché hai pensato a questo?», chiese lui.

«Sei stato tu che me lo hai fatto pensare», disse lei e fece un gesto. «Te ne stai seduto comodamente. Ah, Dirk. Tu stai barando, lo sai. Penso che tu l’abbia fatto apposta, per farmi pensare ad Avalon, per farmi sorridere e per farmi desiderare di abbracciarti ancora. Bah».

E risero assieme.

E Dirk, quasi senza pensarci, si avvicinò all’altro sedile e le mise un braccio attorno. Lei lo guardò in faccia brevemente, poi si strinse nelle spalle ed il cipiglio si trasformò in un sospiro rassegnato ed alla fine in un sorriso riluttante. E non si scostò.

Andarono a vedere le città.

La città del mattino era una tenera visione color pastello incastonata in un’ampia valle verde. Gwen fece posare l’aerauto al centro di una piazza a terrazzi e percorsero a piedi i grandi viali per un’ora. Era una città graziosa, ricavata da delicati marmi venati di rosa e pallide pietre. Le strade erano larghe, a curve sinuose, gli edifici bassi e parevano delle fragili strutture di legno levigato e di vetri sporchi. Dappertutto trovarono piccoli parchi ed ampi viali, e in ogni luogo c’era dell’arte: statue, dipinti, murali sui marciapiedi e sui lati delle costruzioni, giardini rocciosi ed alberi-scultura ancora vivi.

Ma ormai i parchi erano desolati ed era cresciuta un’erba selvatica verdazzurra. Rampicanti neri strisciavano lungo i marciapiedi, le colonne ai margini del parco erano state quasi tutte spogliate ed i più robusti alberi-scultura erano cresciuti formando immagini grottesche che i loro creatori non si sarebbero mai sognati.

Un fiume azzurro che si muoveva lentamente divideva e suddivideva la città, muovendosi da una e dall’altra parte seguendo un corso sinuoso e ritorto come le strade lungo le sue rive. Gwen e Dirk si sedettero per un po’ presso l’acqua, all’ombra di un ponte pedonale di legno cesellato ed osservarono il riflesso di Grasso Satana che galleggiava rosso e pigro sull’acqua. E mentre erano lì seduti, lei gli raccontò di come era un tempo la città, ai giorni del festival, prima che entrambi venissero su Worlorn. L’aveva costruita il popolo di Kimdiss, disse lei, e l’avevano chiamata Dodicesimo Sogno.

Forse adesso la città stava sognando. Se così era, questo sarebbe stato il suo sogno finale. Le sue sale a volta echeggiavano vuote, i suoi giardini erano giungle cupe che presto sarebbero diventate cimiteri. Dove un tempo le strade risuonavano di risa, ora l’unico suono era il rugginoso fruscio delle foglie morte soffiate via dal vento. Se Larteyn era una città morente, rifletté Dirk mentre se ne stava seduto sotto il ponte, allora Dodicesimo Sogno era una città morta.

«Arkin voleva mettere qui la base della nostra operazione», disse Gwen. «Però noi abbiamo opposto il nostro veto. Se lui ed io dovevamo lavorare assieme, era certo meglio che abitassimo nella stessa città ed Arkin avrebbe voluto che fosse Dodicesimo Sogno. Per me non andava bene e non so se mi abbia perdonato. I Kavalari hanno costruito Larteyn come una fortezza ed i Kimdissi hanno fatto questa città come un’opera d’arte. Nei vecchi giorni era anche più bella, immagino. Hanno smantellato gli edifici migliori ed hanno tolto le sculture più belle dalle piazze quando è finito il festival».

«Tu hai votato per Larteyn?», disse Dirk. «Per abitarci?».

Lei scosse il capo. I suoi capelli, che adesso non erano legati, oscillarono leggermente e toccarono Dirk che sorrise. «No», disse lei. «Jaan lo voleva ed anche Garse. Io… be’, nemmeno io ho votato per Dodicesimo Sogno. Non avrei mai potuto abitare qui. Il sentore di putredine è troppo forte. Sono d’accordo con Keats, sai. Non c’è niente che sia così melanconico come la morte della bellezza. C’era molta più bellezza qui di quanta ce ne sia mai stata a Larteyn, anche se Jaan brontolerebbe a sentirmelo dire. Questo è il posto più triste, quindi. Inoltre, a Larteyn c’è un po’ di compagnia, perlomeno, anche se si tratta di Lorimaar e della sua banda. Qui non è rimasto nessuno, tranne i fantasmi».

Dirk guardò dall’altra parte dell’acqua, dove il grande sole rosso, dissanguato e catturato, ballonzolava misteriosamente sulle onde lente. E quasi si riuscivano a vedere i fantasmi di cui lei aveva parlato, spiriti che si affollavano presso le rive da entrambi i lati e cantavano lamenti per cose da gran tempo perdute. E ce n’era anche un altro, uno spettro unicamente suo: un barcaiolo di Braque, che scendeva lungo il fiume, spingendo un lungo palo nero. Veniva per Dirk, quel barcaiolo, e si avvicinava, si avvicinava. E la barca nera che guidava era bassa sull’acqua, piena fino all’orlo di vuoto.

Così si alzò e spinse via Gwen, senza dir niente, ma voleva andarsene via. Ed essi fuggirono dai fantasmi, verso il terrazzo dove li attendeva l’aerauto grigia.

Poi furono di nuovo in alto, per un secondo interludio di vento e di cielo e pensieri silenziosi. Gwen volò ancor più a sud e poi ad est e Dirk si guardava attorno, pensava ed era tranquillo. Ogni tanto lei lo avrebbe guardato e, senza volerlo, avrebbe sorriso.

Alla fine giunsero al mare.

La città del pomeriggio era stata costruita lungo la riva di una baia frastagliata dove delle onde crestate verdescuro si rompevano contro pontili putridi. Un tempo si era chiamata Musquel-Marina, disse Gwen mentre le giravano attorno in lente spirali avvolgenti. Anche se era stata costruita con le altre città di Worlorn, c’era un’aria di antico lì attorno. Le strade di Musquel erano come serpenti dalla schiena spezzata, tortuosi viali rappezzati su cui si sporgevano torri di mattoni multicolori. Era una città di mattoni. Mattoni azzurri, mattoni rossi, gialli, verdi, arancioni, mattoni dipinti, a strisce ed a pallini, mattoni messi assieme con cemento nero come l’ossidiana, oppure rosso come Satana nel cielo, sbattuti assieme in pazzesche forme contrastanti. Anche più vistosi erano i tendoni dipinti delle bancarelle dei mercanti ancora allineate nelle strade di transito ed abbandonate sui deserti moli di pietra.

Atterrarono su di un molo che pareva più robusto degli altri, per un po’ ascoltarono i frangenti, poi si avviarono per la città. Tutto vuoto… tutta polvere. Le strade erano spazzate dal vento ed abbandonate, le cupole e le torri a cipolla erano vuote ed il grande sole grasso nel cielo dipingeva tutto con i suoi colori un tempo allegri. I mattoni si sbriciolavano; la polvere era dappertutto, multicolore e faceva tossire. Musquel non era una città costruita bene ed adesso era morta come Dodicesimo Sogno».

«È primitiva», disse Dirk in mezzo alle rovine. Si trovavano nel punto di incontro di due viali dove era stato scavato un profondo pozzo circondato da pietre. Sotto sbatteva l’acqua nera. «Pare tutto di epoca prespaziale e si direbbe che la cultura fosse dello stesso tipo. Braque è una cosa del genere, ma non a questo punto. Posseggono qualcosa della vecchia tecnologia, brandelli e accenni, per ciò che la loro religione non vieta. Si direbbe che Musquel non avesse niente».

Gwen annuì, facendo scorrere la mano sulla parte superiore del pozzo, lanciando una manciata di polvere e pietruzze a cadere nell’oscurità. La giada-e-argento scintillava di rosso cupo al suo braccio sinistro e colpiva gli occhi di Dirk che doveva di nuovo chiudere le palpebre e chiedersi perché. Che cos’era? Un marchio di schiavitù, o un segno d’amore, che cosa? Ma cacciò via quei pensieri, perché non voleva sentirli.

«Il popolo che ha costruito Musquel aveva pochissimo», stava dicendo Gwen. «Venivano dalla Colonia Dimenticata, che è a volte chiamata anche Lethelandia dagli altri abitanti dei mondi esterni. Ma quelli che ci abitano la chiamano Terra. Su Alto Kavalaan, i suoi abitanti sono chiamati la Gente Perduta. Chi sono, come hanno raggiunto il loro mondo, da dove sono venuti…». Lei sorrise e si strinse nelle spalle. «Nessuno lo sa. Erano già qui prima dei Kavalari, comunque, e può darsi che ci fossero già prima della Mao Tse-tung, che la storia ricorda come la prima nave che abbia attraversato il Velo Tentatore. I Kavalari tradizionali sono sicuri che la Gente Perduta sia formata da falsuomini e da demoni Hrangani, ma essi hanno dato la prova di poter avere rapporti fecondi con gli altri umani provenienti dai mondi meglio conosciuti. Ma la Colonia Dimenticata è soprattutto un globo solitario, che non ha molti interessi nello spazio. Hanno una cultura dell’età del bronzo, sono più che altro pescatori e badano a se stessi».

«Mi stupisce, allora, che siano venuti fin qui», disse Dirk, «o che si siano dati da fare a costruire una città».

«Eh», lei disse sorridendo e staccando delle pietruzze dai mattoni sgretolati per gettarle in fondo al pozzo in cui facevano dei piccoli tonfi. «Ma tutti dovevano costruire una città, tutte e quattordici le culture dei mondi esterni. L’idea era questa. Lupania aveva trovato la Colonia Dimenticata alcuni secoli prima, così Lupania e Tober si sono messi d’accordo ed hanno portato qui la Gente Perduta. Loro non posseggono delle navi spaziali. Sul loro mondo facevano i pescatori, così hanno fatto i pescatori anche qui. È stata sempre Lupania, assieme al Mondo dell’Oceano Nerovino che hanno preparato un mare per loro. Pescavano con delle reti intrecciate usando delle barchette. Erano omuncoli neri e donne nude fino in vita e friggevano il pescato in forni all’aperto per i visitatori. Avevano bardi e cantanti di strada che rendevano allegri i loro viali. Tutti facevano una sosta a Musquel durante il festival, per sentire i loro strani miti e per mangiare il pesce fritto, oltre ad affittare le barche. Ma non credo che la Gente Perduta amasse molto questa città. Dopo un mese che il festival era finito se ne erano già andati tutti. Non si sono portati via nemmeno i banchetti e si possono ancora trovare dei coltelli da pescatori, abiti e delle ossa se si va in giro a cercare per le case».

«Tu ci sei andata?».

«No. Ma l’ho sentito dire. Kirak Rossacciaio Cavis, il poeta che abita a Larteyn, è stato qui una volta, ha girovagato un po’ ed ha scritto delle canzoni».

Dirk si guardò attorno, ma non c’era niente da vedere. Mattoni che svanivano e strade vuote, finestre senza vetri come le orbite di migliaia di occhi ciechi, tende di bancarelle dipinte che svolazzavano rumorosamente nel vento. Niente. «Un’altra città di fantasmi», commentò.

«No», disse Gwen. «No, io non la penso così. La Gente Perduta non ha mai dato la sua anima a Musquel, o a Worlorn. I loro fantasmi se ne sono tutti andati a casa con loro».

Dirk rabbrividì ed improvvisamente la città gli parve anche più vuota di prima. Più vuota del vuoto. Era una strana idea. «Ma l’unica città in cui c’è della vita è Larteyn?», chiese.

«No», disse lei, voltandosi dall’altra parte. Camminarono assieme per i viali, ritornando verso la costa. «No, ti mostrerò della vita, adesso, se vuoi. Vieni».

Erano di nuovo in aria e correvano nell’oscurità che si andava addensando. Avevano consumato quasi tutto il pomeriggio per raggiungere Musquel e per visitarla. Grasso Satana era basso sull’orizzonte occidentale ed uno dei suoi quattro attendenti gialli era già sceso fuori vista. Era di nuovo il tramonto, di fatto oltre che nell’apparenza.

Questa volta prese i comandi Dirk, inarrestabile, mentre Gwen se ne stava seduta accanto a lui con la mano in quella di lui e gli indicava la direzione. Il giorno se ne era quasi andato tutto e lui aveva ancora tante cose da dire, tante cose da decidere. Eppure non aveva ancora fatto niente. Tra poco, però, promise a se stesso mentre volavano, tra poco.

L’aerauto ronzava pianissimo, quasi non si sentiva, rispondeva al suo tocco leggero. La terra sotto si faceva scura ed i chilometri passavano. Avanti, gli aveva detto Gwen, avrebbero trovato gente viva, ad ovest, sempre ad ovest, verso il tramonto.

La città della sera era un’unica costruzione d’argento, con i piedi ancorati sulle colline ondulate, lontano ed il capo tra le nuvole, due chilometri più su. Era una città di luci, coi fianchi metallici e privi di finestre che scintillavano di una luminosità al calor bianco. La luce si arrampicava lungo il fuso svettante, corruscante, lampeggiante, ad ondate. Cominciava dal lontano fondo, dove la città era profondamente ancorata alla roccia primeva, poi saliva, si arrampicava e diventava sempre più decisamente brillante man mano che la città si innalzava e si affusolava come un ago gigantesco. L’onda di luce saliva più in fretta e più in alto, su per quell’incredibile salita, fino a raggiungere quella spira coronata di nuvole in un bagliore di gloria accecante. Ed in quel momento altre tre ondate avevano già ricominciato a salire.

«Sfida», Gwen disse il nome della città mentre si avvicinavano. Il suo nome e le sue intenzioni. Era stata costruita dalle urbanità dei di-Emereli, sul cui pianeta le città sono nere torri d’acciaio incastonate in pianure ondulate. Ogni città Emereli era una nazione, tutta in una sola torre e la maggior parte degli Emereli non abbandonava mai la torre in cui era nata. Ma Gwen disse anche che quelli che lo facevano diventavano sovente i più grandi vagabondi dello spazio. Sfida era tutte le torri degli Emereli in una, bianco-argentea invece di nera, due volte più altezzosa e tre volte più alta… Era la filosofia arcologica dei di-Emereli fatta diventare metallo e plastica… Energia di fusione, tutta automatica, computerizzata ed autoriparante. Gli Emereli la vantavano immortale, la prova finale della gloria tecnologica del Margine (o almeno della tecnologia degli Emereli) scintillava come la tecnologia di Newholme, o di Avalon, o addirittura di Vecchia Terra.

C’erano dei tratti scuri orizzontali nel corpo della città: ponti di atterraggio, ognuno a dieci livelli dall’altro. Dirk attraccò ad uno di quelli e quando lui si avvicinò la fessura scura si illuminò. L’apertura era almeno dieci metri d’altezza; non ebbe alcuna difficoltà a scendere sul vasto ponte del centesimo livello.

Appena uscirono, una voce bassa e profonda parlò loro venendo da nessun luogo particolare. «Benvenuti», disse. «Io sono la Voce di Sfida. Vi posso far da guida?».

Dirk guardò indietro da sopra la spalla e Gwen rise. «Il cervello della città», gli spiegò. «Un supercomputer. Te lo avevo detto che questa città è ancora viva».

«Posso farvi da guida?», ripeté la voce. Veniva dalle pareti.

«Può darsi», disse Dirk per provare. «Direi che abbiamo un po’ fame. Ci puoi dare da mangiare?».

La voce non rispose, ma un pannello sulla parete si spostò di parecchi metri e ne uscì un silenzioso veicolo pneumatico che si fermò presso di loro. Salirono su ed il veicolo si mosse attraverso un’altra parete che si apriva compiacente.

Correvano su morbidi pneumatici a pallone attraverso una successione di corridoi bianchi ed intatti, superarono innumerevoli porte numerate, mentre la musica suonava conciliante attorno a loro. Dirk fece una breve osservazione sullo stridente contrasto delle luci bianche con la debole luce del cielo serale di Worlorn ed immediatamente i corridoi divennero di un debole azzurro attenuato.

L’auto con le grosse ruote, li lasciò ad un ristorante ed un robocameriere che aveva una voce uguale a quella della Voce offrì loro il menù e la lista dei vini. Tutte e due le liste erano ampie, non limitate alla cucina di di-Emereli, o ai mondi esterni, ma comprendeva piatti famosi o vini di vendemmie pregiate provenienti da tutti i mondi sparsi della razza umana, compresi alcuni di cui Dirk non aveva mai sentito parlare. Ogni piatto aveva il suo nome originale stampato in caratteri piccoli sul menù. Guardarono la lista per un bel po’. Alla fine Dirk scelse drago di sabbia arrostito nel burro, proveniente dal Mondo di Jamison e Gwen ordinò caviale azzurro in formaggio, proveniente da Vecchio Poseidone.

Il vino che scelsero era bianco, liscio. Il robot lo portò ghiacciato, in un cubo di ghiaccio che ruppe davanti a loro. Il vino era ancora liquido e freddissimo. Questo, insistette la Voce, era il modo giusto di servirlo. La cena fu portata su piatti caldi fatti di osso e d’argento. Dirk staccò una gamba artigliata dalla sua portata, pelò le squame ed assaggiò la carne bianca e burrosa.

«È incredibile», disse, annuendo in direzione del piatto. «Sono stato per un certo tempo sul Mondo di Jamison ed i Jamisiani adoravano il loro drago di sabbia arrostito. Questo è buono proprio come quelli che ho assaggiato laggiù. Surgelato? Surgelato e poi portato qui? Diavolo, deve essere stata necessaria una flotta agli Emereli per trasportare tutto il cibo che doveva servire quaggiù».

«Non è surgelato», risposero. Non era Gwen, benché lei osservasse Dirk con un sorriso divertito. La Voce gli rispose: «Prima del festival la nave commerciale Piatto Azzurro Speciale ha visitato quanti più mondi ha potuto, raccogliendo e conservando dei campioni del loro cibo migliore. Il viaggio, programmato da lungo tempo, richiese quarantatré anni standard, sotto la guida di quattro capitani ed altrettanti equipaggi. Alla fine la nave arrivò su Worlorn e gli esemplari raccolti furono clonati e riclonati nelle cucine e nei bioserbatoi di Sfida per poter dare il cibo a molte persone. Così si ebbe la moltiplicazione dei pani e dei pesci, non fatta da un falso profeta, ma dagli scienziati di di-Emereli».

«Ha un tono fin troppo tronfio», disse Gwen con un risolino.

«Sembra un discorso già preparato», disse Dirk. Poi si strinse nelle spalle e continuò a mangiare, come pure Gwen. Mangiarono da soli fatta eccezione per il robocameriere e per la presenza della Voce. Erano in mezzo al grande ristorante fatto per contenere centinaia di persone. Tutto attorno a loro, vuoti ma immacolati, c’erano gli altri tavoli in attesa con le loro tovaglie rosso cupo e le posate d’argento scintillante. I clienti erano usciti dieci anni prima; ma la Voce e la città avevano pazienza infinita.

Più tardi, dopo il caffè (nero e spesso con panna e spezie, una miscela proveniente da Avalon di nostalgica memoria), Dirk si senti rilassato e turgido, forse nella forma migliore da quando era sceso su Worlorn. Jaan Vikary e la giada-e-argento — brillava cupa e splendida nella luce smorzata del ristorante, lavorata in maniera squisita eppure stranamente svuotata dal suo senso di minaccia e dal suo significato — non gli parevano più tanto importanti adesso che era di nuovo con Gwen. Era di fronte a lui, che beveva dalla sua tazza di porcellana cinese bianca e sorrideva con il suo sorriso di tanto tempo fa. Pareva così vicina, così simile a quella Jenny che lui aveva conosciuto ed una volta aveva amato, la signora della gemma mormorante.

«Bello», lui disse ed annuì, per indicare con un cenno tutto ciò che li circondava.

Ed anche Gwen annuì. «Bello», convenne lei, sorridendo, e Dirk sentì dolore per lei. Ginevra dai grandi occhi verdi e i neri capelli senza fine, per lei a cui aveva voluto bene, la sua perduta anima amica.

Dirk si piegò in avanti e fissò il fondo della sua tazza. Non c’erano presagi da trarre con i fondi del caffè. Lui doveva parlarle. «Questa sera è stato tutto bello», disse. «Come su Avalon».

Quando lei mormorò qualcosa con cui si dichiarava d’accordo, lui continuò. «Abbiamo lasciato qualcosa laggiù, Gwen?».

Lei lo guardò dappertutto e sorseggiò il caffè. «Non è una bella domanda, Dirk e tu lo sai. Si lascia sempre qualcosa. Se si trattava di qualcosa con cui incominciare. Se non lo era, be’, allora poco male. Ma se si trattava di qualcosa di autentico, un pezzo d’amore, una coppa di odio, di disperazione, risentimento, brama. Una cosa qualsiasi. Ma doveva essere qualcosa».

«Non lo so», disse Dirk t’Larien sospirando. I suoi occhi guardarono giù e più in basso. «Allora, forse, tu sei l’unica realtà che io ho avuto».

«Triste», disse lei.

«Sì», disse lui. «Immagino di sì». Alzò gli occhi. «Io ho lasciato un mucchio di cose, Gwen. Amore, odio, risentimenti, tutto questo. Come hai detto tu. Brama». Rise.

Lei sorrise appena. «Triste», disse di nuovo.

Lui non voleva lasciar cadere l’argomento. «E tu? Hai lasciato qualcosa, Gwen?».

«Sì. È inutile negarlo. Qualcosa. Ed è continuato a crescere sempre di più».

«Amore?».

«Sei pressante», disse lei gentilmente, abbassando la tazza. Il robocameriere al suo fianco gliela riempì di nuovo, di nuovo con panna e spezie. «Ti avevo chiesto di non farlo».

«Ma devo», disse lui. «È abbastanza difficile starti così vicino e parlare di Worlorn, o dei costumi dei Kavalari, o dei cacciatori. Io non voglio parlare di queste cose!».

«Lo so. Due vecchi amanti che stanno assieme e parlano. È una situazione comune, una tentazione comune. Tutti e due hanno paura e non sanno se devono provare a riaprire le vecchie porte e non sanno se quell’altro vuole risvegliare i pensieri sonnolenti di un tempo o se li voglia lasciare andare. Tutte le volte che penso a qualche cosa di Avalon e sto quasi per dirlo, mi chiedo: "chissà se lui vuole che ne parli, o forse sta pregando perché io non ne faccia cenno?"».

«Immagino che dipenda da ciò che tu stai per dire. Una volta ho cercato di far ricominciare tutto. Te ne ricordi? Subito dopo che te ne sei andata. Ti ho mandato la mia gemma mormorante. Tu non hai mai risposto, non sei mai venuta». La sua voce era piatta, con un sapore leggero di rimprovero e di dispiacere, ma non c’era rabbia. Aveva perduto la sua rabbia in qualche posto, da poco.

«Non hai mai pensato perché?», chiese Gwen. «Io ricevetti la gemma e piansi. In quel periodo ero ancora sola, non avevo ancora incontrato Jaan e desideravo ardentemente qualcuno. Sarei ritornata se tu mi avessi chiamata».

«Ma io ti ho chiamata. Tu non sei venuta».

Un sorriso cattivo. «Ah, Dirk. La gemma mormorante arrivò in una scatoletta con allegata un’annotazione. "Per piacere", diceva l’annotazione, "ritorna da me subito. Ho bisogno di te, Jenny". Ecco che cosa diceva. Ho pianto, ho pianto a lungo. Se tu avessi scritto "Gwen", se tu avessi amato soltanto Gwen, cioè me… Ma no, si trattava sempre di Jenny, anche dopo, anche adesso».

Dirk se ne ricordò e batté gli occhi. «Sì», ammise dopo un breve silenzio. «Credo di aver scritto proprio così. Mi dispiace. Non l’avevo mai capito. Ma adesso sì. È troppo tardi?».

«L’ho già detto. Nei boschi. Troppo tardi, Dirk, è tutto morto. Ci faremmo solo del male se tu insisti».

«Tutto morto? Tu hai detto di aver lasciato qualcosa, qualcosa che è cresciuto. L’hai detto un momento fa. Ti devi convincere, Gwen. Io non voglio farti male, o farmi male. Quello che voglio…».

«Io lo so cosa vuoi. Non può essere. Se ne è andato».

«Perché?», chiese lui. Allungò un dito attraverso il tavolo ed indicò il suo braccialetto. «Per quello? Giada-e-argento nei secoli dei secoli, non è così?».

«Forse», disse lei. Le mancò la voce, come se fosse incerta. «Non lo so. Noi… cioè, io…».

Dirk si ricordò tutte le cose che gli aveva detto Ruark. «So che non è facile parlarne», disse lui dolcemente, con attenzione. «Ed avevo promesso di aspettare. Ma ci sono cose che non possono aspettare. Tu avevi detto che Jaan è tuo marito, giusto? Ma che cos’è Garse? Che cosa significa betheyn.

«Moglie acquisita», disse lei. «Ma tu non capisci. Jaan è diverso dagli altri Kavalari, più forte, più saggio e più modesto. Lui sta facendo cambiare le cose, lui da solo. I vecchi vincoli, di betheyn verso l’altolegato, i nostri vincoli non sono così. Jaan non ci crede in queste cose, come non crede che si debbano cacciare i falsuomini».

«Lui crede in Alto Kavalaan», disse Dirk, «e nel codice del duello. Può darsi che sia atipico, ma è pur sempre un Kavalar».

Era la cosa più sbagliata che potesse dire. Gwen si limitò a ridere e si risollevò. «Pfui», disse. «Adesso mi pari Arkin».

«Davvero? Magari Arkin ha ragione, dopo tutto. Un’altra cosa. Tu dici che Jaan non crede in molte delle vecchie superstizioni, giusto?».

Gwen annuì.

«Bene. Allora, che mi dici di Garse? Non ho avuto molte possibilità per parlargli assieme. Indubbiamente, Garse è ugualmente illuminato».

Lei rimase immobile. «Garse…», cominciò. Si fermò e scosse il capo dubbiosa. «Be’, Garse è più conservatore».

«Sì», disse Dirk. Parve che improvvisamente avesse capito tutto. «Sì, penso che lo sia e questa è una grossa fetta del tuo problema, non è così? Su Alto Kavalaan non si fa uomo e donna. No, là si usa uomo e uomo con magari una donna, ma in questo caso la donna non è tremendamente importante. Tu magari ami, Jaan, ma non te ne importa poi molto di Garse Janacek, non è vero?».

«Sono molto affezionata a…».

«Ma dav-vero?».

Il viso di Gwen si indurì. «Piantala», disse.

La sua voce lo spaventò. Si tirò indietro, improvvisamente e malinconicamente conscio del modo in cui si era quasi sdraiato sul tavolo, pressando Gwen, spingendola, colpendola, attaccandola e tentandola, eppure era venuto per volerle bene e per aiutarla. «Mi dispiace», borbottò.

Silenzio. Lei lo fissava, il labbro inferiore le tremava, mentre cercava di darsi un contegno e di riacquistare forza. «Tu hai ragione», disse lei alla fine. «In parte, per lo meno. Io non sono… ecco… non sono completamente felice con i miei». Fece una risatina ironica, forzata. «Immagino di mentire a me stessa. Pessima idea, mentire a se stessi. Lo fanno tutti, però, chiunque. Io porto la giada-e-argento e mi dico di essere più di una quasi-moglie, più delle altre donne Kavalari. Perché? Solo perché lo dice Jaan? Jaan Vikary è un brav’uomo, Dirk, davvero, sotto molti aspetti è l’uomo migliore che io abbia conosciuto. Lo amavo e forse lo amo ancora. Non lo so. In questo momento sono molto confusa. Ma sia che lo ami o che non lo ami, io gli devo molto. Obblighi e debiti, questi sono i vincoli Kavalari. L’amore è l’unica cosa che Jaan abbia preso su Avalon ed io non sono completamente sicura che lui abbia imparato a maneggiarlo. Avrei voluto essere il suo teyn se avessi potuto. Ma lui aveva già un teyn. Tra l’altro, neanche Jaan sarebbe andato così contro le abitudini del suo mondo. Hai sentito quello che ha detto sui duelli… e tutto perché ha fatto delle ricerche su certi vecchi computer ed ha scoperto che uno dei loro antichi eroi popolari aveva le tette». Fece un sorriso amaro. «Immagina cosa sarebbe capitato se mi avesse presa per teyn! Avrebbe perso tutto, proprio tutto. Ferrogiada è relativamente tollerante, sì, ma ci vorranno secoli prima che una granlega sia pronta per una cosa del genere. Nessuna donna ha mai portato il ferro-e-pietraluce».

«Perché?», disse Dirk. «Non capisco. Tutti voi continuate a parlare di… donne nutrici e come-mogli e di donne che si nascondono nelle caverne con la paura di uscire, e roba del genere. E non riesco proprio a crederci. Comunque, come mai su Alto Kavalaan sono così contorti? Che cos’hanno contro le donne? Perché è così tremendo che sia stata una donna a fondare Ferrogiada? C’è un sacco di gente che è donna, sai».

Gwen fece un sorriso smorto e si soffregò leggermente le tempie con due dita, come se avesse mal di testa e sperasse di farlo andar via con un massaggio. «Avresti dovuto lasciar finire Jaan», disse lei. «Allora avresti saputo tutto quello che sappiamo noi. Aveva appena cominciato a scaldarsi. E non era ancora nemmeno arrivato alla Piaga Dolorosa». Sospirò. «È tutta una lunga storia, Dirk ed in questo momento io non ho la dannata energia necessaria. Aspetta che si ritorni a Larteyn. Vedrò di recuperare una copia della tesi di Jaan, in modo che tu te la possa leggere da solo».

«Va bene», disse Dirk. «Ma ci sono delle cose che non potrei leggere in una tesi. Pochi minuti fa tu stavi dicendo che non eri sicura di amare ancora Jaan. È sicuro che tu non ami Alto Kavalaan. Penso che tu odii Garse. Ma allora, perché ti fai questo?».

«Tu hai l’abilità di riuscire a fare domande odiose», disse lei acida. «Ma prima di rispondere permettimi di correggerti su alcuni punti. Può darsi che odii Garse, come dici tu. A volte sono assolutamente sicura di odiare Garse, anche se una simile affermazione ucciderebbe Jaan, se la sentisse. Ci sono altre volte, invece… non ti stavo mentendo prima, quando ti dicevo che provo molto affetto per lui. Quando sono arrivata la prima volta su Alto Kavalaan, avevo gli occhi pieni di rugiada, di un’innocenza assoluta. Naturalmente Jaan mi aveva già spiegato tutto prima, con molta pazienza, in modo completo ed io avevo accettato tutto. Dopo tutto io venivo da Avalon e non si può cambiare immediatamente modo di pensare, ti pare? Si ha un modo di pensare terrestre. Avevo studiato tutte le strane culture umane sparse tra le stelle e sapevo che chiunque affronti un viaggio spaziale deve essere pronto ad adattarsi ampiamente ai diversi sistemi sociali ed alle varie morali. Sapevo che le abitudini sessuali erano diverse e non è detto che quelle di Avalon fossero più sagge di quelle di Alto Kavalaan. Io penso di essere stata molto saggia.

«Ma non ero pronta per i Kavalari, oh no. Finché vivo non dimenticherò mai più un solo secondo della paura e dello chock del mio primo giorno e della mia prima notte nella granlega di Ferrogiada, come betheyn di Jaan Vikary. Soprattutto la prima notte». Rise. «Jaan mi aveva avvisato, si capisce e… Diavolo, non ero ancora pronta ad essere spartita. Che posso dire? È stato brutto, ma sono sopravvissuta. Garse mi ha aiutata. Era onestamente preoccupato per me e molto di più per Jaan. Si potrebbe addirittura dire che fu tenero. Avevo fiducia in’lui; ascoltava e capiva. Ed il giorno dopo è incominciato il suo abuso verbale. Ero spaventata ed urtata, Jaan era terrorizzato e gloriosamente adirato. Trascinò Garse in mezzo alla stanza la prima volta che mi chiamò vacca-betheyn. Dopo di che, Garse se ne stette zitto per un po’. È uno che spesso interrompe le sue cose, ma non smette mai. Sotto questo punto di vista è una persona davvero notevole. Lui sfiderebbe e ucciderebbe chiunque osasse insultarmi la metà di quanto mi insulta lui. Lui sa benissimo che le sue battute fanno arrabbiare Jaan e provocano scenate terribili… o almeno le provocavano. Adesso Jaan è diventato sordo a queste cose. Ma lui continua. Può darsi che non sia capace di smettere, oppure mi detesta di tutto cuore, o forse gode a infliggermi una pena. Se è così, non gli devo aver dato troppa gioia in questi ultimi anni. Una delle prime cose che decisi fu di non permettergli mai più di farmi piangere. Non ho più pianto. Nemmeno quando ha delle uscite che mi fanno venir voglia di spaccargli la testa in due con un’ascia. Io sorrido, stringo i denti e cerco di pensare a qualcosa di spiacevole da rispondergli. Un paio di volte sono riuscita a restituirgli il colpo, ma di solito ne esco come uno scarafaggio pestato.

«Eppure, malgrado tutto ci sono stati anche dei momenti diversi. Tregue, piccoli cessate il fuoco nella nostra guerra senza fine, attimi di un calore sorprendente e di tenerezza. Il più delle volte succede di notte. Quando questi momenti arrivano mi colpiscono sempre. Sono troppo intensi. Una volta, puoi anche non crederci, ho detto a Garse che l’amavo. Lui mi rise dietro. Lui non mi amava, disse forte, solo che io ero cro-betheyn con lui e mi trattava secondo gli obblighi che gli erano imposti dal vincolo che esisteva tra di noi. Questa è stata l’ultima volta in cui sono stata sul punto di piangere. Ho fatto tutti gli sforzi per resistere ed ho vinto. Non ho pianto. Gli ho gridato qualcosa e poi sono corsa nel corridoio. Abitavamo sotto terra, sai. Tutti abitano sotto terra su Alto Kavalaan. Non indossavo niente oltre al mio braccialetto e correvo impazzita, poi un tale ha cercato di fermarmi… un ubriaco, un idiota, un cieco che non poteva vedere la giada-e-argento, non so. Ero talmente furiosa che gli ho estratto la pistola che aveva al fianco e gli ho spaccato la faccia. Era la prima volta che colpivo un altro essere umano per la rabbia. Poi sono arrivati Jaan e Garse. Jaan pareva calmo, invece era molto sconvolto. Garse era quasi contento e pronto a combattere. Come se l’uomo che io avevo assalito non fosse stato già abbastanza insultato, Garse venne a dire che avrei dovuto raccogliere tutti i denti che gli avevo buttato giù e restituirglieli, perché ne avevo combinate già più che a sufficienza. Furono fortunati se riuscirono ad evitare un duello».

«Ma come hai fatto a trovarti immischiata in una situazione simile, Gwen?», domandò Dirk. Cercava di mantenere salda la voce. Era arrabbiato con lei, si sentiva ferito per lei, eppure stranamente — o forse non tanto stranamente — eccitato. Era tutto vero, tutto quello che gli aveva detto Ruark. Il Kimdissi era un buon amico di Gwen ed era suo confidente; non c’era da meravigliarsi che lei lo avesse fatto chiamare. La sua vita era misera, era una schiava e lui avrebbe potuto mettere a posto tutto, lui. «Tu avresti dovuto immaginare cosa ti aspettava».

Lei si strinse nelle spalle. «Mentivo a me stessa», disse, «ed ho lasciato che Jaan mentisse a me, anche se penso che lui creda onestamente a tutte le amorose falsità che mi ha detto. Se avessi la possibilità di tornare indietro… Ma non posso. Io ero pronta per lui, Dirk, ed avevo bisogno di lui e lo amavo. E lui non poteva darmi il ferro-e-pietraluce. Quella era una cosa che aveva già dato, così mi ha concesso la giada-e-argento ed io la ho accettata, solo per stargli vicino, con una vaghissima conoscenza di cosa questo volesse dire. Non era molto che avevo perso te. Non volevo che finisse così anche con Jaan. Così mi sono messa quel grazioso braccialetto e dissi molto forte: «io sono più che una betheyn, come se così fosse diverso. Dà il nome ad una cosa, ed in qualche modo esisterà. Per Garse, io sono la betheyn di Jaan e la sua cro-betheyn e questo è tutto. I nomi definiscono i vincoli ed i doveri. Cos’altro ci potrebbe essere? Per qualsiasi altro Kavalar è la stessa cosa. Quando io cerco di crescere, di superare l’ostacolo dei nomi, ecco lì Garse che mi urla: betheyn! Jaan è diverso, solo Jaan. E certe volte senza volerlo, mi scopro a chiedermi quali siano i suoi veri sentimenti».

Portò le mani sulla tovaglia e si trasformarono in due piccoli pugni, l’uno di fianco all’altro. «È sempre la solita storia, Dirk. Tu volevi trasformarmi in Jenny ed io mi sono salvata rifiutando quel nome. Ma a me piace uno sciocco che ho preso con giada-e-argento ed ora sono una semi-moglie ed anche se nego tutto le parole non cambiano niente. Sempre la solita storia!». La sua voce tremava, teneva i pugni così stretti che le nocche le erano diventate bianche.

«Noi possiamo cambiare tutto», disse Dirk in fretta. «Ritorna con me». La sua voce era inane, piena di speranza, disperata, trionfante, preoccupata; era tutte queste cose al tempo stesso.

In un primo momento lei non rispose. Riaprì i pugni, molto lentamente, dito dopo dito e si fissò le mani solennemente, respirando a fondo, voltando e rivoltando le mani come se si trattasse di stranissimi oggetti che qualcuno le aveva messo davanti perché lei li osservasse. Poi stese le mani sul tavolo e ve le premette, sollevandosi in piedi. «Perché?», disse e la sua voce era ritornata calma e controllata. «Perché, Dirk? In modo che tu mi possa far tornare Jenny? È per questo? Perché una volta ti ho voluto bene e allora potrebbe essere rimasto qualcosa?».

«Sì! No, cioè. Mi mandi in confusione». Si alzò anche lui.

Lei sorrise. «Eh, ma una volta amavo anche Jaan e la cosa è più recente ancora. E verso di lui adesso ho ben altri legami, tutti gli obblighi della giada-e-argento. Con te, ecco, solo ricordi, Dirk». Dato che lui non rispondeva — lui stava in piedi ed aspettava — Gwen si diresse verso la porta. Lui la seguì.

Il robocameriere li intercettò e bloccò l’uscita, con il volto che era un ovoide metallico senza espressione. «Il conto», disse il coso. «Mi serve il numero del vostro conto festival».

Gwen aggrottò le sopracciglia. «Schedatura di Larteyn, Ferrogiada 797-742-677», mitragliò lei. «Registra tutti e due i pranzi alio stesso codice».

«Registrati», disse il robot spostandosi per lasciarli passare. Usciti loro il ristorante diventò buio.

La Voce aveva lasciato la macchina pronta per loro. Gwen le disse di riportarli allo spiazzo d’atterraggio e la macchina si avviò per i corridoi improvvisamente pieni di colori allegri e di musica vivace. «Quel dannato computer ha registrato tensione nelle nostre voci», disse lei un po’ arrabbiata. «Adesso cerca di rallegrarci».

«Non sta facendo un bel lavoro», disse Dirk, ma sorrise dicendolo. Poi: «Grazie per la cena. Ho convertito gli standard in cedole del festival prima di arrivare, ma non ho portato granché, temo».

«Ferrogiada non è povera», disse Gwen. «E in ogni caso non c’è molto da pagare qui su Worlorn»,

«Mmm. Sì. Credevo che non si pagasse niente, fino ad adesso».

«Programmazione del festival», disse Gwen. «Questa è l’unica città che funzioni ancora come prima. Le altre sono tutte chiuse. Una volta all’anno i di-Emereli mandano un uomo a raccogliere i soldi dalle banche. Però tra poco raggiungerà il punto in cui il viaggio costerà di più di ciò che riuscirà a raccogliere».

«Mi stupisco che non sia già così».

«Voce!», disse lei. «Quante persone abitano oggi a Sfida?».

Le pareti risposero. «Al momento ho trecentonove residenti legali e quarantadue ospiti, compresi voi. Se volete potete diventare residenti. La tariffa è assai ragionevole».

«Trecentonove?», disse Dirk. «Dove?».

«Sfida è stata costruita per contenere venti milioni di persone», disse Gwen. «È ben difficile incontrare qualcuno, eppure sono qui. E così anche nelle altre città, anche se non ce ne sono tanti come a Sfida. La vita è facile quaggiù. Anche morire sarebbe facile, se gli altolegati di Braith pensassero di andare a caccia nelle città invece che nelle foreste. Questa è stata sempre la più grande paura di Jaan».

«Ma chi sono?», chiese Dirk incuriosito. «Come vivono? Non capisco bene. Sfida deve sprecare una fortuna ogni giorno?».

«Si. Un patrimonio in energia sprecato, buttato via. Ma questo era sottinteso per Sfida, Larteyn e per tutto il festival. Spreco, uno spreco insolente, per provare che il Margine era ricco e forte, spreco su grande scala, come non si era mai visto nello spazio dominato dall’uomo: un intero pianeta modellato e poi abbandonato. Vedi? Se si deve dire la verità, qui a Sfida esiste solo una vita fatta di vuoti movimenti. L’energia è ricavata da reattori a fusione e viene sprecata in fuochi d’artificio che nessuno vede. Vengono prodotte tonnellate di cibo tutti i giorni nelle incommensurabili fattorie automatiche, ma se ne mangiano solo poche manciate… eremiti, adepti di culti religiosi, bambini perduti che sono diventati selvaggi, tutta la feccia che è rimasta dal festival. La città continua a mandare una barca ogni giorno a Musquel per acquistare il pesce. Ma il pesce non c’è mai, si capisce».

«Ma la Voce non riscrive il programma?».

«Ecco il punto cruciale! La Voce è un idiota. In realtà non è in grado di pensare, né può riprogrammarsi. Ah, sì, gli Emereli volevano impressionare la gente e la Voce è certo una gran cosa. Ma in verità è piuttosto primitiva se la paragoniamo ai calcolatori dell’Accademia di Avalon o alle Intelligenze Artificiali di Vecchia Terra. Questa non sa pensare, o cambiare granché. Fa quello che le è stato detto e gli Emereli le avevano detto di andare avanti, di combattere contro il freddo il più a lungo possibile. Ed è quello che fa».

Gwen fissò Dirk. «Come te», disse, «va sempre avanti addirittura oltre la propria resistenza, quando tutto ha perduto un senso. E va e va, per ottenere niente, quando tutto è già morto».

«Ah?», disse Dirk. «Ma fino a che tutto non è morto, si deve darci dentro. Ecco il punto, Gwen. Non c’è nessun altro modo, ti pare? Direi che ammiro la città, anche se è un idiota troppo cresciuto, come dici tu».

Lei scosse il capo. «Tu vorresti».

«E c’è di più», disse lui. «Tu seppellisci tutto troppo in fretta, Gwen. Può darsi che Worlorn stia morendo, ma non è ancora morto. E noi, be’, nemmeno noi siamo ancora morti. Penso che tu ci creda a ciò che hai detto prima al ristorante, su Jaan e su di me. Decidi cosa deve succedere, a me, a lui. Decidi quanto ti pesa quel braccialetto addosso», lo indicò col dito, «e quale è il nome che ti piace di più, o meglio, chi è il più adatto a fornirti un nome che tu senta tuo. Capisci? Poi raccontami cosa è morto e cosa è vivo!».

Si sentì molto soddisfatto dopo questo discorsetto. Di certo, pensò lui, lei capirà che era molto più facile che lui abbandonasse Jenny in favore di Gwen, piuttosto che Jaantony Vikary la facesse diventare una teyn donna, invece di una semplice betheyn. Pareva chiarissimo. Ma lei si limitò a fissarlo senza dire niente, finché non raggiunsero lo spiazzo d’atterraggio.

Poi lei uscì dalla macchina. «Quando noi quattro dovemmo scegliere dove abitare qui su Worlorn, Garse e Jaan votarono per Larteyn e Arkin per Dodicesimo Sogno», disse lei. «Io non votai per nessuno dei due posti. E nemmeno per Sfida, con tutta la sua vita. Non mi piace vivere in una piccionaia. Tu vuoi sapere cosa sia morto e cosa sia vivo? Vieni, allora, ti farò vedere la mia città».

Poi si trovarono di nuovo fuori, con Gwen che teneva le labbra strette seduta dietro i comandi e l’improvviso freddo dell’aria che li circondava. Sfida era un fuso scintillante che spariva dietro di loro. Ormai l’oscurità era profonda, come era stata la notte in cui il Tremito dei Nemici Dimenticati aveva portato Dirk t’Larien su Worlorn. C’erano soltanto dieci o dodici stelle nel cielo e la metà almeno era nascosta dalle nubi rotolanti. Tutti i soli erano tramontati.

La città della notte era vasta e intricata, con poche luci sparse qua e là che foravano il buio e pareva incastonata, come un gioiello incastrato nel velluto nero. Unica tra le città, era sistemata nella foresta al di là delle montagne ed apparteneva a questi luoghi, alle foreste di soffocatori, alberi spettrali e vedovi azzurri. Dall’oscurità della foresta si alzavano le sottili torri bianche come fantasmi che si lanciassero verso le stelle, collegate una con l’altra da graziosi ponti girevoli che scintillavano come ragnatele ghiacciate. Cupole basse stavano come sentinelle solitarie tra una rete di canali le cui acque catturavano le luci delle torri ed il bagliore di rare stelle cadenti ed attorno alla città c’erano molti edifici strani che parevano mani scarnite, piegate ad angolo, che volessero aggrapparsi al cielo. Gli alberi, da quel che si vedeva, erano alberi di un altro mondo; non c’era erba, ma un tappeto spesso di muschio debolmente fosforescente.

E la città aveva una canzone.

Non somigliava a nessuna delle musiche che Dirk aveva sentito. Dava i brividi ed era selvaggia e quasi inumana. Si impennava e ricadeva e si spostava costantemente. Era una cupa sinfonia fatta di vuoto, di notti senza stelle e sogni agitati. Era fatta di lamenti, sussurri ed ululati ed una strana nota bassa che non poteva essere altro che il suono della tristezza. Per tutte queste cose, era musica.

Dirk fissò Gwen con lo stupore dipinto in faccia. «Ma come?».

Lei ascoltava mentre volavano, ma la domanda riuscì a strapparla alla melodia che galleggiava attorno e sorrise un poco. «La città è stata costruita da Cupalba ed i Cupoli sono delle strane persone. C’è un’apertura tra le montagne. I loro Controllori del Tempo vi hanno convogliato i venti. Poi hanno costruito le spirali e sulla cresta di ogni spirale hanno praticato un’apertura. Il vento suona la città come se fosse uno strumento. La stessa canzone senza fermarsi mai. I dispositivi di controllo del tempo spostano i venti e ad ogni spostamento ci sono delle torri che fanno sentire la loro nota, mentre altre cadono nel silenzio.

«La musica… la sinfonia fu scritta su Cupalba, secoli fa, da una compositrice che si chiamava Lamiya-Bailis. Si dice che sia suonata da un computer che fa funzionare le macchine a vento. La cosa strana, però, e che i Cupoli non hanno mai usato dei computer ed hanno una tecnologia piuttosto povera. Durante il festival si raccontava anche un’altra storia. Diciamo, una leggenda. Raccontavano che Cupalba fosse un mondo pericolosamente vicino al limite della sanità mentale e che la musica di Lamiya-Bailis, la più grande dei sognatori Cupoli, avesse spinto tutta la cultura del suo mondo verso la follia e la disperazione. Per punizione, si dice, mantennero vivo il suo cervello ed adesso è qui, profondamente sepolto tra le montagne di Worlorn, agganciato alle macchine a vento che suonano il suo capolavoro senza mai potersi fermare, per sempre». Gwen tremò. «O almeno finché l’atmosfera non si gelerà. Nemmeno i Controllori del Tempo di Cupalba possono impedire che questo succeda».

«È come…», Dirk era perduto nelle ondate della melodia e non riusciva a trovare le parole. «È perfettamente adatta, direi», riuscì alfine a dire. «Una canzone per Worlorn».

«È adatta adesso», disse Gwen. «È una canzone che parla di crepuscoli e della notte che deve arrivare, dice che non ci sarà mai più un’altra alba, mai più. È una canzone definitiva. Nei giorni ruggenti del festival questa canzone era fuori posto. Kryne Lamiya — la città si chiama così, anche se a volte la chiamano la Città Sirena, nello stesso modo in cui Larteyn è anche chiamata Fortezza di Luce — bene, non è mai stata una città molto popolare. Sembra grande, ma in realtà non lo è. È stata costruita per alloggiare solo un centomila persone e non è mai stata riempita per più di un quarto. Come la stessa Cupalba, immagino. Quanti sono i viaggiatori che si spingono fino a Cupalba, fino al limite del Grande Mare Nero? E quanti sono quelli che ci vanno d’inverno, quando il cielo di Cupalba è quasi completamente vuoto, e non sì vede niente se non la luce di poche galassie lontane? Non molti. Ci vogliono delle persone molto particolari per queste cose. Anche qui, non tutti amano Kryne Lamiya. La gente dice che la canzone li disturba. E non finisce mai. I Cupoli non hanno nemmeno costruito le stanze a prova di suono».

Dirk non disse niente. Stava guardando le spirali incantate e le sentiva cantare.

«Vuoi atterrare?», chiese Gwen.

Lui annui e lei scese a spirale. Trovarono una piazzuola di atterraggio all’aperto sul fianco di una delle torri. Al contrario delle terrazze di Sfida e di Dodicesimo Sogno, questa non era completamente vuota. C’erano due altre auto ferme ad arrugginire. Una era un’auto sportiva dalle ali tozze ed una goccia leggera nero-argentea. Entrambe erano abbandonate da gran tempo. La polvere accumulata dal vento era spessa sul tettuccio e sulla cupola ed i cuscini all’interno dell’auto sportiva stavano marcendo. Dirk le provò tutte e due, tanto per provare. La macchina sportiva era morta, bruciata, tutta la potenza era svanita già da diversi anni. Ma la piccola goccia si scaldava ancora non appena la si toccava ed il cruscotto si accendeva e lampeggiava; evidentemente era rimasta una debole riserva d’energia. L’enorme manta volante di Alto Kavalaan era più grande e più pesante di tutti e due i relitti messi assieme.

Dalla zona di atterraggio si avviarono lungo una galleria dove c’era una luce bianco-grigia che roteava e girava formando pallide forme sui muri a seconda del suono della sinfonia. Poi si arrampicarono su di un terrazzo che avevano visto mentre si avvicinavano.

All’esterno la musica li circondava da tutte le parti e li chiamava con una voce ultraterrena, li toccava, giocava con i loro capelli, rombava e faceva loro cenni d’intesa come un’onda appassionata. Dirk prese la mano di Gwen nella sua ed ascoltò fissando gli occhi ciechi oltre le torri e le cupole ed i canali, verso le foreste e le montagne ancora più in là. Il vento-musica pareva trascinarlo mentre se ne rimaneva là. Gli parlava piano, dicendogli di saltare, gli pareva… per far finire tutto, tutta quella stupida, indegna ed in definitiva insignificante futilità che lui chiamava vita.

Gwen glielo lesse negli occhi. Gli strinse la mano e quando lui la guardò lei disse: «Durante il festival, più di duecento persone hanno commesso suicidio a Kryne Lamiya. Dieci volte il numero di qualsiasi altra città. Malgrado il fatto che questa città aveva la popolazione più bassa di tutte».

Dirk annuì. «Sì, non mi è difficile capirlo. La musica».

«Un’elegia della morte», disse Gwen. «Eppure, sai, la Città Sirena non è affatto morta, non come Musquel o Dodicesimo Sogno. Questa vive ancora, testardamente, anche se solo per esaltare la disperazione e la vuotezza della stessa vita a cui si aggrappa. Strano, eh?».

«Ma perché hanno dovuto costruire un posto simile? È bellissimo, ma…».

«Io ho una teoria», disse Gwen. «I Cupoli sono dei nichilisti con un umorismo nero, Soprattutto, ed ho idea che Kryne Lamiya sia la loro battuta amara rivolta ad Alto Kavalaan, Lupania, Tober e gli altri mondi che hanno spinto per fare quel festival del Margine. I Cupoli sono venuti, certo, ma hanno costruito una città che sapesse dire come tutto fosse inutile. Tutto inutile… il festival, la civiltà degli uomini, la stessa vita. Pensaci! Che trappola per un tronfio turista che ci capita per caso!». Tirò indietro la testa e rise selvaggiamente e Dirk provò improvvisamente una breve fitta di paura, come se Gwen fosse improvvisamente impazzita.

«E tu volevi abitare qui?», disse.

La risata di Gwen si interruppe improvvisamente, come era incominciata; il vento si era portato via le risa. Lontano sulla loro destra una torre ad ago suonò una breve nota penetrante che vagò come il lamento di un animale ferito. La torre dove loro si trovavano rispose con un triste basso lamento simile ad una sirena da nebbia, lento, lentissimo. La musica mulinava attorno a loro. Più lontano, Dirk credette di poter sentire il battere di un unico tamburo, brevi rombi sordi, regolarmente spaziati.

«Sì», rispose Gwen. «Io volevo abitare qui». Il suono di sirena svanì; quattro spirali di giunchi al di là del canale, tenute assieme da ponti ripidissimi, cominciarono ad ululare senza sosta, ogni nota era più alta di quella che la precedeva, finché diventarono inudibili. Il tamburo continuava senza cambiare: boom, boom, boom.

Dirk sospirò. «Capisco», disse con voce stanchissima. «Anch’io avrei voluto vivere quaggiù, immagino, ma mi chiedo quanto tempo avrei potuto vivere se lo avessi deciso. Braque assomigliava un po’ a questo posto, lo ricordava vagamente, soprattutto di notte. Forse era proprio per questo che io vivevo là. Sono molto stanco, Gwen. Molto. Penso di essermi arreso. Nei vecchi tempi, tu lo sai, ero alla continua ricerca di qualcosa… amore, tesori incantati, i segreti dell’universo, qualsiasi cosa. Ma quando tu mi hai lasciato… Non lo so, ma tutto mi è sembrato sbagliato, tutto ha cominciato ad assumere un sapore acido. E se c’era qualche cosa che in effetti andava bene, be’, io mi accorgevo che quella era una cosa poco importante, una cosa che non cambiava niente. Ero circondato di vuoto. Ho cercato a lungo di venirne fuori, ma tutto ciò che facevo mi rendeva più stanco, più apatico e cinico. Forse è proprio per questo che sono venuto qui. Tu… be’, allora ero migliore, quando ero con te. Ma non mi sono mai completamente arreso. Pensavo che forse mi potevo ritrovare ancora, se ti avessi rivista. Ma non è andata come speravo. Non so più che cosa possa funzionare ancora».

«Ascolta Lamiya-Bailis», disse Gwen, «e la sua musica ti dirà che non c’è niente che funziona, che non c’è niente che abbia un senso. Sai, io volevo vivere quaggiù. Ho votato… be’, non avevo in mente di votare in quel modo, ma ne stavamo parlando proprio mentre atterravamo, così è venuto fuori. Mi spaventava. Può darsi che tu ed io siamo ancora molto simili, Dirk. Anch’io sono molto stanca. Il più delle volte non si vede. Ho il mìo lavoro che mi tiene occupata e poi c’è Arkin che mi è amico e Jaan che mi ama. Ma poi vengo qui… oppure semplicemente mi fermo un momento e penso un momento di troppo, allora mi faccio delle domande. Le cose che ho non sono sufficienti. Non sono le cose che volevo».

Lei si voltò verso Dirk e gli prese la mano nelle sue. «Sì, ho pensato a te. Ho pensato che tutto andava meglio quando tu ed io eravamo assieme su Avalon ed ho anche pensato che forse eri ancora tu quello che amavo e non Jaan ed ho pensato che forse potevamo ancora far tornare la vecchia magia e dare un senso a tutto. Ma non lo vedi? Non è così, Dirk, e tutto il tuo darti da fare non potrà cambiare la verità. Ascolta la città, ascolta Kryne Lamiya. Ecco la tua verità. Tu pensi a me ed io qualche volta penso a te, solo perché tra di noi tutto è morto. Questa è l’unica ragione per cui sembra migliore il nostro passato. Felicità ieri e felicità domani, ma oggi mai, Dirk. Non può succedere, perché dopo tutto non è altro che un’illusione e le illusioni sembrano reali solo se viste da lontano. È tutto passato, mio sognato amore perduto, passato e questa è la cosa migliore, perché è l’unica cosa che fa tutto così bello».

Piangeva; lacrime lente scendevano tremolando dalle sue guance. Kryne Lamiya piangeva assieme a lei, le torri urlavano il loro lamento. Ma beffeggiava lei pure, come se dicesse, sì, vedo la tua pena, ma la pena non ha più significato di tutte le altre cose, la pena è vuota come il piacere. Le spirali gemettero, le grate risero come se fossero pazze ed il tamburo lontano continuava il suo rombo basso: boom, boom, boom.

Di nuovo, questa volta più forte, Dirk sentì l’impulso di saltare dal balcone verso le pietre sbiadite ed i bui canali di sotto. Un precipitare vertiginoso e poi, alla fine, riposare. Ma la città gli cantava che era folle. Riposare?, cantava, non c’è riposo nella morte. Solo il nulla. Nulla. Nulla. Il tamburo, i venti, i lamenti. Tremò, stringendo sempre le mani di Gwen. Guardò giù, verso l’abisso.

C’era qualcosa che si muoveva nel canale. Traballava e galleggiava, galleggiava con facilità e veniva verso di lui. Era una barca nera, con un unico barcaiolo al palo. «No», disse lui.

Gwen sbatté gli occhi. «No?», ripeté lei.

Ed improvvisamente vennero le parole, quelle parole che quell’altro Dirk t’Larien avrebbe detto alla sua Jenny. Quelle parole erano nella sua bocca, anche se lui non era più sicuro di riuscire veramente a crederci. Eppure le stava dicendo: «No!», disse, e lo gridava soprattutto alla città, lanciando un grido di rabbia alla musica che li derideva, la musica di Kryne Lamiya. «Maledizione Gwen, ognuno di noi ha dentro qualcosa di questa città, sì. Bisogna però verificare dove lo troviamo questo qualcosa. Tutto ciò è terrificante», lasciò andare le mani e gesticolò nell’oscurità e le sue mani indicavano tutti i luoghi, «ciò che dice è terrificante e peggiore ancora è la paura che si prova quando una parte di noi si dice d’accordo, quando si pensa che sia tutto vero, che si appartenga ad un posto come questo. Ma che si può fare? Se si è deboli, bisogna ignorarla. Fare finta che non esista sai, e forse se ne andrà via. Durante il giorno vedi di impegnarti in discorsi comuni e non pensare mai al buio che c’è fuori. Ecco come puoi farti vincere, Gwen. Alla fine tutto ciò ti inghiottirà, te e i tuoi discorsi comuni, te e gli altri stupidi, continuate a mentirvi l’uno con l’altro, spensieratamente, e la paura non aspetta altro. Tu non puoi comportarti così, Gwen, tu non puoi. Devi sforzarti. Sei un’ecologa, giusto? Di cosa tratta l’ecologia? Della vita! Tu devi stare dalla parte della vita, perché tutto ciò che tu sei lo dice. Questa città, questa maledetta città scheletrica con il suo inno alla morte, nega tutte le cose in cui credi, nega tutto ciò che tu sei. Tu sei forte, puoi fronteggiarla, combatterla e chiamarla per nome. Sfidala».

Gwen aveva smesso di piangere. «È inutile», disse lei, scuotendo il capo.

«Hai torto», rispose lui. «Su questa città e su di noi. È tutto legato assieme, capisci? Dicevi che volevi abitare qui? Bene! Vivi qui! Vivere in questa città rappresenta già di per se stesso una vittoria, una vittoria filosofica. Ma vivi qui perché sai che la vita stessa rifiuta Lamiya-Bailis, vivi qui e ridi di questa sua assurda musica, ma non vivere qui per dire che è giusta tutta questa immensa bugia piagnucolosa». Dirk riprese le mani di Gwen.

«Non lo so», disse lei.

«Io sì», disse lui, mentendo.

«Ma tu lo pensi davvero?… Pensi che possiamo nuovamente ricominciare? Meglio di prima?».

«Tu non sarai più Jenny», promise lui. «Mai più».

«Non so», ripeté lei in un sussurro bassissimo.

Lui le prese il viso con entrambe le mani e glielo sollevò in modo che lei lo fissasse negli occhi. La baciò, pianissimo, le toccò appena appena le labbra. Kryne Lamiya gemette. Il corno suonò basso e dolorosamente tutto attorno a loro, le distanti torri strillarono e si lamentarono lugubremente ed il tamburo solitario mantenne il suo rombo sordo ed insignificante.

Dopo il bacio rimasero in piedi in mezzo alla musica e si guardarono. «Gwen», disse lui alla fine, ma la sua voce non era nemmeno la metà sicura e forte come prima. «Non lo so nemmeno io, direi. Ma forse vale la pena di tentare…».

«Forse», disse lei ed i suoi grandi occhi verdi guardarono altrove e di nuovo in basso. «Sarà dura, Dirk. E poi si deve pensare a Jaan e a Garse, ci sono tanti problemi. E poi non sappiamo nemmeno se ne varrà la pena. Non sappiamo se le cose cambieranno anche di poco».

«No, non lo sappiamo», disse lui. «In questi ultimi anni avevo deciso un mucchio di volte che non importava, che era inutile provarci. Adesso non mi sento meglio, soltanto stanco, di una stanchezza infinita. Gwen, se non ci proviamo non lo sapremo mai».

Lei annuì. «Forse», disse e non aggiunse altro. Il vento soffiava forte e gelato; la musica creata dalla follia dei Cupoli si alzava e si abbassava. Entrarono nell’edificio, poi scesero le scale che si staccavano dal balcone, superarono le pareti con luci bianco-grige che sparivano e giravano e giunsero dove era posata la loro aerauto, solida e vera, che aspettava di riportarli a Larteyn.

5

Volarono dalle torri bianche di Kryne Lamiya fino ai fuochi fuggenti di Larteyn in un mutismo solitario, senza toccarsi, ognuno seguendo i suoi propri pensieri. Gwen lasciò la macchina al suo solito posto sul terrazzo e Dirk la seguì giù per le scale fino alla sua porta. «Aspetta», disse lei in un rapido sussurro, anche se lui si aspettava che semplicemente gli dicesse buona notte. Gwen sparì all’interno; lui aspettò, perplesso. Dall’altra parte della porta si sentivano dei rumori… voci… poi improvvisamente Gwen ritornò e gli premette nelle mani uno spesso manoscritto, una massa di carta davvero impressionante, rilegata a mano in pelle nera. La tesi di Jaan. Se ne era quasi dimenticato. «Leggila», disse lei, appoggiandosi contro la porta. «Vieni su domani mattina e parleremo ancora un po’». Lo baciò appena appena sulla guancia, poi chiuse la pesante porta con uno scatto. Dirk rimase lì, in piedi per qualche istante, rigirando il pesante manoscritto rilegato tra le mani, poi si voltò verso le cabine.

Si era allontanato solo di pochi passi, quando udì il primo grido. Poi, per qualche ragione, non ce la fece più a proseguire; i rumori lo fecero tornare indietro e rimase lì, accanto alla porta ad ascoltare.

Le pareti erano spesse e trapelava molto poco di ciò che veniva detto all’interno. Dirk perse interamente il senso delle parole, ma si sentivano le voci ed il tono. Quella che dominava era la voce di Gwen: alta, acuta — a volte urlava — vicina al limite dell’isteria. Dirk riusciva ad immaginarsela che camminava su e giù per la stanza davanti alle cariatidi, nel modo suo solito di quando era arrabbiata. Dovevano essere presenti entrambi i Kavalari, che la rimbrottavano… Dirk era sicuro di udire due altre voci… una era tranquilla e sicura, senza rabbia, che continuava a domandare inflessibilmente. Doveva trattarsi di Jaan Vikary. La sua cadenza era chiara, il ritmo del suo discorso si poteva facilmente distinguere anche attraverso le pareti. La terza voce, Garse Janacek, all’inizio parlava solo raramente, poi si senti sempre di più, il volume di voce continuava ad aumentare ed anche la rabbia. Dopo un po’ la voce maschile tranquilla era praticamente assente, mentre Gwen e Garse urlavano tra di loro. Poi la voce disse qualcosa, un ordine deciso. E Dirk udì un colpo. Un pugno. C’era qualcuno che aveva colpito qualcun altro, non poteva essere nient’altro.

Alla fine Vikary diede degli ordini e ne seguì il silenzio. Le luci nella stanza si spensero.

Dirk rimase in piedi tranquillo, con il manoscritto di Vikary in mano, chiedendosi cosa dovesse fare. Pareva che non ci fosse proprio niente che potesse fare, tranne parlare con Gwen la mattina successiva per scoprire chi era stato a colpirla e perché. Doveva essere stato Janacek, pensò.

Ignorando la cabina dell’ascensore, decise di prendere le scale per raggiungere la camera di Ruark.

Una volta a letto, Dirk scoprì di essere immensamente stanco e malamente scosso da ciò che era capitato quel giorno. Tante cose in un solo giorno, si potevano affrontare ben difficilmente. I cacciatori Kavalari ed i loro falsuomini, la vita strana e amara che Gwen conduceva con Vikary e Janacek, l’inebriante possibilità di poter ritornare assieme. Pensò a queste cose per lungo tempo, incapace di prender sonno. Ruark dormiva già; non c’era nessuno con cui si potesse parlare. Alla fine Dirk decise di prendere il manoscritto che gli aveva dato Gwen e cominciò a sfogliare le prime pagine. Non c’era niente come un buon mattone scientifico per addormentarsi, pensò.

Quattro ore e mezza dozzina di tazze di caffè dopo, lui posò il manoscritto, sbadigliò e si sfregò gli occhi. Quindi chiuse la luce e fissò l’oscurità.

La tesi di Jaan Vikary — Mito e Storia: Origini della società di granlega, sulla scorta di un’interpretazione del ciclo di Demoncanti di Jamis-Leone Taal — era il peggiore atto d’accusa verso il suo popolo. Peggio delle cose che avrebbe potuto dire Arkin Ruark, pensò Dirk. Aveva messo giù tutto, con scritte le fonti e la documentazione ricavata dalle banche di dati di Avalon, con lunghe citazioni ricavate dal poeta Jamis-Leone Taal ed anche più lunghe dissertazioni su ciò che Jamis Taal voleva dire. Tutto ciò che lui e Gwen gli avevano detto quella mattina, era lì, ben dettagliato. Vikary forniva teorie su teorie, cercando di spiegare tutto. Spiegava perfino i falsuomini, più o meno. Pensava che durante il Tempo del Fuoco e dei Demoni, alcuni sopravvissuti avessero raggiunto i campi minerari per cercar rifugio. Tuttavia, una volta accolti si rivelarono pericolosi. Alcuni erano rimasti vittime della malattia da radiazioni; morirono lentamente ed in maniera orribile e forse passarono l’avvelenamento a quelli che li avevano assistiti. Altri, che parevano in buona salute, continuarono a vivere, diventando membri della proto-granlega, finché si sposarono ed ebbero dei figli. Allora la contaminazione da radiazione divenne ben visibile. Da parte di Vikary erano solo congetture, confermate solo da un paio di vefsi tratti da Jamis-Leone, eppure pareva un modo convincente e plausibile per razionalizzare il mito dei falsuomini.

Vikary aveva anche scritto parecchio sull’avvenimento che i Kavalari chiamavano Peste Dolorosa… e che lui chiamava per la precisione «il passaggio ai modelli della contemporanea famiglia sessuale».

Secondo la sua ipotesi, gli Hrangani erano ritornati su Alto Kavalaan approssimativamente un secolo dopo la loro prima sortita. Le città che avevano bombardato erano ancora radioattive; non c’era alcun segno di nuove costruzioni da parte degli umani. Eppure le tre razze schiave che loro avevano mandato per conquistare il pianeta non si vedevano da nessuna parte: decimate, estinte. Indubbiamente la Mente che comandava gli Hrangani dovette concludere che alcuni degli umani dovevano vivere ancora. Per fare una pulizia definitiva, gli Hrangani fecero cadere delle bombe pestilenziali. Questa era la teoria di Vikary.

Le poesie di Jamis-Leone non facevano alcun cenno agli Hrangani, ma parlavano spesso della malattia. Tutti i resoconti dei Kavalari superstiti concordavano su questo punto. Ci fu una Peste Dolorosa, un lungo periodo in cui le granleghe furono soggette ad un’epidemia dopo l’altra. Ogni cambio di stagione portava una malattia più tremenda di quella che l’aveva preceduta… era il demone definitivo, quello che i Kavalari non sapevano né combattere, né uccidere.

Morirono novanta uomini su cento. Novanta uomini e novantanove donne.

Una delle molte pesti pareva che fosse selettiva verso le donne. Gli specialisti in medicina che Vikary aveva consultato su Avalon gli dissero che, basandosi sulle poche prove che lui poteva fornire — alcuni poemi antichi e delle canzoni — pareva probabile che gli ormoni sessuali femminili potessero agire da catalizzatori della malattia. Jamis-Leone Taal aveva scritto che alle giovani vergini era risparmiato lo spargimento di sangue a causa della loro innocenza, mentre le corrotte eyn-kethi vennero colpite e morivano con tremiti convulsi. Vikary interpretò queste parole con il fatto che le ragazze prepubescenti erano lasciate sane, mentre le donne sessualmente mature erano devastate. Venne spazzata via un’intera generazione. Peggio ancora, la malattia si protrasse; non appena le ragazze raggiungevano la pubertà venivano colpite dalla malattia. Jamis-Leone vide in ciò una verità di vasto significato religioso.

Alcune donne si salvarono: quelle naturalmente immuni. In principio furono pochissime. Poi furono più numerose; perché quelle che sopravvivevano producevano bambini e bambine, molte delle quali erano immuni, mentre quelle che non avevano ricevuto l’immunità morivano all’età della pubertà. Dopo un po’ tutti i Kavalari furono immuni, con rare eccezioni. La Peste Dolorosa terminò.

Ma il danno era ormai fatto. Erano state spazzate via intere granleghe; quelli che si erano disperatamente attaccati alla vita avevano visto diminuire la loro popolazione al punto che pareva impossibile mantenere una società attiva. Sicché le strutture sociali e le regole sessuali dovettero estirpare per sempre l’egualitarismo monogamo delle colonie terrestri. Erano giunte alla maturità sessuale intere generazioni in cui gli uomini erano molto più numerosi delle donne, dieci volte di più; le ragazzine passavano la loro vita da bambine con il timore di poter morire una volta raggiunta la pubertà. Furono tempi cupi. Su questo punto sia Jaan Vikary che Jamis-Leone Taal la pensavano allo stesso modo.

Jamis-Leone scrisse che il peccato fu finalmente allontanato da Alto Kavalaan quando le eyn-kethi furono chiuse al sicuro, lontane dalla luce del giorno, nelle caverne da cui erano uscite, dove non si poteva vedere la loro vergogna. Vikary scrisse che i sopravvissuti Kavalari avevano fatto ciò che era meglio. Non possedevano ormai più le capacità tecnologiche di costruire delle camere a tenuta stagna; ma indubbiamente si era parlato dell’esistenza, un tempo, di posti del genere e speravano ancora che nelle caverne la malattia non potesse arrivare. Così le donne superstiti vennero messe al sicuro in ospedali simili a prigioni profondamente scavati nella terra, nella zona più sicura della granlega, la zona più lontana dai venti contaminati, dalla pioggia e dall’acqua. Gli uomini che un tempo giravano, cacciavano e facevano la guerra con le loro mogli al fianco, adesso uscivano con un altro uomo vicino e tutti e due piangevano le perdute collaboratrici. Per rallentare la tensione sessuale — e per mantenere alto il livello genetico meglio che potevano, ammesso che una simile idea fosse loro venuta in mente — gli uomini che vissero attraverso la Peste Dolorosa dichiararono le loro donne proprietà sessuale di tutti. Per far sì che potessero esserci molti bambini, le fecero diventare delle allevatrici perpetue che vivevano la loro vita al sicuro, eternamente pregne. Le granleghe che non adottarono una simile misura non riuscirono a sopravvivere; quelle che lo fecero acquisirono un’eredità culturale.

Si radicarono anche altri cambiamenti. Tara era stato un mondo religioso, culla della Chiesa Cattolica Riformata Irlandese-Romana, e la necessità della monogamia non fu facile da estirpare. I modelli si svilupparono secondo due forme diverse; da una parte il rapporto tra i due partners cacciatori che divenne la base per un’intensa relazione totale di teyn-e-teyn, mentre gli uomini che desideravano un vincolo semi-esclusivo con una donna crearono le betheyn, catturando le femmine dalle altre granleghe. I capi incoraggiavano tali razzie, diceva Jaan Vikary; donne nuove significavano sangue nuovo, più bambini, una popolazione superiore e perciò, più possibilità di sopravvivenza. Era impensabile che un uomo avesse la potestà su una sola eyn-kethi; ma un uomo che riusciva a portare una donna da fuori era ricompensato con degli onori e sedeva al consiglio dei capi ed acquisiva, forse più importante di tutto, la donna.

Questa era la ricostruzione probabile degli eventi, commentava Vikary, verità evidenti, che avevano prodotto l’attuale società Kavalar. Jamis-Leone Taal, percorrendo il suo mondo molte generazioni più tardi, era stato a tal punto un figlio della propria cultura da non riuscire nemmeno a concepire un mondo in cui le donne vivessero in uno stato diverso da quello che lui aveva visto; e quando fu costretto a pensarla diversamente dai racconti popolari che aveva raccolto, pensò che l’idea era intollerabilmente peccaminosa. Quindi riscrisse tutta la letteratura orale nel momento in cui plasmò il suo ciclo di Demoncanti. Trasformò Kay Ferro Fabbro in un uomo gigantesco dalla voce di tuono, fece della Peste Dolorosa una ballata sulla malvagità delle eyn-kethi, e creò l’impressione generale che il mondo fosse sempre stato quello che lui aveva trovato. Più tardi ì poeti costruirono sulla base che lui aveva lasciato.

Le forze che avevano prodotto la società delle granleghe di Alto Kavalaan erano scomparse da tempo. Al giorno d’oggi, le donne e gli uomini erano più o meno nello stesso numero, le epidemie erano ormai delle fumose favole, la maggior parte dei pericoli che si nascondevano sulla superficie del pianeta erano stati piegati. Tuttavia le coalizioni di granlega continuavano. Gli uomini combattevano duelli, studiavano la nuova tecnologia, lavoravano alle fattorie, all’interno delle fabbriche e navigavano sulle navi spaziali Kavalar, mentre le eyn-kethi vivevano in vaste caserme sotterranee, facendo le compagne sessuali di tutti gli uomini della granlega, lavorando a qualsiasi cosa i consigli degli altolegati ritenessero sicuro e adatto, ed avevano bambini, anche se adesso erano meno. La popolazione Kavalar era strettamente controllata. Altre donne vivevano in maniera un po’ più libera sotto la protezione della giada-e-argento, ma non erano molte. Una betheyn doveva venire dall’esterno della granlega, il che in pratica significava che un giovanotto ambizioso dovesse sfidare e uccidere un altolegato di un’altra coalizione, oppure reclamare una eyn-kethi di una granlega nemica ed affrontare un difensore scelto dal consiglio. La seconda via portava raramente a! successo; gli altolegati dei consigli sceglievano invariabilmente il più esperto dei duellatori per difendere la eyn-kethi. In effetti, la designazione era un onore singolare. Un uomo che riusciva a guadagnarsi una betheyn acquisiva immediatamente i suoi aitinomi ed il posto tra i governanti. Si diceva che dava al suo kethi il dono dei due sangui: il sangue della morte, un nemico ucciso, ed il sangue della vita, una nuova donna. La donna godeva lo stato di giada-e-argento fino a che il suo altolegato non veniva ucciso. Se veniva ucciso da uno della sua granlega, la donna diventava una eyn-kethi; se l’uccisore era uno di fuori, la donna passava a lui.

Questo era lo stato assunto da Gwen Delvano quando si era stretta al polso il braccialetto di Jaan.

Dirk rimase sveglio per gran tempo, pensando a tutto ciò che aveva letto con gli occhi fissi al soffitto e diventando sempre più arrabbiato man mano che ci pensava. Quando la prima luce dell’alba cominciò a filtrare lentamente dalla finestra che aveva sul capo, aveva deciso. In un certo senso non aveva più nessuna importanza se Gwen ritornava da lui o no, ma doveva assolutamente lasciare Vikary e Janacek e tutta la stramaledetta società di Alto Kavalaan. Ma da sola lei non sarebbe mai riuscita a rompere col passato, per quanto lo desiderasse. Benissimo allora, Arkin Ruark aveva ragione; lui avrebbe aiutato Gwen. L’avrebbe aiutata ad essere libera. E dopo ci sarebbe stato tempo per pensare alla loro relazione.

Alla fine, dopo aver preso una decisione precisa, Dirk si addormentò.

Quando si svegliò era mezzogiorno. Si svegliò di soprassalto, con la sensazione di essere colpevole. Si sedette sul letto, sbatté gli occhi e si ricordò che aveva promesso a Gwen di salire quel mattino e adesso la mattina era passata e lui aveva dormito più del solito. Si alzò in fretta e si vestì, si guardò attorno per trovare Ruark… il Kimdissi se ne era andato e non c’era niente che gli facesse capire dove era andato, o per quanto tempo… poi andò all’appartamento di Gwen, con la tesi di Vikary ben stretta sotto il braccio.

Bussò e venne ad aprirgli Garse Janacek.

«Sì?», disse il Kavalar con la barba rossa, aggrottando la fronte. Era nudo fino alla vita, indossava solo un paio di pantaloni molto comodi ed il solito braccialetto di ferro-e-pietraluce al braccio destro. Dirk capi subito perché Janacek non indossava le camicie con il collo a V, che parevano piacere tanto a Vikary; la parte sinistra del suo torace, dall’ascella al petto, recava una cicatrice lunga e tormentata, liscia e dura.

Janacek seguì il suo sguardo. «Un duello andato male», scattò lui. «Ero troppo giovane. Non capiterà più. Allora, di cosa ha bisogno?».

Dirk arrossì. «Voglio vedere Gwen», disse.

«Non è qui», disse Janacek, con gli occhi di ghiaccio, duri e privi di amicizia. Fece per chiudere la porta.

«Aspetti». Dirk fermò la porta con la mano.

«C’è altro? Che cos’è?».

«Gwen. Era inteso che ci saremmo visti. Dove si trova?».

«Nella foresta, t’Larien. Sarei grato che lei si ricordasse che Gwen è un’ecologa, mandata qui dagli altolegati di Ferrogiada per svolgere un lavoro importante. Gwen ha abbandonato il lavoro per due giorni interi per scarrozzare lei avanti ed indietro. Adesso, come è giusto, è tornata al lavoro. Lei ed Arkin Ruark hanno preso i loro strumenti e se ne sono andati nella foresta».

«Non mi aveva detto niente ieri sera», insistette Dirk.

«Non ha nessun dovere di informare lei di quello che ha intenzione di fare», disse Janacek. «Del resto non ha bisogno di avere il suo permesso per le sue cose. Non ci sono vincoli tra di voi».

Ricordando la lite che aveva spiato la sera prima, Dirk diventò improvvisamente sospettoso. «Posso entrare?», disse. «Vorrei restituire questo a Jaan e parlarne con lui», aggiunse, mostrando a Garse la tesi rilegata in cuoio. Per la verità sperava di poter vedere Gwen, di scoprire se la tenevano lontana da lui. Ma non era certo facile dire una cosa del genere; Janacek sprizzava ostilità da tutti i pori e non era certo la cosa migliore cercare di spingerlo da parte.

«Al momento Jaan non è in casa. Non c’è nessuno oltre a me. E anch’io sto per andarmene». Allungò una mano e strappò via la tesi dalle mani di Dirk. «Comunque prenderò questa roba. Gwen non avrebbe dovuto dargliela».

«Ehi!», disse Dirk. Ebbe come un impulso. «La storia era molto interessante», disse in fretta. «Non posso entrare e parlarne con lei? Un secondo o due… non voglio farle perdere tempo».

All’improvviso Janacek parve cambiare idea. Sorrise, lo lasciò passare e gli fece strada nell’appartamento.

Dirk gettò un rapido sguardo all’intorno. Il soggiorno era deserto, il caminetto era freddo; non c’era niente che sembrasse fuori posto o mancante. Anche la sala da pranzo, che era visibile attraverso un arco aperto, era vuota. Tutto l’appartamento era tranquillo. Nessun segno di Gwen o di Jaan. Da ciò che lui poteva vedere, pareva che Janacek gli avesse detto la verità.

Incerto, Dirk girò per la stanza, fermandosi presso la cappa con le cariatidi. Janacek lo osservò senza parlare, poi si voltò ed uscì, per ritornare poco dopo. Si era messa la sua cintura di maglia metallica con il fodero e si stava abbottonando una camicia sbiadita.

«Dove sta andando?», chiese Dirk.

«Fuori», rispose Janacek con un breve ghigno. Sbottonò la falda del fodero e trasse la pistola a laser, controllò il quadrante di carica sul lato del calcio, poi la rinfoderò e la trasse di nuovo fuori — un movimento continuo e controllato della mano destra — e guardò Dirk. «Le faccio paura?», chiese.

«Sì», disse Dirk. Si allontanò dalla cappa.

Janacek riprese a sorridere. Fece scivolare il laser nella fondina. «Sono piuttosto bravino con il laser da duello», disse, «anche se, per la verità, è meglio il mio teyn. Naturalmente io posso usare solo la mano destra. La sinistra mi fa ancora male. La pelle cicatrizzata mi tira ed anche i muscoli del torace non si muovono con la stessa facilità di quelli dalla parte destra. Però non mi interessa granché. Io sono soprattutto un mandestro. Il braccio destro è sempre meglio del sinistro, capisce». Continuava a tenere la mano destra sulla pistola mentre parlava e le pietreluce incastonate nel ferro nero scintillavano come piccoli occhi sul suo braccio.

«Certo che è stata una brutta ferita».

«Ho fatto uno sbaglio, t’Larien. Forse ero troppo giovane, ma il mio era un errore che a quell’età non avrei dovuto fare. Errori come quello possono essere una cosa molto seria e, del resto, sono riuscito a cavarmela con poco». Guardava Dirk fissamente. «Si dovrebbe fare molta attenzione a non fare mai sbagli».

«Ah!», disse Dirk con un sorriso innocente.

Per un po’ Janacek non disse niente. Poi, alla fine disse: «Credo che lei sappia di cosa sto parlando».

«Davvero?».

«Sì. Lei non è un uomo poco intelligente, t’Larien. E nemmeno io. I suoi trucchetti da ragazzino non mi divertono. Lei non ha niente da discutere con me, ad esempio. Lei voleva semplicemente introdursi in questa stanza per qualche sua ragione».

Il sorriso di Dirk svanì. Annuì. «Va bene. Un trucco pidocchioso, chiaro, lei lo ha capito benissimo. Volevo vedere se c’era Gwen».

«Le avevo già detto che era uscita per andare nella foresta, a lavorare».

«Non le credo», disse Dirk. «Altrimenti ieri sera mi avrebbe detto qualcosa. Lei cerca di tenermi lontano da Gwen. Perché? Che cosa succede?».

«Niente che le possa interessare», disse Janacek. «Veda di capirmi, t’Larien, se crede. Forse per lei, come per Arkin Ruark, io sono un bruto. Lei può pensarlo se vuole. Non me ne frega granché. Ma non sono un bruto. Ecco perché la mettevo in guardia dal commettere errori. Ecco perché l’ho fatta entrare, anche se sapevo benissimo che non aveva niente da dirmi. Perché io avevo da dirle qualcosa».

Dirk si appoggiò allo schienale del divano ed annuì. «Va bene Janacek, vada avanti».

Janacek aggrottò la fronte. «Il suo problema, t’Larien, è che lei sa poco e capisce anche meno sia Jaan che me e il nostro mondo».

«So più di quel che pensa».

«Davvero? Ha letto le cose che ha scritte Jaan sui Demoncanti ed indubbiamente le hanno detto qualcosa. E allora cosa significa? Lei non è un Kavalar, direi, eppure se ne sta qui in piedi davanti a me e le leggo il giudizio che ha ormai espresso negli occhi. Ma con quale diritto? Chi è lei per giudicare? Lei ci conosce appena. Le voglio fare un esempio. Non più di un secondo fa lei mi ha chiamato Janacek».

«Questo è il suo nome, non è così?».

«Questa è una parte del mio nome, l’ultima parte, la minore e la più piccola parte di ciò che io sono. È il nome che mi sono scelto, il nome di un antico eroe dell’Unione Ferrogiada che visse una vita lunga ed edificante, molte volte onorevole, difendendo la sua granlega ed il suo kethi nell’altaguerra. Naturalmente so benissimo perché lei mi chiama così. Sul suo mondo e secondo il vostro sistema di dare i nomi, è normale chiamare quelli con cui ci si sente distanti o verso cui si prova ostilità solo con l’ultima parte del nome… un intimo lei lo chiamerebbe con il primo nome, non è vero?».

Dirk annuì. «Più o meno. Non è una cosa tanto semplice, ma ci è andato abbastanza vicino».

Janacek sorrise appena; gli occhi azzurri parevano scintillare. «Vede, io che capisco il suo popolo, molto bene. Inoltre seguo i suoi principi… io la chiamo t’Larien perché provo dell’ostilità verso di lei e questo è un modo di fare corretto. Tuttavia lei non ricambia in maniera corretta. Lei si rivolge a me come se fossi Janacek, senza pensarci nemmeno un momento, senza preoccuparsene nemmeno un poco, imponendomi il suo sistema di dare i nomi».

«Allora come dovrei chiamarla? Garse?».

Janacek fece un gesto di stizza, di impazienza. «Garse è il mio vero nome, ma non è adatto, detto da lei. Secondo l’uso Kavalar l’uso di questo nome da solo indicherebbe un rapporto che in verità non esiste tra di noi. Garse è un nome per il mio teyn e la mia cro-betheyn, per i miei kethi, non per quelli che vengono da un altro mondo. Per la verità lei dovrebbe chiamarmi Garse Ferrogiada e dovrebbe chiamare il mio teyn Jaantony Ferrogiada. Questi sono nomi tradizionali e corretti tra uguali, il Kavalar di un’altra casa, uno con cui sono in termini di semplice conoscenza. Le concedo il beneficio di molti dubbi». Sorrise. «Ora, lei capisce t’Larien, le dico tutto questo solo per spiegarle. Chissà cosa me ne importa se lei mi chiama Garse o Garse Ferrogiada, oppure signor Janacek! Mi chiami come cavolo preferisce ed io non accuserò insulto. Ho sentito dire che il Kimdissi Arkin Ruark mi chiama addirittura Garsey, eppure mi sono trattenuto dall’irrefrenabile impulso di pungerlo per vedere se si gonfia.

«Questi fatti di cortesia e di indirizzamento… non mi serve certo sentire Jaan che mi viene a dire che si tratta di roba vecchia, vincoli derivati da giorni nello stesso tempo più complessi e più primitivi e che sono ormai morti ai giorni attuali. Adesso i Kavalari guidano le navi spaziali da stella a stella, parlano e commerciano con creature che un tempo avrebbero sicuramente sterminato perché erano dei demoni, fabbricano addirittura pianeti, come è stato fatto per Worlorn. L’Antico Kavalar, la lingua delle granleghe parlata per migliaia di anni, non lo parla quasi più nessuno anche se resistono ancora alcuni termini e continueranno ad essere usati, perché danno il nome a realtà che altrimenti potrebbero essere nominate solo in modo goffo o non potrebbero essere nominate affatto nelle lingue dei viaggi spaziali… realtà che svanirebbero all’istante se fossero chiamate con i vostri nomi, se non fossero più usati i termini dell’antico Kavalar. Tutto è cambiato, anche noi di Alto Kavalaan siamo cambiati, Jaan dice che dovremmo cambiare ancora di più se vogliamo scrivere il nostro destino nella storia dell’uomo. Così le vecchie regole dei nomi e dei nomelegati sono state infrante e perfino gli altolegati parlano in maniera frivola e Jaantony alto-Ferrogiada si fa chiamare Jaan Vikary».

«Questo non importa», disse Dirk, «ma lei dove vuole arrivare?».

«Voglio arrivare a dare delle spiegazioni, t’Larien, una spiegazione semplice ed elegante di ciò che lei pensava di aver capito della nostra cultura, di come lei adatti i suoi giudizi e le sue valutazioni a noi con ogni parola e con ogni sua azione. Ecco il punto. Ci sono delle cose più importanti, si capisce, ma lo schema è sempre lo stesso; lei continua a fare il solito errore, un errore che non dovrebbe fare. Il prezzo potrebbe essere più alto di quello che lei è disposto a pagare. Lei crede che io non sappia ciò che sta cercando di fare?».

«Che cosa sto cercando di fare?».

Janacek sorrise ancora, con gli occhietti piccoli e duri, mentre piccole rughe si formavano agli angoli. «Lei sta cercando di portare via Gwen Delvano al mio teyn. Vero?».

Dirk non disse niente.

«È la verità», disse Janacek. «E non è la verità. Perché io non lo permetterei mai. Io non lo permetterò. Sono legato con ferro-e-pietraluce a Jaantony alto-Ferrogiada e non me lo dimenticherò. Siamo teyn-e-teyn, noi due. Non c’è vincolo tra quelli che conosce lei che sia così forte».

Dirk si scoprì a pensare di Gwen ed alla abissale goccia rossa piena di memorie e di promesse. Pensò che era un peccato che non potesse dare la gemma mormorante a Janacek perché la stringesse un istante, in modo che l’arrogante Kavalar potesse saggiare quando era stato forte il vincolo che aveva unito Dirk alla sua Jenny. Ma sarebbe stata una cosa inutile. La mente di Janacek non avrebbe avuto alcuna risonanza con gli schemi esperincisi nella pietra; per lui sarebbe stata semplicemente una gemma. «Ho amato Gwen», disse tagliente. «Dubito che voi abbiate dei vincoli più forti di questo».

«Davvero? Be’, lei non è un Kavalar e non lo è nemmeno Gwen. Voi due non capite il ferro-e-pietraluce. La prima volta che ho incontrato Jaantony eravamo tutti e due giovanissimi. Per la verità io ero anche più giovane. A lui piaceva giocare di più coi bambini piccoli che con quelli della sua età e veniva frequentemente al nostro asilo. Fin dal primo momento l’ho tenuto in grande stima, come può fare solo un ragazzo, perché lui era più anziano di me e perciò più vicino a diventare un altolegato ed anche perché mi guidava in avventure in strani corridoi e caverne e mi raccontava delle storie affascinanti. Quando fui più vecchio, capii perché veniva coi bambini più giovani tanto spesso e ne rimasi colpito e me ne vergognai. Lui aveva paura di quelli della sua età, perché lo beffeggiavano e spesso lo picchiavano. Eppure c’era un legame tra di noi, fin dal tempo in cui io seppi queste cose. Può chiamarla amicizia se vuole, ma sarebbe sbagliato, vorrebbe dire imporre i suoi concetti al nostro modo di vivere ancora una volta. Era qualcosa di più della vostra amicizia di abitanti di un altro mondo, c’era già il ferro tra di noi, anche se non eravamo ancora teyn-e-teyn.

«La volta successiva in cui Jaan ed io andammo insieme in esplorazione — eravamo molto lontani dalla nostra granlega, in una caverna che lui conosceva benissimo — io lo colsi alla sprovvista e lo picchiai finché ogni parte del suo corpo non fu ferita o gonfia. Lui non fece più visita alla mia caserma-nido per tutto l’inverno, però alla fine ritornò. Non c’era astio tra di noi. Cominciammo ad andare in giro e a cacciare assieme come prima e lui mi raccontò delle altre storie, racconti mitici e storici. Da parte mia, non mancavo mai di assalirlo ogni tanto e lo trovavo sempre impreparato e lo sopraffacevo. Dopo un po’ cominciò a contrastarmi, anche bene. Dopo un altro po’ mi riuscì impossibile sorprenderlo coi pugni. Un giorno portai fuori da ferrogiada un coltello di nascosto sotto la camicia, mi lanciai su Jaan e lo tagliai. Allora cominciammo a portare dei coltelli tutti e due. Quando raggiunse l’adolescenza, l’età in cui doveva scegliersi i nomi per sottoporsi al codice duellesco, Jaantony non era più un soggetto che si potesse facilmente prendere in giro.

«Era sempre poco simpatico. Deve sapere che era un tipo che faceva un mucchio di domande, chiedeva delle cose scomode ed aveva delle opinioni poco ortodosse. Amava la storia e criticava apertamente la religione, inoltre aveva un grande interesse, troppo, per gli abitanti di altri mondi che venivano tra di noi. Per cui dovette subire una gran quantità di duelli nel primo anno in cui raggiunse l’età duellesca. Vinse sempre. Quando, dopo pochi anni anch’io raggiunsi l’età dell’adolescenza e diventammo teyn-e-teyn, non mi restò quasi nessuno con cui combattere. Jaantony aveva spaventato tutti, per cui nessuno ci sfidava. La cosa mi scocciava parecchio.

«Da allora abbiamo duellato assieme parecchie volte. Siamo vincolati per la vita, ne abbiamo passate tante assieme e non la voglio sentire sputar sentenze e far confronti con l’insignificante «amore» che affascina voi stranieri, questo vincolo falsumano che va e viene secondo il capriccio del momento. Lo stesso Jaantony è stato malamente corrotto da questo concetto negli anni che ha passato su Avalon ed è stata anche un po’ colpa mia, perché l’ho lasciato andare da solo. È vero che su Avalon non avrei avuto nessuna funzione né collocazione, eppure avrei dovuto seguirlo. In questo ho sbagliato con Jaan. Ma non farò altri sbagli con lui. Io sono il suo teyn e sarò sempre il suo teyn e non permetterò a nessuno di ucciderlo o ferirlo, nemmeno di stranirgli la mente, o di carpirgli il nome. Questi sono i miei vincoli ed i miei doveri.

«Troppo spesso in quei giorni Jaan ha permesso che il suo nome fosse malversato da gente come lei e Ruark. Sotto molti aspetti Jaan è un uomo perverso e pericoloso ed i suoi ghiribizzi mentali ci mettono spesso in pericolo. Perfino i suoi eroi… mi venivano in mente, giorni fa, alcune delle storie che mi aveva raccontato durante la mia infanzia. Rimasi colpito dal fatto che tutti gli eroi preferiti da Jaan erano uomini solitari che alla fine venivano sconfitti. Aryn alto-Pietraluce, per esempio, che dominò un’intera epopea storica. Governò con la forza della sua personalità la più potente granlega che Alto Kavalaan abbia mai conosciuto, Monte Pietraluce; poi quando i suoi nemici fecero lega contro di lui nell’altaguerra, quando tutte le braccia erano sollevate contro di lui, egli pose spade e scudi in mano alle sue eyn-kethi e le portò in battaglia per aumentare il volume del suo esercito. I suoi nemici vennero sbaragliati ed umiliati secondo ciò che mi raccontava Jaan. Ma più tardi seppi che Aryn alto-Pietraluce non aveva conosciuto alcuna vittoria. Seppi che molte eyn-kethi della sua granlega vennero uccise quando non riuscirono più a dare alla luce nuovi guerrieri. Monte Pietraluce declinò presto in potenza e in popolazione e quarant’anni dopo l’audace sortita di Aryn, i Pietraluce caddero e gli altolegati di Taal, Ferrogiada e Bronzeopugno, catturarono le loro donne e i bambini, lasciando le caverne deserte. La verità è che Aryn alto-Pietraluce non fu altro che un fallimento ed uno stolto, uno dei paria della storia, come tutti i folli eroi di Jaan».

«Aryn mi sembra abbastanza eroico», disse Dirk acido. «Su Avalon si sarebbe detto probabilmente che aveva per lo meno eliminato la schiavitù, anche se non aveva vinto».

Janacek gli lanciò uno sguardo di fuoco: gli occhi erano scintille azzurre poste in due fessure del cranio. Si tirò la barba rossa con aria infastidita. «t’Larien, questa è una di quelle osservazioni contro cui l’avevo messa in guardia. Le eyn-kethi non sono schiave, sono eyn-kethi. Lei giudica le cose in modo sbagliato e le sue traduzioni sono false».

«Secondo lei», disse Dirk. «Secondo Ruark…».

«Ruark». Il tono di Janaceck era sprezzante. «La fonte di tutte le sue informazioni su Alto Kavalaan è dunque il Kimdissi? Vedo che ho sprecato tempo e parole con lei, t’Larien. Lei ormai è contagiato e non le interessa affatto comprendere. Non è altro che uno strumento dei manipolatori di Kimdiss. Non la disturberò più con altre conferenze».

«Bene», disse Dirk. «Mi dica solo dove si trova Gwen».

«Gliel’ho detto».

«Quando ritornerà, allora?».

«Tardi e sarà anche stanca. Sono sicuro che non avrà nessuna voglia di vedere lei».

«È lei che la tiene lontano da me!».

Janacek tacque per un istante. «Sì», disse alla fine, con la bocca atteggiata in un ampio sorriso. «È la cosa migliore, t’Larien, per lei come per Gwen, anche se non mi aspetto che lei ci creda».

«Lei non ha nessun diritto».

«Secondo la sua cultura. Ma ne ho tutti i diritti nella mia. Non le sarà mai più permesso di restar solo con Gwen».

«Gwen non fa parte della vostra maledetta e bacata cultura Kavalar», disse Dirk.

«Non è nata in quella cultura, ma ha acquisito la giada-e-argento, oltre al nome di betheyn. Ormai è Kavalar».

Dirk tremava, non riusciva più a controllarsi, «E lei che ne dice di questo?», domandò, facendosi più vicino a Janacek. «Che cosa ha detto ieri notte? Ha minacciato di abbandonarvi?». Puntò il dito contro il torace del Kavalar. «Ha detto che sarebbe venuta con me, non è vero? Così lei l’ha colpita e l’ha portata via!».

Janacek aggrottò la fronte ed allontanò bruscamente la mano di Dirk. «Sicché oltre tutto ci spia. E lo fa anche male, t’Larien, comunque è una cosa offensiva. Un secondo errore. Il primo errore lo ha fatto Jaan, che le ha detto ciò che le ha detto, che ha avuto fiducia di lei e che le ha dato la sua protezione».

«Io non ho bisogno della protezione di nessuno!».

«Lo dice lei. Un orgoglio fuori posto da idiota. Solo quelli che sono fortissimi possono rifiutare le protezioni; quelli che sono deboli ne hanno assolutamente bisogno». Si girò dall’altra parte. «Non sprecherò altro tempo con lei», disse, avviandosi verso la sala da pranzo. C’era un bauletto portatile messo sul tavolo. Janacek lo aprì facendo scattare simultaneamente entrambi i chiavistelli e spalancando il coperchio. All’interno Dirk vide cinque file di banscee a spilla in ferro nero incastonate nel velluto rosso. Janaceck ne prese una. «È ben certo di non volere una di queste? Korariel?». Fece un largo sorriso.

Dirk incrociò le braccia e non lo degnò di una risposta.

Janacek aspettò un momento per sentire se rispondeva. Visto che l’altro non parlava, ripose la banscea al suo posto e chiuse la scatola. «I bambini di gelatina non sono di gusti così difficili come i suoi», disse. «Adesso devo portare queste cose a Jaan. Se ne vada».

Erano le prime ore del pomeriggio. Il Mozzo bruciava fioco al centro del cielo, assieme alle deboli luci sparse dei quattro soli Troiani che lo circondavano irregolarmente. Da est soffiava un forte vento, sembrava che stesse per diventare bufera. La polvere roteava per i viali grigi e scarlatti.

Dirk si era seduto su un angolo della terrazza, con le gambe che penzolavano verso la strada, e pensava.

Aveva seguito Garse Janacek fino al terrazzo d’atterraggio e lo aveva visto partire, portando la cassetta con le banscee e volando via con la sua macchina spigolosa, residuato bellico, con l’armatura verde oliva. Le altre due aerauto, la manta con le ali grigie e la goccia gialla, se ne erano andate. Era arenato qui su Larteyn e non aveva la minima idea di dove fosse Gwen, né sapeva ciò che le avessero fatto. Per un attimo desiderò che ci fosse Ruark lì attorno. Desiderò di poter avere un’aerauto. Indubbiamente avrebbe potuto affittarne una a Sfida, se ci avesse pensato, oppure allo spazioporto, la sera in cui era arrivato. Invece era solo e senza possibilità. Non c’erano nemmeno gli aeroscooter. Il mondo era grigio, rosso ed inservibile. Si chiese cosa potesse fare.

Improvvisamente gli venne un’idea, mentre se ne stava seduto a pensare alle aerauto. Le città del festival che aveva visto erano tutte molto diverse tra di loro, ma avevano una cosa in comune: nessuna di loro aveva spazio sufficiente per parcheggiare le aerauto di tutta la popolazione. Il che significava che le città dovevano essere collegate da una qualche rete di trasporti. Il che significava che forse lui aveva una certa possibilità di azione, malgrado tutto.

Si alzò in piedi, andò alla cabina dell’ascensore e scese nell’alloggio di Ruark, alla base della torre. Tra due piante con la corteccia nera, alte fino al soffitto, sistemate in vasi di terra, c’era uno schermo a parete, che infatti ricordava di aver già visto. Era scuro e in disuso e Dirk lo aveva visto così fin da quando era arrivato; c’era rimasta poca gente su Worlorn a cui si potesse telefonare. Ma indubbiamente c’era un servizio di informazioni. Studiò la doppia fila di pulsanti posta sotto lo schermo, ne scelse uno e lo premette. L’oscurità si trasformò in morbida luce azzurra e Dirk si sentì risollevato; la rete telefonica, per lo meno, funzionava ancora.

Uno dei pulsanti portava impresso un punto interrogativo. Provò con quello e ne fu ripagato. La luce azzurra scomparve ed immediatamente lo schermo si riempì di scritte a piccoli caratteri, un centinaio di servizi basilari, si andava dal pronto soccorso e dalle informazioni religiose fino alle notizie degli altri mondi.

Digitò la sequenza di «trasporti per i visitatori». Gli schemi attraversarono lo schermo e le speranze di Dirk svanirono una per una. C’erano possibilità di affittare aerauto allo spazioporto e a dieci delle quattordici città. Tutto chiuso. Le aerauto avevano lasciato Worlorn con la folla del festival. Altre città avevano avuto a disposizione hovercraft e battelli ad idroguida. Adesso non più. A Musquel Marina, i visitatori potevano navigare su e giù per la costa in autentiche navi spinte dal vento provenienti dalla Colonia Dimenticata. Il servizio era terminato. Il servizio di collegamento di aerobus era chiuso. Le stratolinee ad energia nucleare di Tober ed i dirigibili ad elio di Eshellin erano stati disattivati e portati via. Lo schermo gli mostrò una mappa dalle linee sotterranee ad alta velocità che erano andate dallo spazioporto verso tutte le città, m’ara mappa era tutta tracciata di rosso e la nota al fondo spiegava che cosa il rosso significasse: «Disattivato… Non più in funzione».

Non c’era più alcun mezzo di trasporto su Worlorn; l’unica era andare a piedi, si sarebbe detto. C’erano solo le cose che i visitatori ritardatari avevano portato con sé.

Dirk fissò accigliato lo schermo e lo cancellò. Fu quasi sul punto di spegnere, quando gli venne un’altra idea. Digitò il codice di «Biblioteca», ottenne un segnale di richiesta e delle istruzioni. Quindi digitò «bambini di gelatina» e poi «definizione». Attese.

Dovette aspettare poco e non gli serviva certo l’enorme massa di informazioni che la biblioteca gli aveva rimandato, i dettagli della storia, della geografia e della filosofia. Prese velocemente nota delle informazioni essenziali ed ignorò il resto. Pareva che «bambini di gelatina», fosse un nomignolo dato ai seguaci di un culto pseudo religioso basato sulla droga sul Mondo dell’Oceano Nerovino. Venivano chiamati così perché trascorrevano anni vivendo nel ventre cavernoso ed umido di lumaconi gelatinosi lunghi chilometri che strisciavano in maniera infinitamente lenta sul fondo dei loro mari. Gli adepti chiamavano quelle creature Madri. Le Madri nutrivano i loro bambini con dolci secrezioni allucinogene e si credeva che fossero semisenzienti. La fede, notò Dirk, non impediva ai bambini di gelatina di uccidere il loro ospite quando la qualità dei sogni dati dalle sue secrezioni, cominciava a declinare, cosa che capitava invariabilmente quando le lumache diventavano vecchie. Liberatisi di una Madre, i bambini di gelatina ne avrebbero cercata un’altra.

Dirk cancellò velocemente i dati dallo schermo e consultò di nuovo il servizio della biblioteca. Il Mondo dell’Oceano Nerovino aveva una città su Worlorn. Si stendeva al disotto di un lago artificiale del diametro di cinquanta chilometri, sotto le stesse acque cupe e brulicanti che coprivano la superficie del mondo dei Nerovini. Si chiamava la Città nella Palude Senzastelle ed il lago era pieno di vita trasportata per il festival del Margine. Senza dubbio c’erano anche delle Madri.

Senza nessuna particolare curiosità, Dirk cercò la città su una carta di Worlorn. Naturalmente non aveva nessun modo per arrivare fin laggiù. Spense lo schermo a parete ed andò in cucina a prepararsi da bere. Ingoiò il liquido — era una specie di latte biancastro prodotto da un qualche animale Kimdissi, freddissimo, amaro, ma rinfrescante — cominciò a tamburellare con le dita con impazienza sul mobile bar. Cominciava a diventare impaziente, aveva bisogno di fare qualcosa. Si sentiva intrappolato, perché doveva aspettare che ritornasse qualcuno degli altri, perché non sapeva chi sarebbe stato a ritornare per primo, né che cosa sarebbe successo. Gli pareva di essere sballottato avanti e indietro secondo il capriccio degli altri, fin dal primo momento che era sceso dal Tremito dei Nemici Dimenticati. Del resto non era venuto per sua volontà; era stata Gwen che lo aveva chiamato con la sua gemma mormorante, anche se non aveva dato l’impressione di essere molto contenta per il suo arrivo. Per lo meno aveva cominciato a capire una cosa. Lei era rimasta intrappolata in una trama assai complessa, una trama politica ed emozionale al tempo stesso e pareva che anche lui ci fosse finito dentro, senza possibilità di uscita, circondato da cicloniche tensioni psico sessuali e culturali che riusciva a comprendere solo a metà. Era stufo di sentirsi sballottato.

Improvvisamente gli venne in mente Kryne Lamiya. Su una terrazza battuta dal vento c’erano due aerauto abbandonate. Dirk poggiò il bicchiere pensosamente, si pulì le labbra con il dorso della mano e ritornò allo schermo parete.

Si trattava solo di trovare il posto in cui erano sistemati i parcheggi a Larteyn. C’erano delle terrazze in cima a tutte le torri più grandi ed un grande garage pubblico scavato nella roccia al di sotto della città. Il garage, lo informò il servizio turistico cittadino, poteva essere raggiunto con una qualsiasi delle linee sotterranee che attraversavano Larteyn; le porte nascoste si aprivano in mezzo al dirupo a strapiombo che si ergeva al di sopra del Comune. Se i Kavalari avevano abbandonato delle aerauto all’interno della loro città conchiglia, quello era il posto in cui lui le avrebbe potute trovare.

Prese l’ascensore fino al pianterreno e poi la strada. Grasso Satana aveva superato lo zenit e stava ormai sprofondando verso l’orizzonte. Le strade di pietraluce erano sbiadite e nere dove batteva la rossa luminescenza, ma quando Dirk attraversò le tenebre tra le quadrate torri di ebano, riuscì ancora a vedere i freddi fuochi della città sotto i piedi, il rosso morbido e scintillante della roccia, che già sbiadiva, ma resisteva ancora. All’aperto, la sua persona gettava ombre, pallidi fantasmi scuri che si affollavano goffamente uno sull’altro — quasi coincidevano, ma non proprio — e si affrettavano troppo rapidamente ai suoi piedi per svegliare la pietraluce addormentata. Durante il suo giro non vide nessun altro, anche se si chiese a disagio dove fossero i Braith ed una volta passò accanto a quella che doveva essere un’abitazione. Era un edificio quadrato con il tetto a cupola e neri pilastri di ferro presso la porta e legato ad uno di quei pilastri c’era un cane mostruoso, più alto di Dirk, con occhi rossi e luminosi ed un muso lungo e senza pelo che gli ricordava un po’ quello di un topo. La creatura stava rosicchiando un osso, ma si alzò quando lui passò e grugnì con il fondo della gola. Chiunque fosse ad abitare in quel posto, chiaramente non desiderava avere dei visitatori.

Le linee sotterranee funzionavano ancora. Dirk scese e la luce del giorno scomparve ed uscì nei passaggi più bassi, dove Larteyn assomigliava ancora alle granleghe di Alto Kavalaan: stanze di pietra archeggiate con appligli di ferro lavorato, dappertutto porte di metallo, camere dietro camere. Una fortezza di pietra, aveva detto una volta Ruark. Una fortezza, che non poteva essere facilmente conquistata. Ma ormai era abbandonata.

Il garage era su molti livelli ed era illuminato appena. C’era spazio per migliaia di macchine su ognuno dei dieci livelli. Dirk girovagò tra la polvere per mezz’ora prima di trovarne una. Era inutilizzabile. Un’altra macchina-bestia, forgiata in metallo blu-nero, nelle grottesche fattezze di un pipistrello gigante. Era più realistica e terrificante della banscea-manta piuttosto stilizzata di Jaan Vikary. Ma non era altro che uno scafo bruciato. Una delle ali da pipistrello era contorta e semifusa e della macchina rimaneva solo il corpo. I dispositivi interni, l’impianto energetico e le armi erano scomparsi e Dirk immaginò che mancasse anche la griglia gravitazionale, anche se non poteva vedere la parte inferiore del relitto. Dirk girò attorno all’apparecchio e passò oltre.

La seconda aerauto che trovò era in condizioni anche peggiori. In effetti era ben difficile chiamarla un’auto. Non rimaneva altro che un lungo telaio metallico e quattro sedili marci acquattati in mezzo ai tubi… uno scheletro senza pelle. Dirk passò oltre anche qui.

Gli altri due relitti che incontrò erano entrambi intatti, ma erano morti. Riuscì solo a pensare che i loro proprietari dovevano essere morti qui su Worlorn e le macchine li avevano aspettati negli abissi della città parecchi anni dopo che erano state abbandonate e tutta l’energia se ne era andata. Le provò tutte e due, ma nessuna delle due rispose al suo tocco e ai suoi tentativi.

La quinta macchina — ma ormai era passata un’ora — rispose anche troppo in fretta.

Era di stile completamente Kavalar, tozza, con due sedili e corte ali triangolari che parevano anche più inutili delle ali delle altre aerauto di Alto Kavlaan. Era smaltata di bianco e argento ed il tettuccio di metallo era forgiato in modo da assomigliare ad una testa di lupo. Dei cannoni a laser erano montati su entrambi i lati della fusoliera. La macchina non era chiusa; Dirk sollevò il tettuccio che si aprì facilmente. Si arrampicò dentro, chiuse la cabina e guardò fuori attraverso i grandi occhi del lupo con un sorriso storto. Poi provò i comandi. L’aerauto era ancora a piena potenza.

Aggrottò le sopracciglia, staccò i contatti e rimase seduto a pensare. Aveva trovato il mezzo di trasporto che stava cercando, ammesso che avesse avuto il coraggio di prenderlo. Ma non poteva ingannare se stesso; questa macchina non era un relitto come le altre che aveva scoperto. Era in condizioni troppo buone. Indubbiamente apparteneva ad uno degli altri Kavalari rimasti a Larteyn. Se i colori avevano un senso — Dirk non ne era sicuro — allora probabilmente apparteneva a Lorimaar o a uno degli altri Braith. Prendere quella macchina non era certo la cosa migliore che potesse fare, no di certo.

Dirk si rese conto del pericolo e ci pensò bene. Stare ad aspettare non gli piaceva affatto, ma non gli piaceva nemmeno immischiarsi in cose pericolose. Jaan Vikary o non Jaan Vikary, il furto di un’aerauto avrebbe sicuramente scatenato i Braith.

Riluttante, aprì il tettuccio ed uscì, ma non era ancora fuori che sentì le voci. Abbassò il tettuccio della macchina che si chiuse con un debole ma percettibile click. Dirk si accucciò cercando la salvezza nell’ombra a pochi metri dalla macchina lupo.

Riusciva a sentire i Kavalari che parlavano e il rumoroso battere dei loro piedi echeggianti, parecchio tempo prima di vederli. Erano solo due, ma parevano dieci dal rumore. Nel momento in cui giunsero alla luce presso l’auto, Dirk si era appiattito in una nicchia posta nella parete del garage, una piccola cavità piena di ganci dove un tempo dovevano essere stati appesi gli attrezzi. Non era certo che fosse opportuno nascondersi, ma adesso era lieto di aver scelto questa via. Le cose che Gwen e Jaan gli avevano detto sugli altri abitanti di Larteyn non lo avevano certo rassicurato.

«Sei ben certo di questo, Bretan?», stava dicendo uno dei due, quello più alto, quando Dirk li vide. Non era Lorimaar, ma la sua somiglianza era impressionante; costui aveva la stessa altezza imponente, lo stesso colorito e la faccia rugosa. Ma era un po’ più grasso di Lorimaar alto-Braith ed aveva i capelli bianchissimi, mentre l’altro li aveva soprattutto grigi, inoltre aveva dei piccoli baffi a spazzolino. Sia lui che il suo compagno, indossavano corte giubbe bianche su braghe e camicia di tessuto camaleontino che era diventato quasi nero nelle tenebre del garage. Entrambi portavano armi a laser.

«Roseph non ci frega», disse il secondo Kavalar con una voce gracchiante simile a cartavetrata. Era molto più piccolo dell’altro, più o meno dell’altezza di Dirk, ed anche più giovane, molto magro. Aveva la giubba con le maniche corte che mettevano allo scoperto le potenti braccia scure e uno spesso braccialetto di ferro-e-pietraluce. Muovendosi verso l’aerauto, fu in piena luce per un istante e parve fissare nel buio direttamente dove era nascosto Dirk. Aveva solo mezza faccia; tutto il resto era un’immane cicatrice piena di tic. Il suo "occhio" sinistro si muoveva senza posa quando voltava la testa e Dirk vi scorse le fiamme rivelatrici: una pietraluce incastonata in un’orbita vuota.

«Com’è che l’hai saputo?», disse l’uomo più vecchio mentre i due si soffermavano brevemente a lato della macchina lupo. «Roseph va matto per le fregature».

«A me non piacciono le fregature», disse l’altro, quello che si chiamava Bretan. «Roseph potrà fregare te, o Lorimaar, perfino Pyr, ma non oserà fregare me». Aveva una voce orribilmente spiacevole; c’era una crudezza raschiante che offendeva l’orecchio, ma data la profondità delle cicatrici che arrivavano fino al collo, Dirk trovò sorprendente che l’uomo riuscisse a parlare.

Il Kavalar più alto cercò di aprire la testa del lupo, ma il tettuccio non si sollevò. «Bene, se questo è vero, dobbiamo fare in fretta», disse querulo. «La chiave, Bretan, la chiave!».

Bretan dall’unico occhio fece uno strano rumore, qualcosa che era a metà tra un grugnito e un gorgoglìo. Tentò anche lui di aprire il tettuccio. «Mio caro teyn», gracchiò. «Avevo lasciato la testa appena accostata… io… non ci è voluto più di un istante per salire e per trovarti».

Nel buio Dirk si premette ancora di più contro la parete ed i ganci gli premevano dolorosamente la schiena tra le scapole. Bretan aggrottò la fronte e si inginocchiò, mentre il suo compagno più anziano era in piedi e guardava perplesso.

Poi improvvisamente il Braith si alzò di nuovo con la pistola a laser stretta nella mano destra, puntata in direzione di Dirk. L’occhio di pietraluce fiammeggiò leggermente. «Esci fuori e facci vedere chi sei», annunciò. «Le tracce che hai lasciato nella polvere si vedono benissimo».

Dirk sollevò silenziosamente le mani al di sopra del capo e venne fuori.

«Un falsuomo!», disse il più alto dei Kavalari. «Quaggiù!».

«No», disse Dirk precipitosamente. «Dirk t’Larien».

Quello più alto lo ignorò. «Questa è una fortuna più unica che rara», disse al compagno con il laser. «Quegli uomini di gelatina di Roseph sarebbero comunque stati una preda da poco. Questo mi pare buono».

Il teyn giovane fece di nuovo quello strano rumore e la parte sinistra della sua faccia ebbe un tic. Ma la mano che teneva il laser era fermissima. «No», disse all’altro Braith. «Purtroppo non mi pare uno che possiamo cacciare. Costui non può essere altri che quel tale di cui parlava Lorimaar». Fece nuovamente scivolare la pistola a laser nella fondina e fece un cenno a Dirk, un movimento lentissimo e voluto, che era più un movimento di spalle che di testa. «Sei maledettamente grossolano. Il tettuccio si chiude automaticamente se lo si chiude tutto. Si può aprire dall’interno, ma…».

«L’ho capito adesso», disse Dirk. Abbassò le mani. «Stavo semplicemente cercando una macchina abbandonata. Mi serviva un mezzo di trasporto».

«Sicché tu volevi rubarci la macchina».

«No».

«Sì». Pareva che ogni parola costasse un tremendo sforzo al Kavalar. «Tu sei korariel di Ferrogiada?».

Dirk esitò, ma il suo no gli rimase in gola. Qualsiasi risposta lo avrebbe cacciato nei guai.

«Non hai niente da rispondere?», disse quello con la cicatrice.

«Bretan», lo avvertì l’altro. «Ciò che dice un falsuomo non ci interessa. Se Jaantony Ferrogiada lo ha nominato korariel, allora è così. Simili animali non possono dire che cosa sono. Qualsiasi cosa dica lui, la cosa non cambia, la realtà è quella che è. Sicché se noi lo uccidiamo, rubiamo una cosa di proprietà di Ferrogiada e quelli ci lancerebbero sicuramente la sfida».

«Ti invito a considerare le varie possibilità, Chell», disse Bretan. «Questo tale, questo Dirk t’Larien, può essere un falsuomo, o no, korariel di Ferrogiada, o no. Vero?».

«Vero. Ma non è un uomo vero. Ascolta, mio teyn. Tu sei giovane, ma io ho sentito parlare di queste cose da kethi che sono morti da molto tempo».

«Comunque pensaci un po’. Se lui è un falsuomo e Ferrogiada lo ha nominato korariel, allora è certamente un korariel, che lui lo ammetta o no. Ma è proprio così? Se è così, Chell, allora tu ed io dobbiamo combattere in duello con Ferrogiada. Costui stava cercando di rubare a noi, ti ricordi? Se è proprietà di Ferrogiada, allora costui è un ladro di Ferrogiada».

L’uomo grande con i capelli bianchi annuì, riluttante.

«Se si tratta di un falsuono, ma non è korariel, allora non ci sono problemi», continuò Bretan, «dato che può essere liberamente cacciato. E se fosse un vero uomo, umano come gli altolegati, e niente affatto un falsuomo?».

Chell era molto più lento del suo teyn. Il vecchio Kavalar corrugò la fronte pensoso e disse: «Bé, non è una femmina, quindi non può essere catturato. Ma se è un umano, deve avere i diritti di un uomo ed un nome da uomo».

«Vero», convenne Bretan. «Ma non potrebbe essere korariel, per cui il suo crimine è una cosa a cui solo lui dovrà rispondere. Io sfiderei lui a duello e non Jaantony alto-Ferrogiada». Il Braith emise ancora il suo strano grugnito-gemito.

Chell annuiva e Dirk era quasi paralizzato. Il più giovane dei due cacciatori sembrava aver condotto le cose con una precisione spaventosamente efficiente. Dirk aveva detto sia a Vikary, che a Janacek, in termini precisi, che rifiutava il marcio scudo della loro protezione. In quel momento la cosa gli era risultata piuttosto facile da fare. Su un mondo sano, come Avalon, sarebbe certo stata la cosa più giusta da farsi. Su Worlorn le cose, invece, non erano così semplici.

«Dove lo portiamo?», disse Chell. I due Braith parlavano come se Dirk non fosse diverso da una macchina.

«Lo dobbiamo portare da Jaantony alto-Ferrogiada e dal suo teyn», disse Bretan con un grugnito di cartavetrata. «So più o meno dove si trova la loro torre».

Per un istante Dirk prese in considerazione l’ipotesi della fuga. Non gli parve fattibile. Loro erano in due, avevano delle armi ed anche un’aerauto. Non sarebbe andato lontano. «Va bene», disse quando quelli si mossero verso di lui. «Vi mostrerò la strada». Gli pareva che avrebbe avuto un po’ di tempo per pensare, ad ogni modo; pareva che i Braith non sapessero che Vikary e Janacek erano già alla Città nella Palude Senzastelle, certo per cercare di proteggere gli sfortunati bambini di gelatina dagli altri cacciatori.

«Facci strada, allora», disse Chell. E Dirk, che non sapeva cos’altro fare, li condusse verso i passaggi sotterranei. Mentre camminavano pensò amaramente che tutto questo era successo perché lui era stufo di aspettare. Ed ora, pareva proprio che avrebbe dovuto aspettare, dopo tutto.

6

All’inizio l’attesa fu infernale.

Quando scoprirono che i Ferrogiada non c’erano, lo portarono sulla terrazza d’atterraggio sul tetto della torre e lo obbligarono a sedersi in un angolo battuto dal vento. Il panico stava per prenderlo ed il suo stomaco era un nodo dolorante. «Bretan», disse con voce un po’ isterica, ma il Kavalar si limitò a voltarsi verso di lui e a dargli una manata sulla bocca.

«Non sono "Bretan" per te», disse. «Chiamami Bretan Braith se ti rivolgi a me, falsuomo».

Dopo di che Dirk rimase zitto. La Ruota di Fuoco spezzata scendeva lentamente, a fatica, attraverso il cielo di Worlorn. Dirk l’osservava strisciare e gli pareva di essere vicinissimo al suo punto di rottura. Tutto ciò che gli era successo gli pareva irreale ed i Braith ed i fatti del pomeriggio erano la cosa meno reale di tutto. Si chiese che cosa sarebbe capitato se si fosse improvvisamente alzato in piedi e fosse saltato oltre il bordo della terrazza, giù nella strada. Sarebbe stata una caduta lunghissima, pensò, come quelle dei sogni, ma quando si fosse sfracellato sui cupi blocchi di pietraluce là sotto, non ci sarebbe stato alcun dolore, soltanto lo spavento del risveglio improvviso. E si sarebbe ritrovato nel suo letto su Braque, madido di sudore ed avrebbe riso delle assurdità del suo incubo.

Giocherellò con pensieri come quello ed anche altri per un periodo che parve durare ore, ma quando alla fine alzò gli occhi, Grasso Satana non era nemmeno completamente tramontato. Allora cominciò a tremare; il freddo, si disse, il freddo vento di Worlorn, ma sapeva bene che non era il freddo e più cercava di vincersi e più tremava, finché i Kavalari cominciarono a guardarlo in modo strano. E l’attesa continuava.

Alla fine i brividi scomparvero, dopo che aveva pensato al suicidio e dopo che era stato colto dal panico e su di lui si posò una specie di calma. Capi che stava ancora pensando, ma pensava a delle assurdità: speculazione inconcludente — come se avesse dovuto scommettere ai cavalli — quale delle due aerauto sarebbe ritornata a casa per prima, la manta grigia o il velivolo militare? E come si sarebbero comportati Jaan e Garse in un duello con Bretan il guercio. Che sarebbe successo ai bambini di gelatina nella distante città di Nerovino? Questi argomenti parevano terribilmente importanti, anche se Dirk non sapeva dire perché.

Poi cominciò ad osservare i suoi catturatori. Questo era il gioco più interessante di tutti e serviva a passare il tempo come e meglio di altre cose. Osservandoli, lui notò diverse cose.

I due Kavalari non avevano quasi parlato dopo averlo scortato fin sul tetto. Chell, quello alto, si era seduto sul basso muretto che circondava la terrazza, ad un metro da Dirk e quando Dirk cominciò ad osservarlo, vide che era un uomo davvero vecchio. La somiglianza con Lorimaar alto-Braith era molto ingannevole. Benché Chell vestisse e si muovesse come un uomo più giovane, era per lo meno vent’anni più vecchio di Lorimaar, giudicò Dirk. Visto da seduto i suoi anni gli gravavano pesantemente addosso. Si vedeva chiaramente la pancetta al di sotto del corpetto di maglia metallica e le rughe erano profondamente scavate nel suo viso sciupato e bruno, inoltre Dirk vide le vene azzurre e le macchie che gli coprivano le mani quando le posò sulle ginocchia. L’attesa lunga ed inconcludente dei Ferrogiada pesava anche su quell’uomo e non si trattava solo di noia. Pareva che avesse le guance incavate e le larghe spalle erano inconsciamente atteggiate in una posizione curva, di stanchezza.

Una volta si spostò, sospirando, tolse le mani dalle ginocchia, le unì tra di loro e si tirò le dita. Dirk riuscì a vedere i due braccialetti. Nel braccio destro aveva ferro-e-pietraluce, uguale a quello mostrato con tanto orgoglio dal guercio Bretan ed al braccio sinistro aveva solo argento. Non c’era la giada. Una volta ci doveva essere stata, ma ora le pietre erano state tolte dall’incastonatura ed il braccialetto era rimasto pieno di buchi.

Mentre il vecchio e malandato Chell — parve improvvisamente difficile per Dirk vederlo come una minacciosa figura marziale, come invece gli era apparso fino a pochi istanti prima — stava seduto ed aspettava che succedesse qualcosa, Bretan (o Bretan Braith, come egli stesso voleva essere chiamato) misurava le ore a grandi passi. Era pieno di energia inesauribile, peggio di chiunque altro conosciuto da Dirk, perfino di Jenny, che ai suoi tempi era stata una notevole camminatrice. Lui teneva le mani sprofondate nelle tasche del corto giubbotto bianco e camminava avanti e indietro attraverso la terrazza, avanti e indietro, avanti e indietro. Una volta ogni tre passaggi, più o meno, sollevava gli occhi impaziente, corrucciato con il cielo crepuscolare perché non aveva ancora ricondotto Jaan Vikary.

Formavano una strana coppia, decise Dirk osservandoli. Bretan Braith era giovanissimo e Chell era vecchio… Bretan non era sicuramente più vecchio di Garse Janacek e probabilmente era più giovane di Gwen, Jaan e lui stesso. Come era possibile che fosse diventato teyn di un Kavalar tanto più vecchio di lui? Comunque non era un alto, cioè non aveva dato delle betheyn ai Braith; il braccio sinistro era coperto da una fine peluria rossastra che scintillava ogni tanto quando veniva colpita dal sole e sul braccio non era posto alcun braccialetto di giada-e-argento.

Il suo viso, la sua strana mezza-faccia, era più brutta di qualsiasi altra cosa che Dirk avesse mai visto, ma quando il giorno sbiadì ed il falso crepuscolo diventò autentico, scoprì di essersi ormai abituato. Quando Bretan Braith camminava in una direzione, pareva assolutamente normale: un giovanotto teso come una corda, pieno di energia nervosa talmente raggruppata che quasi pareva che Bretan dovesse rompersi. Il suo volto da quel lato era privo di macchie e sereno; corti riccioli neri gli giravano attorno all’orecchio e capelli ondulati gli cadevano sulla spalla, ma non aveva il minimo accenno di barba. Anche il suo sopracciglio non era che una debole linea al di sopra di un occhio verde. Appariva quasi innocente.

Poi, voltandosi, dopo aver raggiunto il bordo della terrazza, ripeteva la stessa strada che aveva fatto all’andata e tutto cambiava. Il lato sinistro della sua faccia era inumano, un paesaggio di piani contorti e di angoli che nessuna faccia poteva avere. La pelle era stata ricucita in cinque o sei punti e altrove era lucida e unta come se fosse di smalto. Da questa parte, Bretan non aveva affatto capelli e nemmeno orecchie — solo un buco — e la parte sinistra del naso era solo un pezzettino di plastica del colore della pelle. La bocca era un taglio senza labbra, ma la cosa peggiore era che si muoveva. Aveva uno scatto, un tic grottesco, che gli prendeva all’angolo sinistro della bocca ad intervalli e si ripercuoteva sulla parte calva del cranio sui montarozzi della pelle cicatrizzata.

Durante il giorno l’occhio di pietraluce del Braith era come un pezzo di ossidiana scura. Ma man mano che scendeva la notte e tramontava Occhiodaverno, nell’orbita vuota i fuochi si agitavano. In piena notte sarebbe stato Bretan Occhiodaverno e non lo stanco sole supergigante di Worlorn; la pietraluce avrebbe bruciato di luce robusta, di rosso incontaminato e la mezza faccia che la circondava sarebbe diventata una nera parodia di cranio scheletrito, un posto adatto per un occhio di quel tipo.

La cosa sarebbe parsa ancora più impressionante se si pensava — come infatti pensò Dirk — che tutto questo doveva essere stato intenzionale. Bretan Braith non aveva nessuna ragione di mettere una pietraluce al posto dell’occhio; lo aveva fatto per delle ragioni sue e quelle ragioni non erano certo difficili da comprendere.

La mente di Dirk ritornò indietro alla prima parte del pomeriggio ed alla conversazione presso l’aerauto a forma di testa di lupo. Bretan era rapido e furbo, su questo non c’erano dubbi, ma Chell avrebbe anche potuto già trovarsi in un periodo di senilità. Era stato tremendamente lento ad afferrare il senso delle cose ed il suo giovane teyn lo aveva condotto per mano verso le sue conclusioni, per quanto si ricordava Dirk. Improvvisamente i due Braith gli parvero assai meno temibili e Dirk si chiese perché mai ne fosse stato, in un primo momento, così terribilmente spaventato. Erano quasi divertenti. Qualsiasi cosa avesse detto Jaan Vikary quando fosse tornato dalla Città nella Palude Senzastelle, certamente non sarebbe successo niente; certamente non avrebbero potuto fare niente di davvero dannoso questi due.

Come se avesse voluto sottolineare quel punto, Chell cominciò a borbottare, parlando tra sé e senza rendersene conto. Dirk lo guardò e cercò di sentire. Il vecchio tremolava un po’ mentre parlava, con gli occhi che fissavano il vuoto. Le sue parole non avevano nessun senso. Ci vollero parecchi minuti a Dirk per riuscire a pensare qualcosa, ma poi gli venne come un’ispirazione improvvisa e capì che Chell stava parlando in Antico Kavalar. Una lingua che si era sviluppata su Alto Kavalaan durante i lunghi secoli di Interregno, quando i Kavalari sopravissuti non avevano più nessun contatto con gli altri mondi umani. Era una lingua che in breve tempo venne a mescolarsi con il linguaggio standard della Terra che però risultò arricchito da parole che altrimenti non avrebbero avuto un equivalente. Garse Janacek gli aveva detto che quasi nessuno parlava più l’antico Kavalar eppure ecco che Chell, un anziano proveniente dalla più tradizionalista delle condizioni di granlega, borbottava delle cose che doveva senz’altro aver sentito in gioventù.

E poi c’era anche Bretan, che aveva schiaffeggiato Dirk sonoramente solo perché aveva usato una forma di indirizzo scorretto, una forma ammessa solo per i kethi. Un’altra abitudine in via di estinzione, gli aveva detto Garse; anche gli altolegati stavano diventando mollaccioni. Ma sicuramente non Bretan Braith, giovane e nemmeno alto, che rimaneva appiccicato alle tradizioni che uomini di generazioni più vecchie della sua avevano già scartate perché inopportune.

Dirk quasi lo compiangeva. Erano dei disadattati, decise, più sballati e più soli dello stesso Dirk, in un certo senso erano dei privi di patria, perché Alto Kavalaan si stava muovendo in avanti e non avrebbe potuto essere il loro mondo per molto altro tempo. Non era affatto strano che fossero venuti su Worlorn; essi appartenevano a qui. Essi stessi ed i loro modi stavano morendo.

Bretan, in particolare, era una figura pietosa, Bretan che cercava in tutti i modi di apparire terrificante. Era giovane, forse era l’ultimo dei veri credenti e poteva vivere fino a vedere il giorno in cui nessuno l’avrebbe pensata come lui. Era forse per questo che si era fatto teyn di Chell? Perché i suoi pari lo rifiutavano assieme alle sue idee da vecchio? Probabile, pensò Dirk, e ciò era triste e brutto.

C’era ancora un sole giallo che scintillava verso ovest. Il Mozzo si era trasformato in una vaga, rossa memoria sull’orizzonte e Dirk era immerso nei suoi pensieri, perfettamente controllati, al di là di ogni paura, quando udirono le macchine che si avvicinavano.

Bretan Braith si gelò e alzò lo sguardo. Tirò fuori le mani dalle tasche. Una mano si posò, quasi automaticamente, sulla fondina della sua pistola laser. Chell si alzò lentamente in piedi, sbattendo gli occhi, ed improvvisamente parve ringiovanito di dieci anni. Anche Dirk si alzò.

Arrivarono le macchine. Erano due e assieme, la macchina grigia e la macchina verdeoliva, in formazione quasi militare, fianco a fianco.

«Vieni qui», gracchiò Bretan e Dirk si avviò verso di lui. Chell si unì al gruppo e rimasero tutti e tre assieme, con Dirk al centro come un prigioniero. Il vento lo sferzava. Tutt’intorno le pietraluci della città di Larteyn erano radianti e sanguigne e l’occhio di Bretan — ora vicinissimo — brillava selvaggiamente nella sua incastonatura di cicatrici. Il tic si era arrestato, per qualche ragione; ora la faccia era calmissima.

Jaan Vikary fece scendere la manta grigia che galleggiò nell’aria molto lentamente, poi superò con un salto il bordo e si avvicinò a loro a lunghi passi. La macchina militare brutta ed angolosa, era ricoperta da un’armatura ed il pilota non era visibile. Anche questa macchina atterrò quasi simultaneamente. Si aprì una spessa porta di metallo su di un lato e ne emerse Garse Janacek, che spinse fuori per prima la testa per cercare di vedere che cosa fosse successo. Vide, si irrigidì e sbatté la porta con clangore risonante, poi venne a mettersi accanto a Vikary.

Vikary salutò per primo Dirk, con un breve cenno ed un sorriso vago. Poi guardò Chell. «Chell Nim Ventofreddo fre-Braith Daveson», disse formalmente. «Onore alla tua granlega, onore al tuo teyn».

«Anche a te», disse il vecchio Braith. «Il mio nuovo teyn mi protegge il fianco e tu non lo conosci ancora». Indicò Bretan.

Jaan si voltò e soppesò rapidamente il giovane sfregiato con gli occhi. «Io sono Jaan Vikary», disse, «dell’Unione Ferrogiada».

Bretan fece lo strano rumore, quel rumore così particolare. Cadde un silenzio impacciato.

«Più esattamente», disse Janacek, «il mio teyn è Jaantony Riv Lupo alto-Ferrogiada Vikary. Ed io sono Garse Ferrogiada Janacek».

A questo punto Bretan rispose. «Onore alla vostra granlega, onore al tuo teyn. Io sono Bretan Braith Lantry».

«Non ci sarei mai arrivato», disse Janacek con una leggera traccia di sorriso. «Avevamo sentito parlare di te».

Jaan Vikary gli gettò uno sguardo di ammonimento. C’era qualcosa che non andava sul viso di Jaan. In un primo momento Dirk pensò che fosse uno scherzo della luce — l’oscurità avanzava velocemente ormai — ma poi vide che la mascella di Vikary era un po’ gonfia da una parte ed il suo profilo aveva un aspetto leggermente più paffuto del solito.

«Siamo venuti da voi molto addolorati», disse Bretan Braith Lantry.

Vikary guardò Chell. «È così?».

«È così, Jaantony alto-Ferrogiada».

«Mi dispiace che si debba bisticciare», rispose Vikary. «Quale è il problema?».

«Dobbiamo farti una domanda», disse Bretan. Mise una mano sulla spalla di Dirk. «Questo, Jaantony alto-Ferrogiada. Dicci, è korariel di Ferrogiada o no?».

Adesso Garse Janacek sghignazzava apertamente ed i suoi occhi azzurri incontrarono quelli di Dirk. E gli occhi ridevano un po’ nei loro abissi gelati, come se dicessero: bene, bene, che cosa hai fatto adesso?

Jaan Vikary si limitò a corrugare la fronte. «Perché?».

«La tua verità è forse dipendente dalle nostre ragioni, altolegato?», chiese duramente Bretan. La sua guancia distrutta tremò violentemente.

Vikary guardò Dirk. Era chiaro che non era contento.

«Non hai nessun motivo per ritardare o negarci la risposta, Jaantony alto-Ferrogiada», disse Chell Daveson. «La verità può essere solo sì o no; non ci possono essere risposte diverse da queste». La voce del vecchio era assolutamente tranquilla; lui almeno non aveva da nascondere il nervosismo ed il suo codice di comportamento gli dettava tutte le parole che doveva dire.

«Una volta tu avresti avuto ragione, Chell fre-Braith», cominciò Vikary. «Nei vecchi giorni delle granleghe, la verità era una cosa semplice, ma questi sono tempi nuovi, pieni di cose nuove. Ormai siamo un popolo che appartiene a molti mondi, non più a uno solo, per cui le nostre verità sono più complesse».

«No», disse Chell. «Questo falsuomo è korariel, o questo falsuomo non è korariel. Non mi sembra complicato».

«Il mio teyn Chell parla bene», aggiunse Bretan. «La domanda che ti ho fatto mi pare abbastanza semplice, altolegato. Ora aspetto la tua risposta».

A Vikary non piaceva che gli facessero fretta. «Dirk t’Larien è un uomo che proviene dal lontano mondo di Avalon, al di là del Velo Tentatore, un mondo umano dove ho abitato anch’io un tempo ed ho studiato. Io lo avevo nominato korariel per dargli la mia protezione e la protezione dei Ferrogiada contro quelli che potrebbero volergli fare danno. Ma la mia è una protezione da amico, nello stesso modo in cui proteggerei un fratello a Ferrogiada, come un teyn protegge un teyn. Lui non è di mia proprietà, non reclamo su di lui nessuna potestà. Mi capisci?».

Chell non capiva. Il vecchio premette le labbra tra di loro, stirando i sottili baffetti spinosi e borbottò qualcosa in Antico Kavalar. Poi parlò ad alta voce. Per la verità fin troppo ad alta voce, quasi gridando. «Che cos’è questa corbelleria? Il tuo teyn è Garse Ferrogiada, non è questo straniero. Come fai a dire che è come un teyn? È un Ferrogiada? Non è nemmeno armato! Non so neppure se è davvero un uomo! Perché se lo fosse non potrebbe essere un korariel e se non lo è allora deve essere un korariel e tu ne devi reclamare la proprietà. Non mi paiono proprio sensate le tue parole falsuomine».

«Questo mi dispiace, Chell fre-Braith», disse Vikary, «ma sono le tue orecchie che non vanno bene, non sono le mie parole. Sto cercando di trattarti con onore, ma non mi rendi certo facili le cose».

«Tu mi vuoi fregare!», disse Chell con tono accusatore.

«No».

«Sì, invece».

Allora parlò Bretan Braith e la sua voce non aveva il timbro iroso di quella di Chell, ma era dura. «Dirk t’Larien, come lui dice di chiamarsi e come infatti tu lo chiami, ci ha fatto un torto. Questo è il centro della faccenda, Jaantony alto-Ferrogiada. Lui ha messo le mani su cose di proprietà di Braith senza che Braith gli avesse dato una sola parola di permesso. Ora, chi paga per questo? Se lui è un falsuomo ed un korariel vostro, allora io lancio subito, senza mezzi termini, la sfida. Ferrogiada ha fatto torto a Braith. Se lui non è korariel allora, be’…». Si fermò.

«Capisco», disse Jaan Vikary. «Dirk?».

«Per la verità, tutto ciò che ho fatto è consistito nel sedermi in quel maledetto coso per un paio di secondi», disse Dirk a disagio. «Stavo solo cercando un relitto, una macchina abbandonata che funzionasse ancora. Gwen ed io ne avevamo trovata una di quel tipo a Kryne Lamiya ed ho pensato che forse era possibile trovarne una anche qui».

Vikary alzò le spalle e fissò i due Braith. «Pare che il torto sia davvero minimo, ammesso che ci sia. Non è stato preso niente».

«La nostra macchina è stata toccata!», berciò il vecchio Chell. «Da lui, da un falsuomo; lui non aveva nessun diritto! Tu lo chiami un piccolo torto, questo? Avrebbe potuto volarsene via. Tu dici che io debbo tenere gli occhi chiusi come un falsuomo e dire che in fondo è stato fatto ben poco?». Si voltò verso il suo teyn Bretan. «I Ferrogiada ci vogliono fregare, ci hanno insultati», disse. «Può anche darsi che non siano dei veri uomini, ma che siano anche loro dei falsuomini. Sanno dire un sacco di parole da falsuomo».

Garse Janacek rispose immediatamente. «Io sono teyn di Jaantony Riv Lupo alto-Ferrogiada e posso testimoniare per lui. Non è un falsuomo». Disse le parole in fretta, come se fosse una formula di rito.

Dal modo in cui Janacek guardò Vikary, sembrò chiaro a Dirk che lui si aspettava che il suo teyn ripetesse le stesse parole. Invece Jaan scosse il capo e disse: «Ah, Chell. Non ci sono falsuomini». La sua voce pareva immensamente stanca e le larghe spalle si reclinarono.

Il Braith alto, e più vecchio dava l’impressione di essere stato colpito in faccia da Jaan. Borbottò di nuovo a voce bassa delle parole in antico Kavalar.

«Questa è una cosa che non può continuare», disse Bretan Braith. «Non concludiamo niente. Hai nominato quest’uomo korariel, Jaantony alto-Ferrogiada?».

«Si».

«Rifiuto quel nome», disse tranquillamente Dirk. Si sentiva praticamente costretto ed il momento pareva giusto. Bretan si volse a metà e lo fissò e l’occhio verde del Braith pareva anche più acceso di quello di pietraluce.

«Lui rifiuta solo l’idea di proprietà», disse rapidissimamente Vikary. «Il mio amico insisteva sul fatto della sua umanità, comunque è ancora sotto lo scudo della mia protezione».

Garse Janacek rise e scosse il capo. «No, Jaan. Tu non eri a casa stamattina. T’Larien non vuole essere protetto da nessuno di noi due. Lo ha detto lui».

Vikary lo guardò furibondo. «Garse! Non è il momento di scherzare».

«Io non scherzo», disse Janacek.

«È vero», ammise Dirk. «Ho detto che potevo badare a me stesso».

«Dirk, non sai ciò che dici!», disse Vikary.

«Tanto per cambiare, direi che lo so benissimo».

Bretan Braith Lantry emise lo strano rumore, molto forte ed improvviso, mentre Dirk e i due Ferrogiada stavano discutendo ed il suo teyn Chell se ne stava rigido e furibondo. «Silenzio», chiese la voce di cartavetrata e lo ottenne. «La cosa non ha nessuna importanza. Non cambia niente. Tu dici che lui è umano, Ferrogiada. Se è così, allora non può essere korariel e tu non lo puoi proteggere. Che lui lo voglia o no, tu non lo puoi proteggere. Il mio kethi controllerà che tu non lo faccia». Girò sui tacchi e si mise ben di fronte a Dirk. «Io ti sfido, Dirk t’Larien».

Rimasero tutti zitti. Larteyn fiammeggiava tutto attorno ed il vento era freddissimo. «Non era inteso nessun insulto», disse Dirk, ricordandosi le parole che i Ferrogiada avevano usato in altre occasioni. «Mi è permesso chiedere scusa, o cosa?». Offrì i palmi delle mani aperti e vuoti a Bretan Braith.

La faccia piena di cicatrici ebbe un sussulto. «L’insulto è stato ricevuto».

«Devi duellare con lui», disse Janacek.

I palmi delle mani di Dirk si abbassarono lentamente. Una volta giù si trasformarono in pugni. Non disse niente.

Jaan Vikary fissava per terra lugubremente, ma Janacek era sempre vivace. «Dirk t’Larien non sa niente delle abitudini duellesche», disse ai due Braith. «Su Avalon queste cose non sono in uso. Mi permette di dargli delle spiegazioni?».

Bretan Braith annuì, lo stesso movimento del capo e delle spalle curiosamente goffo che Dirk aveva già notato quel pomeriggio al garage. Chell non parve nemmeno aver sentito; il vecchio Braith continuava a fronteggiare Vikary, borbottando e fissandolo.

«Ci sono quattro scelte da fare, t’Larien», disse Janacek a Dirk. «Come sfidato, lei ha diritto alla prima scelta. Le consiglio di fare la scelta delle armi e di scegliere le lame».

«Lame», disse piano Dirk.

«Io farò la scelta del modo», gracchiò Bretan, «e scelgo il quadrato della morte».

Janacek annuì. «Lei ha anche la terza scelta t’Larien. Dato che non ha nessun teyn, la scelta dei numeri è d’obbligo. Deve essere singolo. Lei può dire così, oppure può scegliere il posto».

«Vecchia Terra?», disse Dirk speranzoso.

Janacek ghignò. «No. Solo questo mondo, temo. Le altre scelte non sono lecite».

Dirk si strinse nelle spalle. «Qui allora».

«Io faccio la scelta dei numeri», disse Bretan. Ormai era completamente buio, c’erano le poche stelle sparse dei mondi esterni che illuminavano il cielo nero. L’occhio del Braith fiammeggiava e la strana luce riflessa provocava uno scintillìo umido sulle sue cicatrici. «Io scelgo il singolo, come deve essere».

«Tutto sistemato», disse Janacek. «Voi due dovete mettervi d’accordo sull’arbitro e poi…».

Jaan Vikary alzò gli occhi. Il suo viso si vedeva appena ed era coperto d’ombra, illuminato solo dalla pallida luce delle pietre che si riflettevano, ma la mascella gonfia gli faceva uno strano profilo. «Chell», disse pianissimo, in tono deciso e tranquillo.

«Sì», rispose il vecchio Braith.

«Tu sei uno sciocco se credi nei falsuomini», gli disse Vikary. «Tutti voi che credete siete degli sciocchi».

Dirk fronteggiava ancora Bretan Braith quando Vikary parlò. La faccia devastata ebbe un guizzo, una, due, tre volte.

La voce di Chell pareva quella di un uomo in trance. «L’insulto è stato ricevuto, Jaantony alto-Ferrogiada, falso Kavalar, falsuomo. Io ti lancio la sfida».

Bretan si voltò di scatto e cercò di gridare. La sua voce non era in grado e riuscì solo a sputacchiare e a tossicchiare. «Tu… provocatore di duelli! Ferrogiada… io…».

«È una cosa nell’ambito del codice», replicò Vikary quasi cordialmente. «Comunque forse, se Bretan Braith potesse passar sopra alla piccola colpa di uno straniero ignorante, allora mi potrei trovare particolarmente propenso a chiedere scusa a Chell fre-Braith».

«No», disse Janacek cupo. «Non è onorevole perdonare».

«No», fece eco Bretan. Ormai il suo viso era un semplice teschio. Il suo occhio gioiello scintillava e la sua guancia era tormentata dalla rabbia. «Io mi sono piegato quanto più potevo per te, falso Kavalar. Non mi farò beffe di tutta la saggezza della mia granlega. Il mio leyn aveva molta più ragione di me. Per la verità avevo torto marcio a cercare di evitare il duello con te, bugiardo. Falsuomo, È una cosa vergognosa. Ma adesso sono tranquillo. Vi ucciderò, Chell ed io, vi uccideremo tutti e tre».

«Può darsi che sia vero», disse Viltary. «Lo faremo subito, così vedremo».

«Ed anche la tua betheyn-vacca», disse Bretan. Non riusciva a gridare; la voce gli si ruppe quando ci provò. Sicché parlò piano come sempre, la gola gli grattava e non riuscì ad alzare il tono. «Quando avremo finito con voi, sveglieremo i nostri cani e daremo la caccia a lei ed al suo grasso Kimdissi in tutte le foreste che loro conoscono così bene».

Jaan Vikary lo ignorò. «Io sono lo sfidante», disse a Chell fre-Braith. «La prima delle quattro scelte è mia. Farò la scelta dei numeri. Combatteremo teynati».

«Io faccio la scelta delle armi», rispose Chell. «Scelgo le pistole».

«Faccio la scelta del modo», disse Vikary. «Scelgo il quadrante della morte».

«Per ultima la scelta del posto», disse Chell. «Qui, allora».

«L’arbitro segnerà col gesso un solo quadrato», disse Janacek. Dei cinque uomini che erano sulla terrazza, lui era l’unico a sorridere. «Comunque abbiamo bisogno di un arbitro. Lo stesso per entrambi i duelli?».

«Un uomo basterà», disse Chell. «Suggerisco Lorimaar alto-Braith».

«No», disse Janacek. «È venuto da noi piuttosto arrabbiato soltanto ieri. Kirak Rossacciaio Cavis».

«No», disse Bretan. «Scrive delle belle poesie, ma non vado troppo d’accordo con le idee di Kirak Rossacciaio».

«Ci sono due della Fortezza di Scianagate», disse Janacek. «Non sono sicuro di come si chiamano».

«Preferiremmo un Braith», disse Bretan facendo scattare la bocca. «Un Braith arbitrerebbe bene, dando la giusta importanza al codice duellesco».

Janacek fissò Vikary; Vikary si strinse nelle spalle. «D’accordo», disse Janacek, mettendosi di nuovo di fronte a Bretan. «Un Braith allora. Pyr Braith Oryan».

«Pyr Braith no», disse Bretan.

«Non siete facili da accontentare», disse seccamente Janacek. «Si tratta di uno dei vostri kethi».

«C’è dell’attrito con Pyr Braith», disse Bretan.

«Un altolegato sarebbe una scelta migliore», disse il vecchio Chell. «Un uomo di buona statura e di nota saggezza. Roseph Lant Banscea alto-Braith Kelcek».

Janacek si strinse nelle spalle. «D’accordo».

«Chiamerò lui», disse Chell. Gli altri annuirono.

«Domani allora», disse Janacek.

«Tutto a posto», disse Chell.

E mentre Dirk se ne stava in piedi ad osservarli, sentendosi perduto e fuori posto, i quattro Kavalari si salutarono. E stranamente, prima di separarsi, ognuno di loro baciò leggermente i suoi due nemici sulle labbra.

E Bretan Braith Lantry, dal viso devastato e con un occhio solo… Bretan Braith Lantry baciò Dirk.

Quando i Braith se ne furono andati, gli altri scesero da basso. Vikary aprì la porta dell’appartamento ed accese le luci. Poi, in un silenzio metodico, cominciò ad accendere il fuoco nel grande focolare posto sotto la cappa, con ceppi di contorto legno nero posti in un ripostiglio nascosto accanto alla parete. Dirk si sedette al fondo del divano con la fronte corrucciata. Garse Janacek si sedette dall’altra parte con un vago sorriso sulle labbra, tirandosi distrattamente i capelli e la barba rosso-arancione. Nessuno parlò.

Il fuoco prese a crepitare, lingue di fiamme arancioni con la punta azzurra che lambivano i ceppi e Dirk sentì improvvisamente il calore sul viso e sulle mani. Un profumo simile a cannella riempì la stanza. Vikary si alzò in piedi e uscì.

Ritornò con tre bicchieri, bicchieri da cognac neri come l’ossidiana. Portava una bottiglia sotto il braccio. Diede un bicchiere a Dirk ed uno a Garse, mise il terzo sul tavolo e tirò via il tappo della bottiglia con i denti. Il vino che c’era dentro era di colore rosso cupo ed estremamente pungente. Vikary riempì tutti e tre i bicchieri fino all’orlo e Dirk fece passare il suo sotto le nari. I vapori bruciavano, ma lo trovò stranamente piacevole.

«Allora», disse Vikary, prima che uno di loro avesse assaggiato il vino. Aveva messo giù la bottiglia ed aveva alzato il bicchiere. «Adesso devo chiedere qualcosa di molto difficile per tutti e due. Devo chiedere a tutti e due di superare i confini della nostra piccola cultura per una volta ed essere qualcosa che non siete mai stati prima, qualcosa che vi parrà strano. Garse, io ti chiedo — per il bene di tutti noi — di essere amico di Dirk t’Larien. Non c’è una parola che esprìma questo concetto in antico Kavalar, lo so. Non c’è bisogno di una cosa del genere su Alto Kavalaan, dove un uomo ha la sua granlega ed i suoi kethi e quasi tutti hanno il loro teyn. Ma noi ci troviamo tutti su Worlorn e domani duelleremo. Magari non duelleremo tutti assieme, comunque abbiamo dei nemici comuni. Per cui ti chiedo, come mio teyn, di prendere il nome ed i nomi-vincoli di amico con t’Larien».

«Mi chiedi molto», rispose Janacek, tenendo sollevato il vino di fronte al viso ed osservando le fiamme che danzavano nel bicchiere nero. «T’Larien ci ha spiati, ha tentato di rubare la mia cro-betheyn ed il tuo nome e adesso ci ha coinvolti nelle sue beghe con Bretan Braith. Sarei quasi tentato di lanciargli una sfida per tutto ciò che ha fatto. E tu, il mio teyn, mi chiedi di prendere il vincolo di amico, invece».

«Proprio», disse Vikary.

Janacek guardò Dirk, poi assaggiò il vino. «Tu sei il mio teyn», disse. «Faccio quello che vuoi tu. Quali sono ì miei doveri in nome dell’amicizia?».

«Trattare un amico come se fosse un keth», disse Vikary. Si voltò leggermente verso Dirk. «E tu, t’Larien, tu sei stato la causa di guai molto gravi, ma non so fino a che punto sia colpa tua, né se devi pagare personalmente. Anche a te chiedo qualcosa. Essere confratello di Garse Ferrogiada Janacek per un po’ di tempo».

Dirk non poté rispondere; Janacek lo batté sul tempo. «Tu non puoi fare questo. Chi è lui, questo t’Larien? Come puoi considerarlo degno, farlo entrare nel Ferrogiada? Sarà falso, Jaan. Non manterrà i vincoli, non difenderà la coalizione, non tornerà con noi all’Unione. Te lo dico io».

«Se lui accetta, penso che manterrà i legami per un po’», disse Vikary.

«Per un po’? I kethi sono legati per sempre!».

«Allora questa sarà una cosa nuova, un nuovo tipo di keth, un amico per poco tempo».

«Sarà più di nuovo», disse Janacek. «Non te lo permetterò».

«Garse», disse Jaan Vikary. «Dirk t’Larien adesso è tuo amico. O lo hai già dimenticato? Faresti male a cercare di ostacolare la mia offerta. Rompi i legami che hai accettato. Non ti comporti come un keth».

«Non dovresti invitare un keth ad essere un keth», brontolò Janacek. «Dovrebbe già esserlo, perciò tutta la faccenda non ha nessun senso. Egli è al di fuori dei vincoli. Il consiglio degli altolegati ti rimbrotterà Jaan. È una cosa chiaramente sbagliata».

«Il consiglio degli altolegati è insediato su Alto Kavalaan e qui siamo su Worlorn», disse Vikary. «Ci sei solo tu qui a parlare per Ferrogiada. Vuoi urtare i sentimenti del tuo amico?».

Janacek non rispose.

Vikary si rivolse di nuovo a Dirk. «Allora, t’Larien?».

«Non so», disse Dirk. «Credo di sapere che cosa significhi essere un fratello di granlega ed immagino di apprezzare l’onore, o quel che è. Ma ci sono un sacco di cose che attraversano le nostre strade, Jaan».

«Parli di Gwen?», disse Vikary. «Lei è davvero tra di noi. Ma, vedi Dirk, io ti sto chiedendo di essere un tipo di fratello di granlega davvero nuovo e specialissimo. Solo per il periodo in cui resteremo su Worlorn e poi, solo nei confronti di Garse, non nei miei confronti o nei confronti di un qualsiasi altro Ferrogiada. Mi capisci?».

«Sì. Così è più facile». Fissò Janacek. «Comunque ho avuto dei problemi anche con Garse. È stato lui che ha cercato di trasformarmi in proprietà privata, ed anche adesso non è che abbia esattamente cercato di tirarmi fuori da questo duello».

«Io dico solo la verità», disse Janacek, ma Vikary gli fece segno di stare zitto.

«Queste sono cose che potrei anche perdonare, direi», affermò Dirk. «Ma non l’affare di Gwen».

«La faccenda sarà risolta da me, da te e da Gwen Delvano», disse Vikary con calma. «Garse non c’entra niente, checché ne dica lui».

«Ma si tratta della mia cro-betheyn», si lagnò Garse. «Ho diritto di parlarne e di comportami di conseguenza. Ha dei doveri».

«Io parlavo dell’altra sera», disse Dirk. «Mi ero fermato vicino alla porta ed ho sentito. Janaceck l’ha picchiata e da quel momento tutti e due l’avete tenuta lontana da me».

Vikary sorrise. «Lui l’ha picchiata?».

Dirk annuì. «L’ho sentito io».

«Tu hai sentito la discussione ed un pugno, questo è sicuro», disse Vikary. Si accarezzò la mascella gonfia. «Come pensi che mi sia fatto questo.

Dirk lo fissò e si sentì improvvisamente ottuso. «Ma… ma io pensavo che… non lo so. I bambini di gelatina…».

«È stato Garse a colpirmi e non ha colpito Gwen», disse Vikary.

«Lo farei ancora», aggiunse Janacek con tono arcigno.

«Ma», disse Dirk, «ma allora, che cosa sta succedendo? L’altra sera? E stamattina?».

Janacek si alzò e si avvicinò a Dirk in fondo al divano e lo fissò dall’alto in basso. «Amico Dirk», disse con tono leggermente avvelenato, «stamattina ti ho detto la verità. Gwen era uscita assieme ad Arkin Ruark, per andare a lavorare. Il Kimdissi continuava a cercarla fin da ieri. Non stava più nella pelle. La storia che ha raccontato a me riguardava una colonna di scarabei corazzati che aveva iniziato la migrazione, certamente per il fatto che il freddo si avvicina. Si dice che una cosa del genere succeda assai raramente anche su Eshellin. Su Worlorn, naturalmente, un simile avvenimento è addirittura unico e non è possibile simularlo un’altra volta, così, secondo Ruark, bisognava uscire subito a studiarlo. Hai capito, adesso, mio caro amico Dirk t’Larien?».

«Ah», disse Dirk. «Avrebbe dovuto dirmi qualcosa».

Janacek ritornò al suo posto con il lungo viso affilato atteggiato ad una smorfia imbronciata. «Il mio amico dice che sono un bugiardo», disse.

«Garse dice la verità», intervenne Vikary. «Gwen ha detto che avrebbe lasciato due parole per te, un biglietto o una registrazione. Può darsi che se ne sia dimenticata perché era tutta eccitata per la partenza. Sono cose che capitano. È una brava ragazza che tiene molto al suo lavoro, Dirk. È una brava ecologa».

Dirk guardò Garse Janacek. «Andiamo», disse. «Stamattina mi aveva detto che avrebbe fatto di tutto per tenermi lontano da lei. Lo ha ammesso».

Anche Vikary appariva perplesso. «Garse?».

«Vero», ammise Janacek malvolentieri. «È venuto qui ed insisteva, insisteva, voleva entrare a tutti i costi nascondendosi dietro delle bugie trasparenti. C’è di più, voleva assolutamente credere che Gwen fosse tenuta prigioniera dai cattivi Ferrogiada. Dubito che avrebbe creduto a qualsiasi altra cosa». Sorseggiò attentamente il vino.

«Questo», disse Jaan Vikary, «non è stato un comportamento saggio, Garse».

«Falso ricevuto, falso ritornato», disse Janacek ed aveva un tono tronfio.

«Non ti comporti da buon amico».

«Da questo momento sarò migliore», disse Janacek.

«Ciò mi fa piacere», disse Vikary. «Allora, t’Larien, vuoi essere keth di Garse?».

Dirk ci pensò per un bel po’. «Penso di sì», disse alla fine.

«Beviamo allora», disse Vikary. I tre uomini sollevarono assieme i bicchieri — quello di Janacek era già scolato per metà — ed il vino aveva un sapore caldo e leggermente amaro sulla lingua di Dirk. Non era il miglior vino che avesse assaggiato. Ma era abbastanza buono.

Janacek finì il bicchiere e si alzò. «Dobbiamo parlare dei duelli».

«Sì», disse Vikary. «È stata una brutta giornata. Nessuno di noi si è comportato per il meglio».

Janacek si appoggiò alla cappa sotto ad una delle lubriche cariatidi. «Quello che si è comportato peggio sei stato tu Jaan. Non fraintendermi, non ho paura di duellare con Bretan Braith e Chell Mani-Vuote, ma non ce n’era bisogno. Li hai provocati apposta. Il Braith non poteva far altro che lanciarti la sfida dopo quello che avevi detto, altrimenti il suo teyn gli avrebbe sputato in faccia».

«Non è andata come speravo», disse Vikary. «Pensavo che forse Bretan avrebbe potuto aver paura di noi, che avrebbe rinunciato al suo duello con t’Larien per poterci evitare. Non lo ha fatto».

«No», disse Janacek, «non lo ha fatto. Te lo avrei potuto dire anch’io, se tu me lo avessi chiesto. Lo hai sospinto troppo in là, andando pericolosamente vicino ad un duello».

«Era nell’ambito del codice».

«Può darsi. Comunque Bretan si è comportato correttamente; sarebbe stato una grande vergogna per lui se avesse ignorato l’uscita di t’Larien perché aveva paura di te».

«No», disse Vikary. «Ecco dove tu e la gente come te sbagliate. Non c’è nessuna vergogna ad evitare un duello. Se mai riusciremo a raggiungere una grande tradizione, queste sono cose che dovremo imparare. Comunque, in un certo senso, tu hai ragione… Considerando chi è lui e che cosa è, non poteva dare nessun’altra risposta. Ho sbagliato a giudicarlo».

«Uno sbaglio molto serio», disse Janacek. Un ghigno gli divise in due la barba rossa. «Sarebbe stato meglio far fare il duello solo a t’Larien. Gli avevo consigliato di combattere con le lame, non è vero? Il Braith non l’avrebbe ucciso per un’offesa tanto insignificante. Per un uomo come Dirk, eh, non ci sarebbe stato nessun onore ad ucciderlo. Un colpo solo, avrei detto. Un taglietto avrebbe tenuto buono t’Larien. Una lezione per lui, per insegnargli a non sbagliare più. Avrebbe dato un certo carattere al suo viso, un taglietto». Guardò Dirk. «Adesso, naturalmente, Bretan Braith ti ucciderà»

Stava ancora ridendo e fece il commento finale come se dicesse una cosa senza importanza. Dirk si sforzò di non farsi andare il vino per traverso. «Che?».

Janacek si strinse nelle spalle. «Dato che sei stato il primo ad essere sfidato, dovrai duellare per primo, sicché non potrai sperare che Jaan ed io li uccidiamo prima che possano acchiapparti. Bretan Braith Lantry è ben conosciuto per la sua abilità nei duelli, e per la sua ottima mira. Davvero, è notorio. Immagino che fosse qui per cacciare falsuomini con Chell, ma per la verità non è un cacciatore. Si sente molto più a suo agio nel quadrato della morte che nella foresta, se è vero tutto ciò che ho sentito dire di lui. Anche i suoi kethi lo considerano un tipo difficile. Oltre ad essere brutto, si è preso per teyn Chell fre-Braith. Un tempo Chell era un altolegato di grande potenza ed onore. È sopravvissuto alla sua betheyn ed al suo primo teyn. Al giorno d’oggi non è altro che un fifone superstizioso con poco cervello ed una straordinaria ricchezza. Le chiacchiere della granlega dicono che è proprio per la ricchezza che Bretan Braith porta il ferro-e-fuoco di Chell. Naturalmente nessuno lo dice apertamente a Bretan. Dicono che sia molto suscettibile. E adesso Jaan lo ha anche fatto arrabbiare e può darsi che sia un po’ spaventato. Non avrà nessuna pietà per te. Spero che tu riesca a tagliuzzarlo un pochino prima di morire. Questo ci faciliterebbe le cose nel duello successivo».

Dirk si ricordò della sicurezza che aveva provato quando si trovava sulla terrazza; si era sentito assolutamente sicuro che nessuno dei due Braith rappresentasse un vero pericolo. Lui li capiva; si sentiva addirittura dispiaciuto per loro. Adesso cominciava a dolersi per se stesso. «È vero quel che dice?», chiese a Vikary.

«Garse scherza ed esagera», disse Vikary, «comunque sei in pericolo. Indubbiamente Bretan cercherà di ucciderti, se gliene dai la possibilità. Il che non deve succedere. Le regole per il tuo duello e per le tue armi sono molto semplici. L’arbitro traccerà un quadrato con il gesso sulla strada, cinque metri per cinque e tu e il tuo nemico partirete da angoli opposti. Quando lo dirà l’arbitro, ognuno di voi avanzerà con la spada verso il centro. Quando arriverete a contatto, combatterete. Per seguire le regole dell’onore, tu dovrai accusare un colpo e darne uno. Ti consiglio di mirare ai piedi o alle gambe, perché questo indicherà chiaramente che tu non intendi fare un duello mortale. Poi, dopo che hai parato il suo primo colpo — devi cercare di defletterlo con la spada, se ci riesci — allora puoi camminare verso il perimetro del quadrato. Non correre. Non c’è onore nel correre; in questo caso l’arbitro non esiterà a decretare una vittoria mortale per Bretan e allora i Braith ti uccideranno. Devi camminare, con calma. Se arrivi fino alla linea perimetrale e passi dall’altra parte, allora sei salvo».

«Per raggiungere la salvezza devi però arrivarci alla linea perimetrale», disse Janacek. «Bretan ti ucciderà prima».

«Se io dò il mio colpo e ne ricevo uno, poi posso buttar via la spada e andarmene?», chiese Dirk.

«Se fai una cosa del genere Bretan ti ucciderà con chiara espressione perplessa sulla faccia, o ciò che ne rimane», disse Janacek.

«Io non farei una cosa del genere», gli consigliò Vikary.

«I suggerimenti di Jaan sono una follia», disse Janacek. Ritornò lentamente verso il divano, recuperò il bicchiere e si versò dell’altro vino. «Devi tenere la spada in mano e combatterlo. Sta attento, l’uomo è cieco da un occhio. Certamente da quella parte è vulnerabile! Hai visto come fa a muovere la testa in quel modo sgraziato?».

Il bicchiere di Dirk era vuoto. Lo sollevò e Janacek gli versò dell’altro vino. «E voi come duellerete con loro?», chiese Dirk.

«Le regole per il nostro duello e per le nostre armi sono diverse dalle tue», disse Vikary. «Ci metteremo tutti e quattro ai quattro angoli del quadrato, per metterci in salvo. E non potremo farlo almeno fino a che ogni persona all’interno del quadrato non ha tirato il suo colpo. Fatto questo, potremo scegliere. Quelli che rimangono in piedi, ammesso che ci sia qualcuno, possono continuare a sparare. Può essere un sistema innocuo, oppure mortale, a seconda della volontà di quelli che partecipano».

«Domani», promise Janacek, «sarà mortale». Bevve di nuovo.

«Spererei diversamente», disse Vikary con un vigoroso movimento del capo, «ma temo che tu abbia ragione. I Braith sono troppo pieni di rabbia verso di noi per sparare in aria».

«Proprio così», disse Janacek con un leggero sorriso. «Hanno preso l’insulto davvero male. Per lo meno, Chell Mani-Vuote non perdonerà».

«Ma voi non potete sparare per ferire?», suggerì Dirk. «Per disarmarlo?». Le parole gli vennero spontanee, ma gli parve strano sentirselo dire. La situazione era assolutamente al di fuori della sua esperienza, eppure la stava già accettando, si sentiva stranamente bene con i due Kavalari, con il loro vino ed il loro tranquillo discorrere di morte e di mutilazioni. Forse voleva dire qualcosa essere diventato un kethi; forse era per questo che svaniva l’insicurezza. Dirk sapeva soltanto che si sentiva in pace e a casa.

Vikary pareva turbato. «Ferirli? Lo vorrei anch’io, ma non si può. I cacciatori adesso ci temono. Risparmiano i korariel di Ferrogiada perché hanno paura di noi. Noi salviamo delle vite umane. Ma questo non sarebbe più possibile se domani fossimo troppo indulgenti con i Braith. Gli altri non rinuncerebbero troppo facilmente a cacciare se pensassero che il massimo che rischierebbero fosse una feritina. No, purtroppo penso che dovremo uccidere Chell e Bretan se ci sarà possibile».

«Ci sarà possibile», disse Janacek fiducioso. «E poi, amico t’Larien, non è né facile, né saggio ferire un nemico in duello, anche se ti può parere strano. Disarmarlo noi, be’, ci prendi in giro. È una cosa virtualmente impossibile. Si combatte con laser da duello, amico, non con armi da guerra. Sono armi che sparano impulsi di mezzo secondo ed hanno bisogno di un intero ciclo di quindici secondi per ricaricarsi. Capisci? Un uomo che spara affrettatamente, o mira a bersagli inutilmente difficili, uno che spari per disarmare… è un uomo morto. Si può sbagliare anche a cinque metri e il tuo nemico ti farà secco prima che il tuo laser sia pronto per il secondo colpo».

«È una cosa impossibile?», disse Dirk.

«C’è un sacco di gente che rimane solo ferita in duello», gli disse Vikary. «Per la verità più di quelli che restano uccisi. Comunque, nella maggior parte dei casi, questo non era il risultato desiderato. A volte sì. Quando un uomo spara in aria ed il suo nemico decide di punirlo, allora è il caso che vengano inflitte terribili cicatrici. Ma questo non succede spesso».

«Potremmo ferire Chell», disse Janacek. «È vecchio e lento, non riuscirà a raggiungere la sua arma velocemente con la mano. Ma Bretan Braith è un altro paio di maniche. Si dice che abbia già ucciso più di mezza dozzina di persone».

«A quello ci penso io», disse Vikary. «Tu vedi di fare attenzione che il laser di Chell non spari, Garse, sarà sufficiente questo».

«Forse». Janacek guardò Dirk. «Se riuscissi a tagliuzzare un pochino Bretan, t’Larien, al braccio o sulla mano, o sulla spalla… dagli solo un taglio, che gli faccia male, che lo rallenti un po’. La cosa sarebbe ben diversa». Ghignò.

Anche se non lo voleva, Dirk scoprì che gli stava restituendo il sorriso. «Ci posso provare», disse, «ma ricordati, io so maledettamente poco di duelli e ancor meno delle spade e la mia prima preoccupazione sarà quella di restare vivo».

«Non vaneggiare l’impossibile», disse Janacek, sempre sorridendo. «Cerca solo di fare il più gran danno ppssibile».

Si apri la porta. Dirk si voltò ed alzò gli occhi. Janacek si azzittì. Sulla porta era apparsa Gwen Delvano, con il viso e gli abiti striati di polvere. Fissò incerta una faccia dopo l’altra, poi entrò lentamente nella stanza. Aveva un pacco di sensori sulla spalla. Arkin Ruark la seguiva, portando due pesanti casse di strumenti sotto le braccia. Era sudato ed ansante, indossava pesanti braghe verdi, un giubbotto ed un cappuccio e sembrava assai meno frivolo del solito.

Gwen abbassò lentamente il pacco di sensori a terra, ma lo tenne stretto per la cinghia. «Danni?», disse. «Di cosa parlate? Chi è che deve fare dei danni e a chi?».

«Gwen», cominciò Dirk.

«No», lo interruppe Janacek. Stava in piedi assai rigido. «Il Kimdissi se ne deve andare».

Ruark si guardò attorno, con la faccia bianca, perplesso. Tirò indietro il cappuccio e cominciò ad asciugarsi la fronte sotto i capelli biondi e bianchi. «Che immane sciocchezza, Garsey», disse. «Che cos’è un grande segreto Kavalar, eh? Una guerra, una caccia, un duello, una qualche violenza, sì? Ah, non mi piace indagare su queste cose, no, non fanno per me. Allora vi lascio soli, sì, statemi bene». Si voltò e si avviò verso la porta.

«Ruark», disse Jaan Vikary. «Aspetta».

Il Kimdissi si fermò.

Vikary si mise di fronte al suo teyn. «Bisogna dirlo anche a lui. Se fallissimo…».

«Non falliremo!».

«Se fallissimo, hanno promesso di cacciare anche loro. Garse, è coinvolto anche il Kimdissi. Bisogna dirglielo».

«Tu sai ciò che capiterà. Su Tober, su Lupania, su Eshellin, attraverso tutto il Margine. Lui e quelli della sua razza spargeranno bugie e tutti i Kavalari saranno dei Braith. È così che lavorano i maneggioni, i falsuomini». La voce di Janacek non aveva l’umorismo selvaggio con cui aveva punzecchiato Dirk; era una voce fredda e seria adesso.

«La sua vita è in pericolo adesso ed anche quella di Gwen», disse Vikary. «Bisogna dirglielo».

«Tutto?».

«La sciarada è finita», disse Vikary.

Ruark e Gwen parlarono contemporaneamente.

«Jaan, che cosa…», cominciò lei.

«Sciarada, vita, caccia, ma cosa diavolo succede? Parlate!».

Jaan Vikary si voltò e glielo disse.

7

«Dirk, Dirk, lei non può parlare seriamente. No, non ci credo. Fino ad adesso avevo pensato sempre che, be’ sì, che lei fosse migliore di loro. E adesso mi viene a parlare così? No, sto sognando. Questa è assoluta follia!». Ruark si era un po’ ripreso. Con la sua vestaglia lunga, di seta verde ricamata con dei gufi, pareva più lui, anche se pareva tristemente fuori posto in mezzo alla confusione del laboratorio. Si era seduto su di uno sgabello alto e voltava la schiena agli scuri schermi rettangolari del quadro di comando del computer; i piedi calzati di pantofole erano incrociati alle caviglie e le mani grassocce tenevano un bicchiere alto, gelato, con il verde vino Kimdissi. La bottiglia era dietro di lui, messa vicina a due bicchieri vuoti.

Dirk era seduto su di una grande tavola da lavoro di plastica, con le gambe ripiegate sotto di sé ed il gomito appoggiato su di un pacco di sensori. Si era fatto un po’ di spazio spostando in là il pacco e togliendo di mezzo una serie di fotografie su carta. La stanza era in un caos incredibile. «Non vedo nessuna follia», disse testardamente. I suoi occhi vagavano per la stanza anche mentre continuava a parlare. Non era mai stato prima d’ora nel laboratorio. Era più o meno grande come il soggiorno nell’appartamento dei Kavalari, però pareva molto più piccolo. Contro una parete era allineata una batteria di piccoli computer. Dall’altra parte c’era una gigantesca mappa di Worlorn, tracciata in una dozzina di colori diversi, piena di spilli di forma diversa infilati dappertutto e diversi segnalini. Nel mezzo c’erano tre tavoli da lavoro. Era qui che Gwen e Ruark mettevano assieme i loro pezzettini di conoscenza dopo averli cacciati nelle foreste del morente pianeta del festival, ma a Dirk pareva più un quartier generale di tipo militare.

Dirk non sapeva ancora bene perché loro due fossero là. Dopo la lunga spiegazione di Vikary e l’acrimoniosa discussione che era seguita tra Ruark ed i due Kavalari, il Kimdissi era sceso nelle sue stanze, battendo vistosamente i piedi, e si era portato dietro Dirk. Non era sembrato il momento giusto per parlare con Gwen. Ma non appena Ruark si era cambiato d’abito e si era calmato i nervi con una buona sorsata di vino aveva insistito perché Dirk lo accompagnasse nel laboratorio. Si era portato dietro tre bicchieri, ma Ruark era il solo che beveva. Dirk si ricordava ancora della volta precedente e poi doveva pensare all’indomani; doveva essere scattante. Tra l’altro, se il vino Kimdissi si accordava con quello Kavalar allo stesso modo in cui i Kimdissi andavano d’accordo con i Kavalari, sarebbe stato un vero e proprio suicidio berli uno dopo l’altro.

Per cui Ruark bevve da solo. «La follia», disse il Kimdissi dopo aver sorseggiato un po’ di roba verde, «consiste nel duellare come i Kavalari. L’ho già detto, me ne ricordo bene, non riesco a crederci! Jaantony, sì, Garsey di sicuro e naturalmente quei Braith. Animali xenofobi, gente violenta. Ma lei, ah! Dirk, lei, un uomo di Avalon, non è cosa degna di lei. Possibile che parli seriamente? Ma mi dica un po’, non riesco a capire. Uno di Avalon! Lei che è cresciuto assieme all’Accademia della Sapienza Umana, sì, assieme all’Istituto di Avalon per lo Studio delle Intelligenze Non-Umane, anche quello. Il mondo di Tommaso Chung, il posto in cui è nato il Rilevamento Kleronomas, tutta quella storia e quella sapienza che le stava attorno, più di quanta ce ne sia in tutti gli altri posti tranne forse Vecchia Terra o Newholme forse. Lei ha viaggiato, è colto, ha visto un mucchio di pianeti diversi, un sacco di gente sparsa qui e là. Sì! Lei lo sa meglio di me. Deve saperlo, no! Sì!».

Dirk si accigliò. «Arkin, lei non capisce. Non sono stato io a cercare questo duello. È stato uno sbaglio, o qualcosa del genere. Ho cercato di chiedere scusa, ma Bretan non mi ha voluto ascoltare. Che cosa accidenti potevo fare?».

«Fare? Ma come, filarsela, si capisce. Poteva prendersi la dolce Gwen e filarsela; lasciare Worlorn il più in fretta possibile. Lei appartiene a Gwen, Dirk, lei lo sa, vero? E Gwen ha bisogno di uno come lei, sì, nessun altro andrebbe bene. E lei come la aiuta quella ragazza? Comportandosi in modo riprovevole come fa Jaan? Suicidandosi? Eh? Me lo dica Dirk, me lo dica».

La cosa si faceva di nuovo tutta confusa. Quando aveva bevuto con Janacek e Vikary, tutto era sembrato così chiaro e semplice da accettare. Ma adesso Ruark diceva che era tutto sbagliato. «No so», rispose Dirk. «Voglio dire, ho rifiutato la protezione di Jaan. Per cui devo proteggermi da solo, le pare? In fondo di chi è la responsabilità? Sono io che ho fatto le scelte, eccetera; il duello è ormai combinato. Non posso ritrarmi facilmente ormai».

«Ma certo che può», disse Ruark. «Chi è che la può fermare? La legge, eh? Non c’è nessuna legge su Worlorn, no, nessuna. Assolutamente vero! Ci potrebbero forse dare la caccia queste bestie se ci fosse una legge? No, ma non c’è legge, per cui ci sono guai per tutti, ma lei non è costretto al duello se non lo vuole».

Si apri la porta e Dirk si voltò nel momento in cui entrava Gwen. Dirk aggrottò la fronte e Ruark si illuminò. «Ah, Gwen», disse il Kimdissi, «vieni qui con me, cerca di riportare un po’ di buonsenso in t’Larien. Questo gran sciocco ha intenzione di duellare, vero, peggio che se fosse Garsey».

Gwen venne avanti e rimase in piedi in mezzo a loro. Indossava pantaloni di tessuto camaleontino (al momento erano grigio scuro) ed un maglione nero, con una sciarpa verde allacciata ai capelli. La faccia profumava ancora di foresta ed era seria. «Ho detto loro che venivo giù ad elaborare dei dati», disse e la punta della lingua si muoveva nervosamente sulle labbra. «Non so cosa dire. Ho chiesto a Garse di Bretan Braith Lantry. Dirk, ci sono buone possibilità che lui ti uccida».

Le sue parole lo raggelarono. Chissà perché, ma sentirselo dire da Gwen gli pareva diverso. «Lo so», disse. «Non cambia niente Gwen. Cioè, se volevo starmene al sicuro, avrei potuto restare korariel di Ferrogiada, giusto?».

Lei annuì. «Sì. Ma tu hai rifiutato. Perché?».

«Che cosa avevi detto nella foresta? E dopo, anche? Sui nomi? Non volevo diventare proprietà di qualcuno, Gwen. Io non sono korariel».

La osservò. Per un istante brevissimo il suo viso si oscurò e gli occhi le corsero alla giada-e-argento. «Capisco», disse con una voce che era quasi un sussurro.

«Be’, io no», disse Ruark sbuffando. «Allora, essere korariel. Che cosa sarà mai? Non è altro che una parola! In ogni modo si è vivi, eh?».

Gwen lo guardò, appollaiato in alto sullo sgabello. Pareva vagamente comico con la lunga vestaglia, aggrappato al suo bicchiere e con quel cipiglio. «No, Arkin», disse lei. «Anch’io ho fatto quest’errore. Anch’io pensavo che betheyn fosse solo una parola».

Lui arrossì. «Va bene, allora! Quindi Dirk non è korariel, bene, non è proprietà di nessuno. Ciò non significa che debba duellare, no, assolutamente no. Il codice di onore dei Kavalari è una cosa senza senso, veramente una grande, incommensurabile stupidaggine. Forse che lei vuole essere uno stupido, Dirk? Morire da stupido?».

«No», disse Dirk. Le parole di Ruark lo sconvolgevano. Lui non credeva nel codice di Alto Kavalaan. E allora? Non ne era affatto convinto. Forse voleva provare qualcosa, pensò, ma non sapeva che cosa e a chi. «Devo farlo, ecco tutto. È la cosa giusta da farsi».

«Parole!», disse Ruark.

«Dirk, non voglio vederti morto», disse Gwen. «Ti prego. Non farmi una cosa simile».

Il tozzo Kimdissi ridacchiò. «No, ne parliamo ancora, noi due, eh?». Sorseggiò il suo vino. «Mi ascolti, Dirk, vuol davvero fare una cosa simile?».

Dirk annuì cupamente.

«Bene. Ma prima, mi risponda a questo, lei crede nel codice duellesco? Crede che sia un’istituzione sociale? Una cosa morale? Me lo dica, la verità, lei lo crede?».

«No», disse Dirk. «Ma non credo che lo pensi nemmeno Jaan, a giudicare da alcuni commenti che ha fatto. Eppure, lui duella quando ci è costretto. Qualsiasi altra cosa sarebbe codardia».

«No, nessuno penserebbe che lei è un codardo, o che lo sia lui. Jaantony sarà sempre un Kavalar, con tutto il marcio che la cosa comporta, ma nemmeno io direi che è un codardo. Ma ci sono diversi tipi di coraggio, no? Se questa torre prendesse fuoco, rischierebbe la sua vita per salvare Gwen e magari anche me? Anche Garse forse?».

«Spererei di sì», disse Dirk.

Ruark annuì. «Vede dunque, lei è un uomo coraggioso. Non c’è bisogno di un suicidio per provarlo».

Gwen fece un cenno con il capo. «Ricordi cosa dicesti quella notte a Kryne Lamiya, Dirk, riguardo la vita e la morte. Non puoi andare e uccidere te stesso dopo tutto il discorso, non è vero?».

Dirk aggrottò le sopracciglia. «Maledizione, questo non è suicidio».

Ruark rise. «No? È la stessa cosa, quasi uguale. Pensa forse di batterlo in duello?».

«Be’, no, ma…».

«Se lui lascia cadere la spada, perché gli sudano le dita, o qualcosa del genere, lei lo ucciderebbe?».

«No», disse Dirk. «Io…».

«Sarebbe una cosa sbagliata, sì, vero? Sì! Bene, permettergli di ucciderla sarebbe ugualmente sbagliato. Anche solo dargli la possibilità. Stupido. Lei non è un Kavalar, per cui non mi porti l’esempio di Jaantony. Anche se ha delle buone intenzioni, resta sempre un assassino. Lei è migliore, Dirk. E poi lui ha una scusante, può darsi che lui creda di combattere forse per cambiare la sua gente. Ha il grosso complesso del redentore, Jaan, ma non siamo qui per prendere in giro lui, no. Ma lei, Dirk, lei non ha questo tipo di motivi. Non è vero?».

«Suppongo di no. Ma dannazione, Ruark, lui si comporta nel modo giusto. Lei non aveva un aspetto così tranquillo quando lui le ha detto che i Braith le avrebbero dato la caccia se non fosse stato per la protezione che lui le forniva».

«No, e non mi sento tranquillo neanche adesso, non dico bugie. Ma questo non cambia niente. Può darsi che io sia korariel, però i Braith sono peggiori dei Ferrogiada, e Jaan usa la violenza per arrestare la violenza. Può darsi. È giusto? Ah, non lo posso certo dire io. Sano esempio di morale, assolutamente vero! Può darsi che i duelli di Jaan abbiano un loro scopo, eh, per la sua gente, per noi. Ma i duelli che fa lei sono assolutamente una follia, non servono a niente, solo a trasformarla in cadavere. Così Gwen rimarrà per sempre con Jaan e Garse, fino a che perderanno anche loro un duello, forse, e la cosa non sarà certo piacevole».

Ruark fece una pausa e terminò il vino, poi roteò sullo sgabello per riempire un altro bicchiere. Dirk era immobile, gli occhi di Gwen lo fissavano, quello sguardo paziente era talmente concreto da risultare tangibile. La testa gli martellava. Pensò di nuovo che Ruark stesse confondendo tutto. Doveva fare la cosa più giusta, ma qual’era? All’improvviso tutte le cose che aveva pensato e che aveva deciso erano evaporate. Nel laboratorio era sceso un silenzio pesante.

«Non voglio scappare», disse alla fine Dirk. «Non voglio. Ma non voglio neanche duellare. Andrò là e dirò che ho deciso, che rifiuto di combattere».

Il Kimdissi fece dondolare il vino e ridacchiò. «Be’, ci vuole un certo coraggio morale. Assolutamente vero. Gesù Cristo, Socrate, Erika Stormjones e adesso Dirk t’Larien, grandi martiri della storia, sì. Può darsi che il poeta Rossacciaio scriva qualche cosa su di lei».

Gwen rispose in maniera più seria. «Questi sono Braith, Dirk, Braith altolegati della vecchia scuola. Su Alto Kavalaan non avrebbero mai potuto sfidarti a duello. I consigli degli altolegati stabiliscono che gli abitanti di altri mondi non sono soggetti al loro codice. Ma qui è diverso. L’arbitro assegnerà un verdetto di forfait, così Bretan Braith e i suoi fratelli di granlega ti uccideranno o ti daranno la caccia. Se rifiuti di fare il duello, secondo loro, fornirai la prova di essere un falsuomo».

«Non posso scappare», ripeté Dirk. Le sue argomentazioni erano improvvisamente scomparse; non gli era rimasto niente tranne le emozioni, la determinazione di affrontare l’alba per vedere cosa capitava.

«Lei sta dando un calcio alla sua unica possibilità di salvezza, sì, vero. Non si tratta di codardia, Dirk. La pensi in questo modo, la scelta più coraggiosa di tutte consiste nel rischiare il loro disprezzo per essere fuggito. Anche in questo caso si troverebbe di fronte al pericolo. Probabilmente le darebbero la caccia, Bretan Braith, se sopravvive, sennò gli altri, chi lo sa? Ma lei sarà vivo, magari dovrà cercare di evitarli, potrà aiutare Gwen».

«Non posso», disse Dirk. «L’ho promesso, l’ho promesso a Jaan e Garse».

«Promesse? Quali? Di morire?».

«No. Sì. Cioè, Jaan mi ha fatto promettere di essere fratello di Janacek. Non si sarebbero trovati neanche loro in questo duello se non avessero cercato di tirarmi fuori dai guai».

«Dopo che Garse ti ci aveva spinto», disse Gwen amara e Dirk sussultò sentendo la velenosità del suo tono tranquillo.

«Possono morire anche loro domani», disse Dirk incerto. «Ed io ne sono responsabile. Adesso mi venite a dire che io devo abbandonarli».

Gwen si fece vicinissima a lui e sollevò le mani. Gli accarezzò leggermente le guance con le dita allontanandogli dalla fronte i capelli grigi e bruni ed i grandi occhi verdi lo fissarono. Improvvisamente lui si ricordò di altre promesse: la gemma mormorante, la gemma mormorante. Ed epoche passate da tanto tempo gli si accesero nella mente ed il pianeta prese a vorticare e la ragione e il torto cominciarono a mescolarsi girando velocemente.

«Dirk, ascoltami», disse lentamente Gwen. «Jaan ha fatto sei duelli per causa mia. Garse, che non mi ama nemmeno, ha partecipato a quattro di quei duelli. Hanno ucciso per me, per il mio orgoglio, per il mio onore. Io non l’avevo chiesto, come tu non avevi chiesto la loro protezione. Si trattava del loro concetto del mio onore, non era il mio concetto. Eppure quei duelli furono per me la stessa cosa che questo è per te. Malgrado ciò tu mi chiedi di lasciarli, di ritornare con te, per amarti di nuovo».

«Sì», disse Dirk. «Ma… non so. Ho lasciato dietro una traccia, fatta di promesse spezzate». La sua voce era tormentata. «Jaan mi ha nominato keth».

Ruark sbuffò. «Se l’avesse nominato pranzo, lei salterebbe nel forno, eh?».

Gwen si limitò a scuotere il capo tristemente. «Ma tu che cosa senti? Come un dovere? Un obbligo?».

«Direi di si», disse lui riluttante.

«Allora ti sei risposto da solo, Dirk. Tu mi hai detto quale deve essere la risposta che io ti devo dare. Se senti con tanta forza di dover soddisfare dei doveri per un termine da poco conto come keth, un legame che in realtà non esiste nemmeno su Alto Kavalaan, come mi puoi chiedere di rinunciare alla giada-e-argento? Betheyn è molto più importante di keth».

Le mani morbide di lei si allontanarono dal suo viso. Fece un passo indietro.

La mano di Dirk scattò in avanti e l’afferrò per un polso. Il polso sinistro. La sua stretta si serrò attorno al freddo metallo e alla giada levigata. «No», disse lui.

Gwen non parlò. Aspettava.

Per Dirk, Ruark non esisteva, il laboratorio si era riempito di tenebre. C’era solo Gwen, che lo osservava, occhi verdi e grandi e pieni di… che cosa? Promesse? Minacce? Sogni perduti? Lei aspettava, in silenzio, e lui cercava di mettere assieme delle parole, senza sapere cosa dire. E la giada-e-argento era fredda nella sua mano e Dirk stava ricordando:

Rosse gocce piene di amore, avvolte nell’argento e nel velluto, che bruciavano ferocemente fredde.

La faccia di Jaan: zigomi alti, la mascella quadrata, i capelli neri, facile al sorriso. La sua voce era calma come l’acciaio, sempre dello stesso tòno: ma io esisto.

La bianca torre fantasma di Kryne Lamiya, che ululava, derideva, cantava una luminosa disperazione mentre un lontano tamburo batteva i suoi rombi bassi senza senso. In mezzo a tutto questo, la sfida, la soluzione. Per un istante, seppe che cosa dire.

La faccia di Garse Janacek: distante (gli occhi azzurro fumo, il capo tenuto rigido, la bocca dura), ostile (ghiaccio nelle orbite, un sorriso selvatico che giocava sulla sua barba), pieno di amaro umorismo (gli occhi che si spalancavano, i denti snudati nel suo ghigno mortale).

Bretan Braith Lantry: un tic ed un occhio di pietraluce, una figura di terrore e di pietà con un bacio freddo e terribile.

Vino rosso nei calici di ossidiana, vapori che facevano piangere gli occhi, bevendo in una stanza piena di cannella e di una strana compagnia.

Parole. Un tipo nuovo e speciale di fratello di granlega, aveva detto Jaan.

Parole. Sarà falso, aveva predetto Garse.

La faccia di Gwen, una Gwen più giovane, più sottile, con occhi chissà perché più grandi. Gwen che rideva. Gwen che piangeva. Gwen in orgasmo. Che lo stringeva, coi seni caldi e rossi, mentre il rossore le si spargeva per tutto il corpo. Gwen che gli sussurrava, ti amo, ti amo. Jenny!

Una solitaria ombra nera, che spingeva con un palo una barca bassa lungo un infinito canale buio.

Ricordi.

La mano gli tremava mentre stringeva Gwen. «Se io non duello», disse lui, «tu lascerai Jaan, allora? E verrai con me?».

Il suo cenno di risposta fu penosamente lento. «Sì. È tutto il giorno che ci penso, ne ho parlato con Arkin. Avevamo stabilito che lui ti avrebbe portato qui ed io avrei detto a Jaan e Garse che avevo del lavoro da fare».

Dirk allungò le gambe che aveva tenuto sotto il corpo e percepì la puntura di cento piccoli coltelli provocati dalla posizione che aveva assunto. Si alzò in piedi ed era ormai deciso. «Allora lo avresti fatto in ogni caso? Non è stato solo per il duello?».

Lei scosse il capo.

«Allora verrò. Quand’è che potremo lasciare Worlorn?».

«Tra due settimane e tre giorni», disse Ruark. «Fino ad allora non c’è nessuna nave».

«Dovremo nasconderci», disse Gwen. «Tutto considerato è la cosa più sicura. Questo pomeriggio non sapevo se era meglio che lo dicessi a Jaan o se meglio che me ne andassi e basta. Pensavo che forse si poteva parlare, poi magari andar su tutti e due ad affrontarli. Ma la questione del duello sistema tutto. Adesso non ti sarebbe permesso in nessun caso di andar via».

Ruark scivolò giù dal suo sgabello. «Andate, allora», disse. «Io starò qui, farò la guardia, voi potrete telefonare ed io vi dirò cosa succede. Per me è abbastanza sicuro, a meno che Garsey e Jaantony non perdano il loro duello. Poi mi affretterò anch’io, scapperò e vi raggiungerò, eh?».

Dirk prese la mano di Gwen. «Ti amo», disse. «Ancora. Davvero».

Lei sorrise gravemente. «Sì. Sono felice, Dirk. Forse funzionerà ancora. Ma dobbiamo fare in fretta, perderci completamente. Da questo momento in poi, tutti i Kavalari sono velenosi per noi».

«Va bene», disse lui. «Dove?».

«Va giù a prendere la tua roba, ti serviranno dei vestiti caldi. Ci troveremo sul terrazzo. Prenderemo l’aerauto e decideremo quando saremo in viaggio».

Dirk annuì e la baciò rapidamente.

Stavano volando sui fiumi scuri e le colline ondulate del Comune quando il primo rossore dell’alba toccò il cielo, un bagliore cremisi basso ad oriente. Subito dopo sorse il piccolo sole giallo e la tenebra sotto di loro si trasformò in grigia bruma mattutina che si dissolse in fretta. La macchina a forma di manta era aperta, come sempre, e Gwen aveva spinto la velocità al massimo e il gelo soffiava forte attorno a loro ed era impossibile parlare. Mentre volavano, Dirk dormì un po’ accanto a lei, avvolto in un grande scialle a scacchi che gli aveva dato Ruark prima di partire.

Lei lo svegliò quando furono in vista della grande punta scintillante di Sfida. Gli diede dei piccoli colpetti sulla spalla. Aveva dormito con un occhio solo, non era comodo. Immediatamente si stirò e sbadigliò. «Eccoci arrivati», disse senza nessuna necessità.

Gwen non rispose. La manta diminuì la velocità man mano che si avvicinava alla città degli Emereli che diventava sempre più grande.

Dirk voltò lo sguardo verso l’alba. «I soli sono sorti», disse, «e guarda, si riesce quasi a vedere Grasso Satana. Immagino che ormai sapranno che ce ne siamo andati». Si immaginò Vikary e Janacek che lo aspettavano al quadrato della morte tracciato sulla strada con il gesso, che lo aspettavano assieme a Bretan. Bretan avrebbe camminato impaziente, questo era certo, e poi avrebbe fatto quello strano verso. Al mattino doveva avere il suo occhio esangue e freddo, come un tizzone morto nella faccia devastata. Forse in questo momento era già morto, o lo era Jaan, o Garse Janacek. Per un istante Dirk si senti arrossire di vergogna. Si spostò più vicino a Gwen e le mise un braccio attorno alle spalle.

Sfida si gonfiava davanti a loro. Gwen fece salire la macchina in un’ascesa vertiginosa attraverso un banco di bianche nuvole filose. L’abisso nero della terrazza d’atterraggio si accese mentre loro si avvicinavano e Dirk vide i numeri mentre Gwen si apprestava ad entrare. Il livello 520, una terrazza vasta ed immacolata e deserta.

«Benvenuti», disse una voce familiare quando la manta si posò sulle lastre del pavimento. «Io sono la Voce di Sfida. Posso fare qualcosa per voi?».

Gwen spense il motore della macchina e si arrampicò sull’ala. «Vogliamo diventare residenti temporanei».

«La quota è piuttosto ragionevole», disse la Voce.

«Allora conducici ad un appartamento».

Si aprì una parete e rotolò fuori una di quelle auto con le ruote a pallone che si fece loro incontro. Era esattamente uguale a quella che li aveva condotti durante la loro prima visita, tranne il colore. Gwen entrò dentro e Dirk cominciò a caricare il veicolo con i bagagli che avevano messo sul sedile posteriore dell’aerauto: dei sensori che Gwen si era portata dietro, tre valigie piene di vestiti, un pacco di provviste d’emergenza per le gite nei boschi. I due scooter volanti, completi di stivali da volo, erano in fondo al mucchio, ma Dirk li lasciò sulla macchina.

Il veicolo partì e la Voce cominciò a parlare dei vari tipi di appartamenti disponibili. Sfida possedeva stanze arredate in un centinaio di stili diversi per far sentire come a casa loro gli abitanti degli altri mondi, anche se predominava un certo gusto di-Emerel.

«Vogliamo qualcosa di semplice e di economico», disse Dirk. «Camera doppia con possibilità di cucina e doccia ad acqua».

La Voce li depositò in un piccolo cubicolo con pareti blu pastello, due livelli più sopra. C’era un letto matrimoniale, che riempiva quasi tutta la stanza, più un cucinino ricavato all’interno di una parete ed un gigantesco schermo telefonico che riempiva tre quarti di un altro muro.

«Autentico splendore Emereli», disse Gwen sarcastica, quando entrarono. Lei posò i suoi sensori ed i vestiti e si gettò finalmente sul letto. Dirk sistemò le valigie che aveva portato dietro ad un pannello scorrevole, posto vicino ai piedi di Gwen sul bordo del letto ed osservò lo schermo.

«È disponibile una vasta selezione di libri per soddisfare la vostra vista», disse la Voce. «Sono spiacente di informarvi che tutti i normali programmi del festival sono stati interrotti».

«Ma non te ne vai mai via?», scattò Dirk.

«Le funzioni base di controllo continuano sempre, per la vostra sicurezza e per la vostra protezione; ma se lo desiderate, la mia funzione di servizio può essere temporaneamente disattivata in vostra vicinanza. Ci sono residenti che preferiscono così».

«Anch’io», disse Dirk. «Disattivati».

«Se cambiasse idea, o avesse bisogno di qualche servizio», disse la Voce, «non ha che da premere il bottone contrassegnato da una stella posto su qualsiasi schermo ed io sarò di nuovo ai suoi comandi». Poi rimase zitta.

Dirk aspettò un momento. «Voce?», disse. Non ci fu risposta. Annui soddisfatto ed andò ad ispezionare lo schermo. Gwen, dietro di lui, dormiva già, con le mani sotto il capo, tutta rannicchiata su di un fianco.

Aveva una gran voglia di chiamare Ruark, per vedere che cosa era successo al duello, per sapere chi era vivo e chi era morto. Ma non gli pareva ancora una cosa sicura da farsi. Poteva darsi che uno dei Kavalari — o anche più di uno — stesse tenendo compagnia a Ruark nella sua stanza o nel laboratorio ed una telefonata avrebbe facilitato il loro intercettamento. Doveva aspettare. Prima del decollo, il Kimdissi aveva dato loro un numero di telefono di un appartamento disabitato due piani sopra di lui e aveva detto a Dirk di provare a telefonare subito dopo il tramonto. Se la via era libera, aveva promesso che sarebbe stato là a rispondere. Se no, non ci sarebbe stata risposta alcuna. Ad ogni modo, Ruark non sapeva dove sarebbero andati i fuggiaschi, in modo che i Kavalari non potessero obbligarlo ad informarli.

Dirk era stanchissimo. Malgrado il sonnellino che aveva fatto durante il viaggio, la stanchezza gli pesava enormemente addosso, venata dalle tenebrose tinte della colpa. Ora aveva di nuovo Gwen vicino a sé, ma non si sentiva felice. Forse questo sarebbe venuto dopo, quando sarebbero scomparsi tutti gli altri pensieri e loro due avessero imparato di nuovo a conoscersi come su Avalon, sette lunghi anni prima. Comunque una cosa simile sarebbe successa solo nel momento in cui fossero riusciti ad andare ben lontano da Worlorn, lontani da Jaan Vikary, Garse Janacek e tutti gli altri Kavalari, lontani dalle città morte e dalle foreste agonizzanti. Sarebbero ritornati dall’altra parte del Velo Tentatore, pensava Dirk, poi si sedette e fissò senza vedere lo schermo nero. Avrebbero abbandonato lo stesso Margine. Sarebbero andati su Tara, o Braque, o qualche altro pianeta ancora sano, magari di nuovo su Avalon, magari anche più lontano, su Gulliver, o Vagabondo, o Vecchio Poseidone. C’erano centinaia di mondi che lui non aveva mai veduto, migliaia, anche di più… Mondi di uomini, di nonuomini e di alieni, tanti tipi di lontani lidi romantici, dove nessuno aveva mai sentito parlare di Alto Kavalaan, o di Worlorn. Lui e Gwen avrebbero potuto vedere assieme questi mondi, ormai.

Troppo stanco per dormire, nervoso e senza possibilità di rilassarsi, Dirk cominciò a giocherellare con lo schermo, provando le varie funzioni oziosamente. Lo accese e premette il pulsante su cui era stato disegnato un punto interrogativo, come aveva fatto il giorno prima nell’appartamento di Ruark a Larteyn ed apparve la stessa lista di servizi, in caratteri tre volte più grandi del normale. Lesse attentamente le scritte, per capire tutto ciò che era possibile capire. Magari sarebbe riuscito ad imparare delle cose che gli sarebbero potute risultare utili, rendersi conto di qualcosa che li avrebbe potuti aiutare.

La lista comprendeva un numero di telefono per le notizie del pianeta. Dirk formò la combinazione, sperando che il duello all’alba a Larteyn fosse stato osservato, magari come notizie di cronaca nera. Ma lo schermo diventò grigio e si accesero e si spensero delle lettere bianche: «Servizio interrotto». Cancellò lo schermo.

Dirk aggrottò la fronte e provò un’altra combinazione, per avere informazioni dallo spazioporto e per controllare i dati che gli aveva dato Ruark riguardo alle navi. Questa volta fu più fortunato. Erano previste tre navi nei successivi due mesi standard. La prima, come aveva detto il Kimdissi, sarebbe arrivata poco più tardi di due settimane da quel momento, un traghetto del Margine che si chiamava Teric neDahlir. Ma ciò che Ruark non aveva detto era che la nave faceva la linea esterna, veniva da Kimdiss e andava verso Eshellin, poi al Mondo dell’Oceano Nerovino e finalmente a di-Emerel, il suo mondo di origine. Una settimana più tardi c’era una nave di approvvigionamenti che proveniva da Alto Kavalaan. Che andava verso l’interno c’era soltanto il Tremito dei Nemici Dimenticati, nel suo viaggio di ritorno.

Aspettare tanto a lungo era fuori discussione; perciò lui e Gwen non potevano far altro che prendere il Teric neDahlir per poi cambiare nave su qualche altro mondo. Prendere quella nave comportava la maggior parte dei rischi, decise Dirk. I Kavalari non avevano, in pratica, nessuna possibilità di ritrovarli a Sfida, dato che dovevano cercarli per tutto il pianeta, ma Jaan Vikary avrebbe certamente immaginato che la loro intenzione era quella di abbandonare il pianeta il più presto possibile. Il che significava che probabilmente li avrebbe aspettati allo spazioporto, quando sarebbe stato il momento. Dirk non sapeva proprio che cosa avrebbe potuto inventare. Poteva solo sperare che non ci sarebbe stato bisogno di inventare niente.

Dirk cancellò lo schermo e provò con degli altri numeri, osservando quali erano le funzioni che erano state annullate, o che erano state ridotte a semplici schemi: servizio medico d’emergenza, ad esempio. Alcune invece funzionavano ancora come ai tempi del festival. Spesso c’erano delle cadute di linea tra città e città, il che lo convinse che avevano fatto la scelta giusta venendo a Sfida. Gli Emereli erano stati decisi nel provare che la loro città-torre era immortale e avevano lasciato tutto funzionante a sfidare il freddo e la tenebra ed il ghiaccio che avanzava. Questo posto doveva essere un bel posto per abitarci. Le altre città, al confronto, erano davvero malmesse. Quattro delle quattordici erano sempre al buio e disattivate e una di quelle aveva patito a tal punto l’erosione del vento e delle piogge che stava ormai crollando in rovine polverose.

Per un po’ Dirk continuò a premere bottoni, ma alla fine il giochino cominciò a stancarlo e si sentì annoiato ed irrequieto. Gwen dormiva sodo. Era ancora mattino, impossibile chiamare Ruark. Spense lo schermo, si lavò approssimativamente nel cubicolo dei servizi e poi si mise a letto anche lui, dopo aver spento i pannelli luminosi. Ci volle un po’ perché si addormentasse. Rimase sdraiato nel buio tiepido fissando il soffitto ed ascoltando il leggero respiro di Gwen, ma la sua mente era lontana e piena di preoccupazioni.

Presto tutto ritornerà come prima; diceva a se stesso, tutto sarà come su Avalon. Eppure non riusciva a crederci. Non riusciva a sentirsi come il vecchio Dirk t’Larien, il Dirk di Gwen, quella persona che lui aveva promesso di diventare ancora. Invece si sentiva come se niente fosse cambiato; continuava a tirare avanti, stancamente, senza speranze, come quando era su Braque e sugli altri mondi prima di quello. La sua Jenny era di nuovo con lui e lui avrebbe dovuto essere pieno di gioia, invece provava solo un’amara sensazione di stanchezza. Come se ancora una volta lui avesse fallito con Gwen.

Dirk mise da parte i suoi pensieri e chiuse gli occhi.

Quando si svegliò, era pomeriggio inoltrato. Gwen era già alzata e si dava da fare. Dirk fece una doccia ed indossò morbidi abiti di colore delicato fatti di materiale sintetico, provenienti da Avalon. Poi tutti e due uscirono nel corridoio per esplorare il cinquecentoventiduesimo livello di Sfida. Camminarono tenendosi per mano.

Il loro appartamento era uno dei mille posti in un settore residenziale dell’edificio. Attorno c’erano altri appartamenti, identici al loro tranne per il numero scritto sulle porte nere. I pavimenti, le pareti ed i soffitti dei corridoi in cui camminavano erano rivestiti di ricchi tappeti color cobalto e le luci agli incroci — pallidi globi, riposanti, piacevoli a vedersi — si adattavano perfettamente.

«Che noia», disse Gwen dopo che ebbero camminato per qualche minuto. «Le cose sempre uguali sono deprimenti. E fino adesso non ho visto nemmeno delle mappe. Mi stupisce che la gente non si perda».

«Suppongo che basti chiamare la Voce per sapere da quale parte andare», disse Dirk.

«Già. Me ne ero dimenticata». Corrugò la fronte. «Che cosa è successo alla Voce? Non aveva più niente da dire».

«Le ho chiuso il becco io», le disse Dirk. «Ma è sempre di guardia».

«Si può far funzionare di nuovo?».

Lui annuì e si fermò, poi la condusse verso la porta nera più vicina. L’appartamento, come lui si immaginava, era libero e si apri facilmente al semplice tocco. All’interno, il letto, i mobili, lo schermo… erano tutti uguali.

Dirk si avvicinò allo schermo, schiacciò un pulsante con su una stella, poi spense di nuovo tutto.

«Posso aiutarvi?», chiese la Voce.

Gwen sorrise a Dirk; una specie di sorriso tirato, debole. Anche lei era stanca, si sarebbe detto. C’erano delle rughe di preoccupazione attorno agli angoli della bocca.

«Sì», disse lei. «Vogliamo qualcosa da fare. Facci divertire. Tienici impegnati. Facci visitare la città». Dirk pensò che lei parlava un po’ troppo in fretta, come se cercasse in tutti i modi di distrarsi e tenere la mente lontana da pensieri spiacevoli. Si chiese se fosse preoccupazione per la loro salvezza, o magari preoccupazione per Jaan Vikary.

«Capisco», rispose la Voce. «Permettetemi di farvi da guida, allora, verso le meraviglie di Sfida, la gloria di di-Emerel, ricostruita sul lontano Worlorn». Poi cominciò a dirigerli ed essi si avviarono verso il più vicino gruppo di ascensori, al di fuori del regno degli infiniti corridoi rettilinei color cobalto, in regioni più colorate e divertenti.

Salirono ad Olimpo, un salone di felpa esattamente in cima alla città, ed osservarono al di fuori di Sfida da un’unica gigantesca finestra, con i piedi sprofondati fino alle caviglie in un tappeto nero. Un chilometro sotto di loro, file di nubi scure correvano, sospinte da un vento amaro che loro non potevano sentire. La giornata era pallida e cupa; Occhiodaverno bruciava e brillava come sempre, ma i suoi gialli compagni erano nascosti dalla nebbia grigia che imbrattava il cielo. Si vedevano le montagne lontane dalla torre ed il lontano Comune leggermente verde. Un robocameriere servì loro delle bibite ghiacciate.

Andarono a piedi al mozzo centrale, un profondo cilindro posto al centro della città-torre e che andava dal soffitto fino a terra. Stavano sul balcone più alto e guardavano di sotto tenendosi per mano. Sotto c’erano moki altri balconi in file senza fine che diventavano sempre più piccoli per la lontananza e l’abisso era leggermente luminoso. Poi spalancarono il cancello di ferro lavorato e saltarono e galleggiarono, mano nella mano, tenuti in aria dal morbido abbraccio della calda corrente d’aria ascendente. Il mozzo centrale era stato costruito per divertimento, dove era mantenuta una forza di gravità molto ridotta, anzi tanto bassa che quasi non era più lecito chiamarla gravità… meno dello 0,01 per cento della normale Emereli.

Passeggiarono per il viale esterno, un corridoio largo e ripido che scendeva a spirale attorno al bordo della città come il filetto di una vite gigantesca, in modo da permettere ad un eventuale turista ambizioso di arrampicarsi dal pian terreno fino alla vetta. Ristoranti, musei e negozi erano allineati su entrambi i lati del viale; in mezzo c’erano le carreggiate deserte riservate ai veicoli con le ruote a pallone ed agli altri mezzi più veloci. Una dozzina di marciapiedi — sei verso l’alto e sei verso il basso — formavano la linea centrale dell’arteria che si piegava leggermente. Quando cominciarono ad essere stanchi, salirono su di un nastro, poi su un altro più veloce, poi su uno più veloce ancora. La scena correva via accanto a loro velocemente e la Voce sottolineava i soggetti più interessanti, anche se non c’era niente che fosse particolarmente interessante.

Nuotarono nudi nell’Oceano Emereli, uno pseudomare di acqua fresca che occupava la maggior parte del livello 231 e 232. L’acqua pareva fatta di scintillante cristallo verde, talmente trasparente che si potevano vedere le alghe che si attorcigliavano in catene sinuose sul fondo, due livelli più sotto. Gettava luccichii su pannelli di luce che davano l’impressione di essere in una luminosa giornata di sole. Piccoli pesci spazzini scattavano avanti e indietro nei fondali più bassi dell’oceano; in superficie, delle piante galleggianti ballonzolavano e fluttuavano come funghi giganti fatti di feltro verde.

Usarono degli sci elettrici per scendere lungo la rampa, un tuffo, un volo rallentato su di una plastica a debole attrito che li condusse dal centesimo livello fino al primo, in un istante. Dirk cadde due volte, ma ritornò subito in piedi.

Visitarono una palestra a caduta libera.

Guardarono un auditorium buio fatto per mille persone e rifiutarono di vedere un olonastro con un film che la Voce aveva loro proposto di proiettare.

Mangiarono, in fretta e senza assaporare i cibi, in un bar costruito ai bordi di una via che un tempo doveva essere stata piena di gente intenta a fare acquisti.

Vagarono per una giungla di alberi contorti e di muschio giallo dove i versi degli animali erano tutti registrati ed echeggiavano in modo strano sulle pareti del parco, caldo e fumigante.

Alla fine, sempre inquieti e preoccupati permisero alla Voce di riportarli nella loro stanza. Non erano quasi riusciti a distrarsi. Seppero che fuori stava calando l’autentico crepuscolo di Worlorn.

Dirk si mise in piedi in uno stretto spazio compreso tra il letto e la parete e premette i pulsanti che componevano il codice. Gwen si era seduta proprio dietro di lui.

Ruark ci mise moltissimo tempo a rispondere, troppo. Dirk si chiese con apprensione se fosse successo qualcosa di terribile. Ma proprio in quel momento il segnale blu pulsante scomparve e lo schermo si riempì del viso grassoccio dell’ecologo Kimdissì. Dietro di lui, come un manto grigiastro, c’era la polvere di un appartamento deserto.

«Allora?», disse Dirk. Si voltò ad osservare Gwen. Si mordeva un labbro e la mano destra era immobile, posata sul braccialetto giada-e-argento che continuava a portare al braccio sinistro.

«Dirk? Gwen? Siete voi? Non riesco a vedervi, no, il mio schermo è buio». Gli occhi pallidi di Ruark si muovevano continuamente dietro ai capelli anche più pallidi secchi e diritti.

«Si capisce che siamo noi», scattò Dirk. «Chi altro potrebbe chiamare questo numero?».

«Non riesco a vedervi», ripeté Ruark.

«Arkin», disse Gwen restando seduta sul letto, «se ci vedessi potresti capire dove siamo».

La testa di Ruark oscillò. C’era un leggerissimo accenno di doppio mento. «Sì, non ci avevo pensato, avete ragione. Meglio che non lo sappia, sì».

«Il duello», gli ricordò Dirk. «Stamattina. Che cosa è successo?».

«Jaan sta bene?», chiese Gwen.

«Non c’è stato nessun duello», disse loro Ruark. Gli occhi continuavano a muoversi da una parte all’altra, cercando qualcosa da vedere, pensò Dirk. O forse era nervoso perché temeva che i Kavalari potessero fare irruzione nell’appartamento vuoto. «Sono andato a vedere, ma non c’è stato nessun duello, assolutamente vero».

Gwen sospirò forte. «Allora stanno tutti bene? Jaan?».

«Jaantony è vivo e vegeto, come Garsey ed i Braith», disse Ruark. «Nessuno ha sparato o ucciso, ma quando Dirk non si è presentato al suo ammazzamento, come era previsto, sono diventati tutti matti, sì».

«Mi dica», disse tranquillamente Dirk.

«Sì, be’, lei è stato la causa del rinvio dell’altro duello».

«Rinviato?», disse Gwen.

«Rinvio», rispose Ruark. «Combatteranno di nuovo, con le stesse modalità e con le stesse armi, ma non adesso. Bretan Braith si è appellato all’arbitro. Ha detto che aveva il diritto di affrontare per primo Dirk, poiché avrebbe potuto morire nel duello con Jaan e Garsey e non avrebbe potuto così appianare il contrasto con Dirk. Ha chiesto che il secondo duello fosse sospeso finché lui non fosse riuscito a trovare Dirk. L’arbitro gli ha detto di sì. Uno strumento dei Braith, l’arbitro, sì, si trovava d’accordo con tutto ciò che volevano quegli animali. Roseph alto-Braith, lo chiamavano loro, un uomo Piccolino e assolutamente orribile».

«I Ferrogiada», disse Dirk. «Jaan e Garse. Hanno detto qualcosa?».

«Jaantony, no. Non ha detto nemmeno una parola, no, si è limitato a stare in piedi nel suo angolo del quadrato della morte. Tutti gli altri continuavano a correre in giro, urlando e strillando e comportandosi da Kavalari. Nel quadrato non c’era nessuno oltre a Jaan, no, ma lui continuava a starsene là e si guardava in giro, come se si aspettasse che il duello cominciasse da un momento all’altro. Garsey, per la verità, si è arrabbiato parecchio. Prima, quando lei non è venuto, ha scherzato col fatto che forse era malato, poi è diventato freddissimo ed è stato zitto per un po’, come Jaan, ma dopo doveva essere un po’ meno arrabbiato, penso, così ha cominciato a chiacchierare con Bretan Braith, con l’arbitro e con l’altro duellante, Chell. E i Braith erano tutti qui, forse per fare da testimoni. Non avrei mai creduto che avessimo tanta compagnia a Larteyn, no. Be’, dal punto di vista teorico lo sapevo, ma è ben diverso vederli tutti riuniti in un unico posto. Sono venuti anche un paio di Scianagate, però il poeta Rossacciaio non è venuto. Per cui mancavano tre persone: voi due e lui. Inoltre erano tutti vestiti in gran pompa, forse per loro era come un incontro del consiglio cittadino». Ridacchiò.

«Lei sa che cosa succederà adesso?», disse Dirk.

«Non si preoccupi», disse Ruark. «Voi due pensate a nascondervi e a prendere la nave, si. Loro non possono inseguirvi, dovrebbero setacciare l’intero pianeta! I Braith, penso io, non vi cercheranno neanche. Vero, loro hanno detto che lei era un falsuomo. Bretan Braith era quello che insisteva di più ed il suo socio parlava delle vecchie tradizioni ed anche gli altri Braith e l’arbitro hanno detto di sì, che se lei non veniva al duello lei non era un vero uomo per niente. Per cui forse le daranno la caccia, ma non con qualche scopo particolare, solo perché lei adesso è un altro animale da ammazzare e gli altri la penseranno allo stesso modo».

«Falsuomo», disse Dirk mestamente. Strano, gli pareva di aver perduto qualcosa.

«Per Bretan Braith e quegli altri, sì. Garse, direi, cercherà di trovarla in ogni modo, ma lui non le darà la caccia come si dà ad un animale. Ha giurato che la farà duellare, duellare con Bretan Braith e poi con lui, o magari prima con lui».

«Che mi dice di Vikary?», disse Dirk.

«Gliel’ho detto, non ha spiaccicato parola, niente».

Gwen si alzò dal letto. «Tu hai parlato solo di Dirk», disse a Ruark. «Che dicono di me?».

«Di te?». I pallidi occhi di Ruark sbatterono. «I Braith dicono che sei anche tu un falsuomo, ma Garse non lo ha permesso. Ha parlato con molta durezza di duello contro chiunque osasse toccarti. Roseph alto-Braith parlava a vanvera. Voleva che tu fossi un falsuomo, come anche Dirk, ma Garsey era arrabbiatissimo e da quel che ho capito i duellanti Kavalari possono anche sfidare gli arbitri che prendono delle decisioni sbagliate, anche se rimangono sempre legati alla decisione da lui presa, proprio così. Per cui, dolce Gwen, tu sei sempre betheyn e sempre protetta e loro, se ti trovano, dovranno limitarsi a riportarti indietro. In seguito sarai punita, ma la punizione la decideranno i Ferrogiada. Per la verità, non hanno parlato di te più di tanto, per lo più si è parlato di Dirk. Tu sei solo una donna, eh?».

Gwen non disse niente.

«La richiameremo di nuovo tra pochi giorni», disse Dirk.

«Dirk, dovremmo stabilire il momento adesso, no? Io non mi trovo sempre in questo buco polveroso». Ruark fece un’altra risatina a questa battuta.

«Fra tre giorni, allora, di nuovo al tramonto. Dobbiamo pensare qualcosa per riuscire a prendere la nave. Immagino che Jaan e Garse controlleranno lo spazioporto quando sarà l’ora».

Ruark annuì. «Ci penserò su».

«Puoi fornirci delle armi?», chiese improvvisamente Gwen.

«Armi?». Il Kimdissi fece un verso strozzato. «Davvero, Gwen, i Kavalari ti stanno entrando nel sangue. Io vengo da Kimdiss. Cosa vuoi che ne sappia di laser e roba del genere, queste cose violente? Posso tentare, comunque, per te, per Dirk, che è mio amico. Ne parleremo quando ci risentiremo; adesso devo andare».

La faccia si dissolse e Dirk cancellò lo schermo prima di voltarsi verso Gwen. «Tu vuoi combatterli? Ti pare prudente?».

«Non lo so», disse lei. Andò fino alla porta lentamente, si voltò e ritornò indietro. Poi si fermò; l’appartamento era così piccolo che era impossibile camminare su e giù con una certa veemenza.

«Voce!», disse improvvisamente Dirk colpito dall’ispirazione. «C’è un negozio di pistole a Sfida? Un posto dove si possono acquistare laser o altre armi?».

«Sono spiacente di informarla che le norme di di-Emerel proibiscono il porto di armi personali», rispose la Voce.

«Armi da tiro a segno?», suggerì Dirk. «Oppure per andare a caccia?».

«Sono spiacente di informarla che le norme di di-Emerel proibiscono tutti gli sports sanguinosi ed i giochi basati sulla sublimazione della violenza. Se lei è membro di una cultura dove sono stimati simili propositi, la prego di comprendere che non ho inteso portare alcun insulto al suo pianeta di origine. Tali forme di ricreazione si possono trovare su Worlorn in altri luoghi».

«Dimenticatene», disse Gwen. «Comunque era una cattiva idea».

Dirk le mise le mani sulle spalle. «In ogni caso a noi non serviranno le armi», disse con un sorriso, «anche se ammetto che portarne una mi farebbe stare un po’ meglio. Però dubito che saprei usarla se ce ne fosse bisogno».

«Io sì», disse lei. I suoi occhi — i suoi grandi occhi verdi — avevano una durezza che Dirk non aveva visto mai. Per un solo strano secondo gli fece venire in mente Garse Janacek con il suo gelido sdegno azzurro.

«Come mai?», disse lui.

Lei agitò impaziente la mano e si strìnse nelle spalle, sicché le mani di Dirk scivolarono via dalle sue spalle. Poi Gwen si voltò dall’altra parte. «Nella foresta, Arkin ed io usiamo delle pistole a proiettili. Per sparare degli aghi spia quando dobbiamo seguire le tracce di un animale, per studiare i suoi schemi di migrazione. Anche frecce soporifere. Poi ci sono degli aghi sensori che hanno le dimensioni di un’unghia ed inviano notizie su qualsiasi cosa si possa voler sapere su una forma di vita… come caccia, che cosa mangia, le abitudini nuziali, le onde cerebrali durante i vari stadi del suo ciclo vitale. Tutte informazioni come queste, da cui si può elaborare l’intero ecosistema leggendo i dati relativi alle varie specie. Ma per prima cosa è necessario conficcare le spie, cosa che si fa immobilizzando il soggetto con dardi. Ne ho sparati a migliaia. Sono brava. Vorrei solo averci pensato prima in modo da portarne un po’».

«È un’altra cosa», disse Dirk. «Ben diverso è usare un’arma per quello scopo, oppure per sparare ad un uomo con un laser. Io non ho fatto mai nessuna delle due cose, ma penso che non ci sia nessun paragone».

Gwen si appoggiò contro la porta e lo fissò aspramente da parecchi metri di distanza. «Tu credi che io non saprei uccidere un uomo?».

«No».

Gwen sorrise. «Dirk, io non sono la ragazzina che tu avevi conosciuto su Avalon. Da allora ad adesso ho trascorso parecchi anni su Alto Kavalaan. Non sono stati anni facili. Ci sono state altre donne che mi hanno sputato in faccia. Ho sentito un migliaio di conferenze di Garse Janacek sugli obblighi derivanti dalla giada-e-argendo. Sono stata chiamata falsuomo e betheyn-vacca dagli altri Kavalari uomini. La cosa è capitata così spesso che a volte ho osato rispondere». Scosse il capo. Sotto la larga fascia tesa attorno alla fronte, i suoi occhi erano dure pietre verdi. Giada, pensò Dirk oziosamente, giada come nel braccialetto che lei indossava ancora.

«Devi essere furiosa», disse lui. «È facile arrabbiarsi. Ma io ti ho conosciuta bene, amore, e tu sei una persona sosprattutto gentile».

«Lo ero. Cerco di esserlo. Ma per lo più si trattava di tanto tempo fa, Dirk, tanto, tanto tempo fa, e sono state costruite tante cose, e Jaan Vikary è stata l’unica cosa bella in tutto questo. L’ho detto ad Arkin; lui sa che cosa provo, cosa ho provato. Ci sono state delle volte in cui mi sono trovata vicinissima… maledettamente vicina. Soprattutto con Garse, perché lui è parte di me, in un modo stranissimo ed è soprattutto parte di Jaan e fa male quando si tratta di qualcuno a cui si vuol bene, qualcuno che sarebbe quasi possibile amare, se non fosse per…».

Non prosegui. Teneva le braccia incrociate strette sul petto e corrugava la fronte, ma non proseguì. Doveva aver visto l’espressione sulla sua faccia, pensò Dirk. Lui si chiese che cosa fosse.

«Può darsi che tu abbia ragione», disse lei dopo un po’, togliendo le braccia da quella posizione. «Forse non sarei capace di uccidere nessuno. Ma, sai, certe volte mi sembra che potrei farlo. E in questo momento, Dirk, vorrei proprio avere una pistola in mano». Rise; una piccola risata senza allegria. «Su Alto Kavalaan non mi era permesso portare armi, naturalmente. Perché mai una betheyn dovrebbe aver bisogno di armi? Il suo altolegato ed il di lui teyn sono li per proteggerla. Poi una donna con la pistola potrebbe anche spararsi addosso. Jaan… be’, Jaan ha combattuto per cambiare un mucchio di cose. Lui fa di tutto. Del resto sono qui. La maggior parte delle donne non abbandona mai le sicure pietre della loro granlega dopo aver assunto la giada-e-argento. Ma malgrado i suoi sforzi — ed io lo rispetto per questo — Jaan non mi ha capita. In definitiva lui è un altolegato e combatte anche per altre cose e per ogni cosa che gli dico io, Garse trova il modo di dirgli qualcosa d’altro. Certe volte Jaan non ci fa nemmeno caso. E poi dice che le cose poco importanti, come il fatto che io possa andare armata, non servono a niente. Una volta gli ho parlato di questo e lui ha sottolineato che io contestavo l’uso stesso di portarsi dietro delle armi e tutto il grande artificio del codice duellesco, il che è vero. Eppure… sai Dirk, io capisco benissimo quel che stavi dicendo l’altra sera ad Arkin quando affermavi di voler affrontare Bretan anche se non ti sentivi legato al suo codice. Certe volte ho sentito anch’io la stessa sensazione».

Le luci della stanza baluginarono per un momento, si abbassarono, poi scintillarono più forti, al massimo dell’intensità. «Cosa succede?», disse Dirk sollevando lo sguardo.

«I residenti non devono allarmarsi», disse la Voce con il suo più tranquillo tono basso. «Un temporaneo calo di potenza ha interessato il vostro livello, ma è già stato recuperato».

«Calo di potenza!». Un’immagine balenò nella mente di Dirk, l’immagine di Sfida… sigillata, senza finestre, Sfida completamente racchiusa in se stessa, senza energia. L’idea non gli piaceva. «Che cosa succede?».

«Vi prego di non essere allarmati», ripeté la Voce, ma le luci del soffitto smentivano le sue parole. Si spensero completamente e, per un breve istante, Gwen e Dirk rimasero in un’oscurità terrificante e totale.

«Penso che sia meglio andarcene», disse Gwen quando ritornarono le luci. Si voltò ed aprì il pannello della parete e cominciò a tirare fuori le valigie. Dirk andò ad aiutarla.

«Vi prego di non farvi prendere dal panico», disse la Voce. «Per la vostra sicurezza, vi invito a rimanere nel vostro appartamento. La situazione è sotto controllo. Sfida ha parecchi sistemi di sicurezza, oltre a diverse emergenze per tutti i sistemi più importanti».

Finirono di fare i bagagli. Gwen andò presso la porta. «Sei sull’impianto d’energia secondario, in questo momento?», chiese lei.

«I livelli da uno a cinquanta, da 251 a 300, da 351 a 451 e da 501 a 550 sono al momento sull’impianto di energia secondario», ammise la voce. «Questo non deve provocare allarme. I robotecnici stanno riparando l’impianto primario che sarà rimesso in funzione al più presto possibile, inoltre esistono altri dispositivi di supporto nel caso assai improbabile che debba venire a mancare anche l’erogazione secondaria».

«Non capisco», disse Dirk. «Perché? Qual è la causa del guasto?».

«Vi prego di non essere allarmati», disse la Voce.

«Dirk», disse Gwen calma. «Andiamo». Uscì nel corridoio, con una valigia nella mano destra ed un pacco di sensori appeso alla spalla sinistra con una cinghia. Dirk prese le altre due valige e la seguì nei corridoi di cobalto. Si affrettarono verso gli ascensori. Gwen stava due passi più avanti ed i tappeti ne inghiottivano l’eco.

«I residenti che si faranno cogliere dal panico potranno più facilmente causare incidenti a se stessi di quelli che sceglieranno di rimanere tranquilli nei loro alloggi per tutta la durata di questo piccolo inconveniente», li rimproverò la Voce.

«Dicci che cosa sta succedendo e forse cambieremo idea», disse Dirk. Ma non si fermarono, né rallentarono.

«Sono state messe in atto le disposizioni di emergenza», disse la Voce. Sono stati inviati dei controllori per ricondurvi al vostro appartamento. È per il vostro bene. Ripeto, sono stati inviati dei controllori per ricondurvi al vostro appartamento. Le norme di di-Emerel proibiscono…». Le parole cominciarono improvvisamente a farsi confuse e la voce bassa prese a farsi acuta e diventò un gemito gracchiante che per brevi attimi graffiò le orecchie. Poi venne un improvviso tremendo silenzio.

Le luci si spensero.

Dirk si fermò un istante, poi fece due passi avanti nel buio più assoluto ed andò a sbattere contro Gwen. «Che?», disse. «Scusa».

«Zitto», mormorò Gwen. Cominciò a conteggiare i secondi. Al tredici, i globi appesi agli incroci si riaccesero. Ma la radiazione azzurra si era trasformata in una luminosità spettrale, appena sufficiente per vedere.

«Vieni», disse Gwen. Riprese a camminare, ma questa volta più lentamente, trascinando i piedi con cautela nella debole luce azzurra. Gli ascensori non erano lontani.

Quando i muri ripresero a parlare, la voce non era quella della Voce.

«Questa è una grande città», dissero i muri, «ma non è abbastanza grande da nasconderti, t’Larien. Io ti sto aspettando nelle più basse cantine degli Emereli, al cinquantaduesimo sottolivello. La città è nelle mie mani. Vieni subito. L’energia sarà tolta completamente ed il mio teyn ed io ci metteremo a caccia quando tutto sarà buio».

Dirk riconobbe la persona che parlava. Era difficile sbagliare. Su Worlorn, o su un qualsiasi altro mondo, non sarebbe stato facile trovare qualcuno che possedesse la voce tormentata, gracchiante di Bretan Braith.

8

Rimasero immobili nel corridoio buio come se fossero paralizzati. Gwen era solo un’ombra leggermente azzurra ed aveva gli occhi come due pozzi bui. La bocca aveva dei guizzi ad un angolo e ricordava orribilmente a Dirk il tic di Bretan. «Ci hanno trovati», disse lei.

«Sì», disse Dirk. Stavano tutti e due parlando piano, impazziti di terrore, come se Bretan Braith li potesse sentire, come faceva prima la Voce di Sfida, se loro avessero parlato forte. Dirk si rendeva conto che doveva essere circondato da altoparlanti, e pure da orecchie, ed occhi forse… invisibili perché nascosti dai tappeti attaccati alle pareti.

«Ma come?», disse Gwen. «Non potevano. È una cosa impossibile».

«Ci sono riusciti. Vuol dire che è possibile. Ma adesso che facciamo? È meglio che vada da loro? Che cosa c’è giù al cinquantaduesimo sottolivello?».

Gwen si accigliò. «Non lo so. Sfida non era la mia città. Io so solo che i livelli che si trovano al di sotto del terreno non sono residenziali».

«Macchinari», suggerì Dirk. «Energia. Mezzi vitali».

«Computers», aggiunse Gwen in un debole sospiro senza tono.

Dirk posò le valige che stava portando. Pareva una cosa stupida rimanere aggrappato al vestiario ed ai loro beni a quel punto. «Hanno ammazzato la Voce», disse.

«Può darsi. Ammesso che sia una cosa che si possa ammazzare. Pensavo che si trattasse di una vasta rete di calcolatori, sparsi per tutta la torre. Non lo so. Forse si trattava di una sola installazione molto grande».

«Ad ogni modo sono arrivati al cervello centrale, il centro neurovegetativo, o quel che è. Non ci saranno più consigli amichevoli provenienti dalle pareti. E può darsi che Bretan riesca anche a vederci».

«No», disse Gwen.

«Perché no? La Voce ci vedeva».

«Sì, forse, anche se non credo che i dispositivi sensori della Voce comprendessero anche dei sensori visivi. Cioè, non mi pare che ne dovesse avere bisogno. Possedeva dei sensi diversi, cose che gli esseri umani non hanno. Ma non è questo il punto. La Voce era un supercomputer, fatto per manovrare miliardi di bit contemporaneamente. Bretan non potrebbe fare altrettanto. Nessun essere umano lo potrebbe. Tra l’altro gli input non sono stati fatti per avere un senso per lui, o per te e per me. Hanno senso solo per la Voce. Anche se Bretan si trovasse in un punto in cui potesse aver accesso a tutti i dati che otteneva la voce, per lui non sarebbero altro che delle cose senza senso, oppure il flusso di arrivo sarebbe tanto veloce da risultare in pratica intraducibile. Può darsi che un cibernetista pratico riuscirebbe a ricavarci qualcosa, benché ne dubito molto. Comunque non Bretan. No, a meno che lui conosca un qualche segreto che noi non sappiamo».

«Ha ben saputo come fare a trovarci», disse Dirk. «E sapeva anche dove si trovava il cervello di Sfida e sapeva come mandarlo in cortocircuito».

«Non so come abbia fatto a trovarci», rispose Gwen, «ma non ci voleva molto per arrivare alla Voce. Il sottolivello più basso, Dirk! Si è solo buttato ad indovinare, non poteva fare diversamente. I Kavalari costruiscono le loro granleghe in profondità nella roccia ed il livello più profondo è sempre il più sicuro, questo è certo. È lì che mettono le donne, loro. Ed è lì che sistemano tutti gli altri tesori della granlega».

Dirk rimase a pensare. «Aspetta un po’. Dici che lui non può sapere esattamente dove siamo? Altrimenti, perché vorrebbe farci andare di sotto, perché minacciare di darci la caccia?».

Gwen annuì.

«Comunque, se si trova in un centro di elaborazione», continuò Dirk, «dobbiamo stare attenti. Potrebbe essere anche in grado di trovarci».

«Alcuni calcolatori potrebbero ancora funzionare», disse Gwen, guardando il pallido globo azzurro distante pochi metri da loro. «La città è ancora viva, più o meno».

«Potrebbe chiedere alla Voce dove siamo? Ammesso che la rimetta in funzione?».

«Forse, ma glielo direbbe? Io penso di no. Noi siamo residenti legali, disarmati e lui è un intruso pericoloso che ha violato tutte le norme di di-Emerel».

«Lui? Vuoi dire loro. Chell è con lui. E forse ci sono anche degli altri».

«Be’, allora diciamo una banda di intrusi».

«Ma non potranno essere più di… quanti? Venti? Meno? Come possono sopraffare una città come questa?».

«Di-Emerel è un mondo singolarmente privo di violenza, Dirk. E questo è un mondo costruito per un festival. Dubito che Sfida sia fornita di sistemi di difesa. I controllori…».

Dirk si guardò attorno immediatamente. «Sì, i controllori. La Voce ne ha parlato. Ha detto che ne mandava uno per noi». Quasi si aspettava di vedere qualcosa di grande e minaccioso che spuntava da un incrocio di corridoi, come capita a teatro. Ma non c’era niente. Ombre, globi di cobalto ed azzurro silenzio.

«Non possiamo restarcene qui», disse Gwen. Aveva smesso di mormorare. Ed anche lui. Entrambi avevano capito che se Bretan Braith ed i suoi amici potevano sentire le loro parole, allora avrebbero potuto localizzarli in una dozzina di altre maniere. Se era così, il loro era un caso senza speranza. Parlar piano era un gesto inutile. «La macchina è solo a due livelli di distanza», disse lei.

«Anche i Braith possono essere a due livelli di distanza», rispose Dirk. «E anche se non ci sono, dobbiamo evitare di andare all’aerauto. Devono sapere che ne avevamo una e forse aspettano proprio che noi corriamo a prenderla. Forse è proprio per questo che Breton ha fatto il suo discorsetto, per farci volar via, dove risulteremmo una preda più facile. Probabilmente i suoi confratelli di granlega sono là fuori che aspettano di abbatterci con i laser». Fece una pausa, pensando. «Ma non possiamo restarcene qui, comunque».

«E nemmeno star vicini al nostro appartamento», disse lei. «La Voce sapeva dove eravamo e Bretan Braith potrebbe essere in grado di scoprirlo. Ma dobbiamo rimanere nella città; hai ragione».

«Nascondiamoci, allora», disse Dirk. «Dove?».

Gwen si strinse nelle spalle. «Qui, là, in qualsiasi posto. È una città grande, come ha anche detto Bretan Braith».

Gwen si chinò rapidamente e aprì la sua valigia, scartando tutti gli abiti ingombranti, ma conservando le sue provviste d’emergenza ed il pacco di sensori. Dirk indossò il pesante mantello che gli aveva dato Ruark ed abbandonò tutto il resto. Si avviarono verso la discesa esterna; Gwen era ansiosa di allontanarsi il più possibile dal loro appartamento e nessuno dei due voleva arrischiarsi ad usare gli ascensori.

Nel largo viale le luci erano ancora completamente accese ed i marciapiedi ronzavano leggermente; la strada a cavatappi doveva avere un rifornimento di energia indipendente. «Su o giù?», chiese Dirk.

Gwen non parve udirlo; stava ascoltando qualcos’altro. «Zitto», disse lei. La bocca ebbe un guizzo.

Al di sopra del ronzio costante dei marciapiedi, anche Dirk riuscì a sentire un altro rumore, debole, ma inconfondibile.

Un ululato.

«Veniva dal corridoio dietro di loro, Dirk ne era assolutamente sicuro. Usciva come un gelido fiato dalla calda quiete azzurra e pareva rimaner sospeso nell’aria più a lungo di quel che avrebbe dovuto. Deboli grida in lontananza, seguite da vicino dal rumore di tacchi.

Ci fu un breve silenzio. Gwen e Dirk si guardarono e rimasero immobili ad ascoltare. L’ululato si sentì di nuovo, più distinto, ed echeggiò un po’, questa volta. Fu un urlo di terrore furioso, lungo e acuto.

«I cani dei Braith», disse Gwen, con una voce che era molto più ferma di quanto ci si sarebbe aspettati.

Dirk ricordò la bestia che aveva incontrato quando camminava per le strade di Larteyn… Il cane dalle dimensioni di un cavallo che aveva ringhiato quando lui si era avvicinato, la creatura con la faccia da topo, senza peli e gli occhietti rossi. Guardò lungo il corridoio dietro di sé con una certa apprensione, ma non si muoveva niente nelle ombre di cobalto.

I rumori si facevano più forti, più vicini.

«Giù», disse Gwen. «Ed in fretta».

Dirk non aveva nessun bisogno di essere persuaso. Si affrettarono verso la parte mediana della strada, dall’altra parte del viale silenzioso e salirono sul primo marciapiede discendente che era il più lento. Poi cominciarono a spostarsi, saltando da un nastro all’altro, fino a che si trovarono sul marciapiede più veloce. Gwen tirò fuori le sue provviste d’emergenza ed apri il pacchetto, rovistando, mentre Dirk stava in piedi accanto a lei, con una mano sulla spalla e controllava il numero dei livelli che passavano velocemente, nere sentinelle poste di fronte agli abissi crepuscolari che conducevano all’interno di Sfida. I numeri scintillavano ad intervalli regolari, facendosi sempre più piccoli.

Avevano appena superato il quattrocentonovantesimo, quando Gwen si alzò, con in mano una sbarra di metallo blu-nero lunga un palmo. «Togliti i vestiti», disse lei.

«Che?».

«Togliti i vestiti», ripeté. Dirk si limitò a guardarla, lei scosse il capo impaziente e batté con la punta della barretta il torace di lui. «Annulla-scia», gli disse. «Arkin ed io lo usiamo nella foresta. Spruzzati dappertutto prima di andare avanti. Il liquido annulla l’odore del corpo per circa quattro ore ed è sperabile che faccia perdere le tracce ai cani».

Dirk annuì e cominciò a spogliarsi. Quando fu nudo, Gwen gli disse di stare con le gambe aperte e le braccia sollevate sulla testa. Lei toccò un’estremità della barra metallica e dall’altra parte uscì una sottile nebbia grigia, che faceva leggermente prudere la pelle. Dirk si sentiva infreddolito e sciocco ed anche molto vulnerabile, mentre lei lo passava davanti e dietro e dalla testa ai piedi. Poi Gwen si inginocchiò e gli spruzzò anche i vestiti, dentro e fuori, tutto tranne il pesante mantello che gli aveva dato Arkin che lei mise attentamente da parte. Quando ebbe finito, Dirk si vesti di nuovo — gli abiti erano secchi e polverosi per via della polvere cinerea — intanto Gwen si spogliò a sua volta e si fece spruzzare.

«Perché hai messo via il mantello?», disse lui mentre lei si rimetteva i vestiti. Lei aveva spruzzato tutto quando: il pacco di sensori, le provviste d’emergenza, il suo braccialetto giada-e-argento… tutto tranne il mantello bruno di Arkin. Dirk lo toccò con la punta dello stivale.

Gwen lo raccolse e lo gettò dall’altra parte del guardrail, sul nastro veloce che si muoveva verso l’alto. Lo videro retrocedere e poi scomparire. «Tu non ne hai bisogno», disse Gwen quando il mantello fu scomparso. «Può darsi che riesca a condurre la muta dalla parte sbagliata. Si convinceranno di averci seguiti per tutta la lunghezza della strada».

Dirk pareva dubbioso. «Può darsi», disse, gettando uno sguardo alla parete più interna. Apparve il livello 472 e scomparve. «Penso che dovremmo filarcela», disse lui improvvisamente. «Andarcene dalla strada».

Gwen lo guardò, interrogativamente.

«L’hai detto anche tu», disse lui. «Quelli che ci stanno dietro arriveranno per lo meno fino alla fine della strada. Ma se hanno già cominciato a scendere, il mantello non potrà trarli in inganno a lungo. Lo vedranno passare accanto a loro e si metteranno a ridere».

Gwen sorrise. «Concesso. Ma valeva la pena di tentare».

«Immagina che adesso ci stiano seguendo…».

«Dobbiamo aver preso un buon vantaggio a questo punto», lo interruppe lei. «Non potrebbero condurre una muta di cani su dei marciapiedi, il che significa che sono certamente a piedi»; «E allora? La strada non è affatto sicura, Gwen. Senti, lassù non ci può essere Bretan, che infatti si trova nei sottolivelli. E probabilmente non c’è nemmeno Chell, ti pare?».

«No. Un Kavalar caccia sempre con il suo teyn. Non si separano mai».

«Lo pensavo anch’io. Così ne abbiamo un paio che fanno i giochini con l’elettricità sotto di noi ed un altro paio alle nostre spalle. Quanti altri saranno che ci corrono dietro? Sei in grado di rispondermi?».

«No».

«Direi che sono un bel po’, mi pare; e anche se non è così è meglio che ci prepariamo al peggio e ce ne andiamo di qui. Se ci fossero degli altri Braith sparpagliati per la città e se questi fossero in contatto con i cacciatori dietro di noi, quelli dietro potrebbero dire agli altri di sbarrare la strada».

Gwen strizzò gli occhi. «Forse no. Spesso i gruppi di cacciatori lavorano assieme. Ogni coppia vuole uccidere per ottenere i propri trofei. Maledizione, ma vorrei proprio avere un’arma!».

Dirk ignorò il suo commento finale. «Non possiamo correre dei rischi», disse lui. Non aveva finito di parlare che le luci che brillavano sulle loro teste cominciarono a vacillare, per poi sbiadire improvvisamente in un pallido grigiore incerto. Improvvisamente il marciapiede sotto di loro diede uno strappo e prese a rallentare. Gwen cadde per terra. Dirk la tirò su e la tenne per un braccio. La prima a fermarsi fu la cinghia più lenta, poi quella accanto alla loro ed alla fine il discensore su cui si trovavano.

Gwen tremò e lo guardò e Dirk la tenne ancora più stretta, cercando di trarre la sicurezza di cui aveva disperatamente bisogno dal calore e dalla vicinanza del suo corpo.

Sotto di loro — Dirk avrebbe giurato che il rumore veniva da sotto di loro, in direzione del marciapiede che li aveva portati fino lì risuonò brevemente uno strillo da fare accapponare la pelle e nemmeno era troppo lontano.

Gwen si liberò dalla sua stretta. Non parlarono. Si spostarono da un nastro all’altro, attraversarono le corsie vuote e buie e si avviarono verso il passaggio che conduceva lontano dalla pericolosa strada, verso i corridoi. Dirk guardò i numeri mentre passavano dalla debole luce grigia a quella azzurra: livello 468. Quando ebbero sotto i piedi i tappeti che attutivano i rumori dei passi, cominciarono a correre, si mossero rapidamente lungo il primo corridoio, poi voltarono e rivoltarono, a volte a destra a volte a sinistra, scegliendo a caso la direzione da prendere. Corsero finché entrambi furono senza fiato. A questo punto si fermarono e caddero sui tappeti sotto la luce di un crepuscolare globo azzurrino.

«Che cosa è stato?», disse alla fine Dirk, quando riuscì a trovare un po’ di fiato.

Gwen stava ancora sbuffando e soffiando per la fatica della corsa. Avevano fatto un percorso lunghissimo. Lei cercava di riprendere fiato. «Tu che cosa pensi che fosse?», disse alla fine lei, con un tono acuto nella voce. «Era un falsuomo che strillava».

Dirk aprì la bocca e sentì che sapeva di sale. Si toccò le guance e se le sentì umide e si chiese da quanto tempo stesse piangendo. «Ci sono altri Braith, allora», disse lui.

«Sotto di noi», disse lei. «Ed hanno trovato una vittima. Maledetti, maledetti, maledetti! Siamo stati noi a portarli qui, è colpa nostra. Come abbiamo fatto a essere così stupidi? La paura di Jaan era che loro cominciassero a cacciare nelle città».

«Hanno cominciato ieri», disse Dirk, «con i bambini di gelatina Nerovini. Era solo questione di tempo, poi sarebbero venuti qui comunque. È inutile prendersi tutta…».

Lei volse il viso verso di lui, la faccia era tesa nella rabbia, le guance striate di lacrime. «Che cosa?», lo fulminò lei. «Tu pensi che noi non siamo responsabili? E chi altro, allora? Bretan Braith ha seguito te, Dirk. Perché siamo venuti qui? Avremmo potuto andare a Dodicesimo Sogno, a Musquel, e Esvoch. Città vuote. Non avremmo danneggiato nessuno. Invece abbiamo danneggiato questi Emereli… Quanti residenti ha detto la Voce che c’erano?».

«Non mi ricordo. Quattrocento, più o meno. Una cosa del genere». Cercò di metterle una mano sulle spalle e di trarla a sé, ma lei si divincolò e lo fissò.

«È colpa nostra», disse. «Dobbiamo fare qualcosa».

«L’unica cosa che possiamo fare è cercare di rimanere vivi», le disse lui. «Ci stanno inseguendo, ti ricordi? Non abbiamo tempo per pensare agli altri».

Gwen lo fissava e sul suo viso c’era… che cosa?… forse disprezzo, pensò Dirk. Quello sguardo lo scosse.

«Non credo a ciò che dici», disse lei. «Non sei capace di pensare a quelli che ti stanno vicino? Accidenti, Dirk, noi per lo meno ci siamo portati l’annulla-scia, per lo meno quello. Gli Emereli non hanno proprio niente. Nessuna arma, nessun sistema di difesa. Sono falsuomini, giocattoli, ecco tutto. Dobbiamo fare qualcosa!».

«Che cosa? Fare un bel suicidio? È questo che vuoi? Tu non volevi che questa mattina io affrontassi Bretan in duello, ma adesso tu…».

«Sì! Adesso dobbiamo. Non avresti parlato così quando eravamo su Avalon», disse lei e la sua voce si alzò fin quasi a diventare un grido. «Allora tu eri diverso. Jaan non avrebbe…».

Si fermò, improvvisamente conscia di ciò che aveva detto e si voltò dall’altra parte. Poi cominciò a singhiozzare. Dirk era assolutamente immobile.

«Allora è così», disse dopo un po’ lui. La sua voce era calma. «Jaan non penserebbe a se stesso, giusto? Jaan farebbe la parte dell’eroe».

Gwen lo guardò di nuovo. «Lui sì e tu lo sai».

Dirk annuì. «Lo farebbe. Forse lo avrei fatto anch’io, una volta. Forse hai ragione. Può darsi che io sia cambiato. Non so più niente». Si sentiva male, stanco e fallito. Ma soprattutto era la vergogna. I suoi pensieri andavano avanti e indietro e giravano e giravano. Avevano ragione tutti e due, pensava lui. Erano loro che avevano condotto i Braith a Sfida, verso centinaia di vittime innocenti. Erano loro i colpevoli; Gwen aveva ragione. Eppure, anche lui aveva ragione, e adesso non avrebbero potuto farci niente, niente. Se questo pensiero era egoistico non era per altro meno vero.

Gwen stava piangendo forte. Cercò di allungare una mano verso di lei e questa volta lei lo lasciò fare in modo che la confortasse con le sue mani. Eppure, mentre lui le pettinava i lunghi capelli neri e combatteva per ricacciare in gola le sue stesse lacrime, sapeva che non andava bene, che niente era cambiato. I Braith cacciavano ed ammazzavano… ma lui non li poteva fermare. Forse non sarebbe nemmeno riuscito a salvare se stesso. In fondo non era affatto l’antico Dirk, il Dirk di Avalon, no. E la donna che stringeva nelle braccia non era Jenny. Ma tutti e due erano delle prede.

Poi gli venne un’idea improvvisa. «Sì», disse ad alta voce.

Gwen lo guardò e Dirk si sollevò in piedi barcollando e poi tirò su anche lei.

«Dirk?», disse lei.

«Possiamo fare qualcosa», disse lui e la condusse verso la porta dell’appartamento più vicino. Si aprì facilmente. Dirk andò allo schermo che era sistemato vicino al letto. Le luci della camera erano tutte spente; l’unica illuminazione era costituita dal debole rettangolo azzurro di luce lasciato sul pavimento dalla porta aperta. Gwen era rimasta in piedi al centro della porta, incerta, e proiettava la sua ombra scura e lugubre.

Dirk accese lo schermo, sperando (non poteva fare molto di più), e lo schermo si accese sotto il suo tocco. Si sentì più tranquillo. Guardò Gwen.

«Che cosa hai intenzione di fare?», gli chiese lei.

«Dimmi il numero di casa tua», disse lui.

Lei comprese. Annuì lentamente e gli disse il numero. Dirk premette i pulsanti, uno dopo l’altro ed attese. Il segnale pulsante di chiamata illuminò la stanza. Quando si dissolse, gli schemi luminosi si rimisero assieme per formare l’immagine della mascella volitiva di Jaan Vikary.

Nessuno parlò. Gwen si fece avanti e si mise accanto a Dirk, con una mano sulla sua spalla. Vikary li osservò in silenzio e Dirk temette per un lungo momento che l’altro avrebbe cancellato lo schermo e li avrebbe abbandonati al loro fato.

Ma non lo fece. Disse a Dirk: «Tu eri un confratello di granlega. Avevo fiducia in te». Poi i suoi occhi si spostarono verso Gwen. «E tu, io ti amavo».

«Jaan», disse lei, in fretta e piano, con la voce che era appena sussurrata, tanto che Dirk dubitò che Vikary la potesse sentire. Poi lei non resistette oltre, si voltò e si allontanò velocemente dalla stanza.

Eppure Vikary non chiuse ancora il contatto. «Vi trovate a Sfida, vedo. Perché mi hai chiamato, t’Larien? Tu sai che cosa dobbiamo fare, il mio teyn ed io?».

«Lo so», disse Dirk. «Correrò il rischio. Ma dovevo parlarti. I Braith ci hanno seguiti. In qualche maniera, non so come; noi non avremmo mai pensato di essere rintracciati. Ma loro sono qui. Bretan Braith Lantry ha messo fuori combattimento il calcolatore centrale della città e pare possedere il controllo della maggior parte delle altre fonti energetiche. Gli altri… hanno delle mute di cani quaggiù. Cacciano nei corridoi».

«Capisco», disse Vikary. Un’emozione — illeggibile, strana — baluginò sul suo viso. «I residenti?».

Dirk annuì. «Puoi venire?».

Vikary sorrise appena appena, ed era un sorriso privo di gioia. «Allora chiedi il mio aiuto, Dirk t’Larien?». Scosse il capo. «No, è inutile prenderti in giro, non sei tu che me lo chiedi, non lo chiedi per te. Capisco benissimo. Per gli altri, per gli Emereli, sì. Garse ed io verremo. Porteremo i nostri stemmi, così potremo fare korariel di Ferrogiada tutti quelli che troveremo prima dei Braith. Comunque ci vorrà del tempo, forse troppo tempo. Moriranno in molti. Ieri alla Città nella Palude Senzastelle, una creatura chiamata Madre ha fatto una morte violenta. I bambini di gelatina… Tu hai mai visto i bambini di gelatina Nerovini, t’Larien?».

«Ne ho sentito parlare».

«Si sono riversati fuori dalla loro Madre per trovarne un’altra, ma non ne hanno trovate. Erano vissuti per decenni nel ventre del loro ospite gigantesco. Altri del loro mondo avevano catturato la creatura e l’avevano portata su Worlorn dal Mondo dell’Oceano Nerovino ed infine l’avevano abbandonata. Non c’è molto amore tra i bambini di gelatina e gli altri Nerovini che non sono soggetti al culto. Così si buttarono fuori, un centinaio, più o meno, e presero a scorrazzare per la città, che improvvisamente si riempì di gente, così da un momento all’altro, e non sapevano nemmeno dove fossero e perché. Parecchi erano vecchi, molto vecchi. Cominciarono a risvegliare la loro città morta, presi dal panico, per cui Roseph alto-Braith li ha trovati. Ho fatto ciò che ho potuto per proteggerne qualcuno. Ma i Braith ne hanno scovati molti altri, perché io avevo bisogno di tempo. Sarà la stessa cosa anche a Sfida. Quelli che scapperanno nei corridoi e cercheranno di scappare, saranno sicuramente cacciati ed uccisi, molto tempo prima che il mio teyn ed io possiamo farci qualcosa. Mi capisci?».

Dirk annui.

«Non è sufficiente telefonarmi», disse Vikary. «Devi fare qualcosa anche tu. Bretan Braith Lantry ti vuole trovare a tutti i costi. Vuole te e nessun altro. Potrebbe anche permetterti di duellare con lui. Gli altri invece vogliono solo darti la caccia, perché secondo loro sei un falsuomo, ma ti considerano anche loro la preda più ambita. Esci allo scoperto, t’Larien, e loro ti inseguiranno. Per gli Emereli che ti stanno vicini, nascosti, è importante riuscire a guadagnare un po’ di tempo».

«Capisco», disse Dirk. «Tu vuoi Gwen e me…».

Vikary sobbalzò, visibilmente. «No, non Gwen».

«Me, allora. Vuoi che attiri la loro attenzione su di me? Senza nemmeno un’arma a disposizione?».

«Tu hai un’arma», disse Vikary. «L’hai rubata tu stesso, con grave insulto per Ferrogiada. Devi decidere tu se usarla o no. Non voglio influenzare per niente la tua decisione. Ho già cercato di farlo una volta. Adesso mi limito a dirtelo. Un’altra cosa, t’Larien. Che tu lo faccia o no, non cambierà niente tra te e me. Tu sai che cosa dobbiamo fare».

«L’hai detto», rispose Dirk.

«Te lo dico di nuovo. Voglio che te lo ricordi bene». Vikary aggrottò la fronte. «E adesso devo andare. Il volo è lungo fino a Sfida, lungo e freddo».

Lo schermo diventò buio prima che Dirk potesse dare una risposta.

Gwen aspettava appena fuori dalla porta, appoggiata contro la parete ricoperta di tappeti, con il viso tra le mani. Quando uscì Dirk, lei si tirò su. «Vengono?», chiese lei.

«Sì».

«Mi dispiace di… essermene andata. Non ce la facevo a guardarlo in faccia».

«Fa lo stesso».

«Non fa lo stesso».

«Non è vero», disse lui deciso. Aveva mal di stomaco. Si immaginava grida lontane. «È una cosa senza importanza. Hai già spiegato tutto prima… i tuoi sentimenti».

«Davvero?». Lei rise. «Se tu conosci i miei sentimenti, allora ne sai più di me, Dirk».

«Gwen, io non… No, senti, non importa. Hai ragione. Dobbiamo… Jaan ha detto che noi abbiamo un’arma».

Lei aggrottò la fronte. «Ha detto così? Forse pensa che io abbia portato il fucile a dardi. Se no che cosa?».

«No, non penso che volesse dire quello. Ha solo detto che avevamo un’arma, che l’abbiamo rubata noi ed abbiamo insultato Ferrogiada».

Gwen chiuse gli occhi. «Eh?», disse. «Ma si capisce». Aprì di nuovo gli occhi. «La macchina. È armata con cannoni a laser. Forse intendeva questo. Ma non sono caricati. Pensavo che non fossero nemmeno collegati. Si tratta della macchina che ho sempre usato io, e Garse…».

«Capisco. Ma credi che i laser possano essere sistemati? Che possano essere messi in funzione?».

«Può darsi. Non lo so. Ma a cos’altro si poteva riferire Jaan?».

«Naturalmente i Braith potrebbero aver trovato la macchina», disse Dirk. La sua voce era fredda e sicura. «Dobbiamo correre il rischio. Nasconderci… non possiamo nasconderci, loro ci troveranno. Bretan potrebbe già essere sulle nostre tracce, in questo momento, se la mia telefonata è stata registrata da qualche parte là sotto. No, dobbiamo andare verso l’aerauto. È una cosa che loro non si aspettano, se sanno che ci siamo avviati per la strada verso il basso».

«La macchina si trova cinquantadue livelli sopra di noi», sottolineò Gwen. «Come facciamo ad arrivarci? Se Bretan controlla le fonti energetiche, come noi pensiamo, ha sicuramente tolto energia agli ascensori. Ha fatto fermare i marciapiedi».

«Lui sapeva che noi stavamo usando i marciapiedi», disse Dirk. «O per lo meno, che noi eravamo sulla strada. Quelli che ci inseguivano glielo hanno detto. Sono in contatto tra di loro, Gwen. I Braith. Deve essere così, i nastri si sono fermati proprio al momento giusto. Ma questo ci può tornare utile».

«Utile? Come?».

«Per, attirare l’attenzione su di noi», disse lui. «Per fare in modo che loro ci inseguano in modo da salvare quei maledetti Emereli. È quello che Jaan mi ha chiesto di fare. Non era quello che volevi fare anche tu?». La sua voce era tagliente.

Gwen impallidì leggermente. «Be’», disse. «Sì».

«Allora hai vinto tu. Adesso lo facciamo».

Lei lo guardò pensierosa. «Allora gli ascensori? Ammesso che funzionino ancora».

«Non possiamo fidarci degli ascensori», disse Dirk. «Anche se funzionano ancora. Bretan potrebbe farli fermare mentre noi siamo dentro».

«Non credo che esistano delle scale», disse lei. «E non le troveremmo di sicuro senza l’aiuto della Voce, anche se esistessero. Potremmo andare a piedi su per la strada, ma…».

«Sappiamo che ci sono almeno due gruppi di Braith che vanno in giro per quella strada. Probabilmente sono anche di più. No».

«E allora?».

«Che cosa rimane?». Si accigliò. «Il mozzo centrale».

Dirk si sporse oltre la ringhiera di ferro lavorato, guardò in su e in giù e venne colto da vertigini. Il mozzo centrale pareva proseguire all’infinito in entrambe le direzioni. C’erano solo due chilometri dal fondo alla cima, lui lo sapeva, ma tutto gli dava la sensazione che la distanza fosse infinita. Le calde correnti ascendenti che davano la galleggiabilità di una piuma alla gente che vi si avventurava, riempivano il torsolo echeggiante di nebbie grigio-bianche e le balconate che si affacciavano ad ogni livello del mozzo circolare — un livello dietro l’altro — erano tutte uguali e davano la sensazione di una ripetizione infinita.

Gwen aveva tirato fuori qualcosa dal suo pacco di sensori, uno strumento metallico, argenteo, grande un palmo. Lei era subito dietro Dirk, vicino alla ringhiera e gettò lo strumento all’interno del baratro. Lo guardarono tutti e due mentre si muoveva, girando ripetutamente, buttando loro in faccia riflessi luminosi. Navigò fino a metà del grande cilindro e poi cominciò a cadere… piano, gentilmente, in parte sostenuto dall’aria che saliva, un granellino di polvere metallica che danzava nella luce solare. Lo osservarono per un eone prima di accorgersi che era svanito nell’abisso grigio sotto di loro. «Bene», disse Gwen dopo averlo perso di vista. «La griglia gravitazionale è ancora in funzione».

«Sì. Bretan non conosce la città. Non abbastanza». Dirk guardò ancora in alto. «Credo che dovremo darci la spinta. Chi va per primo?».

«Dopo di te», disse lei.

Dirk aprì il cancello della balconata e si ritrasse fin contro la parete. Si tolse un ciuffo di capelli dagli occhi con impazienza, si strinse nelle spalle e corse in avanti, saltando il più alto possibile quando i suoi piedi toccarono il bordo.

Il salto lo portò avanti ed in alto, in alto. Per un unico spaventoso momento gli parve di cadere e lo stomaco di Dirk si strinse, ma poi guardò e si rese conto e non era affatto come cadere, ma come volare, come veleggiare nel cielo. Rise forte, improvvisamente inebriato. Portò le braccia davanti a sé e le mosse in potenti bracciate, nuotando ancora più in alto e più veloce. Le file di balconate vuote gli passavano accanto: uno, due, cinque livelli. Prima o poi avrebbe cominciato a ricadere, una leggera curva discendente verso il velo grigio e distante, ma non avrebbe potuto cadere per molti metri. L’altro lato del mozzo centrale era appena ad una trentina di metri da lui e ci voleva poco a fare un salto che vincesse i debolissimi vincoli della residua gravità del mozzo.

Alla fine la parete ricurva si fece più vicina e lui rimbalzò contro una ringhiera di ferro nero, roteando e cadendo verso l’alto, in modo assurdo, prima di riuscire ad afferrare una sporgenza della balconata, subito sopra quella contro cui aveva urtato. Fu facile spingersi su. Era salito su per il centro del mozzo per undici livelli. Si sedette un momento, sorridendo e stranamente eccitato, cercando di recuperare le forze per un altro salto ed osservando Gwen che stava venendo su dietro di lui. Lei volava come un uccello grazioso ed impossibile, mentre i lunghi capelli neri vibravano dietro di lei durante il volo. Lei superò il punto in cui lui era arrivato di due livelli.

Nel frattempo lui aveva raggiunto il 520° livello ed era ammaccato in cinque o sei punti, dove aveva sbattuto contro la ringhiera di ferro, ma si sentiva abbastanza bene. Al termine del sesto vertiginoso salto in mezzo al mozzo per i tuffi, quasi non aveva voglia di tirarsi su in mezzo alla balconata di arrivo, ritornando così alla normale gravità. Ma poi lo fece. Gwen era già là che lo aspettava, con il pacco dei sensori e le scatolette d’emergenza appese alle spalle in mezzo alla schiena. Lei gli diede una mano e lo aiutò a scavalcare la ringhiera.

Uscirono nell’ampio corridoio che girava attorno al pozzo centrale, nelle ormai familiari ombre azzurre. I globi brillavano appena agli incroci e ad entrambi i lati, dove lunghi passaggi diritti conducevano via dal centro della città, come raggi di una ruota gigantesca. Ne scelsero uno a caso e cominciarono a camminare velocemente verso la zona perimetrale. La camminata fu più lunga di quanto Dirk si sarebbe aspettato. Superarono parecchi altri incroci (l’ultimo che avevano conteggiato era il quarantesimo), ognuno uguale al precedente; superarono diverse porte nere, diverse solo per il numero che c’era scritto sopra. Né lui né Gwen parlarono. La piacevole sensazione che lo aveva invaso per breve tempo, la gioia del volo senza ali, lo lasciò improvvisamente come era arrivata mentre camminava nel buio crepuscolare. Fu sostituita da una punta di paura. Le sue orecchie continuavano a costruire fantasmi che lo preoccupavano, ululati lontani ed il debole battere di tacchi dei loro inseguitori; i suoi occhi trasformavano i globi di luce più lontani in qualcosa di strano e di terribile e scoprivano forme negli angoli di cobalto, dove invece c’era solo buio; era soltanto il suo cervello che gli giocava brutti scherzi.

Eppure i Braith erano stati anche qui. Vicino al perimetro di Sfida, dove i corridoi trasversali si univano alla strada esterna, trovarono uno dei veicoli con i penumatici a pallone che la Voce usava per portare i suoi ospiti avanti ed indietro. Era vuoto e capovolto, sdraiato in parte sui tappeti ed in parte sulla plastica liscia che faceva da pavimento alla strada vera e propria. Quando lo raggiunsero, si fermarono e gli occhi di Gwen incontrarono quelli di Dirk, in uno scambio muto. Gli venne in mente, per un momento, che i veicoli con le ruote a pallone non avevano comandi utilizzabili dai passeggeri; la Voce li guidava direttamente. E qui ce n’era uno, piegato su di un fianco, disattivato e immobile. Notò anche qualcos’altro. Presso una delle ruote posteriori il tappeto azzurro era umido e puzzolente.

«Vieni», mormorò Gwen ed attraversarono la strada silenziosa, sperando che i Braith che erano stati qui se ne fossero ormai andati e non li potessero sentire. La terrazza d’atterraggio con la loro macchina era ormai vicina; sarebbe stata una crudele ironia se loro non l’avessero potuta raggiungere. Ma a Dirk pareva che i loro passi echeggiassero terribilmente forte sulla superficie priva di tappeti del viale; gli pareva che li potessero sentire in qualsiasi punto dell’edificio, perfino Bretan Braith nei profondi scantinati distanti chilometri. Quando raggiunsero il marciapiede pedonale che superava la striscia mediana di marciapiedi immobili, cominciarono tutti e due a correre. Dirk non era sicuro se fosse stato lui o Gwen a cominciare. Un momento prima camminavano uno accanto all’altro, cercando di muoversi il più velocemente possibile e cercando di fare il meno rumore possibile; poi all’improvviso si erano messi a correre.

Al di là della strada… un corridoio senza tappeti, due svolte, un’ampia porta che pareva riluttante ad aprirsi. Alla fine Dirk si lanciò con la spalla ammaccata contro la porta e lui gemette e la porta gemette protestando, ma si aprì e si ritrovarono sulla terrazza del 520° livello di Sfida.

La notte era fredda e scura. Sentivano gli eterni venti di Worlorn che gemevano contro la torre Emereli. Si vedeva un’unica stella luminosa che bruciava nel lungo e stretto rettangolo che contraddistingueva il cielo del mondo esterno. All’interno, la terrazza era completamente nera.

Quando loro entrarono le luci non si accesero.

Ma la macchina era ancora là, accucciata nel buio come una cosa viva, come la banscea a cui voleva assomigliare e non c’era nessun Braith di guardia.

Si avvicinarono. Gwen si tolse il pacco di sensori e le provviste d’emergenza e li mise sul sedile posteriore, dove erano ancora appoggiati gli aeroscooter. Dirk era in piedi e l’osservava, tremando un po’; il mantello di Ruark non c’era più e quella notte l’aria era fredda.

Gwen toccò un dispositivo sui cruscotto ed al centro della carrozzeria della manta si aprì una fessura scura. Pannelli di metallo si mossero in su e in giù e spalancarono le viscere della macchina Kavalar. Gwen passò davanti ed accese una luce posta all’interno di uno dei pannelli della carrozzeria. L’altro pannello, vide Dirk, aveva una serie di utensili di metallo appesi.

Gwen era immobile in una piccola zona illuminata e studiava la complessa macchina. Dirk le venne vicino.

Alla fine lei scosse il capo. «No», disse con voce stanca. «Non funziona».

«Potremmo ricavare l’energia dalla griglia gravitazionale», suggerì Dirk. «Gli strumenti ci sono». Sottolineò.

«Non ne so abbastanza», disse lei. «Qualcosa, sì. Speravo di essere capace di immaginare… capisci. Ma non so. Non si tratta solo di energia. I laser sulle ali non sono nemmeno collegati. Per quello che ci riguarda dobbiamo considerarli dei semplici ornamenti». Guardò Dirk. «Immagino che tu non…?».

«No», disse lui.

Lei annuì. «Allora non abbiamo nessuna arma».

Dirk si alzò e guardò dall’altra parte della manta, verso il cielo vuoto di Worlorn. «Potremmo andarcene da quella parte».

Gwen allungò le braccia ed afferrò i due pannelli, uno per mano, li abbassò e li fece coincidere nuovamente e la banscea scura ebbe di nuovo un aspetto integro e feroce. La voce di Gwen era priva di toni. «No. Ricorda cosa hai detto. Fuori ci saranno i Braith. Le loro macchine saranno armate. Non avremmo nessuna possibilità. No». Lei girò attorno a Dirk e salì sull’aerauto.

Dopo un po’ lui la seguì. Rimase seduto contorto nel suo sedile, con davanti a sé quella stella solitaria nel freddo cielo notturno. Si rese conto di essere stanchissimo e sapeva bene che era ben più di una stanchezza fisica. Da quando era venuto a Sfida, le sue emozioni si erano rovesciate su di lui come onde su una spiaggia, una dopo l’altra, ma improvvisamente gli sembrava che l’intero oceano fosse scomparso. Non c’erano più onde, di nessun genere.

«Immagino che tu avessi ragione prima, nel corridoio», disse lui pensieroso, con voce introspettiva. Non guardava verso Gwen.

«Ragione?», disse lei.

«Sul fatto dell’egoismo. Sul fatto… capisci… sul fatto che non sono un cavaliere bianco».

«Un cavaliere bianco?».

«Come Jaan. Non sono mai stato un cavaliere bianco, forse, ma quando ero su Avalon mi piaceva pensare di esserlo. Io credevo nelle cose. Adesso non riesco quasi più a ricordare che cosa siano queste cose in cui credere. Tranne te, Jenny. Di te me ne ricordo. Questo perché… be’, tu mi capisci. Negli ultimi sette anni, ho fatto qualcosa, niente di terribile, sai, comunque delle cose che su Avalon non avrei mai fatto. Mi sono comportato cinicamente, egoisticamente. Ma fino adesso non ho mai ammazzato nessuno».

«Non flagellarti da solo, Dirk», disse lei. Anche la sua voce era stanca. «Non è una cosa attraente».

«Io voglio fare qualcosa,», disse Dirk. «Devo farlo. Non posso soltanto… tu lo sai. Avevi ragione».

«Noi non possiamo far niente, tranne che scappare e morire e questa non è una cosa molto interessante. Non abbiamo armi».

Dirk scoppiò in una risata amara. «Allora stiamo ad aspettare che Jaan e Garse vengano a salvarci e poi… il nostro nuovo incontro ha avuto vita terribilmente corta, non ti pare?».

Lei si piegò in avanti senza rispondere ed appoggiò il capo sul braccio posto sopra il cruscotto. Dirk la guardò e poi guardò ancora fuori. Aveva sempre freddo con quegli abiti leggeri, ma per qualche ragione la cosa non gli sembrava importante.

Rimasero seduti immobili nella manta.

Alla fine Dirk si voltò e mise una mano sulla spalla di Gwen. «L’arma», disse con voce stranamente eccitata. «Jaan ha detto che avevamo un’arma».

«I laser sull’aerauto», disse Gwen. «Ma…».

«No», disse Dirk, ridendo improvvisamente. «No, no, no.

«E cos’altro avrebbe potuto voler dire?».

Per tutta risposta Dirk allungò una mano ed accese il sollevatore della macchina e la banscea di metallo grigio ritornò in vita e si sollevò lentamente dalle lastre di metallo. «La macchina», disse lui. «La macchina e basta».

«Fuori i Braith hanno anche loro delle macchine», disse lei. «Delle macchine armate».

«Sì», disse Dirk. «Ma Jaan ed io non parlavamo dei Braith che erano fuori. Parlavamo delle bande di cacciatori che erano dentro, quelli che andavano in giro per la strada ad ammazzare la gente!».

Improvvisamente lei capì ed il viso le si illuminò. Rise. «Sì», disse lei selvaggiamente ed allungò la mano verso il cruscotto della manta che ruggì e fece uscire scintillanti colonne di luce bianca dalla carrozzeria che cercavano di scacciare l’oscurità che era davanti a loro.

Gwen rimase sollevata per mezzo metro dal suolo e Dirk saltò al di là delle ali, andò verso la porta che aveva forzato ed usando la spalla ferita cercò di abbattere un secondo pannello, per creare un’apertura abbastanza grande da far uscire la macchina. Poi Gwen fece muovere la manta verso di lui e Dirk salì di nuovo sopra.

Poco dopo si trovavano sulla strada, galleggiando sopra il viale, vicino al punto dove giaceva il veicolo apalloni rovesciato. I raggi luminosi dei fari sciabolavano sui marciapiedi mobili ormai fermi ed i negozi vuoti da tempo e puntavano in avanti, lungo il percorso che sempre girando attorno all’alta torre di Sfida, li avrebbe portati fino a terra.

«Ti rendi conto», disse Gwen prima di partire, «che siamo nella corsia di salita. Il traffico in discesa dovrebbe essere dall’altra parte della linea mediana». Lei la indicò con un dito.

«Indubbiamente una cosa del genere è proibita dalle norme di di-Emerel». Dirk sorrise. «Ma non penso che la Voce ci faccia caso».

Gwen gli ritornò un leggero sorriso, toccò gli strumenti e la manta scattò in avanti, prese velocità. Poi per un bel po’ seguirono la strada facendo un gran vento mentre volavano nella luce grigia, sempre più veloci. Gwen, pallida e con le labbra serrate, era ai comandi, Dirk, accanto a lei osservava oziosamente il numero dei livelli mentre i vari corridoi baluginavano per un istante.

Udirono i Braith parecchio tempo prima di vederli… ancora l’ululato, un selvaggio abbaiare diverso da quello dei cani che Dirk aveva fino ad allora sentito. Il rumore pareva anche più selvaggio per gli echi che andavano su e giù per la strada nella loro scia. Quando Dirk udì per la prima volta la muta, allungò una mano e spense le luci della macchina.

Gwen lo guardò interrogativamente.

«Non facciamo molto rumore», disse lui. «Non riusciranno mai a sentirci con tutti quegli ululati e quegli urli, però potrebbero vedere le luci che arrivano dietro a loro. Giusto?».

«Giusto», disse lei. Nient’altro. Gwen era intenta alla guida. Dirk la osservò nella pallida luce grigia che era rimasta. I suoi occhi erano di nuovo di giada, duri e levigati, irati come dovevano essere a volte quelli di Garse Janacek. Alla fine lei aveva trovato il suo fucile ed i cacciatori Kavalari erano da qualche parte proprio davanti a loro.

Vicino al livello 497 superarono una zona piena di pezzi di abiti stracciati che si sollevarono e si mossero al vento provocato dal loro passaggio. Un pezzo, più grande degli altri, rimase quasi immobile nel punto in cui si trovava in mezzo al viale. I resti di un mantello bruno, strappato in tante strisce.

Davanti gli ululati si facevano sempre più forti.

Un sorriso passò per un momento sulle labbra di Gwen. Dirk lo vide, se ne meravigliò e si ricordò della sua gentile Jenny di Avalon.

Poi videro le figure, piccole ombre nere sulla strada oscurata, ombre che si ingrandirono rapidamente e si trasformarono in uomini e cani, mentre la manta scivolava in avanti verso di loro. Cinque dei grandi cani saltellavano liberamente lungo il viale, alle calcagna di un sesto, più grande di tutti loro, che tendeva due pesanti catene nere. Al fondo di ogni catena c’erano due uomini, che incespicavano dietro la muta mentre il gigantesco cane guida li tirava avanti.

Crebbero. Quanto velocemente crebbero!

I cani sentirono per primi la macchina. Quello che era davanti cercò di voltarsi e una delle catene si liberò dalla stretta di un cacciatore e sferzò l’aria. Tre dei cani liberi si girarono, ruggendo, ed un quarto si lanciò sulla strada verso la macchina che scendeva velocemente. Gli uomini parvero confusi per un momento. Uno era aggrovigliato nella catena che teneva quando il cane guida aveva cambiato direzione. L’altro, con le mani vuote, aveva cominciato ad abbassare la mano verso il fianco.

Gwen accese le luci. Dopo la semioscurità, gli occhi della manta apparvero accecanti.

La macchina piombò su di loro.

Le sensazioni si abbatterono su Dirk una dopo l’altra. Un lungo ululato si trasformò improvvisamente in un urlo di dolore; l’impatto fece sobbalzare la manta. Selvaggi occhi rossi brillarono orribili vicinissimi, una faccia da ratto e denti gialli umidi di saliva, poi un altro impatto ed un altro sobbalzo, un colpo. Altri impatti, impressionanti rumori di carne maciullata, uno, due, tre. Un grido, un grido molto umano, poi comparve un uomo illuminato dai fari della macchina. Ci volle un’ora per raggiungerlo, o almeno così sembrò. Era un uomo grosso e squadrato, uno che Dirk non aveva mai visto, vestito con pantaloni spessi di tessuto camaleontino che parvero cambiare colore quando loro furono più vicini. Aveva le mani alzate davanti al viso, in una c’era un’inutile pistola a laser del tipo da duello. Dirk riuscì a distinguere il metallo brillare spuntando fuori dalla manica dell’uomo. Capelli bianchi gli cadevano sulle spalle.

Poi, improvvisamente, dopo un’eternità di movimento congelato, l’uomo scomparve. La manta sobbalzò ancora una volta. Sobbalzò con la macchina anche Dirk.

Davanti c’era un grigio vuoto, il lungo viale curvo.

Dietro — Dirk si voltò a guardare — c’era un cane che li stava inseguendo, trascinandosi dietro due catene rumorosissime. Ma diventava sempre più piccolo mentre Dirk lo osservava. Figure scure ingombravano il pavimento di plastica della fredda strada. Non appena Dirk aveva cominciato a contarle, le forme scomparvero. Una pulsazione luminosa si accese per un istante in alto, proveniente dal nulla che li circondava.

Dopo poco lui e Gwen erano di nuovo soli e non si sentiva nessun rumore tranne il mormorio ronzante della loro macchina. La faccia di Gwen era calmissima. Le sue mani erano ferme. Le mani di Dirk non lo erano. «Penso che lo abbiamo ucciso», disse lui.

«Si», rispose lei. «Lo abbiamo ucciso. Anche qualche cane». Lei rimase tranquilla per un po’. Poi disse: «Si chiamava, se mi ricordo bene, Teraan Braith, o qualcosa di simile».

Tutti e due erano calmi. Gwen spense di nuovo i fari.

«Che fai?», chiese Dirk.

«Ce ne sono degli altri davanti a noi», disse lei. «Ricordati che abbiamo sentito un grido».

«Sì». Ci pensò per un po’. «La macchina potrà sopportare delle altre collisioni?».

Gwen ebbe un debole sorriso. «Ah», disse lei. «Il codice duellesco dei Kavalari ha diverse modalità aeree. Le aerauto sono spesso scelte come armi. Sono di costruzione robusta. Questa macchina è costruita per poter resistere al fuoco del laser il più a lungo possibile. L’armatura… debbo andare avanti?».

«No». Lui fece una pausa. «Gwen».

«Sì?».

«Non ucciderne degli altri».

Lei lo guardò. «Loro stanno dando la caccia agli Emereli», disse lei, «e a qualsiasi altro che sia tanto sfortunato da trovarsi all’interno di Sfida. Sarebbero ben felici di dare la caccia anche a noi».

«Calma», disse lui. «Dobbiamo portarli fuori strada, riuscire a guadagnare tempo per gli altri. Jaan arriverà presto. Non c’è bisogno di uccidere nessuno».

Lei sospirò e le mani si mossero per far rallentare la macchina. «Dirk», aveva cominciato a dire lei. Poi vide qualcosa e quasi arrestò l’aerauto, che mantenne librata in aria ed in movimento lentissimo. «Ehi», disse, «guarda». Lei allungò un dito.

La luce era talmente bassa che era difficile distinguere chiaramente le cose, finché non furono più vicini e poi… c’era la carcassa di qualcosa, o almeno i suoi resti. Al centro della strada, ferma e sanguinante. Pezzi di carne sparsa tutt’attorno. Sangue scuro secco sulla plastica.

«Questa deve essere stata la vittima che abbiamo sentito gridare prima», spiegò Gwen in tono da conversazione. «I cacciatori di falsuomini non mangiano le prede che uccidono, lo sai. In una parola, loro affermano che le creature non sono umane e sono solo una specie di animali semi-senzienti e ci credono pure. Comunque la puzza di cannibalismo è troppo forte anche per loro, per cui non osano mangiarli. Anche negli antichi tempi, su Alto Kavalaan durante i secoli bui, i cacciatori della granlega non mangiavano mai la carne dei falsuomini che abbattevano. Dicevano che la lasciavano per gli dei, per le falene mangiatrici di carogne, per gli scarafaggi della sabbia. Naturalmente dopo averne dato un boccone ai loro cani, come premio. Comunque i cacciatori prendono dei trofei. La testa. Guarda, qui c’è il torace. Vedi forse la testa?».

Dirk si senti male.

«Anche la pelle», continuò Gwen. «Hanpo dei coltelli da scuoiatore. O per lo meno li avevano. Nota che la caccia ai falsuomini è stata vietata su Alto Kavalaan, ormai da molte generazioni. Anche il consiglio degli altolegati di Braith si è pronunciato a sfavore. Le uccisioni che fanno questi cacciatori sono clandestine. Sono costretti a nascondere i loro trofei, tranne forse quando sono tra di loro. Comunque qui, be’, secondo Jaàn, i Braith cercheranno di restare su Worlorn il più a lungo possibile. Lui mi ha detto che secondo una voce, vogliono rinunciare a Braith, portarsi le loro betheyn dalle granleghe del pianeta di origine e formare una coalizione qui, una società che ricorderà le vecchie maniere, tutte le brutture della morte e delle uccisioni. Per un po’, un anno, due o dieci, finché lo stratoscudo dei Toberiani potrà trattenere il calore. Lorimaar alto-Larteyn ed i suoi amici, senza nessuno che li possa fermare».

«Ma sarebbe pazzesco!».

«Forse. Ma questo non li fermerà. Se Jaantony e Garse dovessero partire domani, lo farebbero di sicuro. La presenza di Ferrogiada serve da deterrente. Loro hanno paura che se gli altri Braith tradizionalisti muovessero quaggiù in forze, la fazione progressista dei Ferrogiada potrebbe anche mandare i suoi uomini in forze. Allora non ci sarebbe niente da cacciare e i loro figli si troverebbero di fronte ad una vita breve e dura su di un mondo morente, senza nemmeno il piacere a cui più bramano, la gioia dell’alta caccia. No». Si strinse nella spalle. «Comunque ci sono sale piene di trofei a Larteyn, anche adesso. Lorimaar da solo vanta cinque teste e si dice che abbia due giubbe fatte di pelle di "falsuomo". Non le indossa mai. Jaan lo ucciderebbe».

Gwen lanciò di nuovo a tutta velocità la macchina e la velocità riprese ad aumentare. «Adesso», disse lei, «vuoi ancora che io li schivi la prossima volta che li incontriamo? Adesso che sai che cosa sono loro?».

Lui non rispose.

Pochissimo tempo dopo i rumori ripresero sotto di loro, gli ululati e le grida, echeggiando lungo la strada altrimenti deserta. Superarono un altro veicolo capovolto, con i pneumatici di gomma morbida gonfi e strappati e Gwen dovette girargli attorno per superarlo. Un po’ dopo c’era uno scafo vuoto fatto di metallo nero che bloccava la discesa, un robot gigantesco con quattro braccia tese in posizione grottesca sopra la testa. La parte superiore del torace era un cilindro scuro in cui erano stati incastonati degli occhi di vetro; la parte inferiore era una base delle dimensioni dell’aerauto, montata su ruote. «Un controllore», disse Gwen mentre passavano accanto al silenzioso cadavere meccanico e Dirk vide che le mani erano state tagliate via dalle braccia una per una e che il corpo era pieno di buchi provocati dal laser.

«Avrà combattuto con loro?», chiese lui.

«Probabilmente», rispose lei. «Il che significa che la Voce è ancora viva e controlla ancora alcune funzioni. Forse è per questo che non abbiamo più sentito niente da Bretan Braith. Può darsi che abbiano dei guai laggiù. La Voce, naturalmente, ammasserà i suoi controllori per proteggere le funzioni vitali della città». Si strinse nelle spalle. «Ma non importa. Gli Emereli non sanno come comportarsi per difendersi dalle violenze. I controllori sono strumenti di prevenzione. Sparano dardi narcotici e credo che possano emettere dei gas lacrimogeni dalle griglie che hanno alla base. I Braith vinceranno. Sempre».

Dietro di loro il robot era già scomparso e la strada era di nuovo vuota. I rumori davanti si fecero più forti.

Questa volta Dirk non disse niente quando Gwen si chinò in avanti e riaccese le luci e le grida e gli impatti si susseguirono uno dopo l’altro. Gwen colpi entrambi i cacciatori Braith, anche se dopo disse che non era sicura di aver ucciso il secondo. Era stato colpito di striscio e buttato da una parte, finendo contro uno dei cani.

E Dirk era rimasto senza voce, perché mentre l’uomo cadeva e roteava contro la loro ala destra, aveva perduto la presa e si era schiantato contro la vetrina di un negozio lasciando una traccia sanguinante sul vetro mentre scivolava dentro. La cosa che aveva in mano, fino a quel momento, lui la stava tenendo per i capelli, notò Dirk.

La strada a cavatappi continuava a girare attorno alla torre che era stata Sfida, affondando lentamente, ma continuamente. Ci volle più tempo di quanto immaginasse Dirk per sprofondare dal livello 388 — dove avevano sorpreso la seconda banda di Braith — fino al livello uno. Un lungo volo nel silenzio grigio.

Non incontrarono nessun altro, né Kavalari, né Emereli.

Al livello 120 un controllore solitario bloccò loro la strada, facendo roteare i suoi occhi debolmente luminosi e comandando loro di fermarsi con la voce — sempre tranquilla e cordiale — della Voce di Sfida. Ma Gwen non rallentò e quando lei fu vicina, il controllore roteò via spostandosi, senza sparare dardi e senza emettere gas. I suoi ordini echeggianti li inseguirono lungo la strada.

Al livello cinquantasette le deboli luci sopra di loro oscillarono e si spensero e per un istante volarono nel buio assoluto. Poi Gwen accese i fari e rallentò appena un po’. Nessuno dei due parlava, ma Dirk pensava a Bretan Braith e si chiese per un momento se le luci si fossero rotte o fossero state spente. Forse era più probabile quest’ultima ipotesi; un sopravvissuto di sopra doveva certamente aver avvertito i confratelli di granlega di sotto.

Al livello uno la strada finiva in un grande viale e in una rotonda. Riuscivano a vedere pochissimo; solo dove i raggi dei fari battevano formavano ombre che spuntavano improvvisamente fuori dall’oceano di pace che li circondava. Il centro del viale pareva essere costituito da un unico albero. Dirk credette di distinguere un massiccio tronco rugoso, praticamente una parete di legno e riuscirono a sentire il fruscio delle foglie sopra di loro. La strada curvava attorno al grande albero e ritornava su se stessa. Gwen la percorse tutta seguendo l’ampio cerchio.

Dall’altra parte dell’albero c’era un cancello che si apriva verso la notte e Dirk percepì il tocco del vento sul viso e capì perché le foglie stormissero. Appena oltre il cancello, sempre restando sul cerchio, lui guardò fuori. Al di là della porta c’era una strada simile ad un nastro bianco che si allontanava da Sfida.

E c’era una macchina che si muoveva bassa sulla strada, ma veniva velocemente verso la città. Verso di loro. Dirk riuscì a distinguerla per un solo istante. Era scura — ma tutto era scuro nella debole luce delle stelle dei mondi esterni — e metallica. Una specie di bestia Kavalar deforme, che lui non poteva nemmeno tentare di identificare.

Non erano i Ferrogiada, di questo era sicuro.

9

«Ce l’abbiamo fatta», disse Gwen seccamente dopo aver superato il cancello. «Ci stanno inseguendo».

«Ci hanno visti?».

«Dovrebbero. Avevamo le luci accese quando abbiamo superato il cancello. Difficile che non le abbiano viste».

Una spessa oscurità fluiva da entrambi i lati della macchina e le foglie continuavano a stormire sopra di loro. «Scappiamo?», disse Dirk.

«La loro macchina avrà i laser funzionanti, mentre i nostri non funzionano. L’unico punto in cui possiamo andare è la strada esterna. La macchina dei Braith ci darà la caccia ed i cacciatori ci aspettano nascosti lassù, da qualche parte. Noi ne abbiamo uccisi solo due, forse tre. Devono essere di più. Siamo in trappola».

Dirk ci pensò. «Dobbiamo fare di nuovo il giro della rotonda ed uscire dal cancello dopo che loro sono entrati».

«Sì. È un’idea molto logica. Anche se fin troppo logica. Ci sarà un’altra macchina fuori ad aspettarci, suppongo. Io ho un’idea migliore». Mentre parlava fece rallentare la manta fino a farla fermare. Immediatamente davanti a loro la strada si biforcava, illuminata dai fari. A sinistra c’era la rotonda che ritornava su se stessa; a destra c’era la strada esterna, che qui iniziava la sua salita di due chilometri.

Gwen spense le luci e loro vennero inghiottiti dall’oscurità. Quando Dirk fece per parlare, lei gli impose il silenzio con uno sssh! deciso.

Il mondo era nerissimo. Dirk si sentiva come cieco. Gwen, la macchina, Sfida… tutto era scomparso. Sentiva le foglie che sfregavano tra di loro e gli parve di sentire l’altra macchina, quella dei Braith che veniva verso di loro, ma doveva essere la sua immaginazione, perché prima avrebbe dovuto vederne le luci.

C’era un leggero movimento dondolante, come se stessero seduti all’interno di una barca. Qualcosa di duro gli toccò il braccio e Dirk sobbalzò, e qualcos’altro gli graffiò la faccia.

Foglie. Si stavano sollevando, proprio dentro la chioma dell’albero Emereli, che si estendeva da tutte le parti.

Un ramo gli si premette contro, poi si allontanò frustandolo dolorosamente sulla guancia e facendogli uscire il sangue. Le foglie erano tutto attorno a loro. Alla fine ci fu un debole urto, quando le ali della macchina raggiunsero l’altezza dei rami più grossi. Non potevano sollevarsi più di così. Rimasero sospesi, ciechi, avviluppati dal buio e dal fogliame invisibile.

Pochissimo tempo dopo una lama di luce lampeggiò dietro di loro, andando verso destra, su per la strada. Era appena scomparsa che subito ne spuntò un’altra — da sinistra — voltò velocemente alla biforcazione e seguì la prima. Dirk fu molto contento che Gwen avesse ignorato il suo suggerimento.

Rimasero sospesi in mezzo al fogliame per un tempo indeterminabile, ma non apparve nessun’altra macchina. Finalmente Gwen si abbassò di nuovo al livello della strada. «Questo scherzo non li ingannerà in eterno», disse lei. «Quando chiuderanno le trappole e si accorgeranno che noi non ci siamo dentro, cominceranno a farsi delle domande».

Dirk stava tamponando il liquido che gli usciva dalla guancia con un angolo della camicia. Quando senti con le dita che il piccolo rivolo di sangue si era finalmente asciugato, si volse in direzione della voce di Gwen. Era sempre cieco. «Per cui ci daranno la caccia», disse lui. «Questo va bene. Finché si preoccuperanno di capire dove accidenti siamo andati, non uccideranno gli Emereli. E Jaan e Garse arriveranno presto». Mi pare che sia venuto il momento di trovare un nascondiglio».

«Nasconderci, o scappare», rispose Gwen nell’oscurità. Per il momento non aveva ancora toccato i fari della macchina.

«Ho un’idea», disse Dirk. Si toccò di nuovo la guancia. Poi soddisfatto dell’esame, si rimise a posto la camicia. «Quando stavi girando intorno alla rotonda ho notato qualcosa. Una rampa, con un segnale. L’ho vista solo per un istante alla luce dei fari, ma me ne ricordo bene. Worlorn aveva una rete di sotterranee, giusto? Collegavano le città?».

«Vero», disse Gwen. «Però l’hanno smantellata».

«Davvero? Io so solo che i treni non vanno più, ma che mi dici delle gallerie? Le hanno nuovamente riempite?».

«Non lo so. Direi di no». I fari della macchina si accesero all’improvviso e Dirk sbatté gli occhi per la luce improvvisa. «Fammi vedere quel segnale», disse Gwen e ripresero l’ampio cerchio attorno all’albero centrale.

Era l’entrata ad una metropolitana, come aveva immaginato Dirk. Una piccola rampa conduceva giù nell’oscurità. Gwen fermò il movimento in avanti e si sollevò di qualche metro, in modo da illuminare in pieno il cartello segnaletico. «Significa che dobbiamo abbandonare l’aerauto», disse alla fine lei. «L’unica arma che abbiamo».

«Si», disse Dirk. L’entrata era troppo stretta per permettere il passaggio alla manta grigia; evidentemente i costruttori della metropolitana non avevano contato che qualcuno volesse volare lungo le gallerie. «Ma forse è meglio così. Noi non possiamo abbandonare Sfida ed all’interno della città la macchina limiterebbe fin troppo la nostra mobilità. Giusto?». Gwen non rispose immediatamente e Dirk si sfregò la fronte stancamente. «A me pare una cosa giusta, ma forse non riesco a pensare con chiarezza. Sono stanco e probabilmente sarei troppo spaventato se mi soffermassi a pensare con ordine. Sono pieno di lividi e tagli ed ho gran voglia di dormire».

«Bene», disse Gwen, «La sotterranea è la migliore delle possibilità che abbiamo. Possiamo mettere un po’ di chilometri tra noi e loro, e dormire. Non credo che i Braith possano pensare di venirci a cercare qui, dentro le gallerie della metropolitana».

«Allora è deciso», disse Dirk.

Fecero le cose con molto metodo. Gwen fece posare l’aerauto presso la rampa della sotterranea, prese il pacco di sensori e le provviste d’emergenza che aveva posato sul sedile posteriore. Presero gli aeroscooter, cambiando gli stivali e buttando via quelli che avevano indossato fino a quel momento. Tra gli strumenti montati sulla carrozzeria della manta c’era anche una piccola torcia elettrica, una barra di metallo e di plastica lunga come un avambraccio che faceva una pallida luce bianca.

Quando furono pronti a partire, Gwen passò su entrambi un po’ di annulla-scia, poi lasciò Dirk ad aspettarla presso la rampa d’entrata mentre lei portava la macchina a metà della rotonda, in mezzo alla strada, accanto ad uno dei corridoi del primo livello. In modo che i Braith pensassero che loro erano ritornati all’interno del labirinto di Sfida; la loro caccia sarebbe durata un bel po’.

Dirk attese nel buio che Gwen completasse il lungo percorso a piedi girando attorno all’albero, facendosi luce con la torcia elettrica. Poi scesero assieme dalla rampa verso la metropolitana abbandonata. La discesa fu più lunga di quanto Dirk si aspettasse. Andarono per lo meno due livelli sotto la superficie, pensò lui, camminando tranquilli, mentre la loro lampada si rifletteva sulle informi pareti blu pastello. Dirk pensò a Bretan Braith, che si trovava una cinquantina di livelli più sotto e sperò per un momento, pazzamente, che la galleria potesse ancora essere funzionante, dato che era (in definitiva) qualcosa che stava al di fuori della città-torre Emereli ed era quindi al di fuori del controllo che poteva esercitare Bretan.

Ma naturalmente tutto il sistema di metropolitane era stato disattivato parecchio tempo prima che Bretan e gli altri Braith venissero a Worlorn; là sotto non trovarono altro che una piattaforma piena di buchi e tane di vermi scavate nella roccia che si allontanavano all’infinito. L’infinito pareva vicinissimo visto al buio. La stazione era silenziosa, un silenzio che pareva immerso nella morte, assai più dei silenziosi corridoi di Sfida. Pareva di camminare in una tomba. C’era polvere dappertutto. La Voce non aveva permesso che la polvere si depositasse su Sfida, capì Dirk, ma le gallerie della metropolitana non facevano parte di Sfida, non erano nemmeno state costruite dagli Emereli. Camminando il rumore dei loro passi era orribilmente forte.

Gwen studiò le mappe del sistema con molta attenzione, prima di infilarsi nella galleria. «C’erano due linee quaggiù», disse lei parlando piano per chissà quale motivo. «Una linea collegava tutte le città del festival in una grande circolare. Pare che i treni andassero in entrambe le direzioni. L’altra linea era un servizio navetta che collegava Sfida con lo spazioporto. Ogni città aveva la sua navetta che conduceva allo spazioporto. Allora, da che parte si va?».

Dirk era esausto ed irritabile. «Non me ne importa», disse. «Che differenza può fare? Non possiamo davvero andare a piedi fino alla prossima città. Anche se abbiamo gli aeroscooter, la distanza è sempre eccessiva».

Gwen annuì pensosamente, sempre osservando la mappa. «Duecentotrenta chilometri fino a Esvoch da una parte, trecentottanta fino a Kryne Lamiya se andiamo dalla parte opposta. Ancora di più per arrivare fino allo spazioporto. Penso che tu abbia ragione». Lei si strinse nelle spalle, si voltò ed indicò una direzione a caso. «Da quella parte», disse.

Volevano andare lontani. Seduti sul bordo della piattaforma al di sopra dei binari, si legarono gli stivali alle piattaforme degli scooter, poi si avviarono lentamente nella direzione indicata da Gwen. Lei andava avanti, rimanendo ad appena venti centimetri dal suolo e puntando avanti la torcia elettrica che teneva nella mano destra, mentre appoggiava leggermente la mano sinistra contro la parete della galleria per tastare la strada. Dirk era dietro di lei e volava un po’ più alto in modo da riuscire a vedere anche lui avanti. La galleria che avevano scelto faceva una larga curva appena accennata verso sinistra. Non c’era niente da vedere, niente da notare. Dopo un po’ Dirk perse completamente la sensazione di muoversi, dato che il loro volo era sempre uguale e senza sbalzi. Poi gli parve che lui e Gwen stessero galleggiando in un limbo senza tempo, dove c’erano delle pareti che scorrevano in continuazione.

Ma alla fine, arrivati a tre chilometri buoni da Sfida, si posarono sul pavimento della galleria e si fermarono. Ma nemmeno allora sapevano cosa dirsi. Gwen appoggiò la torcia elettrica ad un rozzo intaglio della parete di pietre, poi si sedettero tutti e due nella polvere e si tolsero gli stivali. Senza dire una parola, lei si tolse dalla schiena le provviste d’emergenza ed usò lo zaino come se fosse stato un cuscino. La sua testa non si era nemmeno posata che già lei dormiva e lui era rimasto solo.

Era come se fossero distantissimi.

La stanchezza di Dirk non andava via, ma trovò difficile addormentarsi. Perciò si sedette ai limiti del piccolo cerchio di luce pallida — Gwen aveva lasciato accesa la torcia elettrica — e la osservò, la guardò respirare, guardò le ombre che si formavano sulle sue guance, sui suoi capelli quando lei si muoveva nel sonno inquieto. Allora lui si rese conto di quanto lei gli fosse distante e gli venne in mente che non si erano né toccati, né avevano parlato venendo da Sfida. Lui non ci aveva fatto caso; aveva la mente ottenebrata dalla paura e dalla fatica per poterci pensare. Eppure ne sentiva il peso contro il petto ed il buio lo premeva da tutte le parti nel lungo buco polveroso al di sotto del mondo.

Alla fine spense la torcia e la sua Jenny spari. Cercò di dormire un po’ anche lui. Il sonno venne. Ma anche gli incubi. Sognò di essere con Gwen e la baciava, la teneva stretta. Ma quando le loro labbra si incontravano, lei non era Gwen; lui stava baciando Bretan Braith, Bretan che aveva le labbra secche e dure, che aveva un occhio di pietraluce che bruciava in manièra terribilmente vicino a lui nel buio completo.

E dopo stava ancora scappando, scappava per una galleria senza fine, che non portava in nessun posto. Ma dietro di sé, poteva sentire il rumore dell’acqua che lo inseguiva e quando si voltò credette di scorgere un barcaiolo solitario che spingeva con un lungo palo una barca vuota. Il barcaiolo galleggiava su un liquido oleoso e nero e Dirk correva su pietre asciutte, ma nel sogno la cosa non sembrava importante. Correva e correva, ma la barca si faceva sempre più vicina ed alla fine vide che il barcaiolo non aveva faccia, nessuna faccia.

Poi ci fu un po’ quiete e per il resto della lunga notte Dirk non sognò più.

C’era una luce accesa, ma non avrebbero dovuto esserci luci.

La luce riusciva a raggiungerlo anche attraverso gli occhi chiusi ed il sonno: una radianza gialla oscillante, ora vicina, ora un po’ più lontana. Dirk se ne rese conto, ma solo leggermente, fin dal primo momento in cui la luce si era intromessa nel suo sonno stentato. Brontolò e si girò per non vederla e qualcuno rise, con una piccola risata acuta. Dirk l’ignorò.

Poi gli diedero un calcio, fortissimo, sul volto.

La testa scattò di lato e le catene del sonno si dissolsero in una macchia di dolore. Sperduto e dolorante, senza sapere dove si trovava, cercò di mettersi a sedere. La tempia gli pulsava. Tutto gli sembrava troppo luminoso. Mise un braccio davanti agli occhi per fermare la luce e per proteggersi da altri calci. Ci fu un’altra risata.

Poco per volta il mondo acquistò forma.

Erano i Braith, naturalmente.

Uno di loro, un uomo ossuto e linfatico con un ricciolo di capelli neri, era dall’altra parte della galleria e teneva Gwen con una mano mentre nell’altra aveva una pistola a laser. Un altro laser, un fucile, era appeso sulle spalle, tenuto con una cinghia. Le mani di Gwen erano state legate dietro la schiena e lei stava silenziosa, con gli occhi bassi.

Il Braith che stava in piedi vicino a Dirk non aveva un laser ma stringeva nella mano sinistra una torcia elettrica ad alta potenza che riempiva la galleria di luce gialla. La luce della torcia non permetteva a Dirk di vederlo bene in faccia, ma era alto come molti Kavalari e pesante e pareva pelato come un uovo.

«Finalmente siamo riusciti ad attirare la tua attenzione», disse l’uomo con la luce. L’altro rise, la stessa risata che Dirk aveva sentito prima.

Dirk si alzò in piedi con difficoltà e si allontanò all’indietro di un passo dai Kavalari. Si appoggiò alla parete della galleria, cercando di puntellarsi, ma la testa strillava di dolore e la scena ondeggiava. La torcia elettrica, calda e luminosa, gli provocava un dolore insopportabile agli occhi.

«Hai danneggiato il giocattolo, Pyr», commentò il Braith con il laser dall’altra parte della galleria.

«Spero di non averlo danneggiato troppo», disse quello grosso.

«Mi ucciderete?», chiese Dirk. Le parole gli riuscirono notevolmente facili, considerata la domanda che aveva fatto. Finalmente cominciava a riprendersi dal calcio.

Gwen alzò gli occhi quando lui parlò. «Alla fine ti uccideranno», disse lei con voce senza speranza; «ma non sarà una fine rapida. Mi dispiace, Dirk».

«Silenzio, vacca-betheyn», disse quello grosso, quello chiamato Pyr. Dirk era vagamente conscio di aver sentito prima quel nome. L’uomo osservò Gwen senza interesse, poi guardò di nuovo Dirk.

«Che cosa ha voluto dire?», disse Dirk nervosamente. Si premeva contro la pietra e cercava di tendere i muscoli senza farsene accorgere. Pyr era a meno di un metro di distanza. Il Braith pareva arrogante e distratto, ma Dirk si chiedeva fino a che punto fosse valida quest’impressione. L’uomo teneva la torcia sollevata nella mano sinistra, ma nella destra aveva qualcos’altro: un bastone lungo circa un metro, fatto di un legno scuro, con un pomo di legno duro e rotondo ad un’estremità ed una lama corta dall’altra parte. Lo teneva con leggerezza tra le dita, con la mano sull’asta centrale e lo batteva ritmicamente contro la gamba.

«Ci hai costretti ad una caccia agli spiriti, falsuomo», disse Pyr. «Non lo dico tanto per dire, o per prenderti in giro. Ci sono pochi che sono alla mia altezza nella buona vecchia alta caccia. Nessuno che sia migliore di me. Lo stesso Lorìmaar alto-Braith Arkellor ha soltanto la metà dei miei trofei. Per cui se ti dico che questa caccia è stata straordinaria, puoi essere certo che dico la verità. Sono contento che non sia finita».

«Cosa?», disse Dirk. «Non è finita?». L’uomo era vicinissimo… Si chiese se poteva riuscire a mettere Pyr tra lui e l’altro uomo, quello con il laser, oltre a parare i colpi del bastone con la lama. Magari sarebbe anche riuscito ad afferrare la pistola nel fodero di Pyr.

«Non è sportivo catturare un falsuomo addormentato, non c’è onore. Devi di nuovo scappare, Dirk t’Larien».

«Lui ti farà suo personale korariel», disse Gwen rabbiosamente, fissando i due Braith con calcolato disprezzo. «Nessuno potrà darti la caccia tranne lui e il suo teyn».

Pyr si voltò di nuovo verso di lei. «Ti ho detto di star zitta!».

Lei gli rise in faccia. «Conoscendo Pyr», continuò lei, la caccia seguirà l’autentica tradizione. Tu sarai liberato nella foresta, probabilmente nudo. Questi due metteranno via i laser e le macchine e ti inseguiranno a piedi con coltelli e spade da lancio e cani. Dopo avermi riconsegnata ai miei padroni, si capisce».

Pyr corrugò la fronte. L’altro Braith sollevò la pistola e la usò per dare un brutto colpo sulla bocca di Gwen. Dirk si tese, esitò un istante troppo a lungo, poi saltò.

Anche un metro era troppo; Pyr sorrideva mentre voltava la testa. Il bastone si sollevò con velocità terribile ed il pomo colpi Dirk allo stomaco. Barcollò, si piegò in due e cercò in qualche modo di non fermarsi. Pyr si spostò tranquillamente all’indietro e abbatté con forza il bastone nell’inguine di Dirk. Il mondo scomparve in una nebbia rossa.

Era vagamente conscio di Pyr che gli stava sopra dopo che lui era caduto. Poi il Braith lo colpì una terza volta, un colpo dato quasi per caso su di un lato della testa. Poi non ci fu più niente.

Stava male. Fu la prima cosa di cui si rese conto. Era tutto ciò che sapeva. Sentiva male. La testa gli girava e pulsava, tremando con un ritmo strano; gli faceva male anche lo stomaco e più sotto non aveva sensazioni. Dolore e vertigini erano i confini del mondo di Dirk. Per un tempo lunghissimo non ci fu niente altro.

Poco per volta però, gli ritornò una specie di confusa lucidità. Cominciò a notare le cose. Prima di tutto il dolore… andava e veniva a ondate. Andava su e giù, su e giù. Alla fine si rese conto che anche lui stava andando su e giù, ballonzolando e saltellando. Era sdraiato su qualcosa, trascinato o trasportato. Mosse le mani, o cercò di farlo. Era difficile. Il dolore pareva cancellare tutte le sensazioni normali. Aveva la bocca piena di sangue. Le orecchie gli risuonavano, ronzavano, gli bruciavano.

Lo stavano portando, sì. C’erano delle voci; riusciva a sentire le voci, che parlavano e ronzavano. Le parole non erano chiare. Più avanti, in qualche posto, c’era una luce che danzava e si agitava; tutto il resto era solo nebbia grigia.

Poco per volta il ronzio diminuì. Alla fine cominciò a distinguere le parole.

«…non sarà contento», disse una voce che lui non conosceva. Per lo meno non gli pareva di conoscerla. Era difficile da dirsi. Tutto era terribilmente distante e lui ballonzolava ed il dolore andava e veniva, andava e veniva, andava e veniva.

«Si», disse un’altra voce, pesante, tagliente, sicura.

Ancora ronzii… Parecchie voci assieme. Dirk non capiva niente.

Una voce azzittì le altre. «Abbastanza», disse. Questa voce era anche più lontana delle prime due; veniva da qualche punto più avanti, dalla luce ondeggiante. Pyr? Pyr. «Non ho paura di Bretan Braith Lantry, Roseph. Dimentichi chi sono io. Ho preso tre teste nella foresta quando Bretan Braith stava ancora succhiando alle tette delle donne. Il falsuomo è mio per tutti gli antichi diritti».

«Vero», rispose la prima voce sconosciuta. «Se sei stato tu a catturarlo nella galleria, non ci sarà nessuno che negherà i tuoi diritti. Però non te li sei presi».

«Volevo una caccia onesta, alla vecchia maniera».

Qualcuno disse qualcosa in Antico Kavalar. Ci fu una risata.

«Da giovani abbiamo cacciato il più delle volte assieme, Pyr», disse la strana voce. «Se tu l’avessi pensata in altro modo sulle donne, avremmo anche potuto diventare teyn-e-teyn, noi due. Non ti direi delle bugie. Bretan Braith Lantry vuole quest’uomo a tutti i costi».

«Non è un uomo, è un falsuomo. Sei stato proprio tu che l’hai deciso, Roseph. I desideri di Bretan Braith non valgono niente per me».

«Come arbitro ho decretato che è un falsuomo, e lo è di certo. Per te e per me non è altro che uno tra i tanti. Abbiamo i bambini di gelatina da cacciare, gli Emereli ed altri. Tu non hai bisogno di lui, Pyr. Bretan Braith la pensa diversamente. Lui era andato al quadrato della morte ed è stato preso in giro dall’uomo che aveva sfidato, perché non era un uomo per niente».

«Questo è vero ma non è tutta la verità. T’Larien è un tipo di preda speciale. Due dei nostri kethi sono morti per mano sua e Koraat giace morente con la spina dorsale spezzata. Non c’è mai stato un falsuomo che abbia fatto una fuga come questa. Lo voglio prendere io, è un mio diritto. Sono stato io a trovarlo, solo io».

«Sì», disse l’altra voce sconosciuta, quella pesante, tagliente. «Questo è abbastanza vero, Pyr. Come hai fatto a scoprirlo?».

Pyr era ben felice di avere la possibilità di vantare i suoi meriti. «Non sono stato tratto in inganno dall’aerauto, come invece è successo a te, e a te, e anche a Lorimaar. Era stato troppo intelligente, questo falsuomo e la vacca-betheyn che scappava con lui. Non era logico che lasciassero la macchina lì ferma, come se volessero indicare il posto in cui erano andati. Quando voi tutti avete sguinzagliato i vostri cani ed avete setacciato il corridoio, il mio teyn ed io abbiamo cominciato a cercare per il viale con le torce, per ritrovare una traccia. Sapevo che i cani non sarebbero serviti a niente. Io non ne avevo bisogno. Sono un miglior segugio io di qualsiasi cane, o ammaestratore di cani esistente. Ho fiutato un falsuomo in mezzo alle pietre nude delle Colline di Lameraan, in mezzo alle città morte devastate, perfino nelle granleghe abbandonate di Taal, Pugnodibronzo e di Monte Pietraluce. Queste due ultime azioni furono ridicolmente facili. Abbiamo controllato tutti i corridoi per la distanza di parecchi metri, poi passavamo a controllare più avanti. Così abbiamo trovato la traccia. C’erano le impronte di passi sul pavimento subito fuori da una rampa che conduceva alla sotterranea, poi delle tracce nella polvere che portavano dentro. Le tracce svanivano quando avevano cominciato ad usare gli aeroscooter, si capisce, ma a questo punto avevamo solo due possibili direzioni da prendere in considerazione. Temevo che avessero in mente di volare fino a Esvoch, o Kryne Lamiya, ma invece non era stato così. Ci è voluto quasi tutto il giorno ed una camminata che non finiva mai, ma alla fine li abbiamo presi».

A questo punto Dirk era quasi del tutto cosciente, anche se il suo corpo era ancora avvolto in un velo di dolore e dubitava che avrebbe risposto con efficienza se avesse cercato di muoversi. Riusciva a vedere benissimo. Pyr Braith camminava davanti con la torcia elettrica in mano e parlava ad un uomo più piccolo vestito di bianco e di porpora, che doveva essere Roseph, l’arbitro del duello che non si era mai fatto. Tra di loro c’era Gwen, che camminava da sola ed aveva sempre le mani legate. Lei non parlava. Dirk si chiese se fosse anche imbavagliata, ma era impossibile dirlo, poiché riusciva solo a vederla di schiena.

Lui era sdraiato in una lettiga di fortuna e ballonzolava ad ogni passo. Un altro Braith vestito di bianco e porpora sosteneva la parte anteriore, con i grandi pugni avvolti attorno alle sbarre di legno. Quello ossuto che rideva, il teyn di Pyr, era probabilmente dietro di lui, quindi all’altra estremità della lettiga. Si trovavano ancora nella galleria e camminavano; la metropolitana sembrava non finire mai e Dirk non poteva dire per quanto tempo fosse stato svenuto. Un bel po’, pensò; non c’era né Roseph, né la lettiga quando aveva cercato di sorprendere Pyr, di questo ne era ben sicuro. I suoi catturatori avevano probabilmente atteso nella galleria dopo aver chiamato i loro confratelli di granlega perché li aiutassero.

Nessuno sembrava rendersi conto che Dirk aveva aperto gli occhi. O forse lo avevano notato ma se ne fregavano. Lui non era in condizioni di far niente, tranne forse mettersi a gridare aiuto.

Pyr e Roseph continuavano a parlare, mentre gli altri due facevano dei commenti di tanto in tanto. Dirk tentò di ascoltare, ma il dolore non gli permetteva di concentrarsi facilmente, e poi quello che dicevano loro serviva a ben poco, sia a lui che a Gwen. Per lo più, pareva che Roseph stesse avvisando Pyr che Bretan Braith sarebbe stato molto sconvolto se Pyr avesse ucciso Dirk, dato che Bretan Braith voleva ucciderlo per conto suo. A Pyr non importava niente; da quel che diceva pareva chiaro che lui provasse pochissimo rispetto per Bretan, che era di due generazioni più giovane di tutti loro e perciò sospetto. I cacciatori non menzionarono i Ferrogiada in nessun punto della loro conversazione, il che portò Dirk alla conclusione che Jaan e Janacek non dovevano ancora essere arrivati, oppure questi quattro non erano ancora a conoscenza del loro arrivo.

Dopo un po’ smise di cercare di capire e si lasciò scivolare in una specie di dormiveglia. Le voci ridiventarono indistinte e continuarono per un gran tempo. Comunque alla fine si interruppero. Una delle due estremità della barella venne sbattuta rudemente a terra e Dirk venne bruscamente riportato alla realtà. Mani robuste lo presero sotto le ascelle e lo sollevarono.

Avevano raggiunto la stazione posta sotto Sfida ed il teyn di Pyr lo stava sollevando sulla piattaforma. Lui non cercò nemmeno di collaborare. Cercò di stare il più rigido possibile e lasciò che lo maneggiassero come se fosse stato un pezzo di carne morta.

Poi si ritrovò di nuovo sulla lettiga e loro lo trasportarono su per la rampa nella città vera e propria. Sulla piattaforma non lo avevano trattato con attenzione; ora aveva di nuovo la testa che gli girava. Accanto a lui passavano delle pareti blu pastello e lui si ricordò di quando erano scesi per la rampa la notte precedente. Chissà perché gli era sembrata una idea incredibilmente brillante quella di nascondersi nella sotterranea.

Le pareti scomparvero e si ritrovarono di nuovo a Sfida. Vide il grande albero Emereli, questa volta in tutta la sua robusta maestosità. Era un gigante rugoso, nero e blu, con i rami che si spingevano bassi sulla rotonda, mentre i rami più alti sfregavano contro il soffitto ombreggiato. Era sorto il giorno, si disse Dirk. Il cancello era rimasto aperto e lui riuscì a vedere attraverso le sue arcate Grasso Satana con un’unica stella gialla bassa sull’orizzonte. Dirk era davvero troppo sperduto e stanco per capire se stessero sorgendo o tramontando.

Due scafi di macchine Kavalari erano posati sulla strada presso l’ingresso alla metropolitana. Pyr si fermò accanto ad una e Dirk venne deposto sul pavimento. Cercò di mettersi a sedere, ma non ottenne nessun risultato. Le sue membra erano debolissime ed era ritornato il dolore, per cui si arrese e rimase sdraiato sulla schiena.

«Chiama gli altri», disse Pyr. «Queste sono cose che si devono sistemare qui e subito, in modo che il mio korariel potrà essere pronto per la caccia al più presto». Lui era in piedi sopra Dirk mentre parlava. Tutti si erano radunati accanto alla lettiga, anche Gwen. Era imbavagliata. E stanca. E senza speranze.

Ci volle più di un’ora prima che tutti i Braith fossero radunati; per Dirk fu un’ora in cui la luce cominciò a scomparire e le forze cominciavano a ritornargli. Era il tramonto, si rese conto all’improvviso; al di là del cancello Grasso Satana affondava lentamente e spariva alla vista. L’oscurità diventava sempre più spessa attorno a loro e più densa ingigantendo finché i Kavalari furono costretti ad accendere i fari delle loro macchine. A questo punto il senso di vertigine di Dirk era completamente scomparso. Pyr lo aveva notato, per cui gli aveva legate le mani dietro alla schiena e lo aveva messo seduto contro un fianco di un’aerauto. Misero Gwen accanto a lui, ma non le tolsero il bavaglio.

Anche se Dirk non era imbavagliato, non fece nessun tentativo di parlare. Rimase seduto con il freddo metallo contro la schiena e con i polsi che sfregavano contro i legacci. Aspettava, osservava ed ascoltava. Ogni tanto guardava verso Gwen, che però stava accasciata con la testa abbassata e non gli ritornava lo sguardo.

Vennero soli o a coppie. I kethi di Braith. I cacciatori di Worlorn. Vennero dalle ombre e dagli angoli bui. Simili a pallidi spettri. In un primo tempo erano solo un rumore e pallide figure, prima che si spostassero nel piccolo cerchio di luce e si ritrasformassero in uomini. Anche allora erano più che umani e meno che umani.

Il primo che arrivò conduceva quattro cani dal muso di topo e Dirk lo riconobbe perché lo aveva visto durante la folle corsa lungo la strada esterna. Il tipo attaccò i cani al paraurti della macchina di Roseph, salutò velocemente Pyr, Roseph ed i loro teyn, poi si sedette con le gambe incrociate a pochi metri dai prigionieri. Non parlò, non subito. Teneva gli occhi fissi su Gwen e non li spostò mai. Dirk sentiva i suoi cani che ringhiavano lì accanto nel buio, mentre le loro catene di acciaio si torcevano e sferragliavano.

Poi vennero gli altri. Lorimaar alto-Braith, un gigante bruno con un vestito nerissimo di tessuto camaleontino allacciato con pallidi bottoni d’osso. Arrivò a bordo di una macchina massiccia, rosso scura. Dentro, Dirk sentì abbaiare una muta di cani Braith. Con Lorimaar c’era un altro uomo, un uomo grasso e squadrato due volte più pesante di Pyr, col corpo duro e solido come mattone, il viso pallido e porcino. Dietro di loro, a piedi, veniva un vecchio dall’apparenza fragile, calvo e rugoso e quasi senza denti. Una mano era di carne e di ossa e l’altra era formata da tre punte che costituivano un artiglio di nero metallo. Il vecchio aveva una testa di bambino appesa alla cintura; stava sanguinando ancora e su una gamba dei suoi calzoni bianchi c’era la traccia marrone del sangue che era gocciolato.

Alla fine arrivò Chell, alto come Lorimaar, con i capelli bianchi, con i baffi e stanchissimo, conducendo un unico cane Braith. Arrivato al cerchio di luce si fermò e sbatté gli occhi.

«Dov’è il tuo teyn?», domandò Pyr.

«Eccomi». Una voce gracchiante dall’oscurità. A pochi metri di distanza si vedeva scintillare un’unica pietraluce. Bretan Braith Lantry si fece avanti e si mise vicino a Chell. Il suo viso ebbe un guizzo.

«Siamo tutti», disse Roseph alto-Braith a Pyr.

«No», obiettò qualcuno. «Manca Koraat».

Il cacciatore silenzioso parlò seduto presso il pavimento. «Non è più. Ha chiesto di morire. Io lo ho accontentato. Per la verità aveva una brutta frattura. È stato il secondo keth che ho visto morire oggi. Il primo è stato il mio teyn, Teraan Braith Nalarys». Mentre parlava non smise mai di fissare Gwen. Terminò con una frase lunga in Antico Kavalar, detta tutta d’un fiato.

«Tre dei nostri se ne sono andati», disse il vecchio.

«Dovremmo rispettare una pausa di silenzio per loro», disse Pyr. Teneva sempre in mano il suo bastone, con il pomo di legno duro ed il corto pugnale e lo batteva continuamente contro la gamba mentre parlava, proprio come faceva nella galleria.

Gwen cercò di gridare malgrado il bavaglio. Il teyn di Pyr, il Kavalar linfatico con i capelli neri, le fu subito sopra minaccioso.

Ma Dirk, che non era imbavagliato, aveva afferrato l’idea. «Non me ne starò zitto», gridò. O per lo meno tentò. La sua voce non era assolutamente in grado di gridare. «Erano degli assassini, tutti quanti. Con l’unico scopo di uccidere».

Tutti i Braith lo stavano guardando.

«Imbavagliatelo e fatelo smettere di strillare», disse Pyr. Il suo teyn si mosse rapidamente per eseguire l’ordine. Quando ebbe finito, Pyr parlò ancora. «Avrai tutto il tempo di strillare, Dirk t’Larien, quando scapperai nudo per la foresta e sentirai abbaiare i miei cani dietro di te».

La testa e le spalle di Bretan si voltarono goffamente. La luce scintillava sulla sua pelle devastata. «No», disse. «Sono stato io il primo a reclamarlo».

Pyr lo affrontò. «Sono stato io a catturare il falsuomo. È mio».

Bretan ebbe uno scatto. Chell, che teneva sempre il grosso cane per la catena avvolta attorno ad una delle grosse mani, posò l’altra mano sulla spalla di Bretan.

«Questa è una cosa che non mi interessa», disse un’altra voce. Il Braith che era seduto sul pavimento. Fissava. Immobile. «Che ne facciamo della puttana?».

Gli altri spostarono malvolentieri la loro attenzione. «Lei non è disponibile, Myrik», disse Lorimaar alto-Braith. «È di Ferrogiada».

Le labbra dell’uomo si ritrassero di scatto; per un momento il suo viso placido fu distorto da un’espressione selvaggia, diventò la faccia di una bestia, un rictus di emozioni. Poi passò. La sua espressione diventò di nuovo tranquilla, completamente sotto controllo. «Ammazzerò questa donna», disse. «Teraan era mio teyn. È stata lei che ha lasciato il suo spettro a vagare per un mondo senz’anima».

«Lei?». La voce di Lorimaar era incredula. «Dici la verità?».

«L’ho visto», rispose l’uomo sul pavimento, quello chiamato Myrik. «Le ho sparato addosso quando si è lanciata contro di noi, lasciando Teraan morente. Questa è la verità, Lorimaar alto-Braith».

Dirk cercò di alzarsi in piedi, ma il Kavalar smunto lo spinse di nuovo giù, violentemente e gli fece battere la testa contro il fianco metallico dell’aerauto, per sottolineare l’azione.

Allora parlò il fragile vecchio… il patriarca artigliato, che portava la testa di bambino. «Allora prendila come tua preda personale», disse, con la voce sottile e acuta come la lama del coltello da scuoiatore che portava appesa alla cintura. «La sapienza delle granleghe è vecchia e sicura, fratelli. Lei non è più una vera donna, ammesso che lo sìa mai stata, non è più una quasi-moglie e nemmeno una eyn-keth. C’è qualcuno che la reclama? Ella ha abbandonato la protezione del suo altolegato per scappare con un falsuomo! Anche se una volta è stata carne di uomo, adesso non lo è più. Voi conoscete i sistemi dei falsuomini, i bugiardi, i lupi mannari, i grandi truffatori. Solo con lei nel buio, questo falsuomo Dirk l’avrà sicuramente uccisa ed al suo posto avrà messo un demonio come lui, costruito con l’apparenza di lei».

Chell annuì affermativamente e disse qualcosa di profondo in Antico Kavalar. Gli altri Braith parevano meno sicuri. Lorimaar scambiava occhiate con il suo teyn, l’uomo grasso e squadrato. La spaventosa faccia di Bretan era indifferente, per metà maschera di tessuto scarnificato, per metà vuota innocenza. Pyr aggrottò la fronte e continuò a battere insistentemente con il suo bastone.

Fu Roseph a rispondere. «Quando sono stato arbitro al quadrato della morte, ho stabilito che Gwen Delvano era umana», disse scandendo le parole.

«Questo è vero», disse Pyr.

«Forse era umana allora», disse il vecchio. «Ma adesso ha assaggiato il sangue ed ha dormito con un falsuomo. Chi avrà il coraggio di chiamarla ancora umana?».

I cani cominciarono ad ululare.

I quattro che Myrik aveva legato alla macchina cominciarono la canizza, che fu continuata dalla muta che era chiusa dentro il veicolo a cupola di Lorimaar. Il cane enorme di Chell ringhiò e tirò la catena, finché il Braith più anziano ebbe uno scatto iroso; allora la creatura si accucciò e si uni agli ululati.

Quasi tutti i cacciatori puntarono lo sguardo nell’oscurità che li circondava (Myrik, con la faccia immobile come congelata era l’unica eccezione: gli occhi non abbandonavano mai Gwen Delvano). Più di uno si portò la mano alla fondina.

Ai bordi del cerchio, al di là delle aerauto e della pozza di luce, c’erano i due Ferrogiada, uno accanto all’altro nell’ombra.

Il dolore di Dirk — aveva la testa che gli martellava — gli parve improvvisamente di poca importanza. Il suo corpo tremava ed era scosso. Guardò Gwen; aveva alzato gli occhi verso di loro. Soprattutto verso Jaan.

Allora lui camminò verso la luce e Dirk vide che stava fissando Gwen quasi con la stessa fissità dell’uomo chiamato Myrik.

Pareva che si muovesse molto lentamente, come una figura di un sogno polveroso, come un uomo che dormisse. Garse Janacek gli era al fianco, vivo e concreto.

Vikary indossava un abito di tessuto camaleontino screziato, ombrato di nero contro zone più nere, quando entrò nel cerchio dei suoi nemici. Nel frattempo i cani si erano calmati e adesso il suo vestito era grigio polvere. Le maniche della camicia terminavano appena sotto i gomiti; ferro-e-pietraluce gli cingevano il braccio destro, giada-e-argento il sinistro. Per un istante senza fine apparve grandissimo. Chell e Lorimaar erano tutti e due più alti di una testa, eppure parevano più piccoli. Vikary dava la sensazione di dominare. Scivolò oltre loro, come un fantasma che camminava — pareva assolutamente irreale anche in quel posto — che camminava attraverso i Braith, come se non potesse vederli e si fermò vicino a Gwen e Dirk.

Ma era solo un’illusione. Il rumore dei cani era calato, i Braith cominciarono a parlare e Jaan Vikary si ritrasformò in un uomo come gli altri, più grosso di molti altri, ma ce n’erano anche di più grossi.

«Hai superato i limiti, Ferrogiada», disse Lorimaar con tono duro ed iroso. «Non vi abbiamo chiamati in questo posto. Non avete nessun diritto di stare qui».

«Falsuomini», li insultò Chell. «Falsi Kavalari».

Bretan Braith Lantry fece il suo verso singolare.

«Ti concedo la tua betheyn, Jaantony alto-Ferrogiada», disse con fermezza Pyr, ma il suo bastone si mosse con fretta nervosa. «Decretale il castigo che le è opportuno, che è giusto. Il falsuomo è mio, per la caccia».

Garse Janacek si era fermato qualche metro più in là. I suoi occhi si muovevano da uno all’altro che parlava e per due volte parve sul punto di replicare. Ma Jaan Vikary ignorò tutti quanti. «Togliete loro i bavagli», disse, agitando le mani verso i prigionieri.

Il teyn di Pyr, quello alto alto, era in piedi vicino a Dirk e Gwen, proprio di fronte all’altolegato Ferrogiada. Esitò per un lungo momento, poi si piegò e slegò i bavagli.

«Grazie», disse Dirk.

Gwen scosse il capo per allontanare i capelli dagli occhi e si alzò in piedi barcollando, con le mani sempre legate dietro alla schiena. «Jaan», disse con voce poco sicura. «Hai sentito?».

«Ho sentito», disse Vikary. Poi rivolto ai Braith: «Liberatele i polsi».

«Questa è supponenza, Ferrogiada», disse Lorimaar.

Tuttavia Pyr pareva curioso. Si appoggiò al suo bastone. «Liberatele le mani», disse.

Il suo teyn fece voltare rudemente Gwen ed usò il suo coltello per liberarla.

«Fammi vedere le braccia», disse Vikary a Gwen.

Lei esitò, poi mise le mani davanti a sé e le tese bene, con i palmi rivolti in basso. Sul braccio sinistro brillava la giada-e-argento. Non se l’era ancora tolta.

Dirk la osservò, debole e rassegnato, e sentì freddo. Lei non l’aveva ancora tolta.

Vikary abbassò gli occhi verso Myrik, che era sempre seduto con le gambe incrociate e gli occhietti fissi su Gwen. «Alzati in piedi».

L’uomo si alzò e si voltò a fronteggiare il Ferrogiada ed era la prima volta che staccava lo sguardo da Gwen da quando era arrivato. Vikary fece per parlare.

«No», disse Gwen.

Si stava soffregando i polsi. Poi si fermò e mise la mano destra sul braccialetto. La sua voce era ferma. «Non capisci Jaan? No. Se tu lo sfidi, se tu l’uccidi, allora me lo tolgo. Lo faccio».

Per la prima volta il viso di Jaan fu scosso dall’emozione, e quell’emozione era l’angoscia. «Tu sei la mia betheyn», disse. «Se io non… Gwen…».

«No», disse lei.

Uno dei Braith rise. A quel suono, Garse Janacek ghignò e Dirk vide uno spasimo selvaggio spuntare e sparire dal viso dell’uomo chiamato Myrik.

Se Gwen lo notò, non vi fece caso. Si mise di fronte a Myrik. «Io ho ucciso il tuo teyn», disse lei. «Io. Non Jaan. Nemmeno il povero Dirk. Sono stata io ad ucciderlo, lo ammetto. Lui ci stava dando la caccia, come te. E stava anche uccidendo gli Emereli».

Myrik non disse niente. Tutti erano immobili.

«Se proprio devi fare il duello, allora, se mi vuoi veramente morta, combatti con me!», continuò Gwen. «Io lo farò. Combatti con me se la tua vendetta è così importante».

Pyr rise rumorosamente. Alcuni attimi dopo il suo teyn si uni alla risata, e poi Roseph, poi molti altri… il grassone, il compagno di Roseph dalla faccia rigida e squadrata, il vecchio uncinato. Ridevano tutti.

La faccia di Myrik divenne rosso-porpora, poi bianca, poi di nuovo cupa. «Vacca-betheyn», disse. Il solito tremito gli attraversò di nuovo la faccia e questa volta lo videro tutti. «Mi vuoi prendere in giro. Un duello è… il mio teyn… e tu sei una donna!».

Terminò con un urlo che fece sobbalzare gli uomini e fece di nuovo ululare i cani. Poi scattò.

Sollevò le mani sulla testa, le strinse e le apri, poi colpi Gwen sulla faccia quando lei cercò di allontanarsi dalla sua rabbia, poi si lanciò improvvisamente su di lei. Le mise le dita attorno alla gola e la spinse avanti e Gwen cadde sulla schiena. Poi cominciarono a rotolarsi sul pavimento fino a quando sbatterono duramente contro il fianco di una macchina. Myrik era sempre ben sopra, con Gwen appiccicata sotto di lui e cercava di infilare profondamente le dita nel collo della donna. Allora lei lo colpi, forte sulla mascella, ma nella sua rabbia lui parve quasi non accorgersene. Cominciò a sbattere la testa della donna contro la macchina, una, due, tre volte, gridando in Antico Kavalar.

Dirk cercò di tirarsi in piedi, ma rimase immobile con le mani legate. Garse fece due rapidi passi in avanti e finalmente si mosse anche Jaan Vikary. Ma il primo a raggiungere Myrik fu Bretan Braith Lantry, che lo allontanò da lei mettendogli una mano attorno al collo. Myrik batté selvaggiamente l’aria con le mani, finché Lorimaar si unì a Bretan e tra tutti e due riuscirono a tener fermo l’uomo.

Gwen giaceva immobile, con la testa contro la lastra di metallo che serviva da porta, contro cui l’aveva sbattuta Myrik. Vikary si inginocchiò al suo fianco, su di un ginocchio solo, e cercò di metterle un braccio attorno alle spalle. La parte posteriore del capo lasciò una traccia di sangue sul fianco della macchina.

Si inginocchiò anche Janacek, rapidamente e le senti il polso. Soddisfatto si alzò di nuovo in piedi e si voltò a guardare in faccia i Braith, con il viso teso dalla rabbia. «Indossava giada-e-argento, Myrik», disse. «Tu sei un uomo morto. Ti lancio la sfida».

Myrik aveva smesso di gridare, anche se era ansante. Un cane ululò e poi rimase zitto.

«È viva?», chiese Bretan con la sua voce di cartavetrata.

Jaan Vikary sollevò lo sguardo verso di lui e il suo viso era strano e tirato come quello di Myrik pochi istanti prima. «È viva».

«È stata una fortuna», disse Janacek, «ma non certo per merito tuo, Myrik, del resto non fa nessuna differenza. Fai le tue scelte!».

«Scioglietemi!», disse Dirk. Nessuno si mosse. «Scioglietemi!», gridò.

Qualcuno gli tagliò i legacci.

Si avvicinò a Gwen, inginocchiandosi vicino a Vikary. Per un momento i loro occhi si incontrarono. Dirk esaminò la parte posteriore del capo di Gwen, dove i capelli neri si stavano già incrostando di sangue coagulato. «È per lo meno una commozione cerebrale», disse. «Forse c’è anche la frattura del cranio, forse peggio. Non lo so. Ci sono dei servizi medici?». Guardò tutti quanti. «Ci sono.

Rispose Bretan. «Non ce n’è nessuno in funzione a Sfida, t’Larien. La Voce mi ha dato battaglia. La città non ha voluto aiutarmi ed io ho dovuto ucciderla».

Dirk ghignò. «Allora questa donna non deve essere spostata. Può darsi che sia solo una commozione cerebrale. Immagino che debba riposare».

Incredibilmente, Jaan Vikary la lasciò tra le braccia di Dirk e si alzò in piedi. Fece un cenno a Lorimaar e Bretan, che tenevano imprigionato Myrik. «Lasciatelo».

«Lasciatelo…?». Janacek lanciò uno sguardo perplesso a Vikary.

«Jaan», disse Dirk, «non preoccuparti di lui. Gwen…».

«Portala dentro la macchina», disse Vikary.

«Penso che non dovremmo spostarla…».

«Qui non è al sicuro, t’Larien. Portala dentro la macchina».

Janacek corrugò la fronte. «Mio caro teyn.

Vikary si mise di nuovo di fronte ai Braith. «Vi ho detto di lasciare quest’uomo». Fece una pausa. «Questo falsuomo, come direste voi. Si è ben meritato questo nome».

«Che cosa vuoi dire, alto-Ferrogiada?», disse severamente Lorimaar.

Dirk sollevò Gwen e la posò piano sui sedili posteriori dell’aerauto più vicina. Era inerte, ma respirava ancora regolarmente. Poi scivolò al sedile di guida ed attese, massaggiandosi i polsi per ristabilire la circolazione.

Pareva che tutti lo avessero dimenticato. Lorimaar alto-Braith parlava ancora. «E conosciamo il tuo diritto di affrontare Myrik, ma deve essere un duello singolo, poiché Teraan Braith Nalarys giace ucciso. Dato che il tuo teyn è stato il primo a sfidarlo…».

Jaan Vikary aveva la pistola laser in mano. «Lasciatelo e mettetevi da parte».

Lorimaar sobbalzò, lasciò andare il braccio di Myrik e si fece rapidamente da parte. Bretan esitò. «Alto-Ferrogiada», gracchiò, «per il tuo onore e per il suo, per la tua granlega e per il tuo teyn, metti via la pistola».

Vikary mirò verso il giovane con mezza faccia. Bretan ebbe un tic, poi lasciò andare Myrik e si gettò all’indietro incassando grottescamente la testa tra le spalle.

«Che cosa succede?», stava domandando il vecchio con una mano sola, con voce tremolante. «Che cosa fa?», tutti lo ignorarono.

«Jaan», disse Garse Janacek con orrore. «Questo fatto ti ha messo fuori posto il cervello. Abbassa la pistola, mio teyn. L’ho sfidato io. Lo ucciderò per te». Posò la mano sul braccio di Jaan.

E Jaan Vikary diede uno strattone per liberarsi e puntò l’arma su Garse. «No. Stai indietro. Non devi intrometterti, non adesso. Questo è per lei».

Il viso di Janacek si incupì; adesso non rideva, non aveva nessuna battuta da dire. La mano destra gli si trasformò in un pugno che sollevò di fronte alla faccia. Ferro-e-pietraluce scintillava a mezz’aria tra i due Ferrogiada. «Il nostro vincolo», disse Janacek. «Pensaci, mio teyn. Il mio onore e i tuoi onori e quelli della nostra granlega». La sua voce era solenne.

«E che mi dici del suo onore?», disse Vikary. Agitando con impazienza il laser, fece allontanare Janacek da sé e si voltò di nuovo verso Myrik.

Solo e confuso, Myrik pareva non sapere che cosa ci si aspettasse da lui. La rabbia lo aveva abbandonato, anche se continuava a respirare affannosamente. Un po’ di bava, tinta di rosa dal sangue, gli scendeva da un angolo della bocca. Si pulì con il dorso della mano e fissò incerto Garse Janacek. «La prima delle quattro scelte», cominciò con voce vacillante. «Faccio la scelta del modo».

«No», disse Vikary. «Tu non hai nessuna scelta. «Guardami in faccia, falsuomo».

Myrik spostò lo sguardo da Vikary a Janacek e poi di nuovo a Vikary. «La scelta del modo»; ripeté supinamente.

«No», disse di nuovo Vikary. «Tu non hai dato nessuna scelta a Gwen Delvano, a lei che ti aveva affrontato secondo le regole in duello».

La faccia di Myrik si contorse esprimendo autentico terrore. «Lei? In duello? Io… ma era una donna, un falsuomo». Fece un cenno col capo, come a dire che era tutto sistemato. «Ma era una donna, Ferrogiada. Sei diventato matto? Mi prendeva in giro. Una donna non fa duelli».

«E tu non puoi duellare, Myrik. Mi capisci? Davvero? Tu»sparò ed un impulso da mezzo secondo, luminoso colpì Myrik in basso, tra le gambe, in modo da farlo urlare…

«non»e sparò di nuovo e bruciò Myrik al collo, proprio sotto il mento e poi aspettò che l’uomo cadesse per terra ed il laser si ricaricasse…

«puoi», continuò, quindici secondi dopo e con la parola arrivò un raggio di luce che bruciò la figura accartocciata in mezzo al petto e già Vikary stava camminando all’indietro, verso l’aerauto…

«duellare!», finì, mezzo fuori e mezzo dentro la macchina e con la parola ci fu un movimento del polso ed un quarto di raggio di luce e Lorimaar alto-Braith Arkellor cadde, con la pistola già mezzo estratta.

Poi la porta venne sbattuta e Dirk trasse la griglia gravitazionale e scattarono verso l’alto e in avanti, verso l’esterno. Erano quasi arrivati all’arco di uscita quando i laser cominciarono a sibilare e a colpire l’armatura.

10

Era piena notte sul Comune. L’aria era di nero cristallo, chiara e gelida. I venti erano cattivi. Dirk si rallegrò di essere in una macchina dall’armatura pesante, come era quella dei Braith, con una cabina riscaldata, completamente chiusa.

Mantenne l’apparecchio ad un centinaio di metri dalle pianure e dalle basse colline e spinse la macchina alla maggior velocità che riusciva a mantenere. Una volta, dopo che Sfida era ormai lontana all’orizzonte, Dirk si voltò indietro per vedere se c’era qualcuno che li inseguiva. Non vide nessuno, ma la città Emereli si vedeva ancora e lui la fissò affascinato. Era diventata una lancia lunga e nera, che dopo un attimo non fu più visibile nel cielo ancor più nero. Gli ricordava un po’ un grande albero carbonizzato dall’incendio della foresta, senza più rami né foglie, un semplice bastone bruciato color fuliggine, semplice eco della gloria precedente. Si ricordò di Sfida, così come gliel’aveva mostrata Gwen la prima volta, quando lui gli aveva chiesto di poter vedere una città viva: scintillava contro il cielo serale, impossibilmente alta e d’argento scintillante, incoronata da ondate di luce che salivano verso l’alto. Adesso era un involucro morto e morti pure i sogni dei suoi costruttori. I cacciatori di Braith uccidevano ben più che uomini e animali.

«Ci saranno dietro abbastanza presto, t’Larien», disse Jaan Vikary. «Puoi anche fare a meno di cercarli».

Dirk riportò la sua attenzione agli strumenti. «Dove andiamo? Non possiamo volare alla cieca sul Comune per tutta la notte, senza andare in nessun posto particolare, Larteyn?».

Non possiamo rischiare di ritornare a Larteyn adesso», rispose Vikary. Aveva rinfoderato il laser, ma aveva la faccia feroce come quando aveva arrostito Myrik a Sfida. «Sei così stupido da non capire ciò che ho fatto? Ho infranto il codice, t’Larien. Ormai sono un fuorilegge, un criminale, un infrangi-duello. Ora mi inseguiranno e mi uccideranno come un qualsiasi falsuomo». Si mise le mani annodate sotto il mento, pensando. «La cosa migliore… non lo so. Forse non abbiamo speranze di nessun genere».

«Parla per te. Io ho un bel po’ di speranze in più di quante ne avevo un minuto fa, laggiù.

Vikary lo guardò e sorrise malgrado tutto. «Vero. Anche se questo è un punto di vista piuttosto egoistico. Non è stato per te che ho fatto ciò che ho fatto».

«Per Gwen?».

Vikary annui. «Lui… lui non le ha concesso nemmeno l’onore di rifiutare. Come se si trattasse di un animale. Eppure… eppure per il codice aveva ragione lui. Il codice per cui ho vissuto. Per difendere il codice lo avrei anche ucciso. Intendo Garse come forse avevi capito. Lui era arrabbiato perché Myrik aveva… aveva danneggiato la sua proprietà, aveva oscurato il suo onore. Lui avrebbe vendicato l’offesa, se glielo avessi lasciato fare». Sospirò. «Ma hai capito perché non ho potuto t’Larien? Davvero? Io avevo vissuto su Avalon ed avevo amato Gwen Delvano. E lei era là, viva solo per un caso fortuito. A Myrik Braith non sarebbe importato un accidenti se lei viveva o moriva e lo stesso valeva per gli altri. Eppure Garse aveva promesso a quell’uomo che per questa cosa lui si era meritata una morte soddisfacente e gli avrebbe dato il bacio dell’onore condiviso prima di prendersi la sua misera vita… Io… io voglio bene a Garse. Ma non lo potevo proprio lasciar fare. t’Larien, non con Gwen in quelle condizioni, così… così immobile ed ignorata. Non era cosa che potevo lasciar passare».

Vikary rimase zitto, a rimuginare. Nei momenti di quiete, Dirk riusciva a sentire i gemiti dei venti di Worlorn all’esterno.

«Jaan», disse Dirk dopo un po’, «dobbiamo ancora decidere dove andare. Dobbiamo portare Gwen in un posto coperto. Un posto dove possa starsene comoda e dove non sia disturbata. Magari sarebbe bene trovare un dottore e farla visitare».

«Non conosco dottori su Worlorn», disse Vikary. «Comunque, dobbiamo portare Gwen in una città». Considerò la situazione. «La più vicina è Esvoch, ma la città è tutta una rovina. Il posto migliore è allora Kryne Lamiya, direi, dato che è la seconda città in ordine di vicinanza a Sfida. Volta a sud».

Dirk fece fare un ampio arco alla macchina, scivolando verso l’alto e dirigendosi verso la lontana linea di montagne. Si ricordava vagamente la strada che Gwen aveva fatto per andare dalla scintillante torre di di-Emerel, fino alla città-foresta di Cupalba con la sua musica lugubre.

Mentre volavano verso le montagne, Vikary riprese a rimuginare tra sé, fissando con gli occhi ciechi il buio della notte di Worlorn. Dirk riusciva a capire abbastanza bene ciò che doveva provare il Kavalar in quel momento e non fece niente per spezzare la sua malinconia, ma si ritirò invece nella sua personale sfera di silenzio. Si sentiva assai debole; il mal di testa era ritornato a tormentarlo e sentiva chiaramente una specie di ruvida aridità nella gola e sulla bocca. Cercò di ricordare quando aveva bevuto o mangiato, ma non ci riuscì; per qualche ragione aveva perso il computo del tempo.

I grandi picchi di Worlorn, che parevano antracite, apparvero vicinissimi e Dirk fece salire più in su la macchina dei Braith per superarli, ma né lui né Jaan Vikary dissero una parola. Solo dopo aver superato le montagne, mentre sorvolavano la foresta, il Kavalar parlò ancora, ma solo per fornire delle lucide indicazioni sulla rotta da seguire. Dopo di che ricadde nei suoi pensieri e volarono in silenzio per desolati chilometri, verso la loro meta.

Questa volta Dirk sapeva cosa doveva aspettarsi, così stette in ascolto. Gli giunse alle orecchie la musica di Kryne Lamiya, un pianto sottile nel vento, parecchio tempo prima che la città sorgesse dalle foreste per sommergerli. Fuori dal loro rifugio corazzato non c’era nient’altro che il vuoto: le intricate foreste notturne sotto di loro, il cielo povero di stelle, vuoto, in alto. Note di cupa disperazione vennero parlando, tintinnando e raggiungendo Dirk nel suo sedile.

Anche Vikary sentì la musica. Guardò Dirk. «Questa è proprio una città adatta per noi, in questo momento, t’Larien».

«No», disse Dirk, troppo forte, perché non voleva crederci.

«Be’, per me allora. Tutto il mio lavoro è andato in fumo. La gente che speravo di salvare, adesso non la salverà più nessuno. I Braith adesso li potranno cacciare tutti quanti, korariel di Ferrogiada, o no. Non potrò fermarli. Forse Garse, ma cosa potrà mai fare un uomo da solo? È addirittura inutile provarci. Ero io che insistevo, non lui. Anche Garse è perduto. Dovrà ritornare da solo ad Alto Kavalaan, penso, e scenderà da solo nelle granleghe di Ferrogiada e il consiglio degli altolegati cancellerà i miei nomi. Dovrà trovare un coltello per scalzare le pietraluci dalla loro incastonatura e portare il ferro vuoto alla destra. Il suo teyn è morto».

«Magari su Alto Kavalaan», disse Dirk. «Ma tu hai vissuto anche su Avalon, ricordi?».

«Sì», disse Vikary. «Purtroppo, purtroppo».

La musica si fece più forte e rimbombò attorno a loro e sotto prese forma la Città Sirena: il cerchio esterno di torri pareva formato di mani senza carne in un’agonia ghiacciata, i ponti pallidi attraversavano canali scuri, i prati formati da muschio che scintillava leggermente, le spirali sibilanti che si conficcavano nei venti. Una città bianca, una città morta, una foresta di ossa acuminate.

Dirk volò in cerchio, fino a ritrovare lo stesso edificio in cui era già stato con Gwen e cominciò a scendere. Sulla terrazza c’erano ancora i due apparecchi abbandonati, che giacevano indisturbati, sprofondati nella polvere. A Dirk parevano i frammenti d’un sogno da tempo dimenticato di qualcun altro. Una volta, per qualche ragione, gli erano sembrati importanti; ma allora lui, Gwen ed il mondo erano stati ben diversi, allora, ed ora era difficile ricordarsi perché erano stati importanti quei due spettri di metallo.

«Tu sei già stato qui prima», disse Vikary e Dirk lo guardò ed annuì. «Allora, fa strada», ordinò il Kavalar.

«Io non…».

Ma Vikary era già in piedi. Aveva preso gentilmente Gwen tra le braccia, sollevandola da dove era sdraiata e stava aspettando. «Fa strada», disse di nuovo.

Così Dirk lo guidò lontano dalla terrazza, nelle stanze dove delle figure murali danzavano alla sinfonia di Cupalba, bianco e grigie. Provarono tutte le porte, finché riuscirono a trovare una stanza con dei mobili. In effetti era un insieme di quattro stanze diverse, desolate e con i soffitti alti e tutt’altro che pulite. I letti — due delle stanze erano camere da letto — erano dei fori circolari, profondamente infossati nel pavimento; i materassi erano ricoperti da una pelle oleosa, senza cuciture, che aveva un odore sgradevole, simile a latte acido. Comunque erano letti, abbastanza soffici ed un posto adatto per riposare. Vikary sistemò il corpo di Gwen con attenzione. Vedendo che riposava tranquilla — pareva quasi serena — Jaan lasciò Dirk presso il letto, con le gambe ripiegate sotto di sé, sul pavimento ed uscì a controllare l’aerauto che avevano rubato. Ritornò dopo poco con una coperta per Gwen ed una borraccia.

«Bevi solo una sorsata», disse, dando l’acqua a Dirk.

Dirk prese la bottiglia di metallo coperta di tela, girò il tappo e trasse un unico sorso, poi la restituì. Il liquido era tiepido e leggermente amaro, ma era piacevole sentirlo scendere giù per la gola secca.

Vikary inumidì una striscia di tela grigia e cominciò a pulire il sangue raggrumato sulla nuca di Gwen. Tamponò piano l’incrostazione marrone, continuando ad inumidire più volte lo straccio, finché i suoi sottili capelli neri furono sufficientemente puliti, aperti come un lucido ventaglio sul materasso, luccicanti per l’opportuna luce proveniente dalle figure murali. Quando ebbe finito, la bendò e fissò Dirk. «La veglio io», disse. «Va nell’altra stanza e cerca di dormire».

«Dovremmo parlare», disse Dirk esitante.

«Più tardi, allora. Non adesso. Va a dormire».

Dirk non aveva la forza per discutere; il suo corpo era disfatto e la testa aveva ripreso a pulsare. Andò nell’altra stanza e cadde scompostamente sul materasso dall’odore acido.

Ma il sonno non venne facilmente, malgrado la stanchezza. Forse era colpa del mal di testa; forse era il fastidioso movimento della luce che correva sulle pareti, che lo braccava anche se teneva gli occhi chiusi. Ma soprattutto era la musica. Che non lo abbandonava e pareva echeggiare più forte quando chiudeva gli occhi, come se fosse rimasta intrappolata tra le ossa del suo cranio: sibili acuti e sottili, gemiti e fischi ed ancora — sempre — il rombare di un tamburo solitario.

Pochi sogni attraversarono quella notte senza fine… visioni intense e surreali, piene di ansia bollente. Dirk per tre volte fu costretto a mettersi a sedere sul letto, risvegliato da un sonno agitato… tremava, aveva la pelle umida e fredda… e si trovava di fronte la solita canzone di Lamiya-Vailis, senza mai ricordarsi di ciò che lo aveva svegliato. Una volta, credette di sentire delle voci nella stanza vicina. Un’altra volta fu quasi certo di vedere Jaan Vikary seduto contro la parete più lontana che lo osservava. Nessuno dei due parlò e Dirk impiegò quasi un’ora per riaddormentarsi. Solo per risvegliarsi di nuovo, nella stanza echeggiante, piena di luci mobili. Si chiese per un momento se lo avessero abbandonato per la sua strada; più ci pensava e più era spaventato e tremava sempre di più. Ma chissà perché non poteva alzarsi, non aveva il coraggio di andare nella stanza vicina a vedere. Invece chiudeva gli occhi e cercava di allontanare tutti i ricordi.

E poi venne l’alba. Grasso Satana era a mezzo cielo e da una finestra alta con un vetro colorato (al centro era prevalentemente chiara, ma tutto attorno c’era un sobrio disegno marrone e rosso e grigio fumo) si riversava una luce rossa e febbrile, fredda come gli incubi di Dirk e batteva sul suo volto. Si allontanò rotolando e cercò di mettersi a sedere. In quel momento apparve Jaan Vikary che gli offrì la borraccia.

Dirk bevve parecchi lunghi sorsi, quasi soffocandosi con l’acqua fredda. Un po’ d’acqua si versò fuori dalle sue labbra secche e screpolate e gli ruscellò sul mento. Quando Jaan gliela aveva data, la borraccia era piena e lui gliela restituì mezza vuota. «Hai trovato l’acqua», disse.

Vikary chiuse di nuovo la borraccia ed annui. «Le stazioni di pompaggio sono state chiuse da anni, per cui non c’è acqua fresca nelle torri di Kryne Lamiya. Però ci sono ancora i canali. Sono sceso questa notte, mentre tu e Gwen dormivate».

Dirk si alzò in piedi barcollando e Vikary allungò una mano per aiutarlo ad uscire dal letto incassato. «Gwen è…?».

«Ha ripreso conoscenza nelle prime ore della notte, t’Larien. Abbiamo parlato e le ho detto ciò che avevo fatto. Penso che si riprenderà abbastanza presto».

«Posso parlarle?».

«Si sta riposando adesso, dormendo normalmente. Più tardi sono sicuro che vorrà parlarti, ma per il momento non credo che dovresti svegliarla. Questa notte ha cercato di mettersi a sedere, ma barcollava e le veniva la nausea».

Dirk annuì. «Capisco. E tu? Hai dormito?». Parlando guardava verso la loro stanza. La musica di Cupalba era un po’ diminuita. Si sentiva ancora, gemeva e si lamentava e permeava l’atmosfera di Kryne Lamiya; ma le orecchie la percepivano debole e distante, forse perché cominciavano ad abituarsi ed imparavano ad escluderla dalla coscienza. I murali luminosi, come le pietreluci di Larteyn, erano sbiaditi e morivano nei punti dove batteva il sole; i muri erano grigi e vuoti. I mobili che erano nella stanza — poche sedie dall’aspetto scomodo — uscivano dalle pareti e dal pavimento: estrusioni contorte che si adattavano al colore e ai toni della camera talmente bene da risultare quasi invisibili.

«Ho dormito abbastanza», stava dicendo Vikary. «È una cosa senza importanza. Ho pensato alla nostra posizione». Fece un gesto con la mano. «Vieni»

Andarono in un’altra stanza, una stanza da pranzo vuota, poi uscirono su uno dei molti balconi che si affacciavano sulla città Cupalba. Vista di giorno, Kryne Lamiya era diversa, meno disperata; anche il debole sole di Worlorn era sufficiente a far scintillare la veloce acqua che riempiva i canali e nell’eterno crepuscolo le pallide torri apparivano meno sepolcrali.

Dirk era debole ed aveva molta fame, ma il suo mal di testa era andato via ed il vento frizzante contro il volto lo faceva star bene. Si allontanò i capelli dagli occhi — i capelli erano tutti annodati e stopposi — e aspettò di sentire Jaan.

«Ho guardato da qui durante la notte», disse Vikary, con i gomiti sulla fredda ringhiera e gli occhi che frugavano l’orizzonte. «Ci stanno cercando, t’Larien. Per due volte ho visto delle macchine sulla città. La prima volta era solo una luce, alta e distante, per cui può darsi che mi sia sbagliato. Ma la seconda volta non posso essermi sbagliato. Era la macchina a testa di lupo di Chell che volava rasoterra sui canali, con un faro attaccato. È passato vicinissimo. C’era anche un cane. Ho sentito che abbaiava come impazzito per la musica di Cupalba».

«Non ci hanno trovati», disse Dirk.

«Vero», rispose Vikary. «Penso che qui siamo abbastanza al sicuro, per un po’. A meno che… Non so bene come hanno fatto a trovarvi a Sfida e la cosa mi spaventa. Se seguono la nostra pista fino a Kryne Lamiya e setacciano la città con i cani Braith, siamo in un grosso pericolo. Ormai non abbiamo più annulla-scia». Guardò Dirk. «Come hanno fatto a sapere dove eravate fuggiti? Hai qualche idea?».

«No», disse Dirk. «Non lo sapeva nessuno. Certamente non ci ha seguiti nessuno. Può darsi che l’abbiano semplicemente indovinato. Era la scelta più logica, dopotutto. La vita era più comoda a Sfida che in qualsiasi altra città. Più facile. Capito?».

«Si, lo so. Ma non accetto la tua teoria, però. Ricordati, t’Larien, che anche Garse ed io abbiamo preso in considerazione questo problema, quando tu ci hai svergognati abbandonandoci al quadrato della morte. Sfida era la scelta più ovvia, e quindi la meno logica, abbiamo pensato. Sembrava più probabile che sareste andati a Musquel vivendo con il pesce che riuscivate a pescare, oppure che Gwen avesse pensato per tutti e due procurando cibo nella foresta che lei conosceva così bene. Garse aveva anche suggerito che potevate semplicemente aver nascosto la macchina per rimanere in qualche altra sezione di Larteyn, in modo da poterci far fessi mentre vi cercavamo per tutto il pianeta».

Dirk si innervosì. «Si. Be’, immagino che la nostra scelta sia stata stupida».

«No, t’Larien, non direi così. L’unica scelta stupida, penso sarebbe stata quella di scappare verso la Città nella Palude Senzastelle, dove si sapeva che i Braith erano a frotte. Sfida era una scelta sottile, sia che fosse stata fatta apposta o no. Pareva una scelta così sbagliata che in effetti era l’unica giusta. Mi capisci? Non riesco a vedere come abbiano fatto i Braith a scoprirlo con un semplice processo deduttivo».

«Forse», disse Dirk. Ci pensò un momento. «Ricordo che il primo che abbiamo sentito è stato Bretan, che ci ha parlato. Lui… Be’, non stava verificando una teoria. Lui sapeva che noi eravamo là da qualche parte».

«E non hai nessuna idea di come facesse?».

«No. Nessuna idea».

«Allora dovremo vivere con la paura che ci trovino anche qui. Altrimenti, a meno che i Braith non possano ripetere il miracolo, saremmo al sicuro.

«Devi capire, però, che la nostra posizione non è priva di difficoltà. Abbiamo un tetto e acqua a volontà, ma non abbiamo cibo di nessun genere. La prossima volta che usciamo all’aperto — dobbiamo andare allo spazioporto ed abbandonare Worlorn al più presto possibile, non c’è altra possibilità — la prossima volta che usciamo sarà molto difficoltoso. I Braith ci anticiperanno. Noi abbiamo la mia pistola a laser e due laser da caccia che ho trovato nell’aerauto. Più la macchina, armata e corazzata bene, che dovrebbe appartenere probabilmente a Roseph alto-Braith Kelcek…».

«Uno dei relitti sulla terrazza è ancora parzialmente funzionante», intervenne Dirk.

«Allora abbiamo due aerauto, se dovessimo averne bisogno», disse Vikary. «Contro di noi ci sono otto dei cacciatori Braith ancora vivi e probabilmente nove… Non sono sicuro, di aver colpito gravemente Lorimaar Arkellor. È possibile che l’abbia ucciso, ma sono propenso a dubitarne. Probabilmente i Braith possono mettere in cielo otto macchine, se lo credono opportuno, benché sia più tradizionale volare assieme, teyn-e-teyn. Tutte le macchine saranno corazzate. Hanno delle riserve, energia, cibo. Ci superano di gran numero. Può darsi, dato che io sono un fuorilegge infrangi-duello, che facciano pressione su Kirak Rossacciaio Cavis e sui due cacciatori della Fortezza di Scianagate perché si uniscano a loro nella mia ricerca. Infine, c’è Garse Janacek».

«Garse?».

«Io spero — prego — che si tolga la pietraluce dal braccio e ritorni su Alto Kavalaan. Si vergognerà, sarà solo se porterà solo il ferro. Non è un destino facile, t’Larien. È in disgrazia per causa mia, come tutta Ferrogiada. Mi dispiace che lui sia nei guai, però spero che vada a finire così. Però c’è anche un’altra possibilità, vedi».

«Un’altra…?».

«Potrebbe cacciarci. Lui non può abbandonare Worlorn fino a quando non verrà la nave. E per questo ci vorrà un po’ di tempo. Non so cosa farà lui».

«Non si unirà di sicuro ai Braith. Loro sono suoi nemici e tu sei il suo teyn e Gwen è la sua cro-betheyn. Può darsi che voglia uccidere me, questo è certo, ma…».

«Garse è più Kavalar di me, t’Larien. Lo è sempre stato. E adesso ancor più di prima, dato che io non sono più un Kavalar dopo quello che ho fatto. I vecchi usi insegnano che il teyn di un uomo debba portare la morte ad un infrangi-duelli, non meno degli altri. È un uso che può essere seguito solo dai più forti. Per molti, il vincolo del ferro-e-pietraluce è troppo stretto, per cui li si lascia da soli a piangere. Comunque Garse Janacek è un uomo molto forte, in un certo senso anche più forte di me. Non so. Non so».

«E se ci venisse dietro?».

Vikary parlò con calma. «Non potrei sollevare un’arma contro Garse. Lui è il mio teyn, anche se io non sono più il suo e gli ho fatto già abbastanza male, ho causato il suo fallimento, gli ho gettato addosso la vergogna. Per causa mia lui ha dovuto sopportare una dolorosa ferita per la maggior parte della sua vita da adulto. Una volta, quando eravamo giovani tutti e due, un uomo più anziano accusò offesa per uno dei suoi scherzi e lanciò la sfida. Il modo era il colpo-solo e combattemmo teynati e nella mia saggezza non proprio infinita, convinsi Garse che avremmo dimostrato il nostro onore se avessimo sparato in aria. Purtroppo facemmo proprio così. Gli altri due decisero di insegnare una lezione di umorismo a Garse. Con mia grande vergogna mi lasciarono illeso, mentre lui venne sfigurato a causa della mia stupidità.

«Eppure non mi ha mai rimproverato. La prima volta che lo vidi dopo il duello, quando stava ancora riprendendosi dalle ferite, mi disse: "Avevi ragione Jaantony, hanno proprio mirato in aria anche loro. peccato che abbiano sbagliato la mira"». Vikary rise, ma Dirk lo guardò e vide che aveva gli occhi pieni di lacrime, la bocca tesa e amara. Però non piangeva; con uno sforzo di volontà immenso riuscì a tenere indietro le lacrime.

All’improvviso Jaan si voltò e ritornò dentro, lasciando Dirk da solo sul balcone con i venti della bianca città del crepuscolo e la musica di Lamiya-Bailis. Lontano, sull’orizzonte si alzavano le bianche mani tese, che trattenevano la foresta usurpante. Dirk le studiò, pensoso, riflettendo sulle parole di Vikary.

Dopo qualche minuto il Kavalar ritornò, con gli occhi asciutti e la faccia priva di emozioni. «Mi dispiace», cominciò.

«Non è necessario…».

«Dobbiamo arrivare al punto cruciale, t’Larien. Che Garse mi dia la caccia o no, abbiamo sempre dei vantaggi formidabili. Abbiamo le armi, ammesso che ci sia da combattere, ma non c’è chi le può usare. Gwen è una brava tiratrice, abbastanza coraggiosa, ma è ferita e non sta bene in piedi. E tu… mi posso fidare di te? Te lo dico chiaro. Ho già avuto fiducia in te una volta e tu mi hai tradito».

«Come faccio a rispondere a questa domanda?», disse Dirk. «Tu non sei costretto a credere a tutte le promesse che faccio. Ma anche i Braith mi volevano uccidere, ti ricordi? E volevano uccidere anche Gwen. O magari credi che avrei tradito anche lei con la stessa…». Si fermò terrorizzato da ciò che stava dicendo.

«… con la stessa facilità con cui lo hai fatto a me», terminò per lui Vikary con un sorriso duro. «Sei piuttosto schietto. No, t’Larien, non penso che tu avresti tradito Gwen. Comunque non pensavo che tu ci avresti abbandonato, nemmeno quando io ti avevo nominato keth e tu avevi accettato il nome. Noi non avremmo duellato, se non fosse stato per te».

Dirk annui. «Lo so. Forse ho fatto un errore. Non lo so. Però sarei morto, se avessi avuto fiducia in te».

«Moriva un keth di Ferrogiada, con onore».

Dirk sorrise. «Gwen mi attraeva più della morte. Speravo che tu lo avresti capito questo».

«Infatti. Alla fine lei è ancora in mezzo a noi. Guarda in faccia la realtà, renditene conto. Prima o poi lei dovrà scegliere».

«Lei aveva scelto, Jaan, quando era venuta via con me. Tu devi tener conto di questa realtà». Dirk lo disse in fretta, cocciutamente; si chiese fino a che punto ci credeva lui stesso.

«Ma lei non ha tolto la giada-e-argento», rispose Vikary. Poi fece un gesto impaziente. «Ma questo non è importante. Per questa volta ti voglio credere».

«Bene. Che cosa vuoi che faccia?».

«Qualcuno deve volare fino a Larteyn».

Dirk corrugò la fronte. «Perché continui a volermi spingere al suicidio, Jaan?».

«Non ho detto che avresti dovuto essere tu, t’Larien», disse Vikary. «Ci andrò io. Sarà pericoloso, sì, ma bisogna farlo».

«Perché?».

«Il Kimdissi».

«Ruark?». Dirk sì era quasi dimenticato il suo antico ospite co-cospiratore.

Vikary annuì. «È stato amico di Gwen fin dai tempi di Avalon. Anche se non gli sono mai piaciuto, né lui piace a me, tuttavia non posso abbandonarlo completamente. I Braith…».

«Capisco. Ma come farai ad avvicinarlo?».

«Se riesco a raggiungere sano e salvo Larteyn, lo posso chiamare al visifono. Per lo meno lo spero». Diede una spallucciata, vaga e fatalistica.

«Ed io?».

«Resta qui con Gwen. Fagli dà infermiere, proteggila. Ti lascerò uno dei fucili di Roseph. Se lei si ristabilisce un po’, faglielo usare. Probabilmente lei è più capace di te. Sei d’accordo?».

«D’accordo. Non ci vuol molto a fare ciò che mi chiedi».

«No», disse Vikary. «Spero che tu sappia restare nascosto, al sicuro, fino a quando io ritornerò con il Kimdissi. Spero di trovarti come quando ti ho lasciato. Se fosse necessario scappare, per te, hai sempre a disposizione quell’altra aerauto. C’è una caverna da queste parti che Gwen conosce benissimo. Lei ti mostrerà la strada. Va alla caverna se sei costretto ad abbandonare Kryne Lamiya».

«Che cosa faccio se tu non torni indietro? È anche questa una possibilità, sai».

«in questo caso sarai di nuovo per conto tuo, come quando sei scappato la prima volta da Larteyn. Allora avevi dei progetti. Segui quelli, se ti sarà possibile». Fece un sorriso, ma non c’era il minimo divertimento. «Comunque, conto di ritornare. Ricordatelo bene, t’Larien. Ricordatelo».

C’era una nota sottile di acciaio acuminato nella voce di Vikary, un’eco che gli fece venire in mente un’altra conversazione fatta nello stesso vento algido. Le vecchie parole di Jaan, gli ritornarono alla mente con improvvisa chiarezza: ma io esisto. Ricordalo… Questo adesso non è Avalon, t’Larien ed oggi non è ieri. È un mondo di festival morente, un mondo senza leggi, per cui ognuno di noi deve aggrapparsi strettamente ai suoi propri codici, quelli che si è portato dentro. Ma Jaan Vikary, pensò violentemente Dirk, aveva portato due codici con sé quando era venuto su Worlorn.

Invece Dirk non se ne era portato nessuno, non aveva portato niente, tranne il suo amore per Gwen Delvano.

Gwen dormiva ancora quando i due uomini rientrarono dal balcone. I due camminarono assieme verso la terrazza d’atterraggio, senza disturbare la donna. Vikary aveva completamente spacchettato la macchina dei Braith. Roseph ed il suo teyn avevano preparato tutto per una spedizione di caccia, ovviamente breve, all’interno della foresta, ma poi tutto era andato all’aria. Dirk pensò che era un peccato che non avessero previsto un viaggio più lungo.

Comunque, Vikary aveva trovato solo quattro dure barrette di proteina al posto del cibo, più i due laser da caccia e qualche vestito che era stato messo sopra i sedili, Dirk mangiò immediatamente una delle barrette — era affamato — e fece scivolare le altre tre nella tasca del pesante giaccone che aveva indossato. Gli stava un po’ largo, ma non gli andava male; il teyn di Roseph aveva approssimativamente la taglia di Dirk. E poi era caldo… di cuoio spesso, tinto di rosso porpora, con il colletto, i polsi e le bordure di pelliccia bianca maculata. Entrambe le maniche del giaccone avevano dei disegni vorticanti disegnati sopra. La manica destra era rossa e nera, la sinistra argento e verde. Una giacca simile, ma più piccola (indubbiamente di Roseph), fu presa da Dirk con l’intenzione di farla usare a Gwen.

Vikary prese due dei fucili a laser, lunghi tubi di plastica nerissima con incisi sul calcio dei lupi bianchi che latravano. Si mise il primo sulla spalla; il secondo lo diede a Dirk, assieme a brevi spiegazioni di come funzionava. L’arma era leggerissima, leggermente oleosa al tatto. Dirk la tenne in mano goffamente.

I saluti furono brevi e senza formalità. Quindi Vikary si chiuse dentro la grande macchina Braith. la fece sollevare da terra e si lanciò nel cielo vuoto. Quando partì si sollevarono grandi nubi di polvere e Dirk si ritrasse tossendo, con una mano sulla bocca e l’altra sul fucile.

Quando ritornò nell’appartamento, Gwen aveva incominciato a muoversi. «Jaan?», disse, sollevando il capo dal materasso di cuoio per vedere chi era entrato. Gemette e ricadde subito all’indietro, massaggiandosi le tempie con tutte e due le mani. «La mia testa», disse con un sussurro piagnucoloso.

Dirk appoggiò il laser contro la parete, appena oltre la porta e si sedette accanto al letto incassato. «Jaan è appena andato via», disse. «Sta volando verso Larteyn a prendere Ruark».

L’unica risposta di Gwen fu un altro gemito.

«Posso fare qualcosa per te?», chiese Dirk. «Acqua? Cibo? Abbiamo un paio di queste». Tirò fuori dalla tasca le barrette di proteina, gliele diede e lei le guardò.

Gwen, dopo averle osservate un momento, fece una smorfia disgustata. «No», disse. «Mettile via. Non sono affamata sino a quel punto».

«Dovresti mangiare qualcosa».

«L’ho fatto», disse lei. «Questa notte. Jaan ha spezzato un paio di queste barrette nell’acqua ed ha fatto una specie di pasta». Gwen abbassò le mani dalle tempie e si voltò a guardarlo. «Non sono riuscita a tenerne giù granché», disse lei. «Non mi sento tanto bene».

«Mi sembra logico», disse Dirk. «Non potevi aspettarti di star bene dopo ciò che è capitato. Probabilmente hai avuto una commozione cerebrale e sei fortunata a non essere morta».

«Jaan me lo ha detto», disse lei un po’ aspramente. «Mi ha parlato anche di ciò che è successo dopo… ciò che ha fatto a Myrik». Aggrottò la fronte. «Pensavo di averlo colpito piuttosto forte quando siamo caduti. Tu hai visto, non è vero? Mi è sembrato di rompergli la mascella, o quella o le mie dita. Ma lui non se ne è nemmeno accorto».

«No», disse Dirk.

«Parlami di… tu lo sai, di quello che è successo poi. Jaan mi ha fatto un accenno. Voglio saperlo». La sua voce era affaticata e piena di dolore, ma non si poteva ignorarla.

Così Dirk glielo disse.

«Ha puntato il fucile a Garse?», disse lei ad un certo punto. Dirk annuì e lei si lasciò di nuovo andare.

Quando lui ebbe finito, Gwen rimase nel silenzio più assoluto. I suoi occhi si chiusero un momento, si riaprirono, poi si richiusero e non li riaprì. Se ne stava tranquilla su di un fianco, ripiegata in una specie di posizione fetale, con le mani chiuse in piccoli pugni sotto il mento. Osservandola, Dirk fece scivolare lo sguardo fino al suo braccio sinistro, con il freddo metallo della giada-e-argento che lei continuava a portare.

«Gwen», disse lui piano. La donna riapri gli occhi… solo per un istante… poi scosse il capo violentemente, come un urlo silenzioso: no! «Ehi», disse lui, ma le palpebre di Gwen erano di nuovo chiuse strettamente, e lei era perduta in se stessa e Dirk era solo con le gemme e le sue paure.

La stanza era inzuppata di luce, ciò che su Worlorn era il sole; le tinte del tramonto a mezzogiorno entravano dalla finestra e particelle di polvere galleggiavano pigramente attraverso l’ampia striscia luminosa. La luce colpiva solo un lato del materasso; Gwen era sdraiata per metà al sole e per metà all’ombra.

Dirk — lui non parlò più con Gwen, né la guardò — si mise ad osservare i disegni luminosi sulla parete.

Al centro della camera tutto era caldo e rosso ed era qui che la polvere danzava, uscendo fuori dall’oscurità e diventando cremisi per un momento, dorata per un momento, creava minuscole ombre, ma poi si allontanava galleggiando e subito dopo spariva. Dirk alzò una mano, la tenne sollevata — minuti? ore? — per un po’. Diventò calda, sempre più calda; la polvere vorticava attorno; le ombre scivolavano come l’acqua quando lui faceva scattare le dita e le voltava; il sole era amichevole e familiare. Ma improvvisamente si rese conto che i movimenti della sua mano, come l’infinito vorticare della polvere, non avevano scopo, né schema e nemmeno significato. Fu la musica a dirglielo; la musica di Lamiya-Bailis.

Ritirò la mano e aggrottò la fronte.

Attorno al grande centro luminoso e vitale c’era un sottile confine tormentato dove il sole brillava attraverso il bordo della finestra fatto di vetro colorato nero e sangue. O cercava di passare. Era solo un bordo sottile, ma delimitava la zona della polvere mobile da entrambi i lati.

Al di là c’erano gli angoli neri, le parti della stanza che il Mozzo ed i Soli Troiani non raggiungevano mai, dove demoni grassi e le forme delle paure di Dirk si avvinghiavano nascostamente, sicuri per sempre da occhi indiscreti.

Dirk sorrise e si massaggiò il mento — una corta barba gli copriva le guance e la mascella e lui sentiva la necessità di grattarsi — poi osservò quegli angoli e ricacciò al fondo dell’anima la musica di Cupalba. Non sapeva esattamente da dove fosse rispuntata, ma ora era lì e lo circondava.

La torre in cui erano — la loro casa — suonò una nota lunga e bassa. Anni dopo, o secoli, le rispose un coro di finestre risonanti che piangevano. Dirk udì delle pulsazioni terrificanti e gli strilli di bambini abbandonati ed il suono scivoloso di coltelli che dividevano la carne viva. Ed il tamburo. Come poteva il vento battere un tamburo? pensò lui. Non lo sapeva. Forse era qualcos’altro. Però assomigliava a un tamburo. Comunque era terribilmente lontano, e terribilmente solo.

Così orribilmente ed infinitamente solo.

Le nebbie e le ombre si radunarono negli angoli più lontani e più pallidi della loro stanza e poi cominciavano a schiarirsi. Dirk vide un tavolo ed una sedia bassa, che nasceva dalle pareti e dal pavimento, come uno strano vegetale di plastica. Per un momento si chiese come mai riuscisse a vederli; il sole si era mosso un po’ e solo un piccolo raggio di luce stava adesso attraversando la finestra ed alla fine anche quello scomparve ed il mondo fu grigio.

Quando il mondo era grigio, notò lui, la polvere non danzava più. No. Per niente. Mise una mano nell’aria per assicurarsene; non c’era polvere, non c’era calore, non c’era sole. Annuì solennemente. Gli parve di aver scoperto una qualche grande verità.

Deboli luci si muovevano sulle pareti, spettri che si svegliavano per un’altra nota. Fantasmi e recipienti di antichi sogni. Erano tutti grigi e bianchi; i colori erano solo per le cose vive e qui non c’era posto per loro.

Gli spettri cominciarono a muoversi. Erano imprigionati nelle pareti, ognuno di loro; di tanto in tanto, Dirk credette di vederne uno che si fermava nella danza furiosa e batteva inutilmente e senza speranza contro le pareti di vetro che lo tenevano lontano dalla stanza. Mani irose che battevano, battevano, eppure nella stanza non si sentiva nessun rumore. Il silenzio faceva parte di queste cose; essenzialmente i fantasmi erano proprio questi, privi di sostanza e potevano battere finché volevano, ma alla fine sarebbero dovuti tornare a danzare.

La danza… la danza macabra… ombre senza forme… Oh, ma era splendido! Si muovevano, si tuffavano, si contorcevano. Pareti di grigia fiamma. Questi danzatori erano molto meglio dei granellini di polvere; avevano uno schema e la loro musica era la stessa canzone della Città Sirena.

Desolazione. Vuoto. Decadenza. Un unico tamburo, percosso lentamente. Solo. Solo. Solo. Niente aveva un senso.

«Dirk!».

«Era la voce di Gwen. Lui scosse il capo, smise di guardare la parete e puntò lo sguardo verso di lei nell’oscurità. Era notte. Notte. Il giorno era sparito, chissà come.

Gwen — lei non aveva dormito — teneva gli occhi alzati verso di lui. «Mi dispiace», disse lei. Gli stava dicendo qualcosa. Ma lui lo sapeva già, lo sapeva per il suo silenzio, lo aveva saputo dal… forse dal tamburo. Da Kryne Lamiya.

Lui sorrise. «Non hai mai dimenticato, non è vero? Non era questione di dimenticare. C’era una ragione perché tu non hai tolto il…». Allungò un dito ad indicare.

«Sì», disse lei. Gwen si sedette nel letto, mentre la coperta le scivolava dalla vita. Jaan le aveva aperto la parte anteriore del vestito che ora le stava addosso piuttosto largo ed erano visibili le morbide curve del suo seno. Nella luce oscillante la sua carne era pallida e grigia. Dirk non sentì alcun trasporto. La mano della donna si appoggiò sulla giada-e-argento. La toccò, la batté, sospirò. «Non avevo mai pensato… non so… ho detto ciò che dovevo dire. Bretan Braith ti avrebbe ucciso».

«Magari sarebbe stato meglio così», rispose lui. Non con amarezza, ma in un modo un po’ stupito, leggermente turbato. «Così non avevi mai avuto intenzione di lasciarlo».

«Non lo so. Come faccio a sapere che intenzione avevo? Io volevo provare, Dirk, davvero. Comunque non ci ho mai creduto seriamente. Te l’avevo detto. Sono stata onesta. Questo non è Avalon e noi siamo cambiati. Io non sono la tua Jenny. Non lo sono mai stata ed ora meno che mai».

«Sì», disse lui, annuendo. «Ti ricordo mentre guidavi. Il modo in cui stringevi l’asta. La tua faccia. I tuoi occhi. Tu hai gli occhi di giada, Gwen. Occhi di giada e sorriso d’argento. Mi fai paura». Allontanò lo sguardo da lei, fissandolo di nuovo sulle pareti. I murali luminosi si muovevano secondo schemi caotici, assieme alla musica selvatica e sottile. Chissà come, gli spettri se ne erano andati. Lui si era limitato ad allontanare gli occhi da loro per un istante, eppure si erano tutti confusi e si erano allontanati. Come i suoi antichi sogni, pensò.

«Occhi di giada?», stava dicendo Gwen.

«Come Garse».

«Garse ha occhi azzurri», disse lei.

«Eppure. Come Garse».

Lei ridacchiò e poi gemette. «Mi fa male quando rido», disse.

«Ma è divertente. Io come Garse. Non mi stupisce che Jaan…». «Ritornerai con lui?».

«Forse. Non ne sono sicura. Mi sarebbe assai difficile lasciarlo a questo punto. Capisci? Lui ha scelto finalmente. Quando ha puntato il laser contro Garse. Dopo di che, dopo che lui si è rivolto contro il suo teyn, contro la granlega ed il mondo, non posso limitarmi a… Tu lo sai. Ma non voglio essere di nuovo una betheyn per lui, mai più. Deve diventare qualcosa di più della giada-e-argento».

Dirk si sentì svuotato. Si strinse nelle spalle. «Ed io?».

«Tu sai bene che non avrebbe funzionato. È sicuro. Tu avresti dovuto sentirlo, invece non hai mai smesso di chiamarmi Jenny».

Lui sorrise. «Davvero? Forse no. Può darsi che non abbia mai smesso».

«Mai», disse lei. Si soffregò la testa. «Adesso mi sento un po’ meglio», continuò. «Hai ancora quelle barrette di proteine?».

Dirk ne tirò fuori una dalla tasca e gliela diede. Lei l’afferrò al volo, con la mano sinistra, gli sorrise, la spacchettò e cominciò a mangiare.

Dirk si alzò improvvisamente in piedi, sprofondando le mani nelle tasche del giubbotto e camminò verso la finestra alta. Le vette delle torri bianche come ossa portavano ancora un leggero tocco rossastro… forse Occhiodaverno ed i suoi attendenti non erano ancora completamente tramontati nel cielo occidentale. Ma giù, nelle strade, la città Cupalba era ebbra di notte. I canali erano nastri neri ed il paesaggio essudava la leggera fosforescenza purpurea del muschio luminoso. Dirk vide attraverso quelle tenebre scintillanti il suo barcaiolo solitario, come già gli era capitato di vederlo su quelle stesse acque cupe. Era piegato sul suo palo, come sempre, lasciandosi trasportare dalla corrente, e andava e andava, con facilità, inesorabilmente. Dirk sorrise. «Benvenuto», mormorò, «benvenuto».

«Dirk?». Gwen aveva finito di mangiare. Si stava di nuovo allacciando stretta la tuta e si delineava nelle tenebre luminose. Dietro di lei le pareti erano animate da danzatori bianchi e grigi. Dirk udiva tamburi e sussurri, e promesse. E sapeva che le ultime erano menzogne.

«Una domanda, Gwen», disse con difficoltà.

Lei lo fissò.

«Perché mi hai mandato a chiamare?», disse lui. «Perché? Se davvero pensavi che tutto fosse morto tra noi, tra te e me, perché non mi hai lasciato stare da solo?».

Il suo viso era pallido e vuoto. «Mandato a chiamare?».

«Sì, sai», disse lui. «La gemma mormorante».

«Già», disse lei incerta. «Si trova a Larteyn»,

«Naturalmente», disse lui. «Nel mio bagaglio. Tu me l’hai mandata».

«No», disse lei. «No».

«Ma mi sei venuta incontro!».

«Ci avevi mandato un segnale laser dalla nave. Ma io… Credimi, quella era la prima volta che ho sentito parlare del tuo arrivo. Io non sapevo che cosa pensare. Pensavo che prima o poi me l’avresti spiegato, anche se naturalmente non c’era nessuna fretta».

Dirk disse qualcosa, ma la torre pianse la sua nota bassa e le sue parole furono portate lontano. Dirk scosse il capo. «Tu non mi avevi mandato a chiamare?».

«No».

«Ma io ho ricevuto la gemma mormorante. Su Braque. La stessa gemma, esperincisa. Impossibile da falsificare». Poi si ricordò qualcos’altro. «Ed Arkin ha detto…».

«Sì», disse lei. Si stava mordendo le labbra. «Non capisco. Deve essere stato lui a mandarla. Eppure era mio amico. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Non capisco». Lei piagnucolò.

«La testa?», chiese Dirk in un soffio.

«No», disse lei. «No».

Lui la guardò in faccia. «È stato Arkin a mandarla?».

«Sì. Era l’unico. Deve essere stato lui. Ci siamo incontrati su Avalon, subito dopo che tu ed io… sai. Arkin mi ha aiutata. Sono stati tempi difficili. C’era anche lui quando tu hai mandato la tua gemma a Jenny. Io piangevo eccetera eccetera. Ne ho parlato con lui e ne abbiamo discusso. Anche più tardi, quando io ho incontrato Jaan, Arkin ed io eravamo vicini. Era come un fratello!».

«Un fratello», ripeté Dirk. «Perché avrebbe dovuto…».

«Non lo so.

Dirk era pensoso. «Quando tu mi sei venuta incontro allo spazioporto, Arkin era con te. Eri tu che gli avevi chiesto di venire? Io contavo sul fatto che tu fossi sola, ricordo».

«È stata un’idea sua», disse lei. «Be’, gli avevo detto che ero nervosa. Per il fatto di rivederti. Lui… lui si è offerto di venire con me per sostenermi moralmente. E poi ha detto che voleva conoscerti. Sai, del resto gli avevo parlato di te su Avalon».

«E quel giorno quando tu e lui ve ne siete andati nella foresta… sai, quando mi sono messo nei guai con Garse e con Bretan… cosa è successo?».

«Arkin aveva parlato di… una migrazione di scarabei corazzati. Invece non c’era niente, ma siamo dovuti andare a controllare. Siamo scappati fuori di corsa».

«Perché non mi hai lasciato detto dove andavi? Io credevo che Jaan e Garse ti avessero picchiata, che ti tenessero lontana da me. La notte prima, tu avevi detto…».

«Lo so, ma Arkin mi aveva detto che te lo avrebbe riferito lui».

«E poi mi ha convinto a scappare», disse Dirk. «E a te, immagino che ti abbia detto che per convincermi avresti dovuto…».

Gwen annuì.

Lui si voltò verso la finestra. L’ultima luce era scomparsa dalle vette delle torri. In alto c’era una manciata di stelle che scintillava. Dirk le contò. Dodici. Una dozzina esatta. Si chiese se alcune di loro fossero davvero delle galassie dall’altra parte del Grande Mare Nero. «Gwen», disse lui, «Jaan se ne è andato questa mattina. Da qui a Larteyn e ritorno, con l’aerauto… quanto ci vorrà?».

Lei non rispose, e Dirk si voltò a guardarla di nuovo.

Le pareti erano piene di fantasmi e Gwen tremava alla loro luce.

«Avrebbe dovuto essere già di ritorno a quest’ora, non è vero?».

Lei annuì e si sdraiò di nuovo sul pallido materasso.

La Città Sirena cantava la sua ninna nanna, il suo inno al riposo finale.

11

Dirk attraversò la stanza.

Il fucile a laser era appoggiato alla parete. Lo sollevò ancora una volta, sentì il materiale vagamente oleoso che in realtà era plastica nera. Passò il pollice sulla testa di lupo. Sollevò l’arma all’altezza della spalla, prese la mira e sparò.

Il lampo di luce durò per lo meno un secondo, sospeso nell’aria. Mosse leggermente il fucile e la penna luminosa si mosse anche lei. Quando la luce sparì e sparì anche l’immagine che continuava a persistere sulla retina, vide che aveva aperto un buco irregolare nella finestra. Il vento vi si riversava soffiando forte, in una strana dissonanza con la musica di Lamiya-Bailis.

Gwen si alzò barcollando dal letto. «Che cosa? Dirk?».

Lui si strinse nelle spalle ed abbassò il fucile.

«Che cosa?», ripeté lei. «Che stai facendo?».

«Volevo essere sicuro di saperlo fare funzionare», spiegò lui. «Io… io vado».

Gwen aggrottò la fronte. «Aspetta», disse. «Cerco gli stivali».

Lui scosse il capo.

«Anche tu?». Lei aveva una faccia dura, brutta. «Non mi serve protezione, accidenti».

«Non è questo», disse lui.

«Se questa è una qualche mossa idiota per farti apparire un eroe ai miei occhi, ti dico subito che non ha funzionato», disse lei mettendo le mani sui fianchi.

Lui sorrise. «Per la verità, Gwen, questa è una qualche mossa idiota per farmi apparire un eroe ai miei occhi. I tuoi occhi… i tuoi occhi non hanno ormai più nessuna importanza».

«Ma allora perché?».

Lui bilanciò incerto il fucile. «Non lo so», ammise lui. «Forse perché mi piace Jaan e gli sono debitore. Forse perché debbo ripagargli il torto di essere scappato, dopo che lui aveva avuto fiducia in me e mi aveva nominato keth».

«Dirk», cominciò lei.

Lui gli fece cenno di star zitta. «Lo so… ma questo non è tutto. Forse è perché Kryne Lamiya ha più suicidi di qualsiasi altra città del festival, ed io sono uno di quelli. Scegli tu il motivo che preferisci, Gwen. Uno qualsiasi di quelli detti sopra». Un debole sorriso gli si dipinse sul viso. «Forse è perché qui ci sono solo dodici stelle, lo sai? Per cui che differenza può fare, che ne dici?».

«Che cosa credi di ppter fare?».

«Chi lo sa? E poi che importa? A te importa qualcosa, Gwen? Pensaci bene». Lui scosse il capo ed il movimento gli fece andare i capelli sulla fronte ancora una volta, così dovette interrompere il gesto e tirarsi indietro i capelli. «A me non importa che a te importi», disse con uno sforzo. «Tu hai detto, o sottinteso, che abitare a Sfida era stata una scelta egoista. Be’, può darsi. E forse lo sono ancora. Comunque ti voglio dire qualcosa. Qualsiasi cosa io voglia fare, non ti chiederò mai di guardarti le braccia prima, capisci cosa voglio dire?».

Era una buona battuta finale, ma arrivato vicino alla porta lui si intenerì un poco, esitò e si voltò indietro. «Rimani qui, Gwen», le disse. «Soltanto questo. Tu non sei ancora guarita. Se tu dovessi scappare, Jaan ha parlato di una caverna. Conosci qualche caverna?». Lei annuì. «Bene, allora vai là, se è necessario. Altrimenti resta qui». Agitò la mano in un goffo addio fatto con il fucile, poi si girò e se ne andò via troppo in fretta.

Giù sulla terrazza d’atterraggio le pareti erano pareti e basta… non c’erano spettri, né murali, né luci. Dirk raggiunse a tentoni l’aerauto che cercava, poi attese al buio che gli occhi si abituassero. Il suo relitto non era un prodotto della tecnologia Kavalar: era una piccola macchina a due sedili, una goccia di plastica un po’ nera e un po’ d’argento e di metallo leggero. Non era corazzata, si capisce, e l’unica arma che portava era il fucile laser che Dirk teneva sulle ginocchia.

Era solo un po’ meno morta di tutto il resto di Worlorn, ma quel po’ era sufficiente. Quando lui batté sul manometro dell’energia, la macchina si svegliò e gli strumenti illuminarono la cabina con i loro raggi pallidi. Mangiò in fretta una barretta di proteine e studiò i quadranti. La scorta di energia era bassa, troppo bassa, ma avrebbe dovuto bastare. Non avrebbe dovuto usare i fari; ce l’avrebbe fatta con la pallida luce stellare. E si poteva anche risparmiare sul riscaldamento, almeno finché avesse avuto il giubbotto di pelle che lo avrebbe riparato dal freddo.

Dirk abbassò la porta, chiudendosi all’interno e diede un colpetto al controllo di gravità. L’aerauto si sollevò, oscillò un po’ incerta, ma si sollevò. Afferrò la barra e la tirò a sé e subito si trovò fuori, in aria.

Ebbe un breve attimo di terrore. Se la griglia fosse stata troppo debole, lui lo sapeva benissimo, non si sarebbe affatto alzato, ma avrebbe ottenuto solo un debole rollio sul terreno soffocato dal muschio. La macchina oscillò e cadde in picchiata in maniera allarmante, una volta che si era sollevata. Tra l’altro, lui non era affatto ansioso di incontrare qualche viaggiatore notturno. In alto, con le luci spente, lui avrebbe visto qualsiasi altra aerauto che fosse passata sotto di lui, ma aveva buone possibilità di sfuggire al loro controllo.

Non abbassò lo sguardo per guardare Kryne Lamiya, ma sentiva la città sotto di sé, che lo guidava avanti, che gli lavava tutte le paure. La paura era una cosa stupida; non c’era niente di importante, meno di tutte la morte. La musica continuò anche quando la Città Sirena con le sue luci bianche e grigie era scomparsa. Scompariva la musica poco per volta e diventava più debole, ma era sempre con lui, sempre potente. Una nota, un sibilo sottile oscillante, durò più di tutte le altre. A più di trenta chilometri dalla città si sentiva ancora, mescolata al più profondo soffiare del vento. Alla fine si accorse che il suono veniva direttamente dalle sue labbra.

Smise di fischiare e cercò di concentrarsi sul volo.

Dopo aver volato per quasi un’ora, la montagna torreggiava su di lui, o piuttosto sotto di lui, perché si era portato piuttosto in alto e gli pareva di essere più vicino alle stelle ed alle galassie puntiformi che alle foreste in basso. Il vento era diventato penetrante e furioso e cercava di penetrare attraverso le fessure sottilissime dei portelli, ma Dirk ignorava il suono.

Nel punto in cui le montagne raggiungevano le foreste, Dirk vide una luce.

Fece virare la macchina, in un’ampia curva, e cominciò a scendere. Non avrebbero dovuto esserci luci in questa parte della montagna, lui lo sapeva; chiunque fosse, bisognava controllare.

Scese a spirale finché si trovò direttamente al di sopra della luce, poi fermò la macchina a mezz’aria e rimase sospeso per un breve istante, facendo scendere il controllo di gravità. Atterrò con infinita lentezza, oscillando avanti e indietro leggermente nei refoli di vento in una lenta caduta.

Era circondato da parecchie luci. L’illuminazione principale veniva da un fuoco. Adesso riusciva a distinguerlo; lo vedeva spostarsi ed oscillare a seconda di come il vento soffiava sulle fiamme, un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Ma c’era un’altra zona con delle luci più piccole… erano immobili ed artificiali, messe in cerchio nel buio, non troppo distanti dal fuoco. Forse un chilometro, stimò, forse meno.

Nella piccola cabina la temperatura cominciò ad alzarsi e Dirk sentì di sudare, aveva tutti i vestiti inzuppati sotto il giubbotto pesante. Vide anche il fumo; arrivava a nuvole, nere e caliginose, si sollevava dal fuoco e gli impediva la vista. Aggrottò la fronte e spostò l’aeromobile finché non fu più direttamente al di sopra delle fiamme e continuò la discesa.

Il fuoco si alzò a salutarlo. Lunghe lingue arancione, che parevano brillantissime in contrasto con i pennacchi di fumo. Vide anche delle scintille, o tizzoni, o qualcosa del genere; uscivano dal fuoco in brillanti spruzzi incandescenti, impolverando la notte e svanendo subito. Dirk era ormai bassissimo e fu minacciato da un altro fenomeno: un crepitare furioso di fiamme bianco azzurre, seguite da un’acuto odore di ozono, che subito dopo scomparve.

Dirk arrestò l’aerauto quando il fuoco era ancora piuttosto lontano sotto di lui. C’era dell’altra gente attorno — il cerchio formato dalle immobili luci artificiali — e lui non temeva di essere visto. La sua macchina nera e argento, immobile contro il cielo nero, non sarebbe stata facile da individuare, ma la storia sarebbe stata diversa se lui si fosse delineato contro le fiamme. Anche se niente gli impediva la visuale dal punto in cui era librato, tuttavia non riusciva a distinguere che cosa stesse bruciando; al centro del fuoco c’era una forma oscura da cui uscivano ogni tanto delle scintille. Attorno poteva vedere l’intricato insieme di soffocatori, con i rami cerei che brillavano gialli sotto la luce riflessa. Parecchi erano nel punto in cui si era verificato lo scoppio ed erano loro che formavano la maggior parte del fumo nero, accartocciandosi e trasformandosi in cenere. Ma gli altri, il muro contorto che circondava la cosa nera che bruciava, rifiutavano di cedere. Il fuoco non si allargava, ma stava visibilmente spegnendosi.

Dirk attese e lo vide morire. Era già quasi sicuro che si trattasse di un aeromobile caduto; glielo dicevano soprattutto le scintille e l’odore di ozono. Voleva sapere di chi fosse quella macchina.

Quando le fiamme diminuirono e le scintille cessarono di fuoriuscire, ma prima che il fuoco si fosse estinto completamente trasformandosi in fumo grasso, Dirk riuscì a distinguere una forma. Per un istante; un’ala, vagamente simile a quella di un pipistrello, contorta secondo un’angolazione grottesca e puntata verso il cielo. Un muro di fuoco scivolava dietro l’ala. Gli bastava; non si trattava di nessuna macchina che lui conoscesse, anche se era chiaramente di costruzione Kavalar.

Si allontanò immediatamente dal fuoco morente, come un oscuro spettro sopra la foresta ed andò verso il cerchio di illuminazione artificiale. Questa volta mantenne una distanza superiore. Non aveva nessun bisogno di andare più vicino. Le luci erano molto brillanti e la scena pareva scolpita in minuti dettagli.

Vide una vasta radura, circondata da torce elettriche, sulle rive di un lago con l’acqua immobile, molto largo. Tre aerauto erano posate a terra e lui le conosceva tutte e tre; lo stesso terzetto che aveva già visto sotto l’albero Emereli a Sfida, quando Myrik Braith aveva assalito Gwen. Una di quelle macchine, quella con la cupola più grande e la corazza rosso scura, apparteneva a Lorimaar alto-Braith. Le altre due erano più piccole, quasi identiche, solo che adesso erano piuttosto diverse, poiché una delle due era visibilmente danneggiata e si vedeva bene anche da distante. Era posata in maniera goffa, mezza sommersa dall’acqua ed in parte era sformata ed incandescente. La porta corazzata era leggermente aperta.

Figure sottili si muovevano attorno al relitto. Dirk non se ne sarebbe quasi accorto se quelli non si fossero mossi, poiché si mimetizzavano perfettamente con lo sfondo. Lì vicino, qualcuno portava i cani Braith facendoli uscire da una porta sulla fiancata della macchina di Lorimaar.

Dirk si accigliò e toccò il controllo di gravità, facendo sollevare il suo aeromobile, finché uomini e macchine sparirono alla vista e sotto di lui non rimase nient’altro che un punto luminoso nella foresta. Per la verità, erano due punti, ma il fuoco si era ormai trasformato in un pallido tizzone arancione, che diventava visibilmente meno luminoso.

Dirk si soffermò a pensare, al sicuro nel buio ventre del cielo.

La macchina danneggiata era quella di Roseph, la stessa macchina che loro avevano rubato a Sfida, la macchina con cui Jaan Vikary aveva volato fino a Larteyn quel mattino. Di questo ne era sicuro. I Braith lo avevano trovato, chiaro, e lo avevano inseguito nella foresta, abbattendolo. Eppure gli pareva improbabile che lui fosse morto; altrimenti, quale era lo scopo dei cani Braith? Lorimaar non aveva certo fatto uscire la muta per farle fare una passeggiata. Era assai più probabile che Jaan fosse sopravvissuto e fosse poi scappato nella foresta e adesso i Braith stavano andando a dargli la caccia.

Dirk ci pensò su un momento, cercando di pensare ad un sistema di fuga, ma le prospettive parevano scarse. Lui non aveva nessuna idea su come fare a scovare Jaan in un mondo straniero e per di più ammantato di tenebre notturne. I Braith erano molto meglio equipaggiati per una battuta di quel tipo.

Dirk riprese la sua rotta verso le montagne, al di là delle quali c’era Larteyn. Nella foresta, solo com’era, anche se armato, non poteva fare davvero molto per aiutare Jaan Vikary. Nella Fortezza di Luce, invece, mal che andasse poteva sempre terminare l’incarico del Ferrogiada e chiudere la partita con Arkin Ruark.

La montagna gli scivolò sotto e Dirk si rilassò ancora di più, anche se continuava a tenere una mano sul fucile a laser poggiato sulle ginocchia.

Il volo durò meno di un’ora; poi, addossata sulla montagna si cominciò a vedere Larteyn, rossa e brillante. Pareva proprio morta, proprio vuota, ma Dirk sapeva che la sensazione era menzognera. Lui si mantenne basso per non perdere tempo e si lanciò attraverso le basse terrazze quadrate e le piazze di pietraluce verso l’edificio che qualche tempo prima lo aveva accolto assieme a Gwen Delvano, i due Ferrogiada ed il Kimdissi bugiardo.

C’era solo un’altra aerauto sulla terrazza battuta dal vento: il pezzo da museo, corazzato di stile militare. Non c’era nessun segno del piccolo velivolo giallo di Ruark e mancava anche la manta grigia. Dirk si chiese per un attimo che cosa ne fosse stato di quell’apparecchio, abbandonato a Sfida, poi mise da parte il pensiero e si apprestò a scendere.

Tenne stretto il laser in mano mentre usciva. Il mondo era calmo e cremisi. Si avviò in fretta verso gli ascensori e scese nell’appartamento di Ruark.

Le stanze erano vuote.

Le setacciò con cura, rivoltando le cose da una parte e dall’altra, senza preoccuparsi di dare fastidio a qualcuno, senza curarsi di ciò che distruggeva. Tutti gli averi del Kimdissi erano ancora al loro posto, ma Ruark non c’era e non c’era nemmeno nessun segno che gli permettesse di capire dove fosse andato.

C’erano anche le cose di Dirk, le poche cose che si era lasciato alle spalle quando lui era scappato con Gwen. Si trattava di pochi abiti leggeri che si era portato da Braque. Inutili qui nel gelo di Worlorn. Dirk mise giù il laser, si inginocchiò e cominciò a rovistare nelle tasche dei suoi pantaloni sporchi. Poi la trovò… infilata in fondo, ancora nel suo involucro di argento e di velluto. Allora si rese conto che quella era la vera ragione per cui era ritornato a Larteyn.

Nella stanza da letto di Ruark trovò una cassettina di gioielli personali: anelli, ciondoli, braccialetti intricati e corone, orecchini di pietre semipreziose. Rovistò nella cassetta finché non trovò una sottile catenina con un gufo in filigrana d’argento inglobato nell’ambra e sospeso con un fermaglio. Dirk strappò via l’ambra ed il gufo e lo sostituì con la gemma mormorante.

Poi si sbottonò il giubbotto e la camicia pesante e si appese la catena al collo, in modo che la lacrima rossa e gelida fosse proprio vicina alla pelle nuda, a mormorare i suoi sussurri, a promettere le sue bugie. Il sottile pugnale di ghiaccio faceva male al petto, ma per lui andava bene così; era Jenny. Dopo un momento si fu abituato e tutto passò. Lacrime salate gli rotolarono lungo le guance. Lui non se ne accorse. Sali le scale.

Il laboratorio che Ruark aveva condiviso con Gwen era tutto ingombro, come se lo ricordava lui, ma il Kimdissi non c’era. E non c’era nemmeno nell’appartamento superiore, dove Dirk aveva chiamato Ruark quando era stato a Sfida. C’era solo un ultimo posto dove andarlo a cercare.

Salì velocemente in cima alla torre. La porta era aperta. Esitò un momento, poi entrò, tenendosi pronto con il laser.

Il grande soggiorno era sommerso dal caos e dalla distruzione. Il visischermo era stato spaccato, oppure era esploso; c’erano frammenti di vetro dappertutto. Le pareti erano deturpate da colpi di laser. I divani erano stati rivoltati ed erano rotti in decine di punti, dove l’imbottitura usciva fuori a manciate ed era sparsa da tutte le parti. In parte si era rovesciata nel caminetto, dove aveva contribuito a creare il fumo caliginoso che impregnava l’ambiente. Una delle cariatidi, priva di testa e messa al contrario era appoggiata alla base del camino. La testa, con tutte le pietraluci, era stata gettata nella cenere nera del camino. L’aria sapeva di vino e di vomito.

Garse Janacek dormiva sul pavimento, senza camicia, la barba rossa macchiata era anche più rossa per via del vino che la inzaccherava e la bocca era aperta. Puzzava come tutta la stanza. Russava forte e stringeva ancora in una mano la sua pistola laser. Dirk vide la camicia appallottolata in una polla di vomito che Janacek aveva tentato di asciugare un po’ come veniva.

Dirk gli girò attorno con cautela e tolse il laser dalle dita molli di Janacek. Il teyn di Vikary non era affatto il ferreo Kavalar che Jaan si immaginava.

Sul braccio destro di Janacek c’era ancora il vincolo di ferro-e-pietraluce. Alcune gemme rosse e nere erano state scalzate dalla loro incastonatura; i buchi vuoti parevano osceni. Ma la maggior parte del braccialetto era intatto, tranne nel punto in cui erano state praticate delle lunghe deturpazioni. Anche l’avambraccio di Janacek, al di sopra del braccialetto, era ferito. Erano ferite profonde e spesso proseguivano le striature fatte nel ferro. Sia il braccio che il braccialetto erano incrostati di sangue secco.

Accanto agli stivali di Janacek, Dirk vide il lungo coltello macchiato di sangue. Poteva immaginarsi il resto. Ubriaco, questo era certo, con la mano sinistra in parte impedita dall’antica ferita, aveva cercato di scalzare le pietreluci, poi aveva perso la pazienza ed aveva colpito selvaggiamente, affondando la lama nel suo dolore e nella sua rabbia.

Dirk arretrò leggermente, evitò la camicia bagnata di Janacek, si fermò presso la porta, sollevò il fucile e gridò: «Garse!».

Janacek non si mosse. Dirk ripeté il grido. Questa volta il volume della ronfata diminuì sensibilmente. Incoraggiato, Dirk si chinò e raccolse il primo oggetto che gli venne in mano — una pietraluce — e lo lanciò verso il Kavalar. Colpi Janacek sulla guancia.

L’uomo si mise a sedere lentamente sbattendo gli occhi. Vide Dirk e lo fissò con sguardo truce.

«Alzati», disse Dirk. Gli fece un cenno con il laser.

Janacek si alzò barcollando e si guardò attorno cercando la sua arma.

«Non troverai niente», gli disse Dirk. «L’ho presa io».

Gli occhi di Janacek erano stanchi ed arrossati, ma ormai la sua ubriachezza era quasi del tutto scomparsa. «Perché sei qui, t’Larien?», disse lentamente, con voce da cui traspariva più la stanchezza che l’effetto del vino. «Sei venuto a prendermi in giro?».

Dirk scosse il capo. «No. Mi dispiace per te».

Janacek lo fissò. «Ti dispiace per me?».

«Non ti sembra di fare pietà? Guardati attorno!».

«Attento», gli disse Janacek. «Sfottimi ancora un po’ t’Larien, e scoprirò subito se hai abbastanza fegato da usare quel laser che tieni in maniera tanto balorda».

«No, Garse», disse Dirk. «Per piacere. Mi serve il tuo aiuto».

Janacek rise, gettando indietro il capo in un ruggito.

Quando ebbe finito, Dirk gli disse tutto ciò che era capitato fin da quando Vikary aveva ucciso Myrik Braith a Sfida. Janacek rimase rigido e immobile mentre ascoltava, con le braccia incrociate strettamente sul petto nudo e ferito. Rise ancora una volta… quando Dirk gli disse le sue conclusioni circa Ruark. «I manipolatori di Kimdiss», mormorò Janacek. Dirk lo lasciò brontolare, poi fini la storia.

«Allora?», domandò Janacek quando l’altro ebbe finito. «Cosa ti fa pensare che queste cose mi interessino?».

«Ho immaginato che tu non avessi avuto intenzione di permettere ai Braith di dar la caccia a Jaan come se fosse un animale», disse Dirk.

«È lui che ha voluto diventare un animale».

«Questo secondo i Braith, immagino», rispose Dirk. «Tu sei un Braith?».

«Io sono un Kavalar».

«Allora tutti i Kavalari sono uguali?». Fece un gesto verso la testa di pietra della cariatide nel caminetto. «Vedo che anche tu prendi dei trofei adesso, proprio come Lorimaar».

Janacek non disse niente. I suoi occhi erano durissimi.

«Forse avevo torto», disse Dirk. «Ma quando sono venuto qui e ho visto tutto questo, ho cominciato a pensare. Ho cominciato a pensare che forse tu avevi dei sentimenti umani verso l’uomo che una volta era stato il tuo teyn. Mi sono ricordato che mi avevi detto che tra te e Jaan c’era un vincolo più forte di qualsiasi altro io avessi mai conosciuto. Però penso che questa fosse una bugia».

«Era la verità. È stato Jaan Vikary a spezzare il vincolo».

«Gwen ha spezzato tutti i vincoli che c’erano tra di noi parecchi anni fa», disse Dirk, «eppure io sono venuto quando lei ha avuto bisogno di me. Oh, è poi venuto fuori che lei non aveva proprio bisogno di me ed io sono venuto per un mucchio di motivi egoistici. Comunque sono venuto. Non puoi negarmelo, Garse. Ho mantenuto la mia promessa». Fece una pausa. «E non permetterò a nessuno di farle del male, ammesso che riesca a fermarli. Pare che noi fossimo vincolati da qualcosa che era assai più forte del vostro ferro-e-fuoco Kavalar».

«Dì quel che ti pare t’Larien. Le tue parole non cambiano niente. L’idea di te che mantieni le promesse è ridicola. Che mi dici delle promesse che avevi fatto a Jaan e a me?».

«Le ho tradite», disse rapidamente Dirk. «Lo so. Per cui tu ed io siamo pari, Garse».

«Io non ho tradito nessuno».

«Tu stai abbandonando quelli che ti sono stati più vicini. Gwen, che è stata la tua cro-betheyn, che ha dormito con te, ti ha amato e ti ha odiato tutto assieme. E Jaan. Il tuo prezioso teyn».

«Io non li ho mai traditi», disse Janacek accalorandosi. «Gwen ha tradito me e la giada-e-argento che indossava fin dal giorno in cui si è unita a noi. Jaan ha abbandonato tutto ciò che era valido per il modo in cui ha ucciso Myrik. Mi ha ignorato, ha ignorato i doveri del ferro-e-fuoco. Non devo niente a loro».

«Tu no, davvero?». Dirk sentiva la gemma mormorante sotto la camicia, dura contro la pelle, che lo inondava di parole e memorie, che avevano un senso per l’uomo che una volta lui era stato. Era molto arrabbiato. «E questo spiega tutto? Tu non devi niente a loro, e allora chi se ne frega? Tutti i vostri dannati vincoli Kavalari non sono altro, in definitiva, che debiti ed obblighi. Tradizioni, antica saggezza delle granleghe, come il codice duellesco e la caccia ai falsuomini. Non starci a pensare, ma segui le tradizioni. Ruark aveva ragione su una cosa: non c’è amore in nessuno di voi, tranne forse in Jaan e non ne sono nemmeno completamente sicuro. Che cosa diavolo avrebbe fatto se Gwen non avesse più avuto il suo braccialetto?».

«Sarebbe stato lo stesso!».

«Davvero? E tu? Avresti sfidato Myrik solo perché aveva fatto male a Gwen? O non è stato forse perché aveva danneggiato la tua giada-e-argento?». Dirk sbuffò. «Può darsi che Jaan avrebbe fatto la stessa cosa, ma non tu, Janacek. Tu sei Kavalar come lo stesso Lorimaar, rigido come Chell o Bretan. Jaan voleva che la sua gente fosse migliore, ma immagino che tu volessi solo fare una scorreria e non ci hai creduto nemmeno un istante». Estrasse il laser di Janacek dalla cintura e lo gettò attraverso la stanza con la mano libera. «Ecco», gridò, abbassando il fucile. «Va a cacciare falsuomini!».

Janacek sobbalzò, afferrò l’arma a mezz’aria quasi per riflesso condizionato. La strinse goffamente e si accigliò. «Potrei ucciderti adesso, t’Larien», disse.

«Fallo, oppure non far niente», disse Dirk. «Fa lo stesso. Se tu avessi davvero amato Jaan…».

«Io non amo Jaan», scattò Janacek. «Lui è il mio teyn.

Dirk lasciò sospese le parole del Kavalar in aria per un lungo minuto. Si grattò il mento pensoso. «È?», disse. «Vuoi dire che Jaan era il tuo teyn, non è vero?».

Il rossore di Janacek scomparve così com’era venuto. Sotto la barba un angolo della bocca ebbe un guizzo in modo che a Dirk ricordò Bretan. I suoi occhi si spostarono, quasi furtivamente, in parte vergognosi, verso il pesante braccialetto di ferro che era sempre attaccato al braccio insanguinato.

«Tu non hai tolto tutte le pietreluci, non è vero?», disse gentilmente Dirk.

«No», disse Janacek. La sua voce era stranamente morbida. «No, non le ho tolte. Naturalmente non vuol dire granché. Il ferro fisico non vuol dire niente quando il ferro dell’anima è scomparso».

«Ma non è scomparso, Garse», disse Dirk. «Jaan mi ha parlato di te quando eravamo assieme a Kryne Lamiya. Lo so. Può darsi che lui si senta vincolato co! ferro anche a Gwen e forse in questo sbaglia. Non chiederlo a me. Tutto ciò che so è che per Jaan quell’altro ferro c’è ancora. A Kryne Lamiya portava ancora il braccialetto di ferro-e-fuoco. E continuerà a portarlo anche quando i cani Braith lo abbatteranno, suppongo».

Janacek scosse il capo. «t’Larien», disse, «giurerei che tua madre venisse da Kimdiss. Infatti non riesco a resisterti. Sei un manipolatore nato». Fece un ampio sorriso; era l’antico ghigno, quello che gli aveva lanciato quel mattino quando aveva puntato il laser su Dirk e gli aveva chiesto se la cosa lo allarmasse. «Jaan Vikary è il mio teyn», disse. «Che cosa vuoi farmi fare?».

La conversione di Janacek, anche se un po’ riluttante, risultò però abbastanza completa. Il Kavalar si mise al lavoro quasi immediatamente. Dirk pensava che dovessero andarsene subito e discutere i piani mentre andavano, ma Janacek insistette che avrebbero avuto il tempo per fare una doccia e per rivestirsi. «Se Jaan è ancora vivo, sarà abbastanza al sicuro fino all’alba. I cani non ci vedono bene di notte ed ai Braith non verrà certo la voglia di infilarsi in un bosco di soffocatori con il buio. No, t’Larien, si accamperanno ed aspetteranno. Un uomo solo ed a piedi non può certo andare lontano. Per cui abbiamo tutto il tempo per incontrarci con loro da veri Ferrogiada».

Quando furono pronti a partire, Janacek era riuscito a togliere quasi ogni traccia della sua rabbia da ubriaco. Lui era snello ed immacolato, con un vestito di tessuto camaleonti.no bordato di pelliccia, con la barba ripulita e pettinata, i capelli rosso scuro accuratamente sistemati all’indietro. Il braccio destro era stato bendato e ripulito attentamente, ma era ancora gonfio ed era l’unica traccia rimasta del suo stato precedente. Ma le ferite non parevano avergli recato grossi danni; i suoi movimenti erano eleganti e fluidi mentre caricava il laser e lo controllava, per poi farlo scivolare nella cintura. Oltre alla pistola, Janacek portava anche un coltello a doppia lama ed un fucile come quello di Dirk. Sorrise allegramente mentre lo sollevava.

Dirk si era lavato e rasato mentre aspettava, ed aveva colto l’occasione per mangiare il suo primo vero pasto della giornata. Si sentiva molto più forte quando si avviarono verso la terrazza.

L’interno della grande macchina squadrata di Janacek era stretto come quello de! piccolo relitto con cui Dirk aveva volato provenendo da Kryne Lamiya, anche se la macchina di Janacek aveva quattro piccoli sedili invece di due soli. «La corazzatura», disse Janacek quando Dirk gli fece notare la limitatezza dello spazio. Legò Dirk in un sedile rigido e scomodo con delle strette cinghie da battaglia e fece lo stesso per sé, poi decollò velocemente.

La cabina era leggermente illuminata e completamente chiusa, con calibri e strumenti da tutte le parti, anche sopra le porte. Non c’erano finestre; su un pannello c’erano otto piccoli video che davano otto diverse visuali al pilota dello spazio esterno. Le pareti non erano dipinte, prive di ornamenti in lega di metallo duro.

«Questo veicolo è più vecchio di noi due», disse Janacek mentre si alzava. Pareva che avesse abbastanza voglia di parlare ed era piuttosto amichevole anche se manteneva il suo stile sarcastico. «Ed ha visto più mondi di quelli che hai visto tu. Ha una storia affascinante. Questo particolare modello risale a circa quattrocento anni standard fa. Fu costruito dalle Sapienze di Dam Tullian, ben dentro il Velo Tentatore ed è stato usato in tutte le guerre contro Erikan e Speranza del Vagabondo. Dopo un secolo, più o meno, è stato disattivato e abbandonato. Gli Erikani lo ricuperarono durante un periodo di pace e lo rivendettero agli Angeli d’Acciaio su Bastion. Lo adoperarono in parecchie campagne, finché non venne catturato dai Prometeani. Un commerciante Kimdissi lo prese su Prometeo e me lo vendette ed io lo adattai secondo il codice duellesco. Da quel momento non mi ha più sfidato nessuno al combattimento aereo. Guarda». Allungò una mano e premette il pulsante scintillante e ci fu un’improvvisa accelerazione che spinse Dirk contro il sedile. «Tubi di impulsi ausiliari per velocità di emergenza», disse Janacek ghignando. «Saremo laggiù in meno di metà tempo di quello che ti sarebbe occorso, t’Larien».

«Bene», disse Dirk. C’era qualcosa che lo tormentava. «Hai detto che l’hai comprato da un commerciante Kimdissi?».

«Proprio così», disse Janacek. «I pacifici Kimdissi sono grandi commercianti d’armi. Non rispetto molto i manipolatori, come ben sai. ma naturalmente non mi rifiuto di trarre vantaggio da offerte convenienti».

«Arkin ha menato gran vanto sul fatto di essere non violento», disse Dirk. «Immagino che questo sia un’altra menzogna».

«No», disse Janacek. Guardò Dirk e sorrise. «Sorpreso, t’Larien? Forse la verità è più bizzarra. Noi non chiamiamo i Kimdissi manipolatori senza una buona ragione. Tu hai studiato la storia su Avalon, immagino?».

«Un po’», disse Dirk. «La storia di Vecchia Terra, l’Impero Federale, la Doppia Guerra, l’espansione».

«Comunque non hai studiato la storia dei mondi esterni». Janacek chiocciò. «C’era da aspettarselo. Per tutti i mondi e per tutte le culture dell’impero umano, c’è una storia diversa. Perfino i nomi sono troppi per impararli tutti. Ascolta che ti spiego qualcosa. Quando sei atterrato su Worlorn, hai fatto caso al cerchio di bandiere?».

Dirk lo fissò con sguardo vacuo. «No».

«Può darsi che non siano più al loro posto. Comunque una volta, durante il festival, la piazza subito fuori lo spazioporto era circondata da quattordici bandiere svolazzanti. Si trattava di un’assurda idea Toberiana, comunque era stata accettata come una moda, anche se le bandiere planetarie in dieci casi su quattordici, non rappresentavano niente. C’erano mondi come Eshellin e la Colonia Dimenticata che non sapevano nemmeno che cosa fosse una bandiera, mentre all’estremo opposto, gli Emereli avevano una bandiera diversa per ognuna delle loro cento torri urbane. I Cupoli ci risero dietro ed alzarono una bandiera completamente nera». La cosa pareva divertirlo molto. «Per quanto riguarda Alto Kavalaan, non avevamo una bandiera che rappresentasse tutto il mondo. Comunque ne trovammo una. La prendemmo dalla storia. Un rettangolo suddiviso in quattro quadranti di colori diversi: una banscea verde su campo nero per Ferrogiada, il pipistrello argentato in caccia per Scianagate su campo giallo, spade incrociate in campo cremisi per Rossacciaio e per Braith un lupo bianco su campo purpureo. Era l’antico stendardo della Lega Altolegata.

«La lega venne creata più o meno al tempo in cui le navi spaziali ritornarono per la prima volta su Alto Kavalaan. Ci fu un uomo, un grande leader, chiamato Vikor alto-Rossacciaio Corben. Dominò il consiglio degli altolegati di Rossacciaio per una generazione e quando vennero gli alieni era convinto che tutti i Kavalari dovessero riunirsi per dividere conoscenze e salute in parti uguali. Così formò la Lega Altolegata, con la bandiera che ti ho descritto. Purtroppo l’unione ebbe vita breve. I commercianti Kimdissi, spaventati dalla forza che avrebbe potuto avere un Alto Kavalaan unito, fecero in modo di fornire armi moderne esclusivamente ai Braith. Gli altolegati Braith si erano uniti alla Lega solo per paura; per la verità, loro cercavano di sfuggire alle stelle, che secondo loro erano piene di falsuomini. Comunque non si rifiutarono di accettare i laser da quegli stessi falsuomini.

«Così incominciò l’ultima altaguerra. Ferrogiada, Rossacciaio e Scianagate uniti soggiogarono Braith, malgrado le armi dei Kimdissi, ma Vikor alto-Rossacciaio venne ucciso ed il prezzo in vite umane fu spaventoso. La Lega Altolegata sopravvisse al suo fondatore per pochissimi anni. I Braith, malamente battuti, si rafforzarono nel convincimento di essere stati giocati ed adoperati dai falsuomini Kimdissi e per questa ragione si attaccarono ancora di più alle antiche tradizioni. Per sanzionare la pace nel sangue e per renderla durevole, la Lega — ormai dominata dagli Altolegati di Scianagate — trascinò tutti i commercianti Kimdissi su Alto Kavalaan e, per buona misura, anche una nave di Toberiani. Li dichiarò tutti criminali di guerra — tra l’altro questo è un termine che ci hanno insegnato gli stranieri — li hanno liberati sulle pianure per farli cacciare come falsuomini. Le banscee ne uccisero molti, altri morirono di fame, ma i più vennero catturati dai cacciatori che portavano a casa le loro teste per trofeo. Si dice che gli Altolegati Braith godessero particolarmente nello scuoiare gli uomini da cui erano stati armati e da cui avevano ricevuto consiglio.

«Al giorno d’oggi non siamo più troppo fieri di quella caccia, comunque ne capiamo le ragioni. La guerra era stata la più lunga e la più sanguinosa fin dal Tempo del Fuoco e dei Demoni. Furono epoche di gran dolore e di odio immenso e la Lega Altolegata ne uscì distrutta. L’Unione Ferrogiada cercò di trattenere i cacciatori, dichiarando che i Kimdissi erano umani. Venne immediatamente seguita da Rossacciaio. Gli uccisori di falsuomini erano solo Braith e Scianagate, per cui la Fortezza di Scianagate rimase isolata. La bandiera di Vikor venne presto abbandonata e dimenticata, finché non ce ne ricordammo per via del festival».

Janacek fece una pausa e guardò Dirk. «Capisci la verità adesso t’Larien?».

«Riesco a capire perché Kavalari e Kimdissi non si amino molto», ammise Dirk.

Janacek rise. «La cosa va al di là della nostra storia», disse. «Kimdiss non ha fatto nessuna guerra, eppure è un mondo con le mani insanguinate. Quando Tober-nel-Velo attaccò Lupania, i manipolatori fornirono armi ad entrambe le parti. Quando la guerra civile scoppiò su di-Emerel, tra le urbanità il cui universo è costituito da un unico edificio ed i disaffezionati cercatori di stelle che erano impazienti di trovare più ampi orizzonti, Kimdiss si sentì chiamato in causa e diede i mezzi alle urbanità per vincere il conflitto in maniera conclusiva». Rise. «Per la verità t’Larien, ci sono anche delle voci che parlano di complotti Kimdissi fin dentro il Velo Tentatore. Si dice che furono i Kimdissi a mettere gli Angeli d’Acciaio e gli Uomini Modificati di Prometeo gli uni contro gli altri, che fecero deporre il Quarto Cuchulainn di Tara poiché rifiutò di commerciare con loro, che hanno interferito su Braque per mantenere sopita la tecnologia sotto il peso dei preti Braqui. Conosci l’antica religione dei Kimdissi?».

«No».

«Tu la approveresti», disse Janacek. «Si tratta di un credo pacifico e civile, estremamente complesso. Può servire per giustificare tutto, tranne la violenza personale. Eppure il loro grande profeta, il Figlio dei Sognatori — ormai una figura mitica anche se continuano a riverirlo — una volta disse: "Ricordatevi, il vostro nemico ha un nemico". Proprio così. Questo è il fulcro della saggezza Kimdissi».

Dirk si agitò a disagio sul sedile. «Vorresti dire che Ruark…».

«Io non dico niente», lo interruppe Janacek. «Trai tu stesso le tue conclusioni. Non è necessario che io ti fornisca le mie. Ho detto tutto questo una volta anche a Gwen Delvano, perché lei era la mia cro-betheyn ed io ero preoccupato. La cosa la diverti parecchio. La storia non significava niente, mi disse. Arkin Ruark era solo se stesso, non l’archetipo della storia degli altri mondi. Così mi informò. Lui era anche suo amico, mi fu detto, e mi spiegò questo vincolo, questa amicizia», disse la parola con voce acida, «era qualcosa che in qualche modo trascendeva il fatto che quello era un bugiardo ed un Kimdissi. Gwen mi disse di guardare la mia storia. Se Arkin Ruark doveva essere considerato un manipolatore solo perché era nato su Kimdiss, allora io ero un cacciatore di teste di falsuomini, solo perché ero Kavalar».

Dirk ci pensò un po’. «Lei aveva ragione, sai», disse tranquillamente.

«Ah! Davvero?».

«La sua argomentazione era giusta», disse Dirk. «Pare che avesse torto nella fiducia che aveva per Ruark, ma in generale…».

«In generale è meglio non fidarsi di tutti i Kimdissi», disse deciso Janacek. «Tu stesso sei stato tradito ed adoperato, t’Larie’n, eppure non hai ancora imparato. Sei molto simile a Gwen. Adesso basta».

Batté una nocca su di un video. «Siamo ormai vicini alle montagne. Non ci vorrà ancora molto».

Dirk aveva afferrato strettamente il fucile a laser. Si asciugò le mani sudate sui pantaloni. «Tu hai un piano?».

«Sì», disse Janacek, ghignando. Così dicendo si piegò in avanti, superando lo spazio che li divideva e tolse delicatamente di mano il laser a Dirk. «Un piano semplicissimo, per la verità», continuò, mettendo l’arma a terra con cura, lontana dalla sua portata. «Ti riconsegnerò a Lorimaar».

12

Dirk non ne fu stupito. Sotto gli abiti sentiva sempre la gemma mormorante a contatto della pelle, che gli ricordava le passate promesse ed i passati tradimenti. Aveva quasi cessato di preoccuparsi. Incrociò le braccia ed attese.

Janacek parve deluso. «Pare che non te ne importi», disse.

«Fa lo stesso, Garse», rispose Dirk. «Quando lasciai Kryne Lamiya, mi aspettavo di morire». Sospirò. «Comunque, come può ritornare utile a Jaan, tutto questo?».

Janacek non rispose subito; i suoi occhi azzurri soppesarono a lungo Dirk. «Stai cambiando, t’Larien», disse alla fine, senza più sorridere. «Davvero ti importa più del fato di Jaan Vikary che del tuo?».

«Come faccio a saperlo?», disse Dirk. «Vai avanti con il tuo piano!».

Janacek si accigliò. «Ho pensato di atterrare nell’accampamento dei Braith per un confronto diretto. Ma poi ho scartato l’idea. Il mio desiderio di morte non è stato nutrito tanto a lungo come il tuo. Se sfidassi a duello uno dei cacciatori, o molti cacciatori, sarebbe sempre una cosa fatta per aiutare un fuorilegge criminale. Non accetterebbero mai di affrontarmi. La mia situazione, per il momento è incerta; a causa di quello che ho detto ed ho fatto a Sfida, i Braith pensano ancora che io sia umano, anche se caduto in disgrazia. Tuttavia se cercassi di aiutare apertamente Jaan, ai loro occhi risulterei anche io tarato. La cortesia del codice non sarebbe valida per molto. Diventerei un criminale anch’io e probabilmente un falsuomo.

«La seconda alternativa sarebbe di attaccarli improvvisamente, senza preavviso, ed ucciderne il più possibile. Però non sono così depravato da poter prendere seriamente in considerazione questa idea. Perfino il comportamento tenuto da Jaan verso Myrik parrebbe onesto, di fronte a tanto crimine.

«La cosa migliore sarebbe, naturalmente, che noi volassimo fino dove si trova Jaan, lo prendessimo e lo portassimo segretamente in salvo. Però non vedo molte possibilità di riuscita. I Braith hanno i cani e noi no. Loro sono cacciatori esperti e cercatori di tracce, soprattutto Pyr Braith Oryan e Lorimaar alto-Braith. Io sono molto meno abile e tu sei inutilizzabile. Ci sono eccellenti possibilità che riescano loro per primi a trovare Jaan.

«Sì», disse Dirk. «Allora?».

«Aiutando Jaan io sarò per sempre un falso Kavalar», disse Janacek a voce bassissima e tormentata. «Perciò voglio essere un po’ meno falso. Ecco qual’è la nostra migliore possibilità. Voleremo là apertamente e ti consegnerò a loro, come ho già detto. La cosa sarà per lo meno un po’ credibile, da parte loro. Poi mi unirò ai cacciatori e farò il possibile per provocare degli omicidi. Magari ci potrebbe essere la possibilità di provocare una lite e sfidare qualcuno di loro a duello, in maniera che non dia atto a pensare che sto proteggendo Jaan Vikary».

«Potresti perdere», sottolineò Dirk.

Janacek annuì. «Abbastanza vero. Potrei perdere. Comunque credo di no. In un duello singolo, solo Bretan Braith Lantry è un antagonista davvero pericoloso e lui ed il suo teyn non fanno parte dei cacciatori, se le macchine che tu hai visto erano tutte quelle a loro disposizione. Lorimaar è abile, ma Jaan ha ferito anche lui a Sfida. Pyr è rapido e abile con il suo bastone, ma non con le lame o con le pistole. Gli altri sono tutti vecchi e deboli. Non perderò».

«E se non riuscirai a trascinarli in un duello?».

«Be’, potrò sempre essere nei paraggi quando raggiungeranno Jaan».

«E poi?».

«Non lo so. Comunque non lo prenderanno. Ti posso promettere questo, t’Larien. Non lo prenderanno».

«E intanto che ne sarà di me?».

Janacek sollevò ancora lo sguardo ed i suoi occhi azzurri erano fissi su di lui, pensosi. «Tu sarai in grande pericolo», disse il Kavalar, «ma non credo che ti uccideranno subito e certamente non quando io ti consegnerò a loro, legato ed inoffensivo. Vorranno darti la caccia. Può darsi che Pyr ti reclami come vittima. Spero che loro ti sleghino, ti spoglino e ti facciano fuggire nella foresta. Se qualcuno darà la caccia a te, dovrà distogliere la sua attenzione da Jaan. Ma c’è anche un’altra possibilità. A Sfida, Pyr e Bretan avevano quasi bisticciato per te. Se Bretan dovesse unirsi ai cacciatori, è probabile che riprendano a bisticciare. La cosa può esserci solo d’aiuto».

Dirk sorrise. «Il tuo nemico ha un nemico», disse sarcastico.

Janacek ghignò. «Io non sono Arkin Ruark», disse. «Se posso ti aiuterò. Prima di arrivare all’accampamento dei Braith, lasceremo cadere, il più segretamente possibile, questa arma da fuoco. La lasceremo presso la macchina che tu hai visto distrutta nel bosco: il tuo laser. Poi, dopo che ti avranno liberato e ti avranno fatto fuggire nudo per la foresta, tu andrai in cerca dell’arma e si spera che tu riesca a sorprendere quelli che ti verranno dietro». Si strinse nelle spalle. «La tua vita può dipendere dal fatto che tu sia in grado di scappare velocemente e nella giusta direzione e, naturalmente, dalla tua precisione nello sparare».

«Ammesso che sìa capace di ammazzare», aggiunse Dirk.

«Ammesso che tu sia capace di ammazzare», convenne Janacek. «Non ti posso dare altre vie d’uscita, t’Larien».

«Accetto quella che mi offri», disse Dirk. Poi volarono in silenzio per parecchio tempo. Ma quando i denti neri delle montagne furono scomparsi dietro di loro e Janacek ebbe spento tutte le luci dell’aerauto, cominciando la lenta, attenta discesa, Dirk si voltò per parlare ancora. «Che cosa avresti fatto», chiese, «se avessi rifiutato di seguire il tuo piano?».

Garse Janacek si girò sul sedile e posò la mano destra sul braccio di Dirk. Le pietreluci intatte ardevano debolmente contro il ferro del braccialetto. «Il vincolo di ferro-e-fuoco è più forte di qualsiasi vincolo che tu conosca», disse il Kavalar con voce grave, «e molto più forte di qualsiasi vincolo di fuggevole gratitudine. Se tu avessi rifiutato, t’Larien, ti avrei tagliato la lingua in modo che tu non potessi riferire i miei piani ai Braith e sarei andato avanti lo stesso. Volente o nolente, tu avresti dovuto recitare il tuo ruolo. Cerca di capirmi, t’Larien, io non ti odio, anche se tu ti saresti meritato il mio disprezzo un milione di volte. A volte ho addirittura scoperto che mi piacevi, come un Ferrogiada può provare simpatia per uno straniero. Non ti avrei colpito alle spalle. Però ti avrei colpito. Perché ci ho pensato parecchio ed il mio piano è l’unica speranza per Jaan Vikary».

Mentre parlava non c’era la minima traccia di sorriso sul viso di Janacek. Una volta tanto non stava scherzando.

Dirk non ebbe molto tempo per riflettere sulle parole di Janacek. Scesero nella notte come un masso incredibilmente lieve e scivolarono simili ad un fantasma sulle cime dei soffocatori. Il relitto ardeva ancora leggermente arancione (la luce trapelava dalla parte centrale di un albero caduto, annerito), e la nebbia fumigante ne nascondeva i contorni. Janacek rimase librato sul relitto, aprì una delle grandi porte corazzate e gettò il fucile a laser sul terreno della foresta, pochi metri più in basso. Quando Dirk insistette gettò anche il giubbotto dei Braith che Dirk aveva indosso, che sarebbe stato una benedizione per uno che scappava nudo per la foresta, essendo fatto di cuoio e di pelliccia.

Dopo di che si risollevarono di nuovo in alto, nel cielo e Garse legò Dirk mani e piedi. Le corde sottili erano tese e dolorose, minacciando di bloccare la circolazione sanguigna, per cui parevano anche più autentiche. Poi, accesi i fari ed attivate le lampade, Janacek si spostò verso il cerchio di luci.

I cani erano raggruppati fuori e dormivano vicino all’acqua, ma si svegliarono quando la strana aerauto scese e Janacek atterrò circondato dai loro ululati selvaggi. C’era solo un Braith in giro, il cacciatore pelle e ossa coi capelli neri e spettinati che gli stavano diritti come se fossero dei croccanti fritti fatti di carbone. Il teyn di Pyr, come ben sapeva Dirk, anche se non ne conosceva il nome. L’uomo era seduto vicino ad un piccolo fuoco accanto ai cani Braith, con un fucile a laser di fianco, quando lo videro la prima volta. Ma si sollevò velocemente in piedi, quando scesero.

Janacek apri nuovamente la porta massiccia, sollevandola in alto, facendo penetrare il freddo notturno nella cabina calda. Tirò in piedi Dirk e lo buttò rudemente fuori, costringendolo ad inginocchiarsi nella sabbia gelata.

«Ferrogiada», disse rocamente l’uomo di guardia. A quel punto i suoi kethi stavano già uscendo, strappati ai loro sacchi a pelo ed ammucchiandosi fuori dalle aerauto.

«Ho un regalo per voi», disse Janacek, con le mani ai fianchi. «Un’offerta da Ferrogiada a Braith».

I cacciatori erano sei in tutto, notò Dirk alzando gli occhi dal punto in cui stava inginocchiato; tutti quanti erano anche a Sfida. Pyr, calvo e massiccio dormiva fuori, accanto al suo teyn; fu il primo ad alzarsi. Subito dopo arrivò Roseph alto-Braith e il suo compagno muscoloso e calmo. Anche loro si erano addormentati fuori, vicino alla macchina. Per ultimo arrivò Lorimaar alto-Braith Arkellor, con la parte sinistra del torace fasciata con bende scure. Usci lentamente dall’aerauto a cupola, appoggiandosi al braccio dell’uomo grasso che già prima era con lui. Tutti e sei parevano un po’ addormentati… completamente vestiti ed armati.

«Il regalo», disse Pyr, «è apprezzabile, Ferrogiada». Portava una pistola legata ad una cintura nera metallica, ma non aveva il bastone e senza di quello pareva quasi incompleto.

«La tua presenza non è apprezzata», disse Lorimaar, mentre si avvicinava faticosamente agli altri. Si appoggiava quasi completamente al suo teyn, sicché pareva curvo e spezzato e non più il gigante che era stato un tempo. E Dirk guardandolo, ebbe l’impressione di distinguere nuove rughe nella sua pelle scura, profondamente segnata… canali dolorosi appena incisi.

«Adesso è perfettamente ovvio che i duelli per i quali sono stato nominato arbitro non si faranno mai», disse tranquillamente Roseph, e la sua voce non risentiva minimamente della pesante ostilità che gravava sulla voce di Lorimaar, «per cui non ho nessuna particolare autorità e non posso pretendere di parlare a nome di Alto Kavalaan, o di Braith. Comunque sono sicuro di poter parlare a nome di noi tutti. Noi non tollereremo la tua interferenza, Ferrogiada. Con o senza regalo di sangue».

«Vero», disse Lorimaar.

«Io non cerco di interferire», disse loro Janacek. «Io cerco di unirmi a voi».

«Noi diamo la caccia al tuo teyn», disse il compagno di Pyr.

«Lo sa benissimo», scattò Pyr.

«Io non ho teyn», disse Janacek. «C’è un animale che vaga per la foresta con su il mio ferro-e-fuoco. Vi aiuterò ad ucciderlo per riavere la cosa che è mia». Lo disse con durezza, in maniera molto convincente.

Uno dei cani continuava ad andare avanti e indietro, impaziente, attaccato alla catena. Ringhiò e si fermò abbastanza a lungo, arricciando il muso da ratto verso Janacek e snudando una fila di canini ingialliti. «È un bugiardo», disse Lorimaar alto-Braith, «Perfino i nostri cani sentono l’odore delle sue bugie. A loro non piace».

«Un falsuomo», aggiunse il suo teyn.

Garse Janacek voltò il capo lentamente. Il fuoco da campo accese riflessi rossi sulla sua barba, mentre lui sorrideva col suo sorriso sottile e minaccioso. «Saanel Braith», disse, «il tuo teyn è ferito e quindi può insultarmi impunemente, ben sapendo che non gli posso chiedere di fare le sue scelte. Ma tu non godi di questo privilegio».

«Per il momento », disse Roseph con voce stridula. «Questo è un trucco che non ti permetteremo, Ferrogiada. Non ti permetteremo di sfidarci a duello uno dopo l’altro, in modo da poter salvare il tuo teyn fuorilegge».

«Ho giurato che non ho nessuna intenzione di salvarlo. Non ho nessun teyn. Non potete spogliarmi dei miei diritti nell’ambito del codice».

Roseph, piccolo ed accartocciato — il più piccolo dei Kavalari di almeno mezzo metro — fissò Janacek e non recedette. «Siamo su Worlorn», disse. «E facciamo quel che ci pare». Molti altri mormorarono un assenso.

«Voi siete Kavalari», insistette Janacek, ma il suo viso fu scosso da un accenno di dubbio. «Voi siete Braith ed altolegati di Braith, vincolati alla vostra granlega, al vostro consiglio ed alle sue abitudini».

«Negli anni passati», disse Pyr con un sorriso, «ho visto molti dei miei kethi ed anche molti più uomini delle altre granleghe che abbandonavano l’antica saggezza. "Questo e questo e questo è sbagliato" direbbero gli ampollosi Ferrogiada. "Noi non li seguiremo". E quelle pecore di Rossacciaio vanno loro dietro, come gli effeminati uomini di Scianagate e purtroppo molti Braith. I miei ricordi sono falsi? Tu stai lì e ci predichi il codice, ma io mi ricordo che quando ero giovane i Ferrogiada mi avevano detto che non potevo più fare la caccia ai falsuomini. Mi ricordo forse male se penso a quei Kavalari di burro che furono mandati su Avalon per imparare la navigazione spaziale, le armi ed altre cose utili e che ritornarono pieni di menzogne su come si doveva cambiare un’abitudine, e l’altra, e che il nostro antico codice era una vergogna, anche se prima era sempre stato il nostro orgoglio? Dimmi, Ferrogiada, sbaglio?».

Garse non disse niente. Incrociò le braccia strettamente al petto.

«Jaan Vikary, un tempo alto-Ferrogiada, era il più grande di tutti i fautori di cambiamenti, di tutti i bugiardi. Tu non gli stavi molto lontano», disse Lorimaar.

«Io non sono mai stato su Avalon», disse semplicemente Janacek.

«Rispondimi», disse Pyr. «Tu e Vikary non avete cercato di cambiare le vecchie abitudini? Non avete forse deriso le parti del codice che non vi piacevano?».

«Io non ho mai spezzato il codice», disse Janacek. «Jaan… Jaan forse qualche volta…», balbettò.

«Lo ammette», disse il grasso Saanel.

«Abbiamo parlato tra di noi», disse Roseph con voce calma. «Se gli altolegati possono ammazzare al di fuori del codice, se le cose che secondo noi sono vere possono essere cambiate e disprezzate, allora possiamo fare dei cambiamenti anche noi e rifiutare i falsi insegnamenti che ci danno fastidio. Noi non siamo più vincolati a Braith, Ferrogiada. È la migliore delle granleghe, ma non è buona abbastanza, i nostri vecchi kethi hanno acquisito troppe bugie morbide nei loro cuori. Ma noi non saremo più trattati come giocattoli e piegati al loro volere. Torneremo alle vecchie verità, al credo che era già antico prima che crollasse Pugnodibronzo, anche ai giorni in cui gli altolegati di Ferrogiada, Taal e dei Siti del Carbone Profondo combatterono assieme contro i demoni nei Colli Lamerani».

«Vedi, Ferrogiada», disse Pyr, «tu ci chiami con nomi falsi».

«Non lo sapevo», disse Janacek, piuttosto lentamente.

«Chiamaci nel modo giusto. Noi non siamo Braith».

Gli occhi del Ferrogiada parevano bui ed ammantati. Teneva sempre le braccia incrociate. Fissò Lorimaar. «Tu hai fatto una nuova granlega», disse.

«C’è un precedente», disse Roseph. «Rossacciaio nacque da quelli che li allontanarono da Monte di Pietraluce e lo stesso Braith è nato da Pugnodibronzo».

«Io sono Lorimaar Reln Volpebianca alto-Larteyn Arkellor», disse Lorimaar con la sua voce dura, piena di dolore.

«Onore alla tua granlega», rispose Janacek, mantenendosi rigido, «onore al tuo teyn».

«Siamo tutti Larteyn», disse Roseph.

Pyr rise. «Siamo il consiglio degli altolegati di Larteyn e riconosciamo l’antico codice», disse.

Nel silenzio che seguì, gli occhi di Janacek passarono da un viso all’altro. Dirk, sempre immobilizzato ed inginocchiato nella sabbia, osservò il movimento della sua lesta, voltandosi ora verso uno, ora verso l’altro. «Voi avete preso il nome di Larteyn», disse alla fine Janacek, «per cui siete dei Larteyn. Tutte le antiche leggi sono d’accordo su questo. Comunque vi ricordo che tutte le cose di cui parlate, gli uomini, gli insegnamenti e le granleghe che invocate, sono tutte morte. Pugnodibronzo e Taal furono distrutte nelle alteguerre prima che voi tutti nasceste ed i Siti del Carbone Profondo erano già abbandonati ed allagati fin dal tempo del Fuoco e dei Demoni».

«La loro sapienza vive in Larteyn», disse Saanel.

«Siete soltanto sei», disse Janacek, «e Worlorn sta morendo».

«Sotto di noi prospererà ancora», disse Roseph. «La notizia si spargerà su Alto Kavalaan ed altri ci raggiungeranno. Qui naseranno i nostri figli, per cacciare in questi boschi di soffocatori».

«Come volete», disse Janacek. «Comunque per me è lo stesso. Ferrogiada non ha niente contro Larteyn. Sono venuto da voi scopertamente e vi ho solo chiesto di potermi unire a voi nella caccia». Fece cadere la mano sulla spalla di Dirk. «E vi ho portato un dono di sangue».

«Vero», disse Pyr e restò zitto per un attimo. Poi rivolto agli altri: «lo dico di lasciarlo venire».

«No», disse Lorimaar. «Non mi fido di lui. È troppo impaziente».

«C’è una buona ragione, Lorimaar alto-Larteyn», disse Janacek. «Sulla mia granlega è scesa una grande vergogna e pure sul mio nome. Sono impaziente di lavarla».

«Un uomo deve vendicare il suo onore, a prescindere da quanto possa essere doloroso», disse Roseph annuendo. «Ciò è piuttosto vero per tutti quanti».

«Lasciamolo cacciare», disse il teyn di Roseph. «Noi siamo sei e lui è solo. Come fa ad essere pericoloso?».

«È un bugiardo!», insistette Lorimaar. «Come ha fatto ad arrivare fino qui da noi? Chiedeteglielo un po’! E guardate!» Indicò il braccio destro di Janacek, dove le pietreluci brillavano come occhi rossi nelle loro incastonature. Ne mancavano solo alcune.

Janacek mise la mano sinistra sul coltello e lo sfilò dal fodero. Poi tese la destra a Pyr. «Aiutami a tenere fermo il braccio», disse in tono calmo e conversativo, «e strapperò i falsi fuochi di Jaan Vikary».

«Pyr fece ciò che gli era stato chiesto. Nessuno parlava. La mano di Janacek era rapida e sicura. Quando ebbe finito, le pietreluci giacevano nella sabbia simili a braci di un fuoco calpestato. Si chinò e ne prese una, la lanciò in alto e la riprese, come se volesse verificarne il peso, sempre sorridendo. Poi gettò all’indietro il braccio e la lanciò; la pietra si sollevò in alto e fece un lungo percorso prima di cominciare a cadere. Alla fine del suo arco, scendendo, pareva quasi una stella cadente. Dirk quasi si aspettava che sibilasse cadendo nelle scure acque del lago. Ma non si sentì nessun rumore, a quella distanza non si sentì nemmeno il tonfo.

Janacek raccolse tutte le pietreluci, le fece rotolare un istante sulla mano e le consegnò al lago.

Quando anche l’ultima fu sparita, si voltò verso i cacciatori e sollevò il braccio destro. «Vuoto ferro», disse. «Guardate. Il mio teyn è morto».

Dopo di ciò non vi furono altri inconvenienti.

«L’alba ci ha quasi raggiunto», disse Pyr. «Fate scappare la mia preda».

Così i cacciatori volsero l’attenzione a Dirk e le cose andarono proprio come gli era stato detto. Gli liberarono le mani e i piedi e gli diedero il tempo di soffregarsi polsi e caviglie per rimettere in circolo il sangue. Poi venne spinto contro un aerauto e Roseph ed il grasso Saanel lo tennero fermo mentre Pyr in persona gli tagliava i vestiti. Il cacciatore calvo maneggiava il coltellino con la stessa destrezza con cui manovrava il bastone, ma non fu morbido; fece un lungo taglio nella parte interna della coscia di Dirk ed uno più piccolo ma più profondo sul petto.

Dirk fece una smorfia quando Pyr lo colpì, ma non tentò di resistere. Quando infine fu completamente nudo e cominciò a tremare nel vento, la schiena premeva troppo forte contro il freddo fianco di metallo della macchina.

Pyr si accigliò all’improvviso. «E questo cos’è?», disse e avvolse la piccola mano bianca attorno alla gemma mormorante appesa al collo di Dirk.

«No», disse Dirk.

Pyr tirò forte con un movimento torcente. La sottile catenina d’argento scavò dolorosamente la gola di Dirk; la gemma si liberò dal fermaglio improvvisato.

«No!», gridò Dirk. Si gettò immediatamente in avanti e cominciò a lottare. Roseph inciampò e perse la presa del braccio di Dirk, poi cadde. Saanel si aggrappò ferocemente. Dirk lo colpì duro sul collo taurino, appena sotto il mento. Il grassone lo lasciò andare bestemmiando e Dirk girò attorno a Pyr.

Pyr aveva raccolto il suo bastone. Sorrideva. Dirk fece un unico passo veloce verso di lui e si fermò.

L’esitazione fu sufficiente. Saanel fece scivolare un grosso braccio attorno alla testa da dietro e cominciò ad applicare una morsa che gradualmente tendeva a soffocarlo.

Pyr guardava con disinteresse. Gettò il bastone nella sabbia e tenne la gemma mormorante tra pollice e indice. «Gioielli di falsuomini», disse sdegnato. Non vuol dir niente per lui; non c’erano risonanze nella sua mente con i modelli esperincisi nella pietra. Forse avrebbe notato che la piccola lacrima era molto fredda al tatto. Forse no… ma non udì sussurri. Chiamò il suo teyn che col piede stava gettando sabbia sul fuoco. «Ti piacerebbe un regalo da t’Larien?».

Senza dir niente l’uomo venne avanti, prese il gioiello, lo tenne in mano per un istante, poi lo mise nella tasca della giacca. Si voltò senza sorridere e cominciò a camminare attorno al perimetro del campo Braith, spegnendo le torce a mano elettriche che erano state piantate nella sabbia. Quando le luci si spensero, Dirk vide che l’orizzonte orientale era già arrossato dall’alba.

Pyr fece un cenno con il suo bastone a Saanel. «Lascialo», gli ordinò ed il grassone allentò la stretta e fece un passo indietro. Dirk fu di nuovo libero. Il collo gli faceva male e la sabbia asciutta sotto i piedi era ruvida e fredda. Si sentì molto vulnerabile. Senza la gemma mormorante aveva molta più paura adesso. Si guardò attorno per vedere Garse Janacek, ma il Ferrogiada era lontano dall’altra parte del campo che parlava attentamente con Lorimaar.

«L’alba è già qui», disse Pyr. «Io ti seguirò subito, falsuomo. Scappa».

Dirk guardò sopra la spalla. Roseph aggrottò la fronte e si massaggiò ia spalla; aveva fatto una brutta caduta quando Dirk si era liberato. Saanel, sogghignando, si era appoggiato contro un aerauto. Dirk fece alcuni passi allontanandosi da loro, esitante, avviandosi verso la foresta.

«Via, t’Larien, sono sicuro che tu sai correre più veloce di così», gli gridò Pyr. «Se corri abbastanza forte, puoi anche cavartela. Io ti sarò dietro tra poco, con il mio teyn e i nostri cani». Si tolse la pistola dal fianco e la lanciò, facendola roteare, verso Saanel, che l’afferrò, inglobandola nelle mani massicce dalle dita quadrate. «Non avrò laser, t’Larien», continuò Pyr. «Sarà una caccia purissima, alla vecchia maniera. Un cacciatore col coltello ed il pugnale da lancio, una preda nuda. Scappa, t’Larien, scappa!». Il suo compagno ossuto con i capelli neri, gli era venuto vicino per seguirlo. «Mio teyn», gli disse Pyr, «libera i cani».

Dirk roteò su se stesso e scattò verso il bordo della foresta.

Fu una corsa d’incubo.

Gli avevano preso gli stivali; non era nemmeno andato avanti per tre metri, che già si era fatto un taglio nel piede con una pietra aguzza nascosta nel buio e cominciò a zoppicare. C’erano un mucchio di pietre. Mentre correva gli pareva di trovarle tutte.

Gli avevano tolto i vestiti; stando al coperto degli alberi era un po’ meglio, perché non c’era il vento che soffiava forte, ma aveva ancora freddo. Molto freddo. Per un bel po’ ebbe la pelle d’oca, poi gli passò. Gli vennero altri dolori ed il freddo perse tutta la sua importanza.

La foresta di quel mondo era troppo scura e troppo luminosa. Troppo scura per poter vedere dove stava andando. Inciampava nelle radici, si sbucciò le ginocchia e le mani gli sanguinarono parecchio, cadde dentro i buchi. Ma era al tempo stesso troppo luminosa. L’alba stava arrivando troppo in fretta, troppo in fretta, la luce si spandeva scialba al di sopra degli alberi. Stava per perdere il suo punto di riferimento. Alzava gli occhi per vederlo ogni volta che raggiungeva una radura, ogni volta che gli era possibile vedere qualcosa attraverso il denso fogliame che penzolava dall’alto, alzava gli occhi e la vedeva. Una stella solitaria e rossa, la stella di Alto Kavalaan che fiammeggiava nel cielo di Worlorn. Garse gliela aveva indicata e gli aveva detto di seguirne la direzione se si fosse perduto. La stella lo avrebbe condotto attraverso la foresta al suo laser ed al suo giubbotto. Ma l’alba stava salendo, e saliva troppo in fretta; i Braith ci avevano impiegato troppo tempo a liberarlo. E tutte le volte che alzava gli occhi e cercava di seguire la direzione giusta — la foresta era fitta e confusa, i soffocatori formavano delle pareti impenetrabili in certi punti e lo costringevano a degli aggiramenti, tutte le direzioni parevano uguali e non ci voleva niente a perdere la strada — ogni volta che cercava il suo punto di riferimento, questo era sempre più debole, sempre più slavato. La luce orientale aveva assunto una colorazione rossastra: da qualche parte, laggiù, c’era Grasso Satana che sorgeva e presto la sua stella amica sarebbe stata cancellata dalla luce di quel falso crepuscolo. Tentò di correre più in fretta.

C’era meno di un chilometro da percorrere, meno di un chilometro. Ma un chilometro era una distanza notevole da percorrere in una foresta, nudo, sul punto di perdersi. Stava correndo da dieci minuti, quando sentì i cani Braith che abbaiavano selvaggiamente al suo inseguimento.

Dopo di ciò non pensò più a niente e non era nemmeno preoccupato. Correva.

Scappò, afferrato da un panico animalesco, respirando forte, sanguinante, con tutto il corpo che gli tremava e gli doleva. La corsa divenne una cosa senza fine, una cosa al di fuori del tempo, un sogno febbrile fatto di piedi che battevano freneticamente e frammenti di sensazioni vivide e dei rumori dei cani dietro di lui, che si facevano sempre più vicini… o per lo meno gli pareva. Correva e correva e non arrivava in nessun posto, correva e correva e non si muoveva. Finì in un folto cespuglio di rovi e le spine dalla punta rossa gli bucarono la pelle in un centinaio di posti e non gridò; correva, correva. Raggiunse una zona di lastre grige e lisce e cadde, cercando di superarle velocemente, e si ferì il mento battendo con uno schianto contro la pietra e si trovò la bocca piena di sangue che sì affrettò a sputare. C’era del sangue sulle pietre. Non c’era da meravigliarsi che fosse caduto; il suo sangue, tutto quel sangue, che gli era uscito dalle ferite dei piedi.

Si arrampicò sulle lastre lisce e raggiunse di nuovo gli alberi e corse ancora, selvaggiamente, finché gli venne in mente che non aveva più tenuto conto del suo punto di riferimento. E poi lo rivide, lo aveva alle spalle, un po’ di lato, molto sbiadito, un piccolo puntino scintillante nel cielo~ scarlatto. Si voltò e andò in quella direzione, inciampando in radici invisibili, strappando freneticamente con le mani il fogliame, scappando, scappando. Si imbatté in un ramo basso, cadde a terra e si rialzò tenendosi il capo, continuò a correre. Inciampò in uno scivoloso strato di muschio, nero, che sapeva di marcio, si alzò coperto di melma, puzzolente, corse, corse. Cercò la sua stella ed era scomparsa. Continuò ad andare. Doveva essere la strada giusta, doveva. I cani gli erano dietro e abbaiavano. C’era solo un chilometro, era meno di un chilometro. Stava gelando. Era tutto un fuoco. Il torace era pieno di coltelli. Continuò a correre, barcollò, inciampò e cadde, si alzò, continuò a correre. C’erano i cani dietro di lui, vicini, vicini, i cani gli erano dietro.

E poi improvvisamente — non seppe dire quando, non sapeva per quanto tempo avesse corso, non sapeva quanti chilometri avesse percorso, la stella era scomparsa — gli parve di sentire un leggero odore di fumo portato dal vento della foresta. Corse da quella parte ed usci dagli alberi in una piccola radura. Si lanciò dalla parte opposta dello spiazzo e si fermò.

I cani erano davanti a lui.

Per lo meno uno di loro. Venne fuori furtivamente dagli alberi ringhiando, con gli occhietti feroci, il muso privo di peli tirato indietro per mostrare le zanne orribili. Cercò di aggirarlo, ma quello gli fu sopra, sferzandolo e girando con lui, poi saltò. Dirk cadde sulle ginocchia; il cane lo circondò e chiudeva le mascelle tutte le volte che cercava di alzarsi in piedi. Gli aveva morso il braccio sinistro ed era uscito dell’altro sangue, ma non lo aveva ucciso, non gli aveva strappato la gola. Ammaestrato, pensò, era ammaestrato. Gli girava attorno, girava, ed i suoi occhi non lo abbandonavano mai. Pyr lo aveva mandato avanti e adesso veniva dietro con il suo teyn e gli altri cani. Questo serviva per intrappolarlo finché non arrivavano gli altri.

Improvvisamente Dirk balzò in piedi e si lanciò verso gli alberi. Il cane saltò, lo gettò di nuovo a terra, lottò con lui e quasi gli staccò un braccio. Questa volta non si alzò più. Il cane retrocedette di nuovo: aspettava, in posizione, con la bocca umida di sangue e di saliva. Dirk cercò di tirarsi su con il braccio sano. Strisciò per mezzo metro. Il cane ringhiò. Gli altri erano vicini. Dirk sentiva i latrati.

Poi, dall’alto, udì qualcos’altro. Alzò gli occhi, debole, fissando la sottile fetta di cielo solcato di nuvole, appena illuminato dai raggi dell’alba di Occhiodaverno e dei suoi attendenti. Il cane Braith, che era retrocesso di un altro metro, aveva alzato anche lui lo sguardo, ed il rumore si senti di nuovo. Era un gemito ed un grido di guerra, un ululato acuto e durevole, un ghigno mortale che aveva un’intensità quasi musicale. Dirk si chiese se non stesse morendo e non sentisse i suoni di Kryne Lamiya nella mente. Ma anche il cane aveva sentito. Stava acquattato, paralizzato, con il muso alzato.

Una forma scura cadde dal cielo.

Dirk la vide mentre cadeva. Era gigantesca, nerissima, quasi come la pece e la parte inferiore era perforata da migliaia di piccole bocche rosse, ed erano tutte aperte, tutte cantavano, tutte ripetevano quel terribile lamento tremolante. Non era visibile nessuna testa; era triangolare, una grande vela scura, una manta selvaggia, un mantello di cuoio che qualcuno aveva aperto nel cielo. Un mantello di cuoio con delie bocche, però, ed una lunga coda sottile.

Vide che la coda sciabolò una volta, all’improvviso e colpì il muso del cane Braith. Il cane sbatté gli occhi e retrocedette. La creatura volante rimase sospesa per un istante, battendo le sue vaste ali con squisita lentezza ondulata, poi si abbassò sopra il cane e gli si avviluppò attorno. Entrambi gli animali erano silenziosi. Il cane — l’enorme e muscoloso cane dalla faccia di topo, alto come un uomo — il cane era scomparso. L’altra bestia lo copriva completamente ed era stesa sull’erba e sulla terra come una salsiccia di cuoio nero di immense proporzioni.

Non c’era nessun rumore. Il lamento del cacciatore aveva azzittito tutta la foresta. Non si sentivano più gli altri cani.

Dirk si sollevò lentamente in piedi e si allontanò, zoppicando, aggirando il torbido mantello mortale. Pareva non si muovesse nemmeno. Nella mezza luce dell’alba, avrebbe potuto sembrare un grosso ceppo informe.

Dirk vedeva l’animale immobile, con la sua mente, come gli era sembrato in cielo: una forma nera, ululante, che cadeva, tutta bocche e ali. Per un istante, osservandone solo il profilo, aveva pensato che Jaan Vikary fosse venuto a salvarlo con la sua grande macchina a forma di manta.

Dall’altra parte della radura c’era un intrico di soffocatori, grossi, giallo-bruno e molto fitti. Ma il fumo veniva da là dietro. Faticosamente Dirk tirò, strinse e spostò i rami cerei, rompendoli se era il caso e si aprì la strada.

Il relitto aveva finito di bruciare, ma c’era ancora un sottile filo di fumo che si alzava nell’aria. Un’ala si era infilata nel terreno aprendo una grossa ferita nella terra ed abbattendo parecchi alberi prima di fracassarsi; l’altra ala era voltata in alto e l’aspetto da pipistrello appariva distorto perché il metallo si era fuso ed erano stati aperti dei buchi dal cannone a laser. La cabina era nera e informe, aperta nella parte superiore per via di un grande foro seghettato.

Dirk trovò il suo fucile a laser lì vicino. Scoprì anche delle ossa: due scheletri aggrovigliati tra di loro in un abbraccio mortale; le ossa erano scure e umide, ancora abbrunate dal sangue e da pezzetti di carne che ci stavano attaccati. Uno degli scheletri era umano, o lo era stato. Tutte e due le braccia e le gambe erano spezzate e quasi tutte le costole, che si erano frantumate, erano scomparse, ma Dirk riconobbe l’artiglio di metallo a tre punte al termine di un braccio rotto in due punti. Assieme allo scheletro, ed altrettanto morto, c’era ciò che rimaneva di un altro animale che doveva aver tirato fuori la carcassa dall’aerauto fumigante… una specie di spazzino con le ossa venate di nero e dall’aspetto gommoso, curve e gigantesche. La banscea doveva averlo sorpreso mentre mangiava. Non era quindi strano che i due scheletri fossero così vicini.

Non c’era traccia del giubbotto di pelle e di pelliccia che lui e Garse avevano gettato in questo punto. Dirk si trascinò verso il freddo scafo dell’aerauto e si arrampicò nel suo ventre ombroso. Si tagliò su un pezzo di metallo aguzzo, ma non se ne accorse quasi; che senso aveva un taglio in più o in meno? Si acquattò per aspettare, al riparo dal vento e sperando di essere sufficientemente nascosto sia dalla banscea che dai Braith. Quasi tutte le sue ferite parevano essersi rimarginate, notò senza interesse. Ormai sanguinava solo più irregolarmente, qui e là. Ma le croste scure che si erano formate erano tutte piene di terra e si chiese se avrebbe potuto fare qualcosa per combattere l’infezione. La cosa non gli sembrava importante, però; mise da parte quel pensiero e strinse un po’ più forte il laser, sperando che i cacciatori sarebbero arrivati presto.

Per quale ragione avevano rallentato? Forse avevano paura di disturbare la banscea; la cosa non era completamente insensata. Rimase sdraiato sulle fredde ceneri, posando la testa sul braccio e cercando di non pensare, di non avere sensazioni. I suoi piedi erano involucri di cruda agonia. Cercò di sollevarli goffamente in aria, in modo che non toccassero da nessuna parte. La cosa gli servì un poco, ma non aveva la forza di tenerli sollevati per molto tempo. Il braccio gli pulsava nel punto in cui era stato morso dal cane Braith. Ad un certo punto desiderò con tutto il cuore che il dolore cessasse, che la testa smettesse di girargli a quel modo. Poi cambiò idea. Il dolore, pensò, era probabilmente l’unica cosa che lo manteneva conscio. E se adesso si addormentava, pensava proprio che non si sarebbe svegliato mai più.

Vide Grasso Satana appeso al di sopra della foresta, con il disco sanguigno in parte oscurato da uno strato di rami blu-neri. Un’unica stella gialla gli scintillava accanto, assai brillante, una minima scintilla nel firmamento. Dirk strizzò un occhio. Erano vecchi amici.

Il rumore dei cani Braith lo fece ritornare attento. I cacciatori uscivano ansiosamente dagli alberi a dieci metri di distanza. Non così vicini come lui si sarebbe aspettato. Naturalmente, pensò, quelli avevano fatto il giro dei soffocatori invece di aprirsi una via in mezzo agli alberi. Pyr Braith era quasi invisibile, blu-nero come gli alberi contro cui si stagliava, ma Dirk vide il movimento ed il bastone che portava in mano e l’asta d’argento scintillante, un po’ più lunga, che portava nell’altra mano. Il suo teyn era un paio di passi più avanti, con due cani tenuti corti alla catena; i cani abbaiavano freneticamente e lo spingevano avanti quasi di corsa. Un terzo cane era al suo fianco, tenuto libero e si era diretto verso l’aerauto distrutta non appena era spuntato dal bosco.

Dirk, sdraiato sullo stomaco tra le ceneri, gli strumenti distrutti ed i relitti, trovò improvvisamente la cosa immensamente divertente. Pyr sollevò l’asta d’argento sul capo e cominciò a correre; finalmente era sicuro di aver raggiunto la sua preda. Ma non aveva nessun laser, mentre Dirk lo aveva. Dirk sollevò il fucile ghignando, un po’ stordito e prese attentamente la mira.

Quando sparò gli venne in mente un ricordo, improvviso e tagliente come l’impulso di luce che era scaturito dal suo laser. Janacek, solo poco tempo prima, con la faccia seria e sollevando le spalle: la tua vita può dipendere dalla velocità con cui saprai correre ed andare nella giusta direzione e dalla precisione che ci metterai nella mira, aveva detto. E Dirk aveva aggiunto: ammesso che sappia ammazzare. Il fatto di ammazzare gli era sembrato terribilmente importante; e invece era stata molto più difficile quella semplice corsa.

Ridacchiò di nuovo. La corsa era stata molto difficile. L’ammazzare era solo qualcosa che doveva fare ed era quasi facile. La luminosa lama bruciante del laser rimase sospesa nell’aria per un lungo secondo, infilandosi al centro del grande stomaco di Pyr che stava correndo verso il relitto. Il Braith inciampò e cadde in ginocchio. Spalancò assurdamente la bocca per un secondo prima di cadere a faccia in giù e sparire alla vista di Dirk. La lunga asta d’argento che portava rimase infilata nel terreno tormentato, oscillando avanti e indietro a seconda di come la spingeva il vento.

Il compagno di Pyr con i capelli neri lasciò andare le catene che aveva in mano e parve congelarsi nel momento in cui il suo teyn cadeva. Dirk mosse leggermente il laser e sparò di nuovo, ma non successe niente; l’arma si trovava ancora nel periodo dei quindici secondi di riciclaggio. Per questa ragione la caccia era uno sport; il gioco forniva una possibilità di scampo se si sbagliava. Si accorse che stava ancora ridacchiando.

Il cacciatore si riprese e si gettò a terra rotolando sul terreno nel lungo solco che efa stato aperto dall’ala della macchina. Giù nei fossi a cercare il laser, pensò Pirk, ma non lo avrebbe trovato.

I cani avevano circondato l’aerauto ed abbaiavano tutte le volte che Dirk cambiava posizione, oppure alzava la testa. Nessuno di loro cercò di entrare ad ucciderlo. Quello era compito del cacciatore. Dirk prese attentamente la mira e sparò a quello più vicino, alla gola. Cadde come un pezzo di carne e gli altri due recedettero. Dirk si mise in ginocchio e strisciò fuori dal suo riparo. Cercò di alzarsi, appoggiandosi con una mano sull’ala contorta. Il mondo prese a girare. Pugnalate dolorose gli trafiggevano le gambe e si accorse di non sentirsi più i piedi. Comunque riuscì a mettersi diritto.

Risuonò un urlo, qualcosa detto in Antico Kavalar; Dirk non conosceva quella parola. I cani giganteschi caricarono, uno dopo l’altro, con le bocche rosse e umide spalancate, ringhiando. E con la coda dell’occhio vide il cacciatore che si alzava, a due metri di distanza, con il coltello già snudato. Una delle braccia lunghe e sottili ebbe un moto circolare, un po’ lateralmente e colpì l’ala dell’aerauto contro cui si appoggiava Dirk. L’uomo si era già voltato e stava correndo e il cane più vicino era già lì, in aria. Dirk si lasciò cadere e sollevò il fucile. Le zanne scattarono, a vuoto, ma il corpo della bestia gli arrivò addosso, facendolo voltare e mettendosi sopra di lui dopo averlo schiacciato contro la polvere. In una maniera o nell’altra riuscì a trovare il grilletto. Ci fu un lampo breve e la puzza di pelo umido bruciato, poi un gemito terribile. Il cane fece di nuovo scattare le mascelle, ma debolmente, sputando il proprio sangue. Dirk spinse via la carcassa e cercò di alzarsi su un ginocchio. Il Braith aveva raggiunto il corpo di Pyr ed aveva sollevato la lunga spada d’argento. L’altro cane si era impigliato con la catena su di un bordo seghettato della macchina. Quando Dirk si alzò, il cane guaì e tirò ed il grande scafo carbonizzato parve scuotersi un po’ e spostarsi, ma la bestia rimase imprigionata.

Il cacciatore dai capelli neri aveva quella cosa d’argento. Dirk puntò il laser e sparò; il raggio passò lontano, ma un secondo è piuttosto lungo e Dirk spostò velocemente il fucile da destra a sinistra e da sinistra a destra.

L’uomo cadde, però aveva avuto il tempo di lanciare la sua arma. Si innalzò alcuni metri, scivolò sull’ala contorta e cadde per terra, dove oscillò avanti e indietro spinta dal vento.

Dirk continuava a fare oscillare il laser, sinistra destra, sinistra destra, sinistra destra, anche dopo che il cacciatore era caduto e la lama di luce era scomparsa. Alla fine del periodo di riciclo, ci fu un altro impulso di un secondo, che servì solo a bruciare una fila di soffocatori e Dirk, sobbalzando, lasciò la presa sul grilletto e fece cadere l’arma.

Il cane, ancora imprigionato, ringhiava e tirava. Dirk lo guardò, con la bocca spalancata, quasi senza capire. Poi ridacchiò. Cadde sulle ginocchia, ritrovò il laser e cominciò a strisciare contro i Kavalari. Ci volle un tempo tremendamente lungo. I piedi gli facevano male. Come il braccio, dove era stato morso. Alla fine il cane era stato zitto, ma non c’era silenzio. Dirk riusciva a sentire il grido, un piagnucolio basso e continuo.

Si trascinò attraverso la terra e la cenere sul tronco di un soffocatore bruciato, verso il punto in cui erano caduti i cacciatori. Giacevano l’uno accanto all’altro. Quello magro, quello di cui non aveva mai saputo il nome, che aveva cercato di ucciderlo con il coltello, con i cani e con la lama d’argento. Quello era immobile e la bocca era piena di sangue. Pyr, a faccia in giù, era l’origine dei piagnucolii; gli si inginocchiò vicino, gli passò una mano attorno al corpo e, con molta fatica, lo rivoltò. Aveva la faccia coperta di cenere e di sangue; cadendo si era rotto il naso e c’era un rivolo rosso e sottile che gli scendeva da una narice, lasciando un segno vivido sulle guance sporche di fuliggine. Aveva la faccia di un vecchio. Continuava a piangere e non pareva vedere affatto Dirk e con le mani si teneva lo stomaco. Dirk lo osservò per un bel po’. Gli toccò una delle mani — era stranamente morbida e piccola, pulita tranne un unico segno nero che attraversava il palmo, quasi la mano di un bambino che non poteva appartenere a quella faccia da vecchio calvo — e poi la lasciò andare e fece la stessa cosa con l’altra mano e guardò il buco che si era spalancato nella pancia di Pyr. Una grossa pancia ed un piccolo buco scuro; non avrebbe dovuto fargli troppo male. Non gli usciva nemmeno del sangue, tranne che dal naso. Era quasi divertente, ma Dirk scoprì di non essere più capace di ridacchiare.

Allora Pyr aprì la bocca e Dirk si chiese se quell’uomo non avesse voluto dirgli qualche cosa. Magari le sue ultime parole, una supplica di perdono. Ma il Braith riuscì solo ad emettere un unico suono che pareva un colpo di tosse, poi ricominciò a piangere sommessamente. Lì vicino c’era il suo bastone. Dirk lo raccolse ed avvolse la mano attorno al pomolo di legno duro e sistemò la lama sul torace di Pyr, dove doveva esserci il cuore e si appoggiò sopra con tutto il peso, pensando di poter dare pace all’altro. Il pesante corpo del cacciatore si contrasse orribilmente per un istante e Dirk estrasse la lama e la infilò un’altra volta, e poi ancora, ma Pyr non voleva rimanere immobile. La piccola lama era troppo corta, decise Dirk dopo un po’ di volte, per cui decise di usarla in maniera diversa. Trovò un’arteria nella gola spessa di Pyr, tenne ben stretto il bastone dalla parte a forma di coltello e premette contro la pelle grassoccia e pallida. Ci fu una terribile quantità di sangue allora, uno spruzzo che colpi Dirk proprio in faccia finché decise di abbandonare il bastone e tirarsi indietro. Pyr si contrasse di nuovo ed il collo continuava a sanguignargli nel punto in cui Dirk lo aveva tagliato e Dirk lo osservava, ma ogni fiotto era un po’ meno robusto di quello prima e dopo un po’ la fontana si trasformò in un semplice rivolo e dopo un altro po’ si fermò. La cenere e la terra avevano assorbito tutto il sangue, ma ce n’era ancora parecchio in giro, una piccola pozzanghera tra i due morti e Dirk non avrebbe mai supposto che un uomo avesse tanto sangue da poter formare una vera pozzanghera. Si sentiva male. Ma per lo meno Pyr era immobile ed il pianto era cessato.

Rimase seduto da solo, a riposarsi nella sbiadita luce rossa. Aveva molto freddo e molto caldo al tempo stesso e capì che doveva prendere dei vestiti ai due cadaveri per coprirsi, ma non riusciva a trovare la forza. I piedi gli facevano un male terribile ed il braccio gli era gonfiato fino a diventare due volte più grande del normale. Non dormiva, ma era appena cosciente. Guardò Grasso Satana che si alzava sempre più in alto nel cielo, avvicinandosi al mezzogiorno, con i soli gialli e brillanti che gli facevano dolorosamente corona. Sentì il cane Braith ululare parecchie volte ed una volta sentì il grido di caccia misterioso della banscea e si chiese se la creatura sarebbe ritornata per mangiare lui e gli uomini che aveva ucciso. Ma il grido pareva molto lontano e forse si trattava solo della sua febbre e forse era solo il vento.

Quando la pellicola umida e appicicosa che aveva sul viso si fu asciugata e diventò una crosta marrone e la piccola pozza di sangue nella polvere fu sparita, Dirk capì che si doveva spostare di nuovo, altrimenti sarebbe morto qui. Per parecchio tempo considerò l’idea della morte; gli parve un’idea molto buona, chissà perché, ma non riusciva a costringersi a farlo. Si ricordò Gwen. Strisciò fino al punto in cui si trovava il corpo del teyn di Pyr, cercando di ignorare il dolore che provava e frugò nelle tasche dell’uomo. Trovò la gemma mormorante.

Ghiaccio stretto nel pugno, ghiaccio nella mente, ricordi di promesse, bugie, amore. Jenny. La mia Ginevra e lui era Lancillotto. Lui non la poteva abbandonare. Lui no. Strinse forte la fredda lacrima nella mano e portò il ghiaccio nella sua anima. Si obbligò ad alzarsi.

Dopo di che fu più facile. Spogliò lentamente il morto e si rivestì con i suoi abiti, anche se tutto gli era troppo lungo e la camicia e la giubba di tessuto camaleontino erano state bruciate sul davanti e l’uomo aveva sporcato i pantaloni. Dirk tolse anche gli stivali al cadavere, ma erano troppo stretti per i suoi piedi insanguinati, piagati e fu costretto e usare quelli di Pyr. Pyr aveva dei piedi grossi.

Usando il fucile a laser ed il bastone di Pyr, si avviò barcollando su quegli appoggi verso la foresta. Pochi metri all’interno, si fermò e si guardò brevemente indietro. Il cane gigantesco stava abbaiando e ululando e cercava di liberarsi ed ogni volta che tirava l’aerauto rispondeva con un tremito metallico. Poteva vedere il corpo nudo sulla terra e più in là l’oggetto lungo e argento, che continuava ad oscillare nel vento. Quasi non riusciva a vedere Pyr. A causa delle macchie di sangue, l’abito del cacciatore era diventato nero e marrone e in certi punti rosso opaco, per cui si confondeva con il terreno su cui era morto.

Dirk abbandonò il cane ad abbaiare incatenato e si avviò zoppicando attraverso i soffocatori intrecciati.

13

La corsa dall’accampamento dei cacciatori fino al relitto dell’aerauto copriva meno di un chilometro ed a Dirk era sembrata eterna. Ritornare indietro gli richiese il doppio del tempo. In seguito, pensò di non essere stato completamente conscio in quel momento. I ricordi di quel ritorno erano tutti frammentari. Inciampava e cadeva e aveva rotto i pantaloni all’altezza delle ginocchia. Trovò un ruscello dalla corrente veloce e allora si fermò, si lavò il viso incrostato di sangue, si tolse gli stivali ed infilò i piedi nell’acqua gelata, fino a quando non ebbe più nessuna sensazione. Si arrampicò oltre le rocce su cui prima era scivolato. La nera bocca di una caverna lo fissò, promettendogli sonno e riposo, ma lui non la ascoltò. Perdette la strada, cercò il sole, e riperdette la strada. Gli spettri-d’albero saltavano da un ramo all’altro, tra i soffocatori, cinguettando con vocette sottili. Bianchi gusci morti lo osservavano dai rami cerei. Lontano, la banscea guaiva, un grido lungo, spettrale. Inciampò di nuovo, un po’ per disattenzione ed un po’ per paura. Il bastone si allontanò da lui seguendo una corta inclinazione ripida e si perdette tra arbusti fitti. Dirk non si curò di cercarlo. Camminava, camminava, appoggiandosi al bastone e, quando il bastone fu perso, si appoggiò al laser ed i piedi gli facevano male, un male incredibile. Ancora la banscea, più vicina, quasi sopra di lui. Guardò in su tra l’intrico di rami nel cielo cupo, cercando di individuare la bestia, ma senza riuscirci. Camminava, si feriva. Ricordava tutte quelle cose, ma era sicuro che tra quelle cose e le altre che si ricordava doveva per forza essere successo qualcosa, ma non ricordava le cose che collegavano le une alle altre. Forse dormì mentre camminava. Ma non smise mai di camminare. Era pomeriggio inoltrato, quando raggiunse la pìccola area sabbiosa presso il lago verde. Le aerauto erano ancora là, una era contorta e giaceva per metà nel lago, le altre tre erano sulla sabbia. L’accampamento era deserto.

Una delle macchine — la macchina con la grande cupola, che apparteneva a Lorimaar — aveva un cane alla guardia, legato alla porta da una lunga catena nera. La creatura era accucciata, ma quando Dirk si avvicinò si alzò in piedi e snudò i denti, ringhiando. Dirk scoprì che lui stava ridendo pazzamente, senza potersi fermare. Aveva fatto tutta quella strada, aveva camminato, camminato e camminato, e qui c’era solo un cane legato alla catena che gli ringhiava dietro. Avrebbe potuto avere la stessa identica scena se non si fosse mosso nemmeno di un metro.

Fece un largo giro, fuori dalla portata della catena del cane ed andò alla macchina di Janacek, ci sali sopra e chiuse la porta pesante. La cabina era buia, intasata e piccola. Dopo aver provato tutto quel freddo, Dirk la trovò esageratamente calda. Avrebbe voluto sdraiarsi, dormire. Ma per prima cosa cercò l’armadietto delle riserve, dove trovò una cassetta di pronto soccorso, in metallo. La tirò fuori e l’apri. Era piena di pillole e di bende e cose da spruzzare. Desiderò di essersi ricordato di dire a Janacek di gettare la cassetta di pronto soccorso vicino al luogo del relitto, assieme al laser. Sapeva che sarebbe dovuto uscire fuori, per lavarsi metodicamente nel lago e togliersi tutto il sudiciume dalle ferite, prima di tentare una fasciatura, ma la porta massiccia era troppo pesante per aprirla un’altra volta adesso. Dirk si tolse gli stivali e si tolse il giubbotto e la camicia. Spruzzò con una polvere il suo braccio sinistro gonfio, in modo da impedire l’infezione, o combatterla, o per lo meno far qualcosa. Era troppo stanco per stare a leggere le istruzioni in maniera completa. Poi guardò le pillole. Prese due pillole per la febbre e quattro analgesici, oltre a due antibiotici, che ingoiò senz’acqua, perché non aveva acqua a disposizione.

Dopo giacque sulle lastre di metallo del pavimento tra i due sedili. Il sonno lo raggiunse istantaneamente.

Si svegliò che aveva la bocca secca, tremava ed era molto nervoso, il che era un effetto collaterale delle pastiglie. Ma riusciva di nuovo a pensare ed aveva la fronte fresca, anche se era coperta da sudore freddo, ed i piedi gli facevano un po’ meno male di prima. Anche il gonfiore al braccio era un po’ diminuito, anche se era più grosso del normale e piuttosto irrigidito. Si rimise la camicia bruciacchiata ed incrostata di sangue e sopra mise il giubbotto, raccolse a cassetta di pronto soccorso ed uscì fuori.

Era il tramonto; il cielo occidentale era rosso ed arancione e due soli gialli brillavano intensamente sulle nuvole del tramonto. I Braith non erano ritornati. Jaan Vikary, armato e vestito e ricco d’esperienza, sapeva certo meglio come fare a scappare di quanto lo sapesse Dirk

Si avviò attraverso la sabbia verso il lago. L’acqua era frigida, ma vi si abituò abbastanza presto ed il fango gli scivolava fluido sotto i piedi. Si svestì ed abbassò la testa nell’acqua per lavarsi, poi prese la cassetta di medicine e fece tutte le cose che avrebbe dovuto già fare prima, pulendosi e bendandosi i piedi, prima di farli di nuovo scivolare negli stivali di Pyr. Si era pulito quasi dappertutto con il disinfettante, tamponando gli infiammati segni lasciati dai denti sul braccio, usando un balsamo che avrebbe dovuto ridurre al minimo eventuali reazioni allergiche. Inghiottì anche un’altra manciata di analgesici, ma questa volta inghiottì anche una buona sorsata d’acqua che aveva recuperato nel lago.

La notte si avvicinava rapidamente e dovette rivestirsi in fretta. Il cane dei Braith era steso presso la macchina di Lorimaar e masticava un enorme pezzo di carne, ma non c’era segno del suo padrone. Dirk si avviò con precauzione verso la terza aerauto, girando ben lontano dalla bestia; la macchina di Pyr e del suo teyn. Era convinto che poteva prendersi le loro provviste senza troppi rischi; gli altri Braith ritornando e trovando l’accampamento vuoto, non avrebbero potuto scoprire se mancava qualcosa.

Dentro trovò una rastrelliera piena di armi: quattro fucili a laser su cui era stata incisa la testa di lupo ben nota, una certa quantità di spade da duello, coltelli, una lama da lancio argentea lunga due metri e mezzo messa accanto ad una mensola vuota. Su di un sedile c’erano due pistole gettate lì. Trovò anche un armadio pieno di vestiti puliti e si cambiò velocemente, infilando i vestiti logori in un posto fuori vista. I vestiti non gli andavano bene, ma si sentì molto meglio. Si prese una cintura di maglia di ferro, una pistola da combattimento ed un soprabito fino al ginocchio fatto di tessuto camaleontino.

Spostando il mantello dal punto in cui era stato appeso, mise in mostra un altro strano armadio. Dirk lo aprì. Dentro c’erano quattro stivali ben noti, oltre agli aeroscooter di Gwen. Evidentemente Pyr ed il suo teyn li avevano reclamati come bottino personale.

Dirk sorrise. Non aveva avuto mai l’intenzione di prendersi un’aerauto; c’erano troppe possibilità di essere subito scoperto dai cacciatori, soprattutto se li avesse incontrati durante il giorno. Comunque l’idea di dover camminare non lo aveva spaventato. Gli scooter erano la risposta più adatta. Non perse tempo cercando un paio di stivali più larghi, anche se dovette indossare gli altri senza legarli, dopo aver infilato i piedi bendati.

Il cibo era sistemato nello stesso armadietto degli stivali volanti; barrette di proteine, bastoncini di carne secca, una piccola quantità di formaggio duro. Dirk si mangiò il formaggio e mise il resto nello zaino che sistemò dietro alle spalle, poi uscì fuori per allargare il tessuto metallico sulla sabbia.

Era ormai buio. Il suo punto di riferimento della notte precedente, la stella di Alto Kavalaan, brillava rossa e scintillante ed unica sulla foresta. Dirk la vide e sorrise. Questa notte non gli sarebbe servita per indicazione; immaginava che Jaan Vikary si sarebbe diretto al più presto verso Kryne Lamiya, nella direzione opposta. Ma la stella gli pareva sempre un’amica.

Prese un fucile a laser appena caricato e toccò la cialda metallica dello scooter. Si sollevò. Dietro di lui il cane Braith si alzò in piedi e si mise ad ululare.

Volò per tutta la notte, tenendosi parecchi metri al di sopra delle cime degli alberi, consultando ogni tanto la bussola e studiando le stelle. C’era ben poco da vedere. Sotto di lui c’era la foresta che scivolava via infinita, nera e nascosta, senza fuochi o luci che ne rompessero l’oscurità. Certe volte gli pareva addirittura di essere immobile e gli venne in mente l’ultimo viaggio in scooter, attraverso le gallerie della sotterranea abbandonata di Worlorn.

Il vento lo accompagnava sempre. Gli veniva da dietro le spalle, forte sulla schiena ed accettò volentieri quel po’ di velocità in più che gli regalava. Gli faceva sbattere il mantello tra le gambe mentre volava e parecchie volte gli aveva spinto i lunghi capelli sugli occhi. E lo sentiva muovere la foresta sotto di lui, facendo curvare gli alberi più elastici e facendo stormire le loro foglie, scuoteva gli alberi più robusti con fredde mani selvagge, fino a far loro cadere tutte le foglie. Solo i soffocatori parevano impenetrabili, ma laggiù c’erano un mucchio di soffocatori. Il vento emetteva un leggero sibilo selvaggio, mentre lottava con quei rami contorti. Il suono era quello giusto; questo era il vento di Kryne Lamiya, Dirk lo sapeva, nasceva al di là delle montagne ed era controllato dalle macchine del tempo di Cupalba e si muoveva verso il fato. Là davanti c’erano le torri bianche in attesa e le mani ghiacciate lo spingevano avanti.

C’erano anche altri rumori: fatali movimenti nei boschi sottostanti, gli stridii dei cacciatori notturni, il frusciare di un piccolo fiume sottile, il tuonare di una rapida. Dirk sentì parecchie volte lo strillo alto e cinguettante degli spettri-d’albero e vide piccole forme che saltavano da un ramo all’altro. I suoi occhi e le orecchie divennero stranamente sensibili. Passò sopra un ampio lago e senti qualcosa che si tuffava nelle acque nere, seguito da tante altre cose simili. In lontananza, sulla riva, un muggito strombettante risuonò nella notte. E dietro di lui una risposta come una sfida; un lungo gemito lamentoso. La banscea.

Quel suono lo raggelò, la prima volta che lo senti. Ma la paura passò subito. Quando era nudo nella foresta, la banscea era stata una minaccia terribile, era la morte circondata da ali. Ma adesso aveva un’arma al fianco e la creatura costituiva una minaccia secondaria. Forse, rifletté, poteva essere anche una alleata. Già una volta gli aveva salvato la vita. Forse io avrebbe fatto ancora.

La banscea emise il suo gemito agghiacciante una seconda volta… Era sempre dietro di lui, ma adesso era più alta e continuava ad alzarsi… Dirk sorrise soltanto. Salì anche lui per mantenere la bestia al di sotto e fece una lenta curva per cercare di vederla. Ma era ancora lontana ed era nera come il suo abito camaleontino e riuscì solo a distinguere un vago ondeggiare sullo sfondo della foresta. Forse non erano altro che rami che si muovevano nel vento.

Sempre stando in alto, consultò la bussola ancora una volta e volò in cerchio per riprendere il volo alla volta di Kryne Lamiya. Per altre due volte, quella notte, gli parve di sentire piangere la banscea, lontano da lui, ma il suono era troppo distante e debole e non poteva esserne sicuro.

Il cielo orientale aveva appena cominciato ad illuminarsi, quando sentì per la prima volta la musica, sparsi brandelli di disperazione, troppo noti per potergli piacere. La città di Cupalba era ormai vicina.

Rallentò e si librò, stringendo gli occhi. Aveva percorso la strada che secondo lui doveva aver fatto anche Jaan Vikary; ma non aveva visto niente. Poteva darsi che avesse sbagliato tutte le supposizioni. Forse Vikary aveva condotto i suoi inseguitori in tutt’altra direzione. Ma Dirk pensava di no. Era più probabile che lui ci fosse passato sopra, senza vederli e senza essere visto, nella notte buia.

Cominciò a ritornare indietro, ma adesso volava contro vento e sentiva le fredde dita spettrali di Lamiya-Bailis sulle guance. Con la luce il suo compito sarebbe staio più semplice, o almeno lo sperava.

Si sollevò Occhiodaverno ed uno dopo l’altro, i Soli Troiani. Riccioli di nuvole bianche e grige si muovevano in un cielo misero, mentre le nebbie del mattino strisciavano sul terreno della foresta. ì boschi sotto di lui divennero giallo-bruni e non erano più neri; dappertutto c’erano soffocatori, abbracciati come amanti scomposti e la luce rossa scintillava brevemente tra i loro rami pallidi. Dirk si alzò ancora ed il suo orizzonte si allargò. Vide i fiumi, il lampo del sole sull’acqua. E laghi troppo vasti, senza nessuna luminosità, scuri, coperti da uno strato galleggiante verdastro. Un prato ammantato di neve, o almeno così gli pareva, finché non si trovò sul posto e non vide che si trattava di una distesa coperta da funghi sporchi che imbiancavano la foresta.

Vide una linea di rottura, un taglio roccioso che attraversava i boschi da nord a sud, una linea diritta, come se fosse stata tracciata con una riga. E pianure di fango, bianche e marroni e puzzolenti, che si stendevano su entrambi i lati di un lento ed ampio corso d’acqua. E un dirupo fatto di pietra grigia, battuta dagli elementi, che sorgeva inatteso in mezzo alla foresta. I soffocatori si erano aggrappati sui suoi fianchi fino alla cima e spuntavano dalla cima inclinati secondo angoli pazzeschi, ma non ce n’era uno sulle pareti verticali, dove prosperavano solo licheni bianchi e la carcassa di una specie di uccello gigantesco, morto nel suo nido.

Ma non vide traccia di Jaan Vikary e dei cacciatori che lo inseguivano.

A metà mattinata i muscoli di Dirk dolevano dalla fatica ed il suo braccio aveva ripreso a pulsare. La speranza aveva cominciato a svanire. La foresta continuava all’infinito, chilometri e chilometri, un vasto tappeto giallo su cui lui cercava per ritrovare un mito, un mondo silenzioso avvolto in un sudario di luce crepuscolare. Si voltò di nuovo verso Kryne Lamiya, convinto di essere ritornato troppo indietro. Cominciò a girovagare, ripercorrendo la strada secondo una rotta sinuosa, invece di seguire la linea diretta. E cercava, cercava sempre. Era stanchissimo. Verso mezzogiorno, decise di volare in cerchio sopra l’area più probabile, muovendosi a spirale, in modo da cercare di scandagliare quanto più terreno possibile.

Ed udì gridare la banscea.

Questa volta riuscì anche a vederla. Volava bassa presso il livello degli alberi, lontano da lui. Pareva impossibilmente lenta ed immobile. Il nero corpo triangolare pareva quasi fermo; teneva le ali molto rigide e la creatura pareva galleggiare sul vento di Cupalba. Quando voleva voltare cercava una corrente ascendente e si faceva trasportare in un ampio cerchio, prima di ridiscendere. Dirk, che non aveva nient’altro da fare, cominciò a seguirla.

La bestia gridò ancora. Il suono persisteva.

E poi Dirk sentì una risposta.

Toccò la cialda metallica nel palmo della mano e cominciò a scendere rapidamente, con le orecchie tese, improvvisamente attento. Il rumore era stato debole, ma inconfondibile: una muta di cani Braith, che abbaiavano selvaggiamente per la rabbia e per la paura. Perse di vista la banscea — ormai non importava più — ed inseguì il rumore che spariva in fretta. Era venuto da nord, gli era sembrato. Volò verso nord.

Da qualche parte, vicino, un cane ululò.

Dirk si mise istantaneamente all’erta. Forse volava troppo basso ed i cani avrebbero potuto abbaiare verso di lui, lasciando perdere la banscea. Ad ogni modo era una situazione pericolosa. Il suo abito faceva quel che poteva per mantenere i colori del cielo di Worlorn, ma gli aeroscooter argentei potevano riflettere la luce verso il basso, rendendolo visibile se qualcuno decideva di alzare gli occhi. E con una banscea nelle vicinanze, non sarebbe stato improbabile.

Ma se voleva aiutare Jaan Vikary e la sua Jenny, non gli restavano molte altre possibilità. Afferrò strettamente la sua arma e continuò a scendere. Sotto di lui, c’era un fiume dalle acque verdi e azzurre, che scorreva velocemente e tagliava la foresta come un coltello. Voltò da quella parte, mentre scandagliava il terreno con gli occhi, avanti e indietro. Sentì il rumore delle rapide, andò da quella parte e le trovò. Apparivano veloci e pericolose viste dall’alto. Rocce nude si alzavano dall’acqua come denti cariati, bruni e informi, l’acqua ribolliva bianca e feroce attorno a loro, i soffocatori le premevano da tutte le parti. Al di sotto il fiume si allargava e diventava più calmo. Guardò per un momento da quella parte, poi di nuovo le rapide. Attraversò l’acqua, girò e riattraversò.

Un cane abbaiò forte. Altri si unirono alla canizza.

La sua attenzione venne rivolta alla parte inferiore del corso d’acqua. C’erano dei puntini neri in acqua, che guadavano il fiume dove la corrente pareva sopportabile. Volò in quella direzione.

I puntini si fecero più grandi e si trasformarono in forme umane. Un ometto quadrato vestito di giallo-bruno, che combatteva contro la corrente per poter attraversare. Un altro uomo gli era vicino, sulla riva, con sei cani giganteschi.

L’uomo nell’acqua tornò indietro. Aveva un fucile in mano, vide Dirk. Era un uomo molto grasso e basso. La faccia era pallida, il torace ampio, braccia e gambe pesanti… Saanel Larteyn, il grasso teyn di Lorimaar. E sulla riva c’era Lorimaar, che teneva la muta. Nessuno dei due guardava in alto. Dirk rallentò per non avvicinarsi troppo.

Saanel si arrampicò fuori dall’acqua. Si trovava sempre dal lato sbagliato del fiume, dove c’era anche Lorimaar, la sponda opposta a quella su cui si trovava Kryne Lamiya. Stava cercando di attraversare, però. Ma non qui. Adesso i due cacciatori avevano incominciato a spostarsi, andando ancora più verso la parte inferiore del fiume. Si muovevano goffamente tra i giunchi, le rocce ed i soffocatori che si affollavano sulla riva del fiume.

Dirk non li seguì. Lui aveva lo scooter e sapeva dove stavano andando; li avrebbe sempre potuti ritrovare in seguito, se fosse stato necessario. Ma dov’erano gli altri? Roseph e il suo teyn? Garse Janacek? Si voltò e risalì il fiume, provando un po’ più di fiducia di prima. Se il gruppo di cacciatori si era diviso, gli sarebbe stato più facile affrontarli. Volò basso sopra il fiume, veloce, le acque ruggivano un paio di metri al di sotto dei suoi piedi, mentre con gli occhi scrutava le rive per cercare di vedere un altro gruppo che cercava di attraversare.

A circa due chilometri a nord-est delle rapide — qui il canale era stretto e veloce — trovò Janacek in piedi al di sopra dell’acqua, con un’espressione incerta sul viso.

Pareva che fosse solo. Dirk lo chiamò. Janacek alzò gli occhi e sobbalzò, poi lo salutò con una mano.

Dirk scese accanto a lui. Fu un brutto atterraggio. La roccia su cui era Janacek era coperta di un verde muschio scivoloso e la parte inferiore dello scooter di Dirk scivolò e quasi cadde nel fiume. Janacek lo afferrò per il braccio. Dirk spense il controllo gravitazionale. «Grazie», mormorò. «Non sembra facile nuotare qua dentro».

«Era esattamente ciò che stavo pensando standomene qui», rispose Janacek. Appariva stravolto. La faccia ed i vestiti erano sporchi e la barba rossa era umida di sudore. Un lungo ricciolo di capelli gli attraversava la fronte, grasso e molle. «Stavo cercando di decidere se dovessi rischiare la sorte attraversando la corrente, o sprecare altro tempo continuando a risalire il fiume, nella vaga speranza di trovare un posto in cui si potesse attraversare». Un debole sorriso gli si dipinse sul volto. «Ma tu hai risolto il problema con il giocattolo di Gwen. Dove…?».

«Pyr», disse Dirk. Stava per raccontare a Janacek della sua fuga verso l’aerauto abbattuta.

«Ma sei vivo», disse rapidamente il Ferrogiada. «Posso anche fare a meno dei dettagli, t’Larien. Sono successe un mucchio di cose dall’alba di ieri. Hai visto i Braith?».

«Lorimaar e il suo teyn stavano andando in direzione della corrente», disse Dirk.

«Questo lo so», scattò Janacek. «Avevano attraversato?».

«No, non ancora».

«Bene. Jaan è molto vicino, ormai, forse solo mezz’ora più avanti di noi. Non lo devono raggiungere prima». Scrutò con gli occhi la riva opposta del fiume e sospirò. «Hai l’altro paio di scooter, o devo prendere i tuoi?».

Dirk mise giù il fucile sulla roccia e cominciò ad aprire lo zaino. «Ho preso l’altro», disse. «Dov’è Roseph? Che cosa succede?».

«Jaan ha fatto una fuga magnifica», disse Janacek. «Nessuno si sarebbe aspettato che riuscisse a coprire una distanza simile in così breve tempo. I Braith non se lo sarebbero aspettato di sicuro. Inoltre non si è limitato a scappare. Ha anche messo delle trappole». Si tirava indietro i capelli dalla fronte con il dorso della mano. «La notte scorsa si è accampato. Era piuttosto lontano da noi. Abbiamo trovato la cenere del suo fuoco. Roseph è finito in una buca nascosta ed ha infilato il piede su di un palo». Janacek sorrise. «È ritornato indietro, aiutato dal suo teyn. E tu dici che Pyr ed Arris sono morti?».

Dirk annui. Aveva tirato fuori gli stivali ed il secondo scooter dallo zaino.

Janacek li prese senza commentare. «I cacciatori diminuiscono. Credo che abbiamo vinto, t’Larien. Jaan Vikary sarà stanco. Ha corso senza dormire per un giorno e due. notti. Però sappiamo che non è ferito, che è armato e che è un Ferrogiada. Lorimaar e quel lumacone che si è preso come teyn, non lo acchiapperanno facilmente».

Si inginocchiò e cominciò a slacciarsi gli stivali, sempre continuando a parlare. «La loro folle idea di una nuova granlega qui, è morta sul nascere. Lorimaar diventa furioso solo a sognarsela. Io credo che la sua mente si sia disancorata fin da quando Jaan gli ha sparato con il laser a Sfida». Si tolse uno stivale. «Tu sai perché Chell e Bretan non erano con loro, t’Larien? Perché quei due erano troppo saggi per apprezzare l’idea di diventare alti-Larteyn! Roseph mi ha detto tutto durante la caccia. La verità, aveva detto lui, è questa: Lorimaar aveva cominciato a parlare di quella follia quando erano ritornati a Larteyn, dopo l’uccisione di Myrik. C’erano i sei che abbiamo incontrato nella foresta, più il vecchio Raymaar. Bretan Braith Lantry e Chell lib-Braith non c’erano. Loro hanno cercato di inseguire te e Jaantony, poi sono passati attraverso alcune delle città in cui loro pensavano che voi avreste potuto nascondervi. Per cui Lorimaar era essenzialmente privo di opposizione. Aveva sempre intimidito tutti gli altri, tranne forse Pyr e a Pyr non interessava mai nient’altro, se non la caccia ai falsuomini».

Janacek aveva qualche difficoltà ad entrare negli stretti stivali di Gwen. Faceva smorfie e spingeva a fondo, forzando il piede ad entrare dove invece non voleva saperne di entrare. «Quando Chell ritornò, era furioso. Non voleva continuare. Non voleva nemmeno ascoltare. Bretan aveva cercato di calmarlo, dichiarò Roseph, ma non ci fu niente da fare. Il vecchio Chell è un Braith e la nuova granlega di Lorimaar, per lui era solo un tradimento. Lanciò una sfida. Lorimaar era immune dalle sfide, per la verità, dato che era ferito, tuttavia accettò lo stesso. Chell era assai vecchio. Come sfidato, Lorimaar fece la prima delle quattro scelte, la scelta del numero»,

Janacek si alzò in piedi e batté forte per terra, sulla roccia scivolosa, per schiacciare il piede dentro lo stivale, «Non c’è bisogno di dire che lui scelse il combattimento singolo. Sarebbe stato tutto un altro duello se si fosse battuto anche con Bretan Braith e non solo con Chell Mani-Vuote. Lorimaar, anche se ferito, dispose del vecchio con relativa facilità. Scelsero il quadrato della morte e le spade. Chell si prese parecchi tagli, troppi tagli, forse. Roseph pensa che ora si trovi moribondo a Larteyn. Bretan Braith è rimasto con lui e, cosa ancora più importante, è restato Bretan Braith», Janacek allargò il suo aeroscooter.

«Hai scoperto qualcosa su Ruark?», gli chiese Dirk.

Il Kavalar si strinse nelle spalle. «È più o meno come avevamo sospettato. Ruark si era messo in contatto con Lorimaar alto Braith per visichermo… Fra l’altro, pare che nessuno sappia dove si trovi il Kimdissi… e gli offrì di rivelare dove si nascondeva Jaan, se Lorimaar lo avesse nominato korariel in modo da garantirgli la sua protezione. Lorimaar lo fece volentieri. Per fortuna, Jaan era già dentro la sua aerauto quando quelli arrivarono. Per cui si limitò a decollare ed a scappare. Loro gli corsero dietro ed alla fine Raymaar lo raggiunse appena al di là delle montagne, ma sì trattava di nuovo di un vecchio e non aveva certo l’esperienza di volo di Jaan Vikary». C’era una nota di orgoglio e di derisione nella voce di Janacek, come di un genitore che vanta l’abilità del suo bambino. «I Braith scesero per combattere, ma la macchina di Jaan era stata danneggiata pure, per cui fu costretto ad atterrare ed a scappare. Lui era già fuggito, quando gli altolegati scoprirono dove lui era precipitato. Avevano sprecato del tempo cercando di assistere Raymaar». Agitò una mano con impazienza.

«Perché ti sei separato da Lorimaar?», chiese Dirk.

«Tu cosa pensi? Jaan adesso è vicino. Devo raggiungerlo io, prima che lo raggiungano loro. Saanel insisteva che sarebbe stato più facile attraversare scendendo a valle ed io mi sono preso la libertà di pensarla diversamente. Lorimaar adesso è troppo stanco per essere sospettoso. Pensa solamente ad uccidere. La sua ferita è ancora infiammata, t’Larien! Penso che non veda altro che Jaan Vikary steso davanti a lui in un lago di sangue e si è perfino dimenticato chi è che va cacciando. Per cui io mi sono allontanato da loro e sono andato contro corrente e per una volta ho avuto paura di aver fatto uno sbaglio. Era più facile attraversare verso valle, che ne dici?».

Dirk annuì di nuovo.

Janacek rise. «Per cui è stata una fortuna che tu sia arrivato».

«Devi avere ancora un bel po’ di fortuna per riuscire a trovare Jaan», lo mise in guardia Dirk. «A quest’ora i Braith devono aver attraversato il fiume e loro hanno anche i cani».

«La cosa non mi preoccupa granché», disse Janacek. «Ormai Jaan corre diritto ed io so qualcosa che Lorimaar non sa. Io so verso cosa sta scappando. Una caverna, t’Larien! Il mio teyn è sempre stato attratto dalle caverne. Quando eravamo tutti e due dei ragazzi, a Ferrogiada, mi portava spesso a fare esplorazioni sottoterra. Mi trascinò in tante di quelle miniere abbandonate, che alla fine non ce la facevo più. Parecchie volte andammo ad esplorare sotto le antiche città, nelle rovine infestate dai demoni». Sorrise. «Granleghe devastate, tra l’altro, nuclei anneriti in antiche alteguerre, ancora brulicanti di spiriti inquieti. Jaan Vikary conosceva tutti questi posti. Mi conduceva attraverso queste zone e mi raccontava la storia, senza mai smettere, storie di Aryn alto-Pietraluce e Jamis-Leone Taal e dei cannibali dei Siti del Carbone Profondo. Era sempre un bel narratore. Riusciva a rendere attuali quegli antichi eroi, come pure gli orrori».

Dirk sì accorse di stare sorridendo. «Lo faceva per spaventarti, Garse?».

L’altro rise. «Spaventare me? Sì! Mi terrorizzava, ma a suo tempo sono diventato inattaccabile. Eravamo tutti e due giovani, t’Larien. Più tardi, molto più tardi, furono le caverne sotto i Colli Lameranì, dove ci vincolammo con ferro-e-fuoco».

«Bene», disse Dirk. «Sicché a Jaan piacciono le caverne…».

«Vicinissimo a Kryne Lamiya si apre un sistema di grotte», disse Janacek, ritornando ai fatti del momento, «con una seconda entrata vicinissima al punto in cui stiamo adesso. Le abbiamo esplorate tutti e tre, durante il primo anno di nostra permanenza a Worlorn. Ora penso che Jaan voglia concludere la sua fuga passando sottoterra, se gli sarà possibile. Per cui lo possiamo intercettare». Raccolse il fucile.

Dirk sollevò la sua arma. «Non potrai mai trovarlo nella foresta», disse. «I soffocatori lo nascondono troppo bene».

«Io lo troverò», disse Janacek, con la voce un po’ rotta e piuttosto adirata. «Ricordati del nostro vincolo, t’Larien. Ferro-e-fuoco».

«Solo ferro, al momento», disse Dirk, osservando vistosamente il polso destro di Janacek.

Il Ferrogiada rise con la sua risata dura e caratteristica. «No», disse. Mise la mano in tasca, la tirò fuori e l’aprì. Sul palmo della mano c’era una pietraluce. Un unico gioiello, tondo e rozzamente sfaccettato, circa due volte più grande della gemma mormorante di Dirk. La pietra era nera e quasi opaca nella luce rossa del mattino.

Dirk lo fissò, poi la toccò leggermente con un dito, sicché si mosse un poco nella mano di Janacek. «Pare… fredda», disse.

Janacek si accigliò. «No», disse. «Brucia, invece, proprio come fa sempre la luce del fuoco». La pietraluce scomparve di nuovo nella tasca. «Ci sono racconti, t’Larien, poesie in Antico Kavalar, fiabe che si raccontano ai bambini negli asili delle granleghe. Anche le eyn-kethi conoscono quelle storie. Le raccontano con le loro voci da donna, ma Jaan Vikary le racconta meglio. Ascoltalo qualche volta. Ascolta le cose che un teyn ha fatto per il suo teyn. Lui ti darà risposte di grandi magie e di più grandi eroismi, delle antiche glorie impossibili. Io non sono capace di raccontare le storie, altrimenti te le racconterei io. Forse allora riusciresti a capire in parte che cosa significhi essere teyn di un uomo e portare il vincolo del ferro».

«Forse l’ho già capito», disse Dirk.

Scese tra di loro un lungo silenzio mentre erano in piedi sulla roccia scivolosa di muschio, a mezzo metro l’uno dall’altro e si fissavano negli occhi. Janacek sorrideva leggermente, con lo sguardo abbassato verso Dirk. Sotto di loro il fiume scorreva instancabile ed il rumore dell’acqua li invitava ad affrettarsi.

«Tu non sei un uomo terribilmente debole, t’Larien», disse alla fine. «Sì, sei debole, lo so, ma nessuno ti ha mai chiamato forte».

In un primo momento pareva quasi un insulto, ma pareva anche che il Kavalar volesse dire qualcos’altro. Dirk si soffermò a pensarci e trovò anche un secondo significato. «Dà un nome ad una cosa?», disse. sorridendo.

Janacek annuì. «Ascoltami, Dirk. Non lo ripeterò un’altra volta. Ricordo quando per la prima volta da ragazzo a Ferrogiada, venni messo in guardia dai falsuomini. Una donna, una eyn-kethi… tu la chiameresti mia madre, anche se tale distinzione non ha alcun peso sul mio mondo… questa donna mi ha raccontato la leggenda. Però me ]’ha raccontata in maniera diversa. I falsuomini contro cui mi mise in guardia non erano demoni di cui avrei appreso più tardi dalle labbra degli altolegati. Questi erano semplici uomini, mi disse lei, non mostri alieni, non parenti di licantropi o succhiatori d’anima. Eppure erano persone che cambiavano aspetto, in un certo senso, dato che non avevano una vera forma. Erano uomini di cui non ci si poteva fidare, uomini che avevano dimenticato i loro codici, uomini senza vincoli. Non erano reali; erano semplici illusioni di umanità prive di sostanza. Mi capisci? La sostanza dell’umanità… è un nome, un vincolo, una promessa. È qualcosa che si ha dentro eppure la portiamo tra le braccia. Così mi disse. Ecco perché i Kavalari prendono un teyn, aveva aggiunto, ed escono a coppie… perché… perché l’illusione si può materializzare in fatti se viene vincolata nel ferro».

«Un bel discorso, Garse», disse Dirk quando l’altro ebbe finito. «Ma che effetto può avere l’argento sull’anima di un falsuomo?».

Sul viso di Janacek passò un’ombra di rabbia, come un’unica nuvola di temporale che passa e si allontana. Poi rise. «Avevo dimenticato il tuo umorismo da Kimdissi», disse. «Un’altra cosa che ho imparato in gioventù è stata quella di non discutere mai con un manipolatore». Rise, allungò una mano ed afferrò la mano di Dirk brevemente ma strettamente. «Basta», disse. «Non ci incontreremo mai da soli, comunque potrò ancora essere tuo amico se tu sarai capace di restare keth».

Dirk si strinse nelle spalle e si sentiva stranamente commosso. «Va bene», disse.

Ma Garse si era già allontanato. Aveva lasciato il braccio di Dirk, aveva stretto le dita nel palmo della mano e si era sollevato di un metro, poi si spostò al di sopra dell’acqua, muovendosi in fretta, piegato in avanti, volando agile ed elegante nell’aria. La luce del sole brillava sui suoi lunghi capelli rossi ed i suoi vestiti parevano muoversi e lampeggiare, cambiando colore. A metà del fiume gettò indietro il capo e gridò qualcosa a Dirk, ma il rumore e la velocità della corrente portarono via le sue parole e Dirk afferrò soltanto il tono: una ridente esaltazione, sanguinosa.

Rimase ad osservare finché Janacek non raggiunse l’altra parte del fiume, come se fosse troppo stanco per alzarsi subito in volo. La mano libera si infilò nella tasca del giubbotto e toccò la gemma mormorante. Non gli sembrava più fredda come prima e le promesse — oh, Jenny! — arrivarono, ma erano deboli.

Janacek galleggiava sopra gli alberi gialli, in un cielo grigio purpureo e la sua figura si faceva rapidamente più piccola.

Dirk lo seguì, stancamente.

Janacek poteva anche disprezzare gli scooter dicendo che erano giocattoli, però sapeva come farli volare. Si trovò subito in testa, ben lontano da Dirk, cavalcando il vento costante, a venti metri sopra la foresta. La distanza tra di loro parve incrementarsi regolarmente; al contrario di Gwen, Janacek non si fermava ad aspettare che Dirk lo raggiungesse.

Dirk si accontentò del suo ruolo di inseguitore. Il Ferrogiada si vedeva con facilità — c’erano solo loro nel cielo cupo — per cui non c’era nessun pericolo di perdersi. Dirk cavalcò di nuovo i forti venti Cupoli, accettando la spinta costante da dietro mentre si abbandonava a pensieri senza senso. Fece strani sogni ad occhi aperti, di Jaan e Garse, di vincoli di ferro e di gemme mormoranti, Di Ginevra e Lancillotto, che erano stati tutti e due — se ne rese conto all’improvviso — persone che avevano spezzato i vincoli.

Il fiume scomparve. Laghi tranquilli passavano e sparivano assieme ai cerchi di funghi bianchi posati sulla foresta come croste. Udì l’abbaiare dei cani di Lorimaar una volta, lontani dietro di lui. I deboli rumori gli erano portati dal vento. Non si sentiva preoccupato.

Voltarono verso sud. Janacek era un piccolo punto, nero, emetteva lampi argentei quando un raggio di soie colpiva la piattaforma su cui volava. Più piccolo, sempre più piccolo. Dirk lo seguiva, come un uccello fiacco. Alla fine Janacek cominciò a scendere a spirale, fino a livello degli alberi.

Era una regione selvaggia. Molto più rocciosa che altrove, con alcune colline ondulate ed affioramenti di rocce nere striate d’oro e d’argento. I soffocatori erano dappertutto, soffocatori e solo soffocatori. Gli occhi di Dirk si voltarono da una parte e dall’altra cercando un boscargento alto, un vedovo azzurro o un sottile, cupo albero spettro. Un labirinto giallo si stendeva ininterrotto da un orizzonte all’altro. Dirk sentiva i versi frenetici degli spettri d’albero e li vide sotto i suoi piedi che spiccavano brevi voli su piccole ali.

L’aria attorno a lui tremò al suono di una banscea che piangeva ed un brivido di freddo passò sulla schiena di Dirk, senza alcuna ragione apparente. Guardò rapidamente in alto, distante e vide un impulso luminoso.

Breve, pulsante nei suoi occhi stanchi e troppo intenso. Questo improvviso dito luminoso non era di questo mondo, apri di qui, non di questo grigio pianeta crepuscolare. Non gli apparteneva, ma c’era stato. Aveva colpito una sola volta venendo dal basso, un furioso fuoco sottile che subito si era perduto nel cielo.

Di fronte a lui Janacek pareva una piccola bambola di stracci accanto alla luce. Il sottile filo scarlatto lo aveva toccato, aveva colpito la piattaforma d’argento su cui posava i piedi, leggero e veloce. L’immagine persistette negli occhi di Dirk. Assurdamente Janacek cominciò a cadere, agitando le braccia. Dalle mani gli usci un bastone nero, roteando e lui scomparve tra i soffocatori, schiantandosi tra i rami intrecciati.

Rumori. Dirk senti dei rumori. Musica su questo interminabile vento invernale. Legno che si spezzava, seguito da grida di dolore e di rabbia, animali e umani, umani e animali, un po’ l’uno e un po’ l’altro e nessuno dei due. Le torri di Kryne Lamiya luccicavano sopra l’orizzonte, simili al fumo e trasparenti e gli cantavano una canzone di morti.

Le grida cessarono all’improvviso; le torri bianche svanirono e la bufera che lo spingeva avanti ne sparse i frammenti. Dirk scese in basso e sollevò il laser.

C’era un buco nero nel fogliame, dove era caduto Garse Janacek: rami gialli contorti e spezzati, un buco sufficiente a far passare il corpo di un uomo. Nero. Dirk si librò al di sopra, ma non riuscì a vedere Janacek o il terreno della foresta, perché le ombre erano fittissime. Ma sul ramo più alto vide un pezzo di vestito strappato che vibrava nel vento e cambiava colore. Al di sopra un piccolo spettro stava solennemente di guardia.

«Garse!», gridò, senza preoccuparsi del nemico che c’era sotto, l’uomo che aveva usato il laser. Gli spettri d’albero gli risposero con un coro di cinguettìi.

Udì dei rumori sotto gli alberi; la luce del laser brillò di nuovo, accecante. Questa volta non verso l’alto, ma orizzontamente, come un raggio di sole impossibile nel buio là sotto. Dirk rimaneva immobile e indeciso. Uno spettro d’albero apparve sul ramo proprio sotto di lui. stranamente coraggioso, che lo osservava con occhi liquidi, con le ali aperte strimpellando nel vento. Dirk puntò il laser e sparò, finché la bestiola non fu altro che una macchia di fuliggine sulla corteccia gialla.

Poi si mosse ancora, girando a spirale, finché non vide una apertura tra i soffocatori, abbastanza larga da permettergli di scendere. I! terreno della foresta era scuro; i soffocatori, che si intrecciavano al di sopra, schermavano i nove decimi della fioca luce di Occhiodaverno. Tutt’attorno apparivano tronchi giganteschi, con le dita gialle e nodose che si annodavano in continuazione, rigide ed artistiche. Sì chinò — il muschio per terra si stava decomponendo — e liberò gli stivali dalla griglia d’argento. Il metallo diventò molle. Poi le ombre tra i soffocatori si allontanarono ed uscì Jaan Vikary, che gli si mise davanti in piedi. Dirk alzò gli occhi.

La faccia di Jaan era vuota e tirata. Era coperta di sangue e nelle braccia aveva una cosa rossa e maciullata, che lui trasportava nel modo in cui una madre potrebbe portare un bambino malato. Garse aveva un occhio chiuso e l’altro occhio non c’era più, gli era stato strappato dal viso. Solo metà faccia era ancora al suo posto. La testa era appoggiata gentilmente contro il petto di Jaan.

«Jaan…».

Vikary indietreggiò. «Gli ho sparato io», disse. Tremando, lasciò andare a terra il corpo.

14

Nella foresta non c’era nessun rumore, tranne il respiro greve di Vikary ed i deboli rumori provocati dagli svolazzamenti degli spettri d’albero.

Dirk si avvicinò a Janacek e lo rivoltò. C’erano dei pezzetti di muschio che si erano attaccati al corpo ed avevano assorbito il sangue come spugne. Gli spettri d’albero gli avevano squarciato la gola e la testa di Garse dondolava in maniera oscena quando Dirk lo mosse. I suoi abiti pesanti non erano serviti a proteggerlo; gli animali avevano morso attraverso i vestiti ed il vestito camaleontino era ridotto ad una serie di brandelli umidi ed arrossati. Le gambe di Janacek erano ancora unite assieme dall’ormai inutile lastra argentea dell’aeroscooter; ma si erano rotte durante la caduta; frammenti di ossa seghettati spuntavano fuori dalle caviglie, che presentavano fratture composte quasi identiche fra loro. Ma la cosa peggiore era la faccia… mangiata. L’occhio destro non c’era più. L’orbita vuota era gonfia di sangue che colava lentamente lungo la faccia fino a terra.

Non si poteva fare più niente. Dirk lo fissò disperato. Fece lentamente scivolare una mano in una tasca di Janacek, nel giubbotto strappato e prese la pietraluce, poi si risollevò guardando in faccia Vikary. «Tu hai detto…».

«Avevo detto che non avrei mai potuto sparargli», terminò per lui Vikary. «So bene cosa ho detto, Dirk t’Larien. E so anche bene cosa ho fatto». Parlava lentissimamente; ogni parola gli cadeva dalle labbra, pesante come se fosse di piombo. «Non volevo che capitasse. Non volevo. Ho solo cercato di fermarlo, di farlo cadere dallo scooter. Ma lui è caduto in un nido di spettri d’albero. Un nido di spettri d’albero».

Il pugno di Dirk era stretto attorno alla pietraluce. Non disse niente.

Vikary si scosse; la sua voce diventò più animata e c’era una punta di disperazione nel suo tono. «Mi stava dando la caccia. Arkin Ruark mi aveva avvertito quando parlai con lui per visischermo a Larteyn. Mi disse che Garse si era unito ai Braith ed aveva giurato di abbattermi. Io non ci credevo». Tremò. «Io non ci credevo! Eppure era la verità. Mi ha inseguito, è venuto a cacciarmi assieme a loro, proprio come aveva detto Ruark. Ruark… Ruark non è con me… non abbiamo mai… invece sono arrivati i Braith. Non so se lui… Ruark… può darsi che loro lo abbiano ammazzato. Non lo so».

Pareva stanco e confuso. «Dovevo fermare Garse, t’Larien. Lui sapeva della caverna. Dovevo anche pensare a Gwen. Ruark aveva detto che Garse nella sua follia aveva promesso di consegnare Gwen a Lorimaar ed io gli avevo detto che era un bugiardo, ma poi ho visto Garse che mi inseguiva. Gwen è la mia betheyn e tu sei korariel. Sotto la mia responsabilità. Dovevo restar vivo. Mi capisci? Non volevo che questo capitasse. Io gli sono andato vicino, mi sono aperto la strada con il laser… Quelle bestiacce erano tutte nel nido e lo sommergevano, erano bianchicce, anche gli adulti… io li ho arrostiti, li ho arrostiti e l’ho portato fuori».

Il corpo di Vikary fu scosso da un pianto senza lacrime; non poteva permettersi di far uscire le lacrime. «Guarda. Portava il solo ferro. Era venuto per darmi la caccia. Io lo amavo e lui mi dava la caccia!».

La pietraluce era una pepita piena di incertezza nella mano chiusa di Dirk. Guardò ancora una volta Garse Janacek, con i vestiti che erano diventati de! color del sangue secco e del muschio marcio. Poi sollevò lo sguardo verso Jaan Vikary, che era molto prossimo a cedere, che era in piedi con la faccia pallida e con le spalle robuste scosse da sussulti. Dà un nome ad una cosa, pensò Dirk; ed ora doveva assolutamente dare un nome a Jaantony alto-Ferrogiada.

Fece scivolare il pugno chiuso nel buio della sua tasca. «Dovevi farlo», menti. «Ti avrebbe ucciso e dopo anche Gwen. Me lo aveva detto. Sono lieto che Arkin sia riuscito ad avvertirti».

Le parole parvero rinfrancare Vikary. Annuì senza parlare.

«Sono venuto per darti una mano», continuò Dirk, «visto che non eri ancora ritornato. Gwen era preoccupata. Sono venuto per aiutarti. Garse mi aveva catturato e mi aveva disarmato per poi consegnarmi a Lorimaar e Pyr. Aveva detto che ero un dono di sangue».

«Un dono di sangue», ripeté Vikary. «Era pazzo; t’Larien. Ecco la verità. Garse Ferrogiada Janacek non era così; lui non era come un Braith, non recava mai doni di sangue. Mi devi credere».

«Sì», disse Dirk. «Non era a posto. Hai ragione. Te lo posso confermare per il modo in cui parlava. Si». Si sentiva molto vicino a piangere e si chiese se si vedeva. Era come se tutta la paura e la rabbia di Jaan fosse stata riversata nel suo animo; il Ferrogiada pareva più forte e più risoluto man mano che i secondi passavano, mentre la pena si dipingeva negli occhi di Dirk.

Vikary abbassò lo sguardo verso il corpo ancora disteso sotto gli alberi. «Piangerò per lui, per le cose che era stato e per le cose che possedeva, ma adesso non c’è tempo. I cacciatori ci stanno inseguendo con i cani. Dobbiamo andarcene». Si inginocchiò presso il corpo di Janacek per un istante e tenne una delle mani morte presso la sua. Poi baciò la faccia rovinata del morto, proprio sulle labbra e con la mano libera tirò indietro i capelli incollati.

Ma quando si risollevò teneva in mano un braccialetto di nero ferro e Dirk vide che il braccio di Janacek era nudo e sentì una fitta di improvviso dolore. Vikary mise il ferro vuoto in tasca. Dirk trattenne le lacrime e la lingua e non disse niente.

«Dobbiamo andare».

«Ma dobbiamo abbandonarlo qui?», chiese Dirk.

«Abbandonarlo?», Vikary corrugò la fronte. «Ah, capisco. I Kavalari non fanno sepolture, t’Larien. Abbandoniamo i nostri morti nella foresta, per tradizione e non ci vergognamo di lasciarli in pasto agli animali. La vita deve alimentare la vita. Non ti sembra più utile che questa sua forte carne possa nutrire un veloce predatore, invece che delle sporche larve ed i vermi di un camposanto?».

Così si apprestarono ad abbandonarlo dove Vikary lo aveva posato, in un piccolo spazio aperto tra l’interminabile macchia giallo-bruna. Così si allontanarono nel sottobosco alla volta di Kryne Lamiya. Dirk portava il suo aeroscooter e cercava di tenere il passo più rapido di Vikary. Camminava solo da pochi istanti, quando si ritrovarono presso ad un dirupo fatto di rocce contorte e nere.

Quando Dirk raggiunse la barriera, Jaan era già quasi arrivato alla cima. Il sangue di Janacek era diventato una crosta marrone sui vestiti di Jaan e, da sotto, Dirk ne vedeva chiaramente le tracce. Altrove, i vestiti del Kavalar erano diventati neri. Si arrampicava con regolarità, con il fucile appeso dietro alla schiena, muovendo le mani robuste con sicurezza da un appiglio all’altro.

Dirk allargò la stoffa argentea del suo aeroscooter e volò fine in cima al dirupo.

Era appena salito a! di sopra dei rami più alti dei soffocatori, quando udì il grido della banscea per un momento, non troppo distante. Girò gli occhi attorno, cercando il grande predatore. La piccola radura dove avevano lasciato Janacek si vedeva bene da quel punto, una macchia color tramonto vicinissima; nel centro della radura c’era una massa viva fatta di piccoli corpi gialli. Mentre osservava altre figure minuscole volarono dai rami circostanti per unirsi al festino.

La banscea spuntò dal nulla e rimase sospesa immobile sul campo di battaglia, piangendo con il lungo gemito terribile, ma gli spettri d’albero continuarono la folle zuffa, senza curarsi del grido, cinguettando e mordendosi l’uno con l’altro. La banscea precipitò. La sua ombra li coprì tutti, le sue grandi ali si contrassero e si piegarono mentre scendeva; poi rimase una cosa sola: spettri e cadavere avvolti in una stretta affamata. Dirk si senti stranamente rincuorato.

Ma durò un solo istante. Mentre la banscea giaceva inerte, si sentì un acuto squittio e Dirk vide un batuffolo veloce che scattava in cima al mucchio. Venne seguito da un altro. Poi un altro. Poi dieci, dodici, tutti assieme. Dirk sbatté gli occhi e gli parve che gli spettri fossero improvvisamente raddoppiati. La banscea dispiegò di nuovo le sue vaste ali triangolari e le sbatté debolmente, senza energia, ma non riusci a risollevarsi. I pestiferi animali erano dappertutto, mordendo, artigliando, buttando a terra la vittima e straziandola. La banscea era schiacciata a terra e non poteva nemmeno emettere il suo grido di dolore. Morì in silenzio, con il suo pranzo ancora intrappolato sotto il suo corpo.

Nel frattempo Dirk era sceso dallo scooter, ormai in cima al dirupo e la radura era di nuovo una massa pullulante di piccole cose gialle, proprio come era apparsa la prima volta che l’aveva vista. E non c’era più nessun segno della banscea, come se non fosse mai scesa in quel punto. La foresta era assai silenziosa. Aspetto che Jaan Vikary lo raggiungesse. Ripresero assieme il loro cammino silenzioso.

La caverna era fredda e scura ed infinitamente silenziosa. Passarono ore al di sotto della terra, in cui Dirk si era limitato a seguire la torcia elettrica di Jaan Vikary. La luce lo guidò attraverso tortuose gallerie sotterranee, per camere echeggiami dove l’oscurità non se ne andava mai, per stretti passaggi che davano la claustrofobia, dove dovevano strisciare con le mani e con le ginocchia. La luce era il suo universo; Dirk aveva perduto ogni senso di tempo e di spazio. Non avevano niente da dirsi, lui e Jaan, così non dicevano niente; gli unici rumori erano provocati dai loro stivali sulla roccia polverosa ed ogni tanto da echi risonanti. Vikary conosceva bene la sua caverna. Non esitava mai e non perse mai la strada. Zoppicavano e strisciavano attraverso ia segreta anima di Worlorn.

Ed emersero sul fianco di una collina degradante, tra i soffocatori, in una notte piena di fuoco e di musica.

Kryne Lamiya stava bruciando. Le torri ossute gridavano una frammentaria canzone di dolore.

C’erano fiamme dappertutto nella pallida necropoli, luminose sentinelle che camminavano su e giù per le strade. La città scintillava come una strana illusione, in onde di calore e di luce; pareva un incorporeo spettro arancione. Mentre osservavano, uno dei ponti sottili e ricurvi cadde e si spezzò; per prima cosa si spezzò la parte centrale annerita, come se scoppiasse, e le altre pietre la seguirono. Il fuoco lo consumò e si alzò più in alto, crepitando e stridendo, mai sazio. Un edificio lì vicino emise uno scoppio sordo ed implose, cadendo in una grande nube di fumo e di fiamme.

A trecento metri dalla collina su cui stavano loro, alta sui boschi di soffocatori, c’era una torre a forma di mano bianca come il gesso che non era ancora stata toccata dall’incendio. Ma sottolineata dalla terribile luminosità, parve muoversi come una cosa viva, che si contorceva e cercava di afferrarsi dolorante.

Al di sopra del ruggito delle fiamme, Dirk poté sentire la debole musica di Lamiya-Bailis. La sinfonia Cupola appariva spezzata e trasformata; le torri erano scomparse, le note erano perdute, per cui la canzone era piena di misteriosi silenzi ed il crepitare delle fiamme forniva un contrappunto battente ai lamenti, ai sibili ed ai gemiti. I venti Cupoli soffiavano all’infinito dalle montagne per far cantare la Città Sirena, quegli stessi venti che alimentavano le grandi fiamme che divoravano Kryne Lamiya, che oscuravano la sua maschera di morte con ceneri e fuliggine ed infine ne domandavano la quiete.

Jaan Vikary si tolse il fucile a laser da dietro le spalle, Aveva il viso nero e stranito, illuminato dal riflesso del grande incendio. «Ma come…?».

«La macchina-lupo», disse Gwen.

Era in piedi a pochi metri di distanza, un po’ più in basso di loro, Essi la guardarono senza sorprendersi. Dietro di lei, all’ombra di un vedovo azzurro che scendeva verso la base della collina, Dirk vide la macchina gialla di Ruark.

«Bretan Braith», disse Vikary.

Gwen li raggiunse all’entrata della caverna ed annuì. «Sì. La macchina è passata avanti e indietro sulla città parecchie volte ed hanno sparato con il laser»,

«Chell è morto», disse Vikary.

«Ma tu sei vivo», rispose Gwen. «Cominciavo a dubitarne».

«Siamo vivi tutti e due», disse lui. Lasciò cadere il fucile dalle dita molli. «Gwen», disse, «ho ucciso il mio teyn».

«Garse?», disse lei, sorpresa. Gwen aggrottò la fronte.

«Mi aveva consegnato ai Braith», disse Dirk rapidamente. I suoi occhi toccarono quelli di Gwen. «E stava dando la caccia a Jaan, al fianco di Lorimaar. Doveva farlo».

Lei spostò gli occhi da Dirk a Jaan. «È questa la verità? Arkin mi aveva detto qualcosa del genere. Io non gli avevo creduto».

«È la verità», disse Vikary.

«Arkin è qui?», chiese Dirk.

Gwen annuì. «Dentro la macchina. È venuto in volo da Larteyn. Si vede che gli avevate detto dov’ero. Aveva cercato di darmi a bere alcune menzogne. L’ho messo fuori combattimento. Al momento è disperato».

«Gwen», disse Dirk, «abbiamo sbagliato malamente a giudicare Arkin». Sentiva il fondo della gola amaro di bile. «Non mi capisci, Gwen? Arkin aveva avvisato Jaan che Garse lo avrebbe tradito. Se non fosse stato per quest’avviso, Jaan non lo avrebbe mai saputo. Forse avrebbe avuto fiducia in Janacek e non gli avrebbe neanche sparato. Così sarebbe stato preso ed ucciso». La sua voce era roca e urgente. «Mi capisci? Arkin…».

Il fuoco metteva freddi riflessi negli occhi di lei che osservava Dirk. «Capisco», disse con voce impastata e tremolante. Si voltò di nuovo verso Vikary. «Oh, Jaan», disse lei. Gli tese le mani.

E lui le si avvicinò e posò il capo sulla sua spalla e le avvolse il braccio strettamente attorno alla vita. E lui cominciò a piangere,

Dirk li lasciò e si avviò verso l’aerauto.

Arkin Ruark era legato strettamente ad uno dei sedili. Era vestito con abiti pesanti ed aveva la testa abbassata, in modo che il mento posava contro il petto. Quando Dirk entrò egli alzò gli occhi, con uno sforzo. Tutta la parte destra del viso era rossastra e gonfia per un’ammaccatura. «Dirk», disse debolmente.

Dirk si tolse lo zaino ingombrante e lo mise sul pavimento. Si appoggiò contro il cruscotto. «Arkin», disse tranquillamente.

«Aiutami», disse Ruark.

«Janacek è morto», gli disse Dirk. «Jaan lo ha abbattuto con il laser e lui è caduto in un nido di spettri d’albero».

«Garsey», disse Ruark, con qualche difficoltà. Aveva le labbra gonfie e sanguinanti e gli tremava la voce. «Vi avrebbe uccisi tutti e due. Assolutamente vero, assolutamente. Ho avvisato Jaan, davvero, lo ho avvisato. Credimi, Dirk».

«Oh, ti credo», disse Dirk annuendo.

«Ho cercato di aiutare, si. Gwen, quella è impazzita. Ho visto i Braith prendere Jaan, quando stavo andando con lui e loro sono arrivati per primi. Ero preoccupato per lei, ero preoccupato. Venivo ad aiutare. Lei mi ha picchiato, ha detto che ero un bugiardo, mi ha legato e mi ha portato qui. È matta, Dirk, amico Dirk, tutta matta, matta come un Kavalar. Quasi come Garse, non certo come la dolce Gwen. Penso che abbia intenzione di uccidermi. E pure te, forse, non lo so. Vuole ritornare con Jaan, questo lo so. Aiutami, devi aiutarmi. Fermala». Piagnucolava.

«Non ucciderà nessuno», disse Dirk. «Adesso c’è Jaan qui e ci sono io. Sei in salvo, Arkin, non ti preoccupare. Metteremo le cose a posto noi. Dobbiamo farti un sacco di ringraziamenti, ti pare? Soprattutto Jaan. Se non fosse stato per i tuoi consigli, chissà cosa sarebbe successo».

«Si», disse Ruark. Sorrise. «Sì, vero, assolutamente vero».

Gwen apparve all’improvviso, sulla porta dell’aerauto. «Dirk», disse lei, ignorando Ruark.

Lui si voltò. «Sì?».

«Ho fatto stendere Jaan per un po’. È stanchissimo. Vieni fuori che così possiamo parlare».

«Aspetta», disse Ruark. «Slegatemi prima, eh? Fatelo. Le mie braccia, Dirk, le mie braccia…».

Dirk uscì. Jaan era lì vicino, con il capo contro un albero che osservava senza vederli i fuochi in lontananza. Si allontanarono da lui, nel buio dei soffocatori. Alla fine Gwen si fermò e si voltò a guardarlo in faccia. «Jaan non dovrà mai sapere», disse lei. GeUò una lunga ciocca di capelli neri all’indietro con la mano destra.

Dirk la guardò. «Il tuo braccio», disse.

Attorno al braccio destro Gwen portava il ferro, nero e vuoto. Il braccio di lei rimase immobile alle parole di Dirk. «Sì», disse. «Le pietreluci verranno in un secondo tempo».

«Capisco», disse Dirk. «Teyn e betheyn, allo stesso tempo».

Gwen annuì. Allungò una mano e prese le mani di Dirk nelle sue. Aveva la pelle fredda e secca. «Rallegrati per me, Dirk», disse con voce debole e triste. «Ti prego’».

Lui le strinse le mani, cercando di apparire rassicurante. «Sono lieto», disse, senza molta convinzione. Tra di loro scese un lungo silenzio ed una grande amarezza.

«Hai un aspetto terribile», disse Gwen alla fine, cercando di sorridere. «Hai tagli da tutte le parti. Tieni il braccio in un modo strano, cammini in un modo strano. Stai bene?».

Lui si strinse nelle spalle. «I Braìth non sono proprio dei giocherelloni», disse. «Soprawiverò». Le lasciò andare le mani ed infilò una mano in tasca. «Gwen, ho qualcosa per te».

Aprì il pugno: c’erano due gemme. La pietraluee rotonda e grossolanamente sfaccettata, brillava leggermente, bruciando nel cavo della mano. E la gemma mormorante, più pìccola, più scura; morta e fredda.

Gwen le prese senza parlare. Le fece rotolare nella mano per un momento, accigliandosi. Poi mise in tasca la pietraluce e restituì la gemma mormorante a Dirk.

Lui l’accettò. «L’ultima cosa che mi rimane di Jenny», disse mentre chiudeva la mano attorno all’echeggiante goccia ghiacciata e la faceva sparire di nuovo sotto il vestito.

«Lo so», disse lei. «Ti ringrazio per l’offerta. Ma se devo dire la verità, non mi mormora più nessuna parola. Penso di essere cambiata troppo. Sono anni che non sento più un sussurro».

«Già», disse lui. «Avevo sospettato qualcosa del genere. Ma ho voluto offrirtela… assieme alle promesse. Le promesse sono sempre le tue, Gwen, se questo servisse a qualcosa. Fa conto che sia il mio ferro-e-fuoco. Tu non vuoi trasformarmi in un falsuomo, non è vero?».

«No», rispose lei. «E l’altra…».

«L’ha salvata Garse, quando ha gettato le altre nel lago. Ho pensato che forse tu avresti potuto incastonarla di nuovo, con quelle nuove. Jaan non si accorgerà mai della differenza».

Gwen sospirò. «Va bene», disse. Poi: «Mi rendo conto di essere dispiaciuta per Garse, dopotutto. Non è curioso? In tutti gli anni che abbiamo passato insieme, difficile che non ci fosse giorno in cui non ci saltavamo alla gola, con il povero Jaan intrappolato tra di noi, lui che ci amava tutti e due. Ci furono giorni in cui ero quasi sicura che l’unica cosa che stava tra me e la felicità era Garse Ferrogiada Janacek. Solo che adesso lui se ne è andato e io trovo la cosa difficile da credere. Continuo ad aspettare di vederlo arrivare con la sua aerauto, armato fino ai denti, sorridente, pronto a rabuffarmi e a rimettermi al mio posto. Penso che quando finalmente mi convincerò che è tutto vero, allora riuscirò a piangere. Non pensi che sia curioso?».

«No», disse Dirk. «No».

«Potrei quasi piangere anche per Arkin», disse lei. «Sai cosa ha detto? Quando è venuto da me a Kryne Lamiya? Dopo che gli avevo detto che era un bugiardo, l’ho colpito e l’ho sbattuto per terra… sai che cosa ha detto?».

«Dirk scosse il capo e attese.

«Ha detto che mi amava», disse Gwen, sorridendo cupamente. «Ha detto che mi ha sempre amata, fin da quando ci siamo incontrati su Avalon. Non giurerei che dicesse la verità. Garse ha sempre detto che i manipolatori sono astuti ed Arkin non aveva bisogno di essere un genio per capire che la rivelazione mi aveva colpita. Quasi lo lasciavo libero quando me lo disse. Pareva piccolo e degno di pietà e poi singhiozzava. Invece… l’hai visto in faccia?». Lei esitava.

«L’ho visto», disse Dirk. «Brutto».

«Invece io gli ho fatto quello», disse Gwen. «Ma adesso penso di credergli. In un certo modo balordo, lui mi amava. E lui vedeva ciò che mi stavo facendo; e lui lo sapeva che, se fosse stato per me, non avrei mai lasciato Jaan, per cui ha deciso di usare te, di usare tutte le cose che io gli avevo detto, fidandomi di lui… ha pensato, in questo modo, di allontanarmi da Jaan. Immagino che lui pensasse che tu ed io avremmo finito per lasciarci, come era già successo su Avalon, così io mi sarei accontentata di lui. O magari lui la sapeva più lunga. Non lo so. Lui protesta che pensava solo a me, alla mia felicità, che non poteva sopportare di vedermi con giada-e-argento. Che lui non pensava a se stesso. Dice di essere mio amico». Gwen sospirò disperata. «Mio amico», ripeté lei.

«Non prendertela troppo per lui, Gwen», la ammoni Dirk. «Non avrebbe esitato a mandarmi verso la morte, assieme a Jaan. Non avrebbe avuto un attimo di esitazione. Garse Janacek è morto ed anche molti Braith e gli innocenti Emereli di Sfida… e tu puoi tranquillamente addossare la colpa di tutto all’amico Arkin. Ti pare?».

«Adesso sei l’unico che parli come Garse», disse lei. «Che mi dici? Dici che io avevo occhi di giada? Guarda i tuoi, Dirk! Eppure penso che tu abbia ragione».

«Adesso che ne facciamo di lui?».

«Lasciamolo libero», disse lei. «Per il momento. Jaan non dovrà mai sospettare la verità, altrimenti lo distruggerebbe, Dirk. Per cui Arkin Ruark deve ridiventare il nostro amico. Capisci?».

«Sì», disse lui. Il ruggito del fuoco era diminuito, trasformandosi in un debole crepitare, notò Dirk; c’era quasi silènzio. Guardando indietro, in direzione della macchina, vide che l’inferno si stava estinguendo. C’erano alcuni fuochi sparsi che fiammeggiavano debolmente tra le rovine, e gettavano dei riflessi attraverso la città fumosa e distrutta. Quasi tutte le torri sottili erano cadute e quelle rimaste erano completamente silenziose. Il vento ormai era solamente vento.

«Tra poco sorgerà l’alba», disse Gwen. «Dobbiamo metterci in viaggio».

«In viaggio?».

«Dobbiamo ritornare a Larteyn, ammesso che Bretan non abbia distrutto anche quella».

«Ha un modo violento di piangere», convenne Dirk. «Ma Larteyn è sicura?».

«Il tempo di fuggire e di nascondersi è finito», gli disse Gwen. «Ormai non sono più incosciente e non sono più una disperata betheyn che ha bisogno di essere protetta». Sollevò il braccio destro; distanti fiamme illuminarono il ferro vuoto. «Sono teyn di Jaan Vikary, anche con il sangue ed ho preso le mie armi. E tu… Anche tu sei cambiato, Dirk. Tu non sei più korariel, e lo sai. Tu sei keth.

«Per il momento siamo assieme. Siamo giovani e siamo forti e sappiamo quali sono i nostri nemici e come fare a trovarli. E nessuno di noi potrà mai essere un Ferrogiada… Io sono una donna, Jaan è un fuorilegge e tu sei un falsuomo. Garse è stato l’ultimo dei Ferrogiada. Garse è morto. Le cose giuste e le cose sbagliate di Alto Kavalaan e dell’Unione Ferrogiada sono morte con lui, credo, per lo meno per quanto riguarda questo mondo. Su Worlorn non ci sono codici, ricordi? Nessun Braith e nessun Ferrogiada, solo bestie che cercano di uccidersi le une con le altre».

«Ma che stai dicendo?», disse Dirk, anche se pensava di saperlo bene.

«Sto dicendo che sono stanca di essere cacciata ed inseguita dai cani e minacciata», disse Gwen. La sua faccia era in ombra e pareva fatta di ferro puro; i suoi occhi bruciavano incadescenti e feroci. «Sto dicendo che è ormai tempo che diventiamo noi i cacciatori!».

Dirk la fissò in silenzio per un bel po’. Lei era bellissima, pensò, bella nello stesso modo in cui era stato bello Garse Janacek. Lei era un po’ come la banscea, decise lui, e pianse un poco per la morte della sua Jenny. La sua Ginevra che non era mai esistita. «Hai ragione», disse a fatica.

Lei gli venne più vicino e lo circondò tra le sue braccia a cerchio prima che lui potesse rifiutarsi e lo strinse con tutta la sua forza. Le mani di Dirk si sollevarono lentamente; anche lui la strinse e rimasero così per almeno dieci minuti, schiacciati l’uno contro l’altra, la guancia liscia di lei contro la sua ispida. Quando finalmente lei si allontanò da lui, sollevò gli occhi, aspettando che lui la baciasse e così fece. Lui chiuse gli occhi; le labbra di Gwen erano asciutte e dure.

La Fortezza di Luce era fredda all’alba. Il vento roteava in mulinelli martellanti; il cielo era grigio e nuvoloso.

Sul terrazzo della loro torre trovarono un cadavere.

Jaan Vikary si sporse fuori con attenzione, con il fucile laser in mano, mentre Gwen e Dirk lo coprivano, nascondendosi dietro alla relativa protezione fornita loro dall’aerauto. Ruark sedeva terrorizzato sul sedile posteriore. Lo avevano liberato prima di allontanarsi da Kryne Lamiya e per tutta la strada era stato d’umore cupo ed abulico, senza sapere cosa pensare.

Vikary controllò il corpo, che giaceva scompostamente davanti agli ascensori, poi tornò all’aerauto. «Roseph alto Braith Kelcek», disse brevemente.

«Alto-Larteyn», gli ricordò Dirk.

«Davvero», convenne lui, aggrottando la fronte. «Alto-Larteyn. È morto da parecchie ore, direi. Quasi metà del torace gli è stato portato via da un’arma a proiettili. La sua pistola è ancora nel fodero».

«Un’arma a proiettile?», disse Dirk.

Vikary annuì. «Bretan Braith Lantry è noto per usare armi di quel tipo in duello. È un noto duellatore, ma credo che abbia scelto il suo fucile a proiettili solo un paio di volte, rare volte in cui non voleva accontentarsi di vincere per ferita. Un laser da duello è uno strumento preciso e pulito. Non così questa pistola di Bretan Braith. Un’arma simile è stata fatta per uccidere, anche se la mira è approssimativa. È una cosa sporca e selvaggia, fatta apposta per brevi duelli mortali».

Gwen fissava il punto in cui Roseph giaceva come un mucchio di stracci. I suoi abiti avevano lo stesso colore sporco della terrazza e svolazzavano nel vento. «Questo non è stato un duello», disse Gwen.

«No», convenne Vikary.

«Ma perché!», chiese Dirk. «Roseph non costituiva certo una minaccia per Bretan Braith, vi pare? Tra l’altro il codice duellesco… Bretan resta sempre un Braith, non è vero? Per cui non dovrebbe essere ancora vincolato?».

«Certo che Bretan è ancora un Braith, ed è proprio questo il suo motivo, Dirk t’Larien», disse Vikary. «Questo non è più un duello. Questa è un’altaguerra, Braith contro Larteyn. In altaguerra ci sono pochissime regole; ogni maschio adulto della granlega nemica è considerato una valida preda, finché non viene stipulata la pace».

«Una crociata», disse Gwen, ridacchiando. «La cosa non suona troppo logica per un Bretan, Jaan».

«Però suona molto logica per il vecchio Chell, direi», rispose Vikary. «Sospetto che il suo teyn gli abbia fatto giurare di comportarsi in questo modo mentre giaceva morente. Se questa è la verità, Bretan uccide sotto giuramento, non solo perché è addolorato. Avrà ben poca misericordia».

Arkin Ruark si chinò in avanti dal sedile posteriore, eccitato. «Ma questo ci tornerà assai utile!», esclamò. «Si, statemi a sentire, questa è una bella cosa. Gwen, Dirk, Jaan amico mio, ascoltami. Bretan li ucciderà tutti per noi, che ne dite? Li ucciderà uno per uno, si. Lui è nemico dei nostri nemici, abbiamo le migliori speranze, assolutamente vero».

«Il tuo proverbio Kimdissi in questo caso è fuori luogo», disse Vikary. «L’altaguerra tra Bretan Braith ed i Larteyn non li rende certo nostri amici, se non per caso. Sangue e dolori non sono cose che si dimenticano tanto facilmente, Arkin».

«Sì», aggiunse Gwen. «Lui non sospettava certo che a Kryne Lamiya si nascondesse Lorimaar, sai. Lui ha bruciato quella città, sperando di prendere noi».

«Ha tirato ad indovinare, un semplice tentativo», borbottò Ruark. «Forse aveva altri motivi, motivi suoi, chi lo sa? Magari è diventato matto, impazzito per il dolore, sì».

«Dicci un po’, Arkin», disse Dirk. «Noi ti depositiamo all’aperto e se arriva Bretan Braith tu gli chiedi i suoi motivi».

Il Kimdissi fece un passo indietro e lo guardò in modo strano. «No», disse. «No, è più sicuro stare con voi, amici miei, perché voi mi proteggerete».

«Ti proteggeremo», disse Jaan Vikary. «Tu hai fatto parecchio per noi». Dirk e Gwen si scambiarono uno sguardo.

Vikary fece muovere all’improvviso la loro aerauto. Si alzarono e si allontanarono rapidamente dalla terrazza, al di sopra delle strade di Larteyn illuminate dall’alba pallida.

«Dove…?», chiese Dirk.

«Roseph è morto», disse Vikary. «Comunque non era l’unico cacciatore. Dovremmo fare un censimento, amici, faremo un censimento».

L’edificio in cui Roseph alto-Braith Kelcek abitava con il suo teyn, non era lontano dalla residenza dei Ferrogiada ed era vicinissimo alla sotterranea. Era una grande casa quadrata con il tetto a cupola di metallo ed un portico sostenuto da colonne di ferro puro. Atterrarono nelle vicinanze e si avvicinarono furtivamente.

Due cani Braith erano stati incatenati alle colonne di fronte alla casa. Erano tutti e due morti. Vikary si avvicinò ad osservare. «Li hanno colpiti alla gola con uh laser da caccia. Il colpo è stato sparato da una certa distanza», riferì. «Un modo di uccidere sicuro e silenzioso».

Rimase all’esterno, con il fucile a laser in mano, attento, sempre in guardia. Ruark gli stava appiccicato al fianco. Gwen e Dirk furono mandati a perquisire l’edificio.

Trovarono molte camere vuote ed una stanzetta con i trofei in cui c’erano quattro teste; tre erano vecchie e rinsecchite, con la pelle tirata e cuoiosa, dall’aspetto quasi bestiale. La quarta, secondo Gwen, era quella di un bambino di gelatina Nerovino, appena staccata, a giudicare dall’aspetto. Dirk toccò sospettosamente le coperture in pelle di molti mobili, ma Gwen scosse il capo facendo segno di no.

Un’altra stanza, li vicino, era piena di figurine in miniatura: banscee e branchi di lupi, soldati che combattevano con il coltello e con la spada, uomini che affrontavano mostri grotteschi in strani combattimenti. Tutte le scene erano eseguite con cura, in ferro, rame e bronzo. «Il lavoro di Roseph», disse consciamente Gwen quando Dirk si fermò, malgrado tutto, e sollevò una delle figurine per osservarla. Lei gli fece cenno di muoversi.

Il teyn di Roseph stava mangiando. Lo trovarono nella camera da pranzo. La sua pietanza — uno spesso stufato di carne e verdura fatto in un sugo sanguigno, con grandi pezzi di pane nero di fianco — era fredda e mezza consumata. Un boccale di peltro pieno di birra scura era lì vicino, sul lungo tavolo di legno. Il corpo del Kavalar era a circa un metro di distanza, ancora sulla sua sedia, ma la sedia era sul pavimento e c’era una macchia scura sulla parte subito dietro. L’uomo non aveva più nessuna faccia.

Gwen lo guardò da vicino, accigliata, col fucile appeso al braccio in maniera casuale, rivolto verso il pavimento. Prese la birra e la assaggiò, prima di passarla a Dirk. Era tiepida ed insapore, il gusto se ne era andato già da tempo.

«Lorimaar e Saanel?», chiese Gwen quando uscirono fuori di nuovo, sotto le colonne di ferro.

«Dubito che siano ritornati dalla foresta», disse Vikary. «Può darsi che Bretan Braith si trovi da qualche parte a Larteyn, per aspettarli. Indubbiamente ha visto arrivare Roseph e Chaalyn ieri. Può darsi che si nasconda da qualche parte qui vicino, sperando di sorprendere i suoi nemici uno ad uno, mentre ritornano alla città. Però non credo».

«Perché?». Questo era Dirk.

«Pensaci, t’Larien, noi siamo arrivati qui all’alba e con una macchina non corazzata. Lui non ci ha attaccato. I casi sono due, o dormiva, o non era qui attorno».

«Dove pensi che sia?».

«Nella foresta, a cacciare i nostri cacciatori», disse Vikary. «Ci sono solo due Larteyn che restano vivi in grado di affrontarlo, ma Bretan Braith non ha nessun modo per saperlo. Per quello che lui sa, Pyr, Arris ed anche il vecchio Raymaar Una-Mano sono ancora vivi e devono essere contati. Direi che deve essere volato via per coglierli di sorpresa, forse nel timore che altrimenti avrebbero potuto tornare in città in gruppo, avrebbero scoperto i loro kethi uccisi e sarebbero così stati avvisati delle sue intenzioni».

«Dovremmo scappare allora, sì, prima che torni indietro», disse Arkin Ruark. «Andiamo in qualche posto sicuro, lontani da questa follia Kavalar. Dodicesimo Sogno, sì, a Dodicesimo Sogno. Oppure Musquel, oppure Sfida, da qualsiasi parte. Presto arriverà una nave, allora saremo in salvo. Che ne dite?».

«Io dico di no», rispose Dirk. «Bretan ci troverà. Ti ricordi la maniera quasi soprannaturale con cui è riuscito a scoprire Gwen e me a Sfida?» Guardò apertamente verso Ruark. Per la verità, il Kimdissi riuscì a mantenere il viso immobile con ammirabile calma.

«Rimarremo a Larteyn», disse Vikary deciso. «Bretan Braith Lantry è solo un uomo. Noi siamo quattro e tre di noi sono armati. Se rimaniamo assieme, siamo al sicuro. Stabiliremo dei turni di guardia. Saremo pronti».

Gwen annuì e fece scivolare il braccio attorno a quello di Jaan. «Io sono d’accordo», disse. «Bretan potrebbe anche non sopravvivere a Lorimaar».

«No», le disse il Kavalar. «No, Gwen. Penso che tu abbia torto. Bretan Braith sopravviverà a Lorimaar. Di questo sono assolutamente certo».

All’insistenza di Vikary, setacciarono il grande garage sotterraneo, prima di abbandonare la zona in cui risiedeva Roseph. L’azione ebbe dei risultati. Dato che la loro aerauto era stata rubata a Sfida e successivamente distrutta, Roseph e il suo teyn si erano fatti imprestare l’aeromobile di Pyr per ritornare dalla caccia nella foresta; ora era parcheggiata là sotto. Jaan se ne appropriò. Anche se non era ancora il pesante residuato bellico verde oliva di Janacek, era comunque assai più formidabile della piccola macchina di Ruark.

Dopo di che trovarono gli appartamenti. Lungo le mura della città di Larteyn, affacciate sullo strapiombo a picco, fissando il distante Comune, c’era una serie di torri di guardia, con postazioni per sentinelle e feritoie in alto e acquartieramenti nella parte inferiore, al di qua delle mura stesse. Le torri, ognuna con una grande cariatide di pietra appollaiata sul tetto, erano esclusivamente ornamentali, un abbellimento per rendere la città del festival autenticamente Kavalar. Comunque erano facilmente difendibili e fornivano un’eccellente panoramica della città. Gwen ne scelse una a caso e loro vi si trasferirono, saccheggiando il precedente appartamento per trovare effetti personali, cibo e registrazioni riguardo alle ormai quasi dimenticate (almeno per Dirk) ricerche ecologiche che Gwen e Ruark avevano condotto nelle foreste di Worlorn.

Una volta al sicuro, si apprestarono ad attendere.

Fu quella, decise in seguito Dirk, la cosa peggiore che potessero fare. Sotto la pressione della loro inattività, tutte le spaccature vennero in evidenza.

Avevano studiato un sistema di spostamenti sovrapposti, in modo che c’erano sempre due persone di guardia alla torre, armati di laser e del binocolo da campo di Gwen. Larteyn era grigia, vuota e desolata. C’era poco da fare per le sentinelle, oltre a studiare il lento crescere e fluire della luce nelle strade e chiacchierare un po’. Per lo più chiacchieravano.

Arkin Ruark faceva i suoi turni con tutti gli altri ed accettò anche il fucile a laser che Vikary gli impose, anche se con qualche riluttanza. Insistette più volte che lui non era adatto alla violenza, che non sarebbe mai riuscito a sparare con il laser, per nessun motivo. Comunque consentì a tenerlo, perché glielo aveva chiesto Jaan Vikary. I suoi rapporti con tutti loro erano radicalmente cambiati. Rimaneva vicino a Jaan finché poteva, rendendosi conto che il Kavalar era adesso il suo vero protettore. Con Gwen era cordiale. Lei gli aveva chiesto di dimenticare Kryne Lamiya, proclamando che la paura ed il dolore l’avevano temporaneamente spinta verso la paranoia. Ma per Ruark non fu mai più la «dolce Gwen»; l’amarezza tra di loro veniva a galla ogni giorno di più. Verso Dirk, il Kimdissi manteneva un atteggiamento sospettoso, di disagio, passando alternativamente dall’amicizia alla formalità, quando fu chiaro che Dirk non intendeva ammorbidirsi. I commenti di Ruark durante la prima guardia che fecero assieme, indicarono a Dirk che il grasso ecologo attendeva disperatamente il traghetto del Margine Teric neDahlir, che avrebbe dovuto atterrare la settimana successiva. Pareva che non gli interessasse nient’altro se non rimanere nascosto e al sicuro e poi poter salpare il più presto possibile.

Gwen Delvano aspettava qualcosa di completamente diverso, pensava Dirk. Mentre Ruark controllava l’orizzonte con apprensione, Gwen fremeva nell’attesa. Si ricordò le parole che aveva detto quando avevano parlato assieme nell’ombra di Kryne Lamiya distrutta dal fuoco. «È ora che noi diventiamo i cacciatori», aveva detto lei. Lei ne era ancora convinta. Quando lei e Dirk fecero la guardia insieme, Gwen fece tutto il lavoro. Lei rimase seduta presso la finestra lunga e stretta con impazienza quasi infinita, con il binocolo appeso tra i seni, le braccia posate sul davanzale, giada-e-argento accanto al ferro vuoto. Parlava con Dirk senza nemmeno guardarlo; tutta la sua attenzione era diretta all’esterno. Facevano eccezione solo le visite alla toeletta, altrimenti Gwen rifiutò di abbandonare la finestra. Ogni tanto sollevava il binocolo e studiava un qualche lontano edificio dove le pareva di aver visto del movimento e meno frequentemente chiedeva a Dirk di dargli un pettine e cominciava a pettinarsi i lunghi capelli neri, che il vento continuava a scompigliarle.

«Spero che Jaan abbia torto», disse una di quelle volte in cui si spazzolava i capelli. «Preferirei vedere ritornare Lorimaar e il suo teyn, piuttosto che Bretan». Dirk aveva borbottato un commento favorevole, basandosi sul fatto che Lorimaar — molto più vecchio ed anche ferito — sarebbe stato molto meno pericoloso del duellatore con un occhio solo che dava la caccia a lui. Ma quando lui glielo disse, Gwen si limitò a posare la spazzola e lo fissò in maniera curiosa. «No», disse lei, «no, questa non è affatto la ragione».

Per Jaantony Riv Lupo alto-Ferrogiada Vikary, l’attesa pareva essere la cosa che lo feriva di più. Finché si era mantenuto in azione, finché si richiedevano delle cose da lui, era restato il vecchio Jaan Vikary: forte, deciso, un capo. Ma immobile era un uomo diverso. Non aveva nessun ruolo da giocare; però aveva un tempo illimitato per pensare. La cosa non gli faceva bene. Anche se Garse Janacek venne menzionato raramente in quegli ultimi giorni, era chiaro che Jaan era ossessionato dallo spettro del suo teyn con la barba rossa. Troppo spesso Vikary era incupito e cominciò a piombare in bui silenzi che a volte duravano ore.

In un primo tempo aveva insistito che tutti loro avrebbero costantemente dovuto rimanere in casa; ma adesso lo stesso Jaan aveva cominciato a fare lunghe camminate all’alba ed al tramonto quando non era di guardia. Durante le sue ore in cui faceva la guardia sulla torre, quasi tutte le sue conversazioni erano piene di ricordi della sua infanzia nelle granleghe dell’Unione Ferrogiada e di racconti presi dalla storia, di eroi martirizzati come Vikor alto-Rossacciaio e Aryn alto-Pietraluce. Non parlava mai del futuro e solo raramente della loro situazione attuale. Osservandolo, Dirk sentiva che se avesse voluto poteva vedere il tormento interno di quell’uomo. Nel giro di pochi giorni, Vikary aveva perso tutto: il suo teyn, il suo pianeta d’origine e la sua gente, perfino il codice per cui aveva vissuto. Lo stava combattendo… aveva già preso Gwen come teyn, l’aveva accettata con una pienezza ed una totale dipendenza che lui non aveva mai dimostrato né verso di lei, né verso Garse individualmente. E a Dirk pareva che Jaan stesse tentando di seguire comunque il suo codice, attaccandosi fortemente ai pezzetti di onore Kavalar che gli erano rimasti. Era Gwen e non Jaan, che parlava di caccia e di cacciatori, di animali che si uccidevano tra di loro adesso che erano scomparsi tutti i codici. Lei diceva le cose come se parlasse per il suo teyn oltre che per se stessa, ma Dirk non credeva che fosse proprio così. Quando Vikary parlava delle sue prossime battaglie, pareva sempre sottintendere che avrebbe dovuto duellare con Bretan Braith. Nelle sue lunghe passeggiate nella città si esercitava sia con il fucile che con la pistola. «Se dovrò affrontare Bretan, devo essere pronto», era solito dire e faceva la sua pratica giornaliera come un automa, solitamente fuori dalla vista dell’attore, preparandosi in entrambi i modi di duello dei Kavalari. Un giorno sarebbe stato nel quadrato della morte a dieci passi ed avrebbe arrostito i suoi antagonisti fantasma e il giorno dopo sarebbe stato lo stile libero ed il passa-la-linea e poi il colpo singolo e di nuovo il quadrato della morte. Quelli che erano di guardia lo avrebbero coperto pregando che nessun nemico avesse osservato gli insistenti impulsi luminosi. Dirk aveva paura. Jaan era la loro forza ed egli appariva perduto nella sua delusione marziale, nella sua previsione detta a mezza voce, che Bretan Braith sarebbe ritornato e gli avrebbe offerto le garanzie del codice, malgrado tutto. Malgrado tutta l’abilità che Vikary vantava nel duello, malgrado il rituale dell’esercitazione, pareva a Dirk sempre più improbabile che il Ferrogiada potesse trionfare su Bretan in un combattimento singolo.

Il sonno di Dirk era maledetto da incubi ricorrenti in cui era coinvolto Braith con la sua mezza faccia: Bretan con la strana voce e l’occhio luccicante, con il tic grottesco, Bretan sottile e con le guance lisce ed innocenti, Bretan il distruttore di città. Dirk si svegliava da quei sogni sudato ed esaurito, attorcigliato alle lenzuola e si ricordava le grida di Gwen (strilli acuti e terrificanti come quelle torri di Kryne Lamiya) ed il modo in cui Bretan lo guardava. Per scacciare queste visioni aveva solo Jaan e adesso Jaan era circondato da un consumato fatalismo, anche se poteva ancora superare le emozioni.

Era stata la morte di Janacek, si diceva Dirk… e soprattutto, le circostanze di quella morte. Se Garse fosse morto in maniera più normale, Vikary sarebbe stato un vendicatore più irato ed impietoso ed invincibile di Myrik e Bretan messi assieme. Da come erano andate le cose, però, Jaan era convinto che il suo teyn lo avesse tradito, gli avesse dato la caccia come ad una bestia o ad un falsuomo e questa convinzione lo distruggeva. Più di una volta, seduto con il Ferrogiada in una piccola stanza di guardia, Dirk sentì l’impulso di dirgli la verità, di affrontarlo e gridargli: no, no! Garse era innocente, Garse ti amava, Garse sarebbe morto per te! Eppure non disse niente. Se Vikary stava morendo in questo modo, consumato dalla malinconia e dalla sensazione di essere stato tradito ed in definitiva dal fatto di aver perso la fede, allora tanto più velocemente lo avrebbe ucciso la verità.

Così i giorni passavano e le fratture si allargavano. Dirk osservava i suoi tre compagni con sempre crescente apprensione. Ruark aspettava di poter scappare, Gwen di vendicarsi e Jaan Vikary di morire.

15

Nel primo giorno di veglia, piovve per quasi tutto il pomeriggio. Le nuvole si erano ammassate ad est per tutta la mattina, facendosi sempre più spesse e minacciose, oscurando Grasso Satana ed i suoi figli, sicché il giorno fu anche più cupo del solito. Il temporale scoppiò verso mezzogiorno. Ululava. I venti all’esterno soffiavano così forte che le torri di guardia parevano tremare e ruscelli di acqua marrone correvano gonfi per le strade e lungo le cunette di pietraluce. Quando finalmente i soli riuscirono a sbucare fuori di nuovo — ormai erano prossimi al tramonto — Larteyn scintillava, con le mura e gli edifici che brillavano di umidità ed apparivano più chiari di come Dirk li avesse mai visti. La Fortezza di Luce appariva quasi desiderabile. Ma quello era il primo giorno di veglia.

Al secondo giorno le cose erano più o meno ritornate normali. Occhiodaverno percorreva un rosso sentiero attraverso il cielo, Larteyn brillava debolmente, un po’ nera al di sotto ed il vento trasportava la polvere del Comune che la pioggia di ieri aveva portato via. Al tramonto, Dirk osservò un’aerauto. Si materializzò in alto, sulle montagne, un puntino nero, e girò in direzione del Comune, prima di cominciare a discendere verso di loro. Dirk osservò attentamente la macchina con il binocolo. Aveva i gomiti appoggiati al davanzale della finestra lunga e stretta. Non si trattava di una macchina che conosceva: una cosa nera, un piccolo pipistrello stilizzato con larghe ali ed enormi occhi per fanali. Vikary era con lui in quella guardia. Dirk io chiamò presso la finestra e Jaan osservò con disinteresse. «Sì, conosco quel velivolo», disse Jaan. «Non ci interessa t’Larien, sono i cacciatori della Fortezza di Scianagate. Gwen ha riferito di averli visti allontanarsi questa mattina». A quel punto l’aerauto era scomparsa in mezzo alle case di Larteyn e Vikary si era di nuovo seduto, lasciando Dirk solo a riflettere.

Nei giorni che seguirono, vide gli Scianagate parecchie volte e tutte le volte gli sembravano irreali. Gli sembrava stranissimo che potessero andare e venire senza essere toccati da ciò che era capitato, che potessero vivere la loro vita come se Larteyn fosse ancora una pacifica città moribonda, come sembrava, come se non fosse morto nessuno. Erano vicinissimi a tutto ciò eppure distanti, non coinvolti; se l’immaginava quando ritornavano alla loro granlega, su Alto Kavalaan e riferivano che la vita su Worlorn era grìgia e poco interessante. Per loro non era cambiato niente; Kryne Lamiya continuava a cantare il suo lamento funebre e Sfida era ancora piena di luce, di vita e di promesse. Li invidiava.

Al terzo giorno Dirk si svegliò nel mezzo di un incubo particolarmente pernicioso in cui combatteva da solo con Bretan e non fu più capace di rimettersi a dormire. Gwen, che non era di guardia, camminava avanti e indietro nella cucina. Dirk si versò un bicchiere della birra di Vikary e rimase ad ascoltarla per un po’. «Dovrebbero essere qui», si lamentò lei. «Non posso credere che stiano ancora cercando Jaan. Al momento avranno certamente capito che cosa è capitato! Perché non sono qui?». Dirk si strinse semplicemente nelle spalle ed espresse la speranza che non apparisse mai nessuno; il Teric neDahlir sarebbe arrivato presto. Quando lo disse, lei si rivoltò arrabbiata. «Non me ne importa!», sbottò lei; e poi, vergognandosene, diventò rossa e venne a sedersi presso il tavolo. I suoi occhi erano stravolti, incorniciati da una larga fascia verde che le tratteneva i capelli. Lei gli prese la mano e gli disse esitando che Vikary non l’aveva più toccata fin dalla morte di Janacek. Dirk le disse che le cose sarebbero andate meglio quando fosse arrivata la nave, quando si fossero trovati al sicuro lontani di Worlorn e Gwen sorrise e gli disse che era d’accordo, ma dopo un po’ si mise a piangere. Quando alla fine lo lasciò, Dirk ritornò a dormire, prese la gemma mormorante, la tenne nel pugno e ricordò.

Al quarto giorno, mentre Vikary era fuori per una delle sue pericolose passeggiate all’alba, Gwen e Arkin Ruark bisticciarono durante una guardia e lei lo colpi con il calcio del suo fucile laser, duramente sulla faccia già ferita, nel punto in cui il gonfiore aveva appena cominciato a reagire agli impacchi ghiacciati ed alle pomate. Ruark scese dalla scaletta della torre, borbottando che lei era di nuovo diventata matta ed aveva cercato di ucciderlo. Dirk, svegliato da un sonno profondo, si alzò in piedi nella stanza comune ed il Kimdissi si immobilizzò quando lo vide. Nessuno di loro disse niente, ma dopo di ciò Ruark perse rapidamente peso e Dirk fu sicuro che Arkin sapesse mentre prima si era limitato a sospettare.

Al mattino del sesto giorno, Ruark e Dirk stavano facendo la guardia assieme, silenziosamente, quando l’ometto, in un impeto di rabbia, gettò il laser dall’altra parte della stanza. «Che cosa lurida!», esclamò. «Braith Ferrogiada, tutti uguali, sono degli animali Kavalari ecco cosa sono, sì. E tu, il grand’uomo di Avalon, eh? Ah! Tu non sei meglio di loro, per niente meglio, guardati. Avrei dovuto farti duellare, uccidere od essere ucciso, come volevi tu. Questo ti avrebbe fatto felice, sì? Indubbiamente, indubbiamente. Amavi la dolce Gwen e ti sono stato amico e che gratitudine ho trovato, quale, quale?». Le sue grasse guance stavano diventando smunte ed incavate; i suoi occhi pallidi si muovevano senza posa.

Dirk lo ignorò e Ruark piombò improvvisamente nel silenzio. Ma in seguito, quella stessa mattina, dopo aver raccolto il suo laser e dopo assersi seduto alcune ore ad osservare il muro, il Kimdissi si rivolse di nuovo a Dirk. «Anch’io sono stato il suo amante, sai», disse lui. «Lei non te lo ha detto, lo so, lo so, ma è la verità, assolutamente la verità. Su Avalon, parecchio prima che lei incontrasse Jaantony e prendesse quella maledetta giada-e-argento, la notte in cui tu le mandasti quella pietra mormorante. Lei era talmente ubriaca, sai. Abbiamo parlato e parlato, e lei era sbronza e dopo mi ha portato a letto ed il giorno dopo non se ne ricordava nemmeno, lo sai, non se ne ricordava nemmeno. Ma questo non è importante, però è la verità, anch’io sono stato il suo amante». Lui tremò. «Non l’ho mai detto a lei, t’Larien, e non ho cercato di far ritornare quei momenti. Io non sono scemo come sei tu e so benissimo cosa sono e so che fu solo una cosa di quel momento. Però è esistito, quel momento, e le ho insegnato un mucchio di cose, sono stato suo amico e so fare molto, molto bene il mio lavoro. Proprio così». Si fermò per prendere il fiato, poi si allontanò silenziosamente dalla torre, anche se c’era ancora un’ora da fare prima che Gwen venisse a sostituirlo.

Quando lei alla fine venne, la prima cosa che fece fu di chiedere a Dirk che cosa avesse detto ad Arkin. «Niente», rispose lui onestamente. Poi le chiese perché e lei gli disse che Ruark l’aveva svegliata, piangendo e dicendole un mucchio di volte che qualsiasi cosa fosse capitata, lei doveva fare in modo che il loro lavoro fosse pubblicato e che comparisse anche il suo nome, qualsiasi cosa fosse capitata, anche il suo nome aveva il diritto di comparire. Dirk annuì e diede il binocolo ed il posto alla finestra a Gwen e cominciarono a parlare di altre cose.

Al settimo giorno, la guardia di notte toccò a Dirk e Jaan Vikary. La città Kavalar rifletteva la sua fioca luce notturna, i viali di pietraluce parevano lastre di cristallo nero là sotto, con fuochi rossi che bruciavano debolmente, debolmente. Verso mezzanotte apparve una luce sulle montagne. Dirk la osservò mentre si avvicinava alla città. «Non lo so», disse, passando il binocolo. «È buio, difficile da distinguere. Comunque mi pare di vedere vagamente la forma di una cupola». Abbassò le lenti. «Lorimaar?».

Vikary era in piedi vicino a lui. L’aerauto si faceva più vicina. Scivolava silenziosamente sulla città ed il profilo era distinto. «È una macchina», disse Jaan.

La videro voltare verso il Comune e ritornare indietro, diretta verso il fronte del dirupo, all’entrata del garage sotterraneo. Vikary la osservò. «Non ci avrei creduto», disse. Andarono a svegliare gli altri.

L’uomo emerse dall’oscurità della sotterranea e si trovò di fronte a due laser. Gwen gli puntava contro la pistola, in maniera quasi casuale. Dirk, armato con uno dei fucili da caccia, lo puntava verso le porte degli ascensori ed era immobile col mirino che gli premeva sulla guancia, pronto a sparare. Solo Jaan Vikary non aveva un’arma; teneva il fucile mollemente tra le mani e la pistola era nel fodero.

Le porte dell’ascensore si chiusero dietro di lui e l’uomo rimase immobile, comprensibilmente spaventato. Non era Lorimaar. Non era nessuno che Dirk conoscesse. Abbassò il fucile.

Gli occhi dell’uomo passarono su ognuno di loro a turno ed alla fine si posarono su Vikary. «Alto-Ferrogiada», disse a voce bassa. «Perché te la prendi con me?». Era un uomo di media altezza, con la faccia da cavallo e la barba, con lunghi capelli biondi ed una struttura magrolina. Era vestito con un tessuto camaleontino che al momento era di un pallido grigio-rosso, illuminato e vibrante come i mattoni di pietraluce del pavimento.

Vikary allungò una mano ed allontanò gentilmente la canna della pistola di Gwen. L’atto parve risvegliarla. Lei aggrottò la fronte e rinfoderò la pistola. «Aspettavamo Lorimaar alto-Brarth», disse lei.

«È la verità», affermò Vikary. «Non era inteso nessun insulto, Scianagate. Onore alla tua granlega, onore al tuo teyn».

L’uomo dalla faccia di cavallo annuì e apparve risollevato. «E ai tuoi, Alto-Ferrogiada», disse. «Non è stato acquisito nessun insulto». Si grattò il naso nervosamente.

«Tu voli con una proprietà di Braith, non è vero?».

Lui annuì. «Vero ed è nostra per diritto di recupero. Il mio teyn ed io l’abbiamo trovata per caso nella foresta mentre inseguivamo in volo un ferrocorno. La creatura si era fermata a bere e lì c’era una macchina, abbandonata vicino ad un lago».

«Abbandonata? Sei certo di questo?».

L’uomo rise. «Conosco troppo bene Lorimaar Alto-Braith ed il grosso Saanel e non vorrei certo provocare gran dolore a qualcuno dei due. No, abbiamo anche trovato i loro corpi. Ci deve essere stato un nemico che li ha attesi all’accampamento, crediamo che fosse nascosto all’interno della macchina. Poi quando sono tornati dalla caccia…». Fece un gesto. «Non prenderanno altre teste, di falsuomini o di altre cose».

«Morti?», la bocca di Gwen era tirata.

«Assolutamente morti, ormai da parecchi giorni», rispose il Kavalar. «I mangiacarogna erano scesi su di loro, si capisce, però ne era rimasto a sufficienza per capire chi erano. Abbiamo trovato anche un’altra macchina lì vicino. Per la verità era dentro il lago, distrutta e inutilizzabile. C’erano anche delle tracce nella sabbia che indicavano che ci dovevano essere state delle altre macchine che erano venute e poi si erano allontanate. Il veicolo di Lorimaar funzionava ancora, anche se era pieno di cani Braith morti. Noi lo abbiamo ripulito e ce lo siamo preso. Il mio teyn mi segue sulla nostra macchina».

Vikary annui.

«Queste sono cose davvero insolite», diceva l’uomo. Li fissò tutti e tre furbescamente, senza nascondere il proprio interesse. Il suo sguardo si soffermò per un momento disagevolmente lungo, su Dirk e poi sul braccialetto di ferro puro di Gwen, ma non fece nessun commento. «Pare che siano rimasti pochi Braith in questi ultimi tempi, meno del normale. E adesso ne troviamo due morti».

«Se cerchi con cura ne troverai anche degli altri», disse Gwen.

«Stanno mettendo su una nuova granlega», aggiunse Dirk, «all’inferno».

Quando l’uomo se ne ritornò ai suoi affari, loro ripresero lentamente la strada per ritornare alla torre di guardia. Nessuno di loro parlò. Ombre lunghe si proiettavano partendo dai loro piedi e li inseguivano nelle cupe strade scarlatte. Gwen camminava e pareva esausta. Vikary era quasi nevrastenico; portava il fucile con attenzione sempre pronto ad afferrarlo per sparare se si fosse improvvisamente materializzato sul loro cammino Bretan Braith. Scrutava attentamente le strade ed i posti bui che incrociavano la loro strada.

Tornati nella stanza illuminata, Gwen e Dirk si lasciarono cadere per terra, mentre Jaan rimase un istante sulla porta col volto pensieroso. Poi posò le sue armi ed aprì una bottiglia di vino, lo stesso vino aspro che aveva bevuto con Garse e Dirk la notte precedente al duello che non venne mai fatto. Riempì tre bicchieri e li passò agli altri. «Bevete», disse, sollevando il suo bicchiere in un brindisi. «Stiamo arrivando ad una conclusione. Ormai rimane solo Bretan Braith. Presto raggiungerà il suo Chell, oppure io sarò con Garse ed in entrambi i casi avremo la pace». Scolò il bicchiere in fretta. Gli altri sorseggiarono.

«Ruark dovrebbe bere con noi», annunciò Vikary improvvisamente e riempì di nuovo il suo bicchiere. Il Kimdissi non li aveva accompagnati al loro incontro di mezzanotte. Comunque, la sua riluttanza non pareva essere stata dettata dalla paura; per lo meno, Dirk non l’aveva pensata così in quel momento. Jaan aveva convocato anche lui e Ruark si era vestito assieme agli altri, si era infilato il suo più bel vestito di seta ed un berrettino scarlatto, ma quando Vikary gli aveva dato un fucile, prima di uscire, lui si era limitato a fissarlo con un sorriso curioso, poi glielo aveva restituito. Quindi aveva detto: «Ho anch’io il mio codice, Jaantony, e tu devi rispettarlo. Grazie, ma penso che resterò qui». Disse la frase con tranquilla dignità; sotto i capelli biondi e bianchi, i suoi occhi parevano quasi allegri. Jaan gli disse di continuare la guardia dalla torre e Ruark acconsentì.

«Arkin odia il vino Kavalar», disse stancamente Gwen, rispondendo al suggerimento di Jaan.

«La cosa non ha importanza», rispose Jaan. «Questa non è una festa, ma un rito tra kethi. Dovrebbe bere con noi». Mise giù il bicchiere di vino e salì la scala che portava alla torre con movimenti eleganti.

Quando ritornò un istante dopo, era molto meno elegante. Piombò giù per l’ultimo metro e rimase immobile a fissarli. «Ruark non berrà con noi», dichiarò. «Ruark si è impiccato».

Al sorgere di quella particolare alba, l’ottava della loro veglia, fu Dirk che uscì a passeggiare.

Non entrò nella vera e propria Larteyn. Invece fece il giro delle mura della città. Erano larghe tre metri, di pietra nera coperta in alto da spesse lastre di pietraluce, sicché non c’era pericolo di cadere. Dirk era da solo di guardia (Gwen aveva tagliato la corda che sosteneva il corpo di Ruark e poi aveva portato Jaan a letto), osservava da quelle mura tenendo il laser in mano, inutilizzato ed il binocolo attorno al collo, quando il primo dei soli gialli salì nel cielo facendo svanire i fuochi della notte. Improvvisamente aveva sentito che doveva fare in fretta. Sapeva che Bretan Braith non sarebbe ritornato in città; ormai fare la guardia era diventata una formalità inutile. Appoggiò il fucile al muro, vicino alla finestra, indossò un abito pesante ed uscì fuori.

Fece un lungo tratto di strada. C’erano alte torri di guardia, per lo più come quella dove stavano loro, poste ad intervalli regolari. Ne superò sei e stimò che la distanza fra una torre e l’altra doveva grosso modo essere di un terzo di chilometro. Ogni torre aveva una cariatide e nessuna cariatide era uguale all’altra, notò. Poi, improvvisamente, le riconobbe. Quelle figure non erano tradizionali, non erano affatto prodotti di Vecchia Terra; erano i demoni del mito Kavalar, grottesche versioni mitizzate dei Dattiloidi, degli Hruun e dei succhiatori d’anima Githyanki. In un certo senso erano tutte reali. Da qualche parte tra le stelle, tutte quelle razze erano ancora vive.

Le stelle. Dirk si fermò ed alzò gli occhi. Occhiodaverno aveva cominciato a spuntare sull’orizzonte; quasi tutte le stelle erano già scomparse. Ne vide solo una; debolissima, una capocchia di spillo rossa striata da riccioli di nubi grigie. Scomparve mentre la guardava. La stella di Alto Kavalaan, pensò lui. Garse Janacek gliela aveva mostrata, un punto di riferimento per la sua fuga.

Comunque c’erano poche stelle lassù. Questi non erano posti in cui potessero vivere gli uomini, questi mondi come Worlorn, Alto Kavalaan e Cupalba, questi mondi esterni. Il Grande Mare Nero era troppo vicino ed il Velo Tentatore nascondeva la maggior parte della galassia, sicché i cieli erano cupi e vuoti. Un cielo doveva avere delle stelle.

Del resto un uomo doveva avere un suo codice. Un amico, un teyn, una giusta causa… qualcosa che andava al di là di se stesso.

Dirk camminò fino al bordo esterno delle mura e guardò giù. Era uno strapiombo lungo, lunghissimo. La prima volta che aveva superato le mura con un aeroscooter, aveva perso l’equilibrio, proprio perché aveva guardato giù. Le mura scendevano per un bel tratto e più in basso c’era il dirupo che non finiva più ed in fondo c’era un fiume che scorreva tra prati verdi e nebbie mattutine.

Rimase in piedi con le mani in tasca mentre il vento gli scompigliava i capelli e rabbrividì un po’. Era immobile e guardava. Poi tirò fuori la sua gemma mormorante. La soffregò tra pollice e indice, come se fosse un portafortuna. Jenny, pensò. Dove era andata? Nemmeno il gioiello era riuscito a riportargliela indietro.

Risuonarono dei passi vicini a lui, poi una voce. «Onore alla tua granlega, onore al tuo teyn».

Dirk si voltò, con la gemma mormorante ancora in mano. C’era un vecchio vicino a lui. Alto come Jaan e vecchio come il povero Chell morto. Era massiccio e leonino, con una testa di capelli bianchi come la neve, spettinati, che si univano ad una barba ugualmente tempestosa a formare una magnifica criniera. Eppure il suo viso era stanco e sbiadito come se si fosse consumato in un periodo di secoli. Solo gli occhi risaltavano; erano intensi, occhi follemente azzurri, occhi come quelli che aveva avuto Garse Janacek, che bruciavano di febbre gelida sotto le sopracciglia cespugliose.

«Non ho granlega», disse Dirk, «e non ho nemmeno teyn».

«Mi dispiace», disse l’uomo. «Vieni da un altro mondo, eh?».

Dirk fece un inchino.

Il vecchio ridacchiò. «Be’, allora vaghi per la città sbagliata, spettro».

«Spettro?».

«Uno spettro del festival», disse il vecchio. «Cos’altro potresti essere? Questo è Worlorn ed i vivi se ne sono andati tutti». Indossava un mantello nero di lana con enormi tasche, gli altri abiti erano di un pallido blu. Un pesante disco di acciaio inossidabile era appeso sotto la sua barba, sospeso ad una cinghia di cuoio. Quando tolse le mani dalle tasche del mantello, Dirk vide che gli mancava un dito. Non portava braccialetti.

«Tu non hai teyn», disse Dirk.

Il vecchio borbottò: «Naturalmente avevo un teyn, spettro. Io ero un poeta, non un prete. Che razza di domanda è mai questa? Attento. Potrei accusare insulto».

«Non porti il ferro-e-fuoco», sottolineò Dirk.

«Abbastanza vero, però che importa? Gli spettri non hanno bisogno di gioielli. Il mio teyn è morto da trent’anni e vaga per qualche granlega laggiù in Rossacciaio, immagino, ed io sono qui che vago per Worlorn. Be’, se devo dire la verità, solo per Larteyn. Vagare per un intero pianeta deve essere proprio stancante».

«Ah», disse Dirk sorridendo. «Allora anche tu sei uno spettro?».

«Be’, sì», rispose il vecchio. «Eccomi qui, a parlare con te perché mi mancano delle robuste catene da strascicare. Tu chi pensi che io sia?».

«Io penso», disse Dirk, «penso che tu potresti soltanto essere Kirak Rossacciaio Cavis».

«Kirak Rossacciaio Cavis», ripeté il vecchio con una strana burbera cantilena. «Lo conosco. Uno spettro come pochi altri. Il suo particolare destino è quello di occupare il cadavere della poesia Kavalar. Va in giro di notte ad ululare recitando versi tratti dai lamenti di Jamis-Leone Taal ed alcuni dei migliori sonetti di Erik Alto-Ferrogiada Devlin. Durante la luna piena canta gli inni di battaglia di Braith e qualche volta i canti funebri degli antichi cannibali dei Siti del Carbone Profondo. Uno spettro, infatti ed anche molto patetico. Quando vuole tormentare in modo particolare una delle sue vittime, lui le recita qualcuno dei suoi versi, ti assicuro che quando hai sentito una volta Kirak Rossacciaio, le catene strascicate sono molto meglio».

«Sì?», disse Dirk. «Non capisco perché essere un poeta debba essere, di per se stessa, una cosa tanto spettrale».

«Kirak Rossacciaio scrive poesie in Antico Kavalar», disse l’uomo con un cipiglio. «E questo è già abbastanza. È una lingua che muore. Quindi chi mai leggerà ciò che scrive? Nella sua granlega, gli uomini nascono e imparano a parlare soltanto il classico linguaggio stellare. Può darsi che traducano la sua poesia, ma è uno sforzo che non ne vale la pena, sai. Nella traduzione non si possono mantenere le rime e la metrica è molle come un falsuomo dalla schiena rotta. Non c’è niente di buono nelle sue traduzioni, nemmeno un po’. Le cadenze tintinnanti di Galeno Pietraluce, i dolci inni di Laaris-Cieco alto-Kenn, tutti quei piccoli Scianagate monotoni che esaltano il ferro-e-fuoco, perfino le canzoni delle eyn-kethi, queste son cose che non possono quasi più dirsi poesia. È tutto morto, il minimo pezzettino è morto e sopravvivono soltanto in Kirak Rossacciaio. Sì, quest’uomo è uno spettro. Altrimenti perché sarebbe venuto su Worlorn? Questo è un mondo per spettri». Il vecchio si tirò la barba ed osservò Dirk. «Tu sei lo spettro di un qualche turista, oserei immaginare. Indubbiamente ti sei perduto mentre cercavi una toeletta e da quel momento hai cominciato a vagare».

«No», disse Dirk, «no. Stavo cercando qualcos’altro». Sorrise e sollevò la gemma mormorante.

Il vecchio la osservò, strizzando gli occhi azzurri, mentre il vento fresco gli faceva svolazzare il mantello. «Qualsiasi cosa sia, probabilmente è morta», disse. Lontano da loro, giù, presso il fiume che scintillava attraverso il Comune, un suono veleggiò fino a loro: il gemito debole e distante di una banscea. Dirk voltò il capo di scatto e guardò per vedere da dove era arrivato il rumore. Non c’era niente, niente… solo loro due, in piedi sulle mura, il vento che li spingeva ed Occhiodaverno alto nel cielo crepuscolare. Non c’erano banscee. Il tempo delle banscee era passato quaggiù. Erano tutte estinte.

«Morta?», disse Dirk.

«Worlorn è piena di cose morte», disse il vecchio, «e di gente che cerca cose morte e spettri». Mormorò qualcosa in Antico Kavalar, qualcosa che Dirk non riuscì a comprendere pienamente e cominciò ad allontanarsi lentamente.

«Dirk lo osservò mentre si allontanava. Fissò il distante orizzonte, oscurato da un banco di nubi grigie e azzurre. Da qualche parte, in quella direzione, c’era lo spazioporto e — lui ne era certo — Bretan Braith. «Ah, Jenny», disse, parlando alla gemma mormorante. La gettò lontano da lui, come un ragazzo che lanci una pietra e la gemma andò lontano, lontanissimo, prima di cominciare a cadere. Pensò per un momento a Gwen, a Jaan e per parecchi istanti a Garse.

Poi si rivolse ancora al vecchio e gridò verso la figura che si allontanava. «Spettro!», gli chiese. «Aspetta. Mi faresti un favore, da uno spettro ad un altro!».

Il vecchio si fermò.

Epilogo

Era uno spiazzo piatto ed erboso al centro del Comune, non troppo lontano dallo spazioporto. Una volta, ai giorni del festival, qui si erano tenuti dei giochi ed atleti di undici dei quattordici mondi esterni avevano gareggiato per conquistare una corona di ferro cristallino.

Dirk e Kirak Rossacciaio si presentarono lì assai prima di quando era stato previsto ed aspettavano.

Quando l’ora dell’appuntamento si fece prossima, Dirk cominciò ad innervosirsi. Non doveva aver fretta. L’aerauto con il tettuccio a forma di lupo ringhiante apparve nel cielo esattamente al momento stabilito. Spazzò il campo una volta con i getti che stridevano, un passaggio basso per assicurarsi che loro c’erano davvero, poi scese per atterrare.

Bretan Braith si avvicinò camminando attraverso l’erba morta e marrone, calpestando con gli stivali neri un cespuglio di fiori sbiaditi. Era quasi il tramonto. Il suo occhio cominciava ad essere brillante.

«Allora mi hanno detto la verità», disse Bretan a Dirk, e la sua voce gracchiante era un po’ stupita, la stessa voce che Dirk aveva tanto spesso udito durante i suoi incubi, una voce parecchie ottave più bassa e contorta di quella che ci si sarebbe aspettati da un uomo sottile e diritto come Bretan. «Allora sei proprio qui». Il Braith era in piedi a parecchi metri di distanza e li guardava, infinitamente candido, vestito con abiti da duello bianchi con una maschera di lupo purpureo ricamata sopra il cuore. Nella cintura nera c’erano due armi: un laser a sinistra ed una pistola massiccia di metallo blu e grigio, pesante sulla destra. Il braccialetto di ferro era privo di pietreluci. «Se devo dire la verità non avevo creduto al vecchio Rossacciaio», stava dicendo lui. «Però ho pensato, questo posto è vicinissimo, non può far male a nessuno se vado a controllare. Se la cosa si dimostrasse falsa, posso sempre ritornare velocemente allo spazioporto».

Kirak Rossacciaio si mise in ginocchio e cominciò a disegnare col gesso, un quadrato sull’erba.

«Tu sei sicuro che io ti voglia onorare con un duello», disse Bretan. «Ma io non sono obbligato a farlo». Spostò la mano destra e Dirk si trovò improvvisamente davanti la canna della pistola mitragliatrice. «Perché non dovrei ucciderti? Adesso, subito!».

Dirk si strinse nelle spalle. «Uccidimi se vuoi», disse, «ma prima rispondi ad una domanda».

Bretan lo fissò e non disse niente.

«Se io fossi venuto da te, a Sfida», disse Dirk, «se fossi sceso nei sotterranei, come volevi tu, allora avresti duellato con me? O mi avresti ucciso come un falsuomo?».

Bretan fece scivolare la pistola nel fodero. «Avrei duellato con te. A Larteyn, a Sfida, qui… non fa nessuna differenza. Avrei duellato con te. Io non credo nei falsuomini, t’Larien. Non ho mai creduto nei falsuomini. Solo in Chell, che portava il mio vincolo e chissà perché non si curava del mio aspetto».

«Sì», disse Dirk. Kirak Rossacciaio aveva completato il quadrato per metà. Dirk alzò gli occhi al cielo e si chiese quanto tempo restasse. «E un’altra cosa Bretan Braith. Come hai fatto a sapere di doverci cercare a Sfida, proprio in quella città e non in altre?».

Bretan sollevò le spalle nella sua maniera strana. «Me lo ha detto il Kimdissi, facendo un prezzo. Tutti i Kimdissi possono essere comperati. Aveva conficcato un tracciatore in un mantello che ti aveva dato. Credo che usasse i tracciatori per il suo lavoro».

«E qual’era il prezzo», chiese Dirk. Erano già stati tracciati tre dei quattro lati, linee bianche sull’erba.

«Ho dato la mia parola d’onore che non avrei fatto del male a Gwen Delvano e che l’avrei protetta contro tutti gli altri». Gli ultimi raggi del sole stavano sparendo; il sole giallo che era sceso per ultimo, aveva seguito gli altri al di sotto delle montagne. «Adesso», continuò Bretan, «ho una domanda per te t’Larien. Perché sei venuto a cercarmi?».

Dirk sorrise. «Perché mi piaci, Bretan Braith. Sei stato tu che hai bruciato Kryne Lamiya, non è vero?».

«Certo», disse Bretan. «Ho sperato di bruciare anche te, assieme a Jaantony alto-Ferrogiada, il fuorilegge. È ancora vivo?».

Dirk non rispose a questa domanda.

Kirak Rossacciaio si alzò e si tolse il gesso dalle mani: il quadrato era completo. Tirò fuori le due spade identiche; diritte sciabole di acciaio Kavalar, con pietreluci e giada incastonate nel pomo. Bretan ne scelse una e la provò — la mosse nell’aria con un canto ed un grido — poi fece un passo indietro, soddisfatto, verso uno degli angoli del quadrato. Era immobile mentre aspettava; per un momento parve addirittura sereno, una figura nera e sottile che si appoggiava leggermente alla spada. Come il barcaiolo, pensò Dirk, e malgrado tutto dovette guardare la macchina-lupo per assicurarsi che non si fosse trasformata in una bassa barca. Il cuore gli batteva forte.

Cacciò via i pensieri e prese l’altra spada, poi si ritrasse a sua volta. Kirak Rossacciaio gli sorrìse. Sarebbe stato facile, si disse Dirk. Cercò di ricordarsi i consigli che tanto tempo prima gli aveva dato Garse Ferrogiada. Prendi un colpo e danne uno, ecco tutto, si disse. Era molto spaventato.

Bretan gettò le pistole per terra, al di fuori del quadrato della morte e mosse di nuovo la spada avanti e indietro, per rafforzare il braccio. Anche a sette metri di distanza, Dirk vide il tic sulla faccia dell’altro.

Sulla spalla destra di Bretan c’era una stella che sorgeva. Blu e bianca, grande e vicinissima, che si arrampicava sul velluto nero del cielo verso lo zenit. E poi al di là dello zenit, pensò Dirk, verso Eshellin, di-Emerel ed il Mondo dell’Oceano Nerovino. Augurò buona fortuna a quei mondi.

Kirak Cavis uscì fuori dal quadrato della morte e disse una parola in Antico Kavalar. Bretan si mosse in avanti, con movimenti eleganti, sulle punte dei piedi ed era bianchissimo, con l’occhio che scintillava.

Dirk rise, nel modo in cui avrebbe riso Garse, allontanò i capelli dagli occhi con uno scatto e gli andò incontro. La luce delle stelle non brillava sulla sua lama quando la sollevò, allungò il braccio e toccò quello di Bretan. Il vento soffiava. Faceva molto freddo.

Glossario

Alto Kavalaan. Mondo umano del Margine, colonizzato durante la Doppia Guerra da rifugiati e minatori di Tara. Le sortite di Hrangani distrussero la maggior parte della colonia originale; i sopravvissuti svilupparono la moderna civiltà delle granleghe. La società Kavalar è irregimentata ed individualistica al tempo stesso; la cultura esprime particolare enfasi sia sulla lealtà che sull’onore personale. Quando venne riscoperta dai commercianti, i Kavalari erano vicini alla barbàrie, ma al giorno d’oggi si sono rapidamente industrializzati, educando i loro giovani e costruendosi una flotta di navi spaziali. Alto Kavalaan, che ha reclamato la giurisdizione legale sul vagabondo pianeta Worlorn, era una delle forze guida del festival del Margine.

Angeli d’Acdaio. Popolare nomignolo per indicare i membri di un potente ed esteso movimento militare e religioso, sviluppatosi tra i soldati dell’Impero Federale durante la Doppia Guerra, che ha resistito e si è accresciuto da quel momento. Gli Angeli d’Acciaio credono che solo gli umani (il seme della Terra) abbiano un’anima, che la sopravvivenza della razza è l’imperativo ultimo e che la forza sia la sola virtù. Oggi gli Angeli governano una dozzina di pianeti, dalla loro capitale su Bastion ed hanno colonie, missioni e distaccamenti su centinaia di altri mondi. I membri del culto chiamano se stessi i Figli di Bakkalon. L’esatta origine del movimento è ancora controversa. Gli Angeli hanno avuto due importanti scismi ed hanno condotto numerose guerre, soprattutto contro i senzienti non umani.

Avalon. Mondo umano dei convolvi, colonizzato da Newhoime durante il primo secolo dell’Impero Federale. Un settore capitale durante la Doppia Guerra, Avalon non perdette mai la conoscenza del volo stellare e giocò un ruolo importante alla fine dell’Interregno per mezzo del suo vigoroso programma di esplorazioni, commerci e rieducazione. In seguito divenne un centro di insegnamento. L’Accademia della Sapienza Umana ed i molti istituti associati, sono su Avalon. Avalon è anche un importante centro commerciale, con la più grande flotta commerciale dei convolvi. Spesso le navi di Avalon commerciano la cultura e non solo le merci.

Bakkalon. Divinità adorata dagli Angeli d’Acciaio, spesso dipinta come un infante umano nudo con in mano una spada nera; è anche chiamato il bimbo pallido.

Baldur. Colonia umana della prima generazione insediata direttamente dalla Terra durante i primi anni di voli stellari. Un settore capitale durante la Doppia Guerra, oggi un importante centro di scambi.

Banscea. Conosciuta anche come Banscea nera; un predatore volante originario di Alto Kavalaan.

Bastion. Mondo umano nei convolvi. I dettagli della colonizzazione non sono noti. Bastion era stato in origine un insediamento umano, catturato poi dagli Hrangani durante la Doppia Guerra ed alla fine nuovamente ripreso dagli umani. Oggi è governato dagli Angeli d’Acciaio, che ne hanno fatto la loro capitale.

Betheyn. Termine Kavalar per indicare una donna vincolata ad un uomo e posta sotto la sua protezione; letteralmente, tenuta come moglie.

Braith. Una delle quattro moderne granleghe di Alto Kavalaan. Di solito è considerata la più tradizionale delle quattro. Il nome è dato anche ad ogni membro della granlega di Braith.

Braque. Mondo umano vicino al Velo Tentatore, sul bordo esterno dei convolvi. Braque è un mondo primitivo e superstizioso, governato da una classe sacerdotale che controlla strettamente le ricerche tecnologiche.

Città di Haapala. Città del festival costruita dai Lupani. Deriva il suo nome da quello di Ingo Haapala. l’astronomo Lupano che per primo ha scoperto che Worlorn sarebbe passato attraverso la Ruota di Fuoco.

Collasso. Il periodo in cui l’Impero Federale di Vecchia Terra si disintegrò e cadde. È difficile stabilire delle date precise per il collasso; la guerra rese anche più caotiche le comunicazioni tra i mondi ed ogni pianeta ebbe il suo collasso in maniera personale ed in tempi diversi. La maggior parte degli storici citano la distruzione di Wellington e la rivolta su Thor come eventi chiave per la caduta dell’Impero Terrestre, ma sottolineano che l’Impero era stato una sottile finzione per secoli, prima che i pianeti più lontani se ne potessero rendere conto.

Convolvi. Gergo Lupano. ormai entrato nell’uso comune dei mondi esterni, per indicare l’area di spazio tra il Margine ed i mondi altamente civilizzati attorno alla Terra. L’Impero Hrangano occupò una larga porzione di quelli che adesso sono detti convolvi e fu proprio qui che si verificarono i più terribili eventi della Doppia Guerra, lasciando molti pianeti distrutti e molte civiltà spezzate e «sconvolte», da cui il termine è derivato. I più importanti mondi umani dei convolvi sono Avalon, Bastion. Prometeo ed il Mondo di Jamison.

Coronadaverno. Uno dei nomi dati alle sei stelle gialle (nome collettivo), che circondano la rossa supergigante a volte chiamata l’Occhiodaverno ed assieme a questa formano la Ruota di Fuoco. Sono anche note come Figli di Satana ed i Soli Troiani. Le sei stelle sono virtualmente identiche ed orbitano in relazione troiana tra di loro.

Cro-betheyn. Termine Kavalar per indicare una betheyn vincolata al proprio teyn altolegato; letteralmente tenuta-in-moglie spartita.

Cupalba. Mondo umano nel Margine, presso il bordo dello spazio intergalattico. Dopo Cupalba non c’è più niente; i cieli invernali sono deserti ed appare solo la luce di lontane galassie. Cupalba è scarsamente popolata, isolata e ricetto di molti strani culti religiosi. Il controllo del tempo è stato perfezionato fino a diventare una delle belle arti, ma altrimenti la tecnologia è tenuta in pochissimo conto.

Cupoli. Abitanti di Cupalba.

Daronne. Mondo umano dei convolvi, presso al Velo Tentatore. È stato colonizzato per lo meno tre volte dagli alieni e due volte dagli umani. Daronne è un mosaico di culture esoteriche.

Dattiloidi. Termine umano per indicare una razza schiava degli Hrangani avente le ali ed impiegata come truppa di sfondamento durante la Doppia Guerra. Il nome è stato dato a queste creature a causa della loro vaga somiglianza con i pterodattili della preistoria di Vecchia Terra. I dattiioidi erano selvaggi, con un piccolo cervello e solamente semi-senzienti.

di. Abbreviazione di dopo interregno.

di-Emerel. Mondo umano sul Margine, insedialo subito dopo l’Interregno (da cui. di-) dagli arcologiti di Daronne. La civiltà Emereli è tecnologicamente avanzata, acculturata, pacifista, ma statica e. in un certo senso, irreggimentata. I cittadini abitano in città-torri alte chilometri (arcologie), circondate da fattorie e da foreste, ma la maggior parte delle persone non abbandonano mai l’edificio in cui sono nate. Gli scontenti finiscono per prestare servizio nella flotta mercantile a di-Emerel, ma non possono poi più ritornare alle loro torri di origine.

Dodicesimo Sogno. Città del festival costruita su Worlorn dai Kimdissi. I sofisticati hanno sempre considerato Dodicesimo Sogno la più estetica delle quattordici città erette per il festival del Margine. Il nome è derivato dalla religione Kimdissi; essi credono che l’universo e tutto ciò che contiene, sia stato creato da un Sognatore, il cui dodicesimo sogno fu la Bellezza Insuperabile.

Doppia Guerra. Conflitto durato parecchi secoli, tra l’Impero Federale e due razze aliene, i Fyndii e gli Hrangani. È anche conosciuta come la Grande Guerra, la Guerra Fyndiina. il Conflitto Hrangano. la Guerra dei Mille Anni, o semplicemente la Guerra. Sotto diversi aspetti la Doppia Guerra fu, in realtà, composta da due guerre; i nemici non hanno mai avuto contatto tra di loro e non hanno mai nemmeno tentato di allearsi, anche se entrambi erano impegnati a far la guerra all’umanità. L’Impero Federale occupava lo spazio posto tra i due nemici e perciò si trovò a combattere su due fronti: le orde Fyndii erano all’interno, verso il centro galattico; il cosiddetto Impero Hrangano era all’esterno verso il margine galattico. Per prima cominciò la guerra contro i Fyndii e in generale fu un conflitto più breve e più morbido, che alla fine si risolse con un negoziato e con l’intervento di una razza aliena, i Damoosh. Gli Hrangani erano notevolmente meno comprensibili ed assai più nemici dell’umanità. Le ostilità fra Hranga e la Terra non sono mai terminate, ufficialmente; entrambe le civiltà sono crollate. L’umanità subì l’Interregno e recuperò qualcosa, anche se non è mai più riuscita a formare una singola unità politica. Gli Hrangani patirono un vero e proprio genocidio dalle mani delle loro stesse razze schiave e dai colonizzatori umani.

Emereli. I nativi di di-Emerel.

Erikan. Mondo umano che ha preso il nome del capo spirituale Erika Stormjones, insediato dai suoi seguaci e dedicato ai precetti che la Stormjones predicava, soprattutto all’immortalità ottenuta attraverso la clonazione.

Eshellin. Mondo umano del Margine, colonizzato durante una migrazione da Daronne. Relativamente primitivo e raramente popolato.

Esvoch. Città del festival costruita da Eshellin.

Eyn-kethi. Termine Kavalar per indicare le donne che allevano i bambini in una granlega e che sono sessualmente utilizzabili da qualsiasi uomo; letteralmente, vincolaìe-ai-fratelli-della-granlega.

Fyndii. Razza aliena. Furono i primi esseri senzienti a prendere contatto con l’umanità dopo la scoperta dei viaggi stellari. I Fyndii sono stati uno dei due nemici dell’Impero Federale durante la Doppia Guerra. Pare che i Fyndii non provassero quasi nessuna lealtà razziale; la loro società è composta da «orde» molto legate tra di loro ed ogni orda è fiera rivale delle altre. Privi di spiritualità, incapaci di legami, sono reprobi inveterati. I Fyndii governano circa novanta mondi, generalmente posti in posizione più interna rispetto a quelli governati dalla razza umana.

Figli di Satana. Vedi Coronadaverno.

Figlio del Sognatore. Capo spirituale che viveva su Deirdre a metà del periodo del festival. Il Figlio del Sognatore predicava una dottrina di pacifismo fisico e di aggressione psicologica ed insegnava ai suoi seguaci a resistere ai nemici con l’inganno invece che con la forza. Al giorno d’oggi i suoi insegnamenti hanno influenzato i popoli di Kimdiss, Kayan, Tamber e quelli di molti altri mondi.

Fortezza di Scianagate. Una delle quattro moderne granleghe di Alto Kavalaan.

Gemma Mormorante. Un cristallo che è stato psionicamente «inciso» per trattenere certe emozioni o certi pensieri, che restano perciò percepibili quando il cristallo è toccato da menti «risonanti» o simpatiche. Qualsiasi tipo di cristallo può essere trasformato in gemma moimorante. ma certe pietre preziose trattengono i modelli assai meglio di altre. La potenza e la nitidezza di una gemma mormorante può anche variare con il tempo e dipende inoltre dal grado di abilità dell’esperto che la ha incisa. Le gemme mormoranti di Avalon sono le più ricercate; su Avalon si trova sia un buon cristallo di base sia una buona quantità di potenti Talenti. Alcuni mondi meno sviluppati sembrano produrre delle gemme mormoranti anche migliori, ma i loro prodotti appaiono raramente sui mercati interstellari.

Githyanki. Razza schiava degli Hrangani. Spesso sono chiamati succhiatori d’anima. A malapena senzienti, malevoli e potenti telepati, i githyanki sono in grado di piegare e contorcere la mente umana, inviando false visioni, allucinazioni e sogni, rinforzando il lato animale degli uomini piegandone le capaciti di giudizio e la ragione, tutto allo scopo di far combattere il fratello con la sorella.

Grande Mare Nero. Termine dei mondi esterni per indicare lo spazio tra le galassie, dove non ci sono stelle.

Granlega. Unità sociale base di Alto Kavalaan; era una camera sotterranea, o una serie di camere, facilmente difendibili da un attacco e serve a fornire rifugio per qualsiasi evenienza a sei persone, come a cento. Nei tempi antichi ogni granlega era un’entità indipendente, combinazione di famiglia e di nazione. Quasi subito, però, le granleghe cominciarono a stringere alleanza e ad unirsi con altre granleghe fino a complesse connessioni sotterranee; queste erano chiamate coalizioni di granlega. Nei tempi attuali il termine granlega è spesso liberamente usato per significare ciò che sarebbe più proprio definire coalizione di granlega.

Grasso Satana. Rossa supergigante situata al di là del Velo Tentatore, ben nota per i sei soli gialli che la circondano in relazione troiana tra di loro; l’intero sistema viene chiamato la Ruota di Fuoco. Alcuni immaginano che la Ruota sia stata creata da una razza di super-esseri estinti in grado di spostare i soli. Grasso Satana è anche conosciuto come Occhiodaverno ed il Mozzo.

Hrangani. Grandi nemici dell’umanità durante la Doppia Guerra, i Hrangani furono forse i senzienti più alieni che si siano mai incontrati. Il loro sistema sociale era strutturato sulla base di un certo numero di caste biologiche, molte delle quali parevano appartenere a specie diverse, essendo tra di ’oro assai differenti. Di vari milioni di Hrangani, solo le cosiddette Menti erano autenticamente intelligenti e gli uomini non sono mai riusciti a comunicare con successo con loro. I Hrangani erano violentemente xenofobi; prima della Doppia Guerra avevano rese schiave una dozzina di razze meno avanzate e ci sono le prove che ne abbiano sterminate interamente delle altre. La guerra distrusse praticamente i Hrangani, tranne su Vecchia Hranga e su un pugno di altre colonie.

Hruun. Razza schiava degli Hrangani, spesso adoperata in combattimento durante la Doppia Guerra. I Hruun erano più intelligenti della maggior parte delle altre razze Hrangane. Il loro pianeta di origine era ad alta gravità secondo gli standard umani, sicché i Hruun erano guerrieri con una forza immensa. Tra le loro altre possibilità c’era quella di vedere bene nell’infrarosso, il che li rendeva particolarmente adatti ai combattimenti notturni.

Imperiali Terrestri. In origine, erano degli amministratori inviati dalla Terra all’apice dell’Impero Federale. Dopo l’Interregno, il termine è stato comunemente usato in riferimento a qualsiasi essere umano che fosse vissuto durante il periodo imperiale.

Impero Federale. Unità politica che governò lo spazio umano nei primi secoli del volo stellare, colonizzando la maggior parte dei mondi della prima e della seconda generazione ed alcuni della terza. Condussero la Doppia Guerra, durante il corso della quale l’Impero crollò. Il termine fu in verità improprio, anche se comodo da usarsi; il cosiddetto Impero fu più esattamente una burocrazia democratica-socialista-cibernetica. La persona che prendeva la decisione finale era il Capo Amministratore, che era eletto ed era responsabile di un governo tricamerale che si riuniva a Ginevra, Vecchia Terra, ma la maggior parte delle decisioni spicciole sulla Terra erano prese dalle Intelligenze Artificiali, una vasta rete di calcolatori. Durante gli anni del declino della Doppia Guerra, l’Impero Federale diventò sempre più repressivo e perse i suoi contatti con le proprie colonie e perfino con i suoi eserciti.

Interregno. Periodo storico posto tra il Collasso e la riscoperta del volo stellare. Per la sua stessa natura, è difficile precisare la data dell’Interregno. Alcuni mondi sperimentarono il collasso in anticipo, altri più tardi; alcuni rimasero senza voli stellari per cinque anni, altri per cinquanta, altri ancora per cinquecento; alcuni — come Avalon, Baldur, Newholme e Vecchia Terra — non furono mai veramente isolati dal resto dell’umanità, mentre altri forse devono ancora essere riscoperti adesso. Si usa dire che l’Interregno sia durato una «generazione»; il che è abbastanza valido per una rozza approssimazione, se si considerano solo i mondi maggiori.

Kavalar. Originario di Alto Kavalaan.

Kenn. Estinta coalizione di granlega Kavalar.

Keth, kethi. Termine Kavalar per indicare i maschi di ogni granlega o coalizione di granlega; letteralmente fratello (i)-di-granlega.

Kimdiss. Mondo umano del Margine, colonizzato da un gruppo di pacifisti religiosi, attualmente la maggior potenza commerciale dei mondi esterni. I Kimdissi sono non-violenti per tradizione e quindi ostili al codice duellesco di Alto Kavalaan.

Kimdissi. Originario di Kimdiss.

Korariel. Termine Kavalar, che letteralmente significa proprietà protetta. Originariamente usato individualmente e nelle granleghe per indicare certi falsuomini, o gruppi di falsuomini e per usarli come giocattoli; i violatori potevano essere sfidati a duello. In seguito il termine è stato usato dalle granleghe più progressiste per proteggere i primitivi dallo sterminio per mano dei tradizionalisti cacciatori Kavalari. Il termine non potrebbe essere applicato propriamente ad un essere umano, ma solo ai falsuomini ed agli animali.

Krjne Lamiya. Città del festival, costruita su Worlorn da Cupalba. Spesso chiamata anche Città Sirena, Kryne Lamiya venne disegnata in modo che le sue torri facessero musica per mezzo dei venti controllati che venivano dalle montagne e che suonassero in continuazione una sinfonia del principale compositore di Cupalba, la nichilista Lamiya-Bailis.

Larteyn. Città del festival costruita in una montagna di Worlorn da Alto Kavalaan. Larteyn. significa letteralmente legata-al-cielo, ovvero teyn-del-cielo. La città fu costruita in gran parte con la pietraluce e venne perciò anche chiamata Fortezza di Luce.

Lethelandia. Nome comunemente usato per una primitiva colonia umana del Margine. È anche conosciuta come Colonia Dimenticata o la Colonia Perduta. Entrambi i termini sono di origine dei mondi esterni; la gente perduta chiama Terra il loro pianeta. Lethelandia è il più antico dei mondi umani al di là del Velo Tentatore, talmente antica che si sono perdute tutte le notizie relative alla sua colonizzazione e sono rimaste solo le ipotesi. La popolazione si dedica in gran parte alla pesca e non si interessa affatto a ciò che capita attorno a loro.

Lupania. Mondo umano nel Margine, colonizzato durante il collasso dai transfughi di Fenris. La cultura Lupana è considerata dinamica e volubile; il pianeta è un accanito rivale economico di Kimdiss e, come potenza militare, è secondo solo a Tober tra quelli dei mondi esterni.

Lupano. Abitante di Lupania.

Mondi Esterni. Termine collettivo per indicare tutti i mondi del Margine; cioè le quattordici colonie umane poste tra il Velo Tentatore ed il Grande Mare Nero. Gli abitanti di questi pianeti sono comunemente chiamati abitanti dei mondi esterni da quelli che stanno al di qua del Velo.

Mondo dell’Oceano Nerovino. Mondo umano del Margine, colonizzato nel 137-di da Vecchia Poseidone.

Mondo di Jambon. Mondo umano nei convolvi, colonizzato soprattutto da Vecchia Poseidone. I Jamisi abitano sulle lussureggianti isole degli arcipelaghi; l’unico continente di una certa dimensione è quasi completamente inesplorato. Il Mondo di Jamison è un centro regionale per l’industria e per il commercio ed è rivale commerciale di Avalon.

Monte Pietraluce. Una delle più grandi coalizioni di granlega nella storia dei Kavalari, alla fine battuta e distrutta dai nemici ed ormai abbandonata.

Mozzo. Vedere Grasso Satana.

Musquel Marina. Città del festival costruita sul modello di quella di Lethelandia, costruita su Worlorn da una coalizione di abitanti dei mondi esterni per la Colonia Dimenticata, che non possedeva la tecnologia sufficiente per effettuare il lavoro con la dovuta celerità. Musquel era un porto battuto dalle intemperie, ma multicolore ed era una delle massime attrazioni.

Nerovino. Abitante del Mondo dell’Oceano Nerovino.

Newholme. Prima colonia umana interstellare; è un mondo urbanizzato, super-popolato, altamente tecnicizzato che dista appena 4,3 anni luce dalla Terra. Dal tempo dell’Interregno ed il conseguente isolamento di Vecchia Terra, Newholme è comunemente considerata come la colonia umana più avanzata ed il centro del traffico commerciale tra le stelle. Newholme è anche la capitale nominale della cosiddetta Unione dell’Umanità, un’unità politica che pretende di estendere la sua autorità su tutti gli insediamenti umani. Solo tre mondi oltre Newholme riconoscono la sua autorità, però, per cui l’Unione è in pratica una finzione.

Non-uomini. Esseri umani che si sono evoluti, o hanno subito mutazioni tali da non permettere più di poter generare avendo rapporti con gli altri esseri della stessa razza.

Occhiodaverno. Vedere Grasso Satana.

Pietraluce. Pietra originaria di Alto Kavalaan, in grado di immagazzinare la luce e di riemetterla al buio. La pietraluce è usata sia per costruzione che per gioielleria ed è un importante prodotto dell’esportazione Kavalar.

Prometeo. Mondo umano dei convolvi, colonizzato dall’esercito dell’Impero Federale e precisamente da un corpo detto Armata Ecologica Bellica, durante la Doppia Guerra. Situato profondamente all’interno della zona di guerra e nella sfera di influenza degli Hrangani. Prometeo fu il quartier generale per le navi biobelliche che sparpagliavano le malattie, gli insetti e gettavano la peste animale tra i Hrangani. Dopo il collasso Prometeo riscoprì presto il volo stellare e scoprì pure certe tecniche di manipolazione e di clonazione che erano stati segreti attentamente sorvegliati al tempo dell’Impero Federale. Prometeo, essendo uno dei più potenti mondi umani dei convolvi, è de facto il controllore dei mondi vicini, Rhiannon e Talsasso ed influenza fortemente un gran numero di altri pianeti. Vedere anche Uomini Modificati.

Pugnodibronzo. Coalizione di granlega su Alto Kavalaan, ormai estinta.

pvl. Pveloce della luce.

Rhiannon. Mondo umano dei convolvi, colonizzato da Deirdre durante il periodo medio dell’Impero Federale. Rhiannon è un ricco mondo di tipo pastorale ed è oggi sotto la guida di Prometeo in tutto anche se non nominalmente e non possiede una sua flotta spaziale.

Rommel. Freddo pianeta ad alta gravità, colonizzato direttamente dalla Terra nel primissimo periodo imperiale. Rommel e Wellington, pianeta confratello facente parte dello stesso sistema, cominciarono come pianeti prigione, piuttosto spiacevoli, adibiti agli incorreggibili della Terra, ma durante la Doppia Guerra i due divennero i cosiddetti Guerramondi, da cui gli Imperiali Terrestri lanciavano la maggior parte dei loro attacchi. I Guerramondai, nome collettivo usato per indicare i fanti di Rommel e di Wellington, vivevano sottostando ad una rigida disciplina militare e gli si davano droghe e razioni speciali nel tentativo di aumentare il loro valore nei combattimenti. Alla fine le alterazioni genetiche trasformarono i Guerramondai in non-uomini, incapaci di avere rapporti fecondi con altri esseri umani. Rommel perse il volo stellare durante il collasso e non riuscì mai più a riconquistarlo. I commercianti evitano quel mondo; i Rommelliani sono considerati inumani e pericolosi.

Rossacciaio. Una delle quattro moderne coalizioni di granlega di Alto Kavalaan. Rossacciaio è considerata una delle più progressiste delle quattro. Con questo termine vengono definiti anche i membri della coalizione Rossacciaio.

Ruota di Fuoco. Nome collettivo dato ai sette soli della stella multipla sistemata sul Margine, al di là del Velo Tentatore. Alcuni pensano che la Ruota sia una specie di monumento artificiale dedicato ad una razza di super-esseri ormai scomparsa. Vedere anche Grasso Satana e Coronadaverno.

Sfida. Città del festival costruita su Worlorn dagli Emereli. Sfida è automatica e condotta da calcolatori ed è una arcologia.

Siti del Carbone Profondo. Mitologica coalizione di granlega di Alto Kavalaan che pare sia esistita nei tempi antichi. La gente dei Siti del Carbone Profondo era cannibale e assaliva le altre granleghe finché non fu distrutta in guerra. Si diceva che fossero metà umani e metà demoni.

Soffocatori. Specie comune di alberi Toberiani.

Soli Troiani. Vedere Coronadaverno.

Speranza Vagabonda. Mondo umano posto nell’ammasso Celiano, un tempo settore capitale.

Spettro d’albero. Piccolo roditore e predatore originario di Kimdiss, così chiamato perché cambia la pelle parecchie volte prima di raggiungere la maturità ed abbandona i gusci trasparenti attorno al nido per spaventare i nemici.

Standard. Unità monetaria largamente usata nel commercio interstellare e su quasi tutti i più importanti mondi umani. Termine usato anche per indicare la lingua del commercio e la maggior parte degli esseri umani che effettuano viaggi stellari, detti anche Terrani, Standard Terrani, Terrici, Comuni. Il termine è usato anche come aggettivo per definire le unità di tempo corrispondenti a quelle di Vecchia Terra. Per cui, ora standard, giorno standard, anno standard, ecc.

Stormjones. Primitivo pianeta dell’ammasso Celiano che ha preso il nome del capo religioso Erika Stormjones. Vedere anche Erikano.

Succhiatori d’anima. Vedere Githyanki.

Taal. Coalizione di granlega estinta su Alto Kavalaan.

Talsasso. Mondo artificiale posto tra Prometeo e Rhiannon, creato dall’Impero Federale per usarlo come base navale d’attacco durante la Doppia Guerra. Talsasso è posto nello spazio profondo, non orbita attorno a stelle ed è piccolissimo. In un certo senso è più simile ad una nave spaziale statica che ad un autentico mondo. Attualmente è sotto controllo di Prometeo.

Tara. Mondo umano presso il Velo Tentatore, sul bordo esterno dei convolvi. Tara venne colonizzato per lo meno cinque volte in seguito ad emigrazioni provenienti dai mondi più disparati e venne anche assalito ripetutamente durante la Doppia Guerra. Attualmente è abitato da molti gruppi culturali estranei. Le influenze dominanti, però, hanno preso piede fin dal primo insediamento: Chiesa Cattolica Riformata Irlandese-Romana e la classe di guerrieri ereditaria chiamata il Cuchulainn.

Teyn. Termine Kavalar per indicare un uomo vincolato ad un altro uomo, normalmente per tutta la vita, in relazione di uguaglianza; è il più stretto grado di parentela possibile tra Kavalari; letteralmente, mio-vincolo oppure stretto-vincolo, oppure stretto-parente.

Tober-nel-Velo. Mondo umano posto sul bordo esterno del Velo Tentatore, generalmente considerato facente parte del Margine. Tober venne scoperto, e colonizzato durante il Collasso della 17a Flotta Umana di stanza ad Avalon, che si era ribellata all’Impero Federale. I Toberiani sono il popolo tecnologicamente più avanzato tra le culture dei mondi esterni ed hanno creato gli scudi energetici e la pseudo-materia superando perfino i livelli Federali. Tober mantiene un potente esercito ed influenza parecchi pianeti più primitivi del Margine.

Unione Ferrogiada. Una delle quattro moderne coalizioni di granlega di Alto Kavalaan. L’Unione Ferrogiada è una delle granleghe più progressiste.

Uomini Modificati. Esseri umani modificati geneticamente sul mondo Prometeo. I chirurghi prometeani continuano a fare esperimenti; per cui ci sono molte varietà di Uomini Modificati. Nel modo di parlare comune, il termine è spesso usato per indicare tutti i prometeani.

Vecchia Terra. Mondo d’origine della razza umana, un tempo capitale dell’Impero Federale. Durante l’Interregno e dopo la rivolta di grandi schiere delle sue forze armate, Vecchia Terra richiamò il resto del suo esercito e gli impedì il contatto con tutta l’umanità residua. L’embargo è ancora in atto, con poche eccezioni soltanto. Ci sono molte leggende e si fanno molte congetture sul sistema di vita adottato attualmente su Vecchia Terra, ma esistono pochi fatti concreti. Il pianeta è conosciuto anche come Terra, Mondo, Casa.

Vecchio Hranga. Pianeta di origine della razza Hrangana. È uno dei pochi posti in cui sopravvivono in un certo numero le Menti Hrangane.

Vecchio Poseidone. Mondo umano della terza generazione colonizzato nel primo periodo Federale. Un pianeta di "mari turbolenti e di inenarrabili ricchezze, vecchio Poseidone divenne subito un importante centro commerciale ed un settore capitale. Dopo meno di un secolo, gli stessi Poseidoniti costruivano navi spaziali ed esportavano coloni; colonizzarono più di venti altri pianeti, fra cui il Mondo di Jamison.

Velo Tentatore. Nube di polvere interstellare e di gas posta al vertice delle lenti galattiche che impedisce la vista della Ruota di Fuoco e di altre stelle dei Mondi esterni; è il confine tra il Margine ed i Convolvi.

Wellington. Mondo tiepido ad alta gravità colonizzato direttamente dalla Terra nel primo periodo federale per farne una colonia penale. Wellington ed il suo pianeta confratello. Rommel, divennero più tardi i Guerramondi che fornirono le feroci squadre di assalto dell’Impero Federale. Vedere anche Rommel. Ogni forma di vita su Wellington venne distrutta verso la fine della Doppia Guerra, quando la 13a Flotta Umana sotto il comando di Stephen Cobalt Stellanord si ribellò contro l’Impero Federale. L’avvenimento è spesso citato come momento di inizio del collasso.

Worlorn. Pianeta vagabondo scoperto per la prima volta da Celia Marcyan; sede del festival del Margine tra il 589-di ed il 599-di quando il mondo passò accanto alla Ruota di Fuoco.

FINE