Vergil Ulam, brillante ricercatore dei Genetron Labs, sta lavorando segretamente ad un esperimento che promette risultati sensazionali, e cioè la produzione di nuclei intelligenti di materia cellulare, capaci di evolversi e di apprendere con straordinaria rapidità. Ma quando Ulam infrange le norme di sicurezza del laboratorio e viene licenziato, si rifiuta di distruggere il frutto delle sue ricerche, come gli è stato ordinato, e decide invece di iniettarsi nel sangue le colonie cellulari, e diventare così egli stesso la cavia di un nuovo straordinario esperimento. Ma sarà il primo di un incredibile processo di mutazione e trasformazione, i cui limiti non sono facilmente immaginabili, perché infatti è subito chiaro che questa forma di intelligenza virale può assorbire e riplasmare qualsiasi materia vivente. Un’epidemia assolutamente inattaccabile, un vero e proprio universo di miliardi di cellule senzienti in frenetica espansione, che lentamente inghiottono l’America del Nord, trasformandola in uno scenario “alieno” che suscita al tempo stesso orrore e meraviglia. Ma si può parlare di catastrofe? O non è piuttosto un nuovo gradino nella scala dell’evoluzione? E che ne sarà dell’umanità, letteralmente trasfigurata da questi microscopici organismi che rappresentano una nuova dimensione di ciò che si può concepire come “vita”?

Nominato per il premio Nebula in 1985.

Nominato per i premi Hugo, Campbell e BSFA in 1976.

Greg Bear

L’ultima fase

PRESENTAZIONE

Anche se non del tutto sconosciuto in Italia, Greg Bear è un nome relativamente nuovo per i nostri lettori. Nato nel 1951 a San Diego (California), ha frequentato la San Diego State University laureandosi in fisica e matematica, pur coltivando interessi anche in campo storico e letterario. Ha lavorato per un certo tempo al Museo Aerospaziale di San Diego, è stato commesso di libreria ed ha collaborato saltuariamente a varie pubblicazioni tecnico-scientifiche. Dal 1975 è diventato scrittore a tempo pieno. Vive a Santee (California) con la moglie, Astrid Anderson.

Pur avendo alle spalle un certo numero di romanzi e una produzione breve di tutto rispetto, Bear si è affermato solo recentemente come uno degli autori più importanti della nuova generazione. Anzi, si può tranquillamente affermare che proprio con L’ultima fase (Blood Music, 1985) l’autore ha dimostrato di saper compiere un decisivo salto di qualità, scrivendo uno dei romanzi più originali e stimolanti degli ultimi anni. Ha inoltre confermato il suo talento con un’opera di poco posteriore, Eon (1985), dove egli moltiplica gli spunti tematici e speculativi, proiettandoli in una narrazione di vasto respiro, densa e panoramica. Eon rispetto a L’ultima fase offre un’immagine diversa, ma complementare, della sua acquisita maturità narrativa.

Alcuni dei romanzi pubblicati da Bear tra il 1979 e il 1981 rivelano una spiccata tendenza verso tematiche filosofico-religiose, e comunque legate al problema della conoscenza. Tuttavia, l’indubbia tensione speculativa si risolve in una narrazione talvolta incerta e ingenuamente concettosa, oltreché stipata di materiali eterogenei. L’elaborazione di mondi e culture è spesso in bilico tra il gusto ornamentale e paesaggistico di un Vance e le bizzarre e remote creazioni metafisiche di Ian Watson, ma non ha le stesse doti di nitore ed eleganza. Questo è evidente, per esempio, in Hegira (1979), che narra della quest cognitiva di un gruppo di personaggi tra le meraviglie e i misteri di un gigantesco pianeta artificiale, oppure in Strength of Stones (1981), dove i membri di alcune fazioni religiose decidono di colonizzare un nuovo pianeta, costruendo enormi e bizzarre città «senzienti», dalle quali vengono poi scacciati. È curioso notare come le reazioni di critici e recensori siano state unanimi nel rilevare inadeguatezze di stile e squilibri narrativi, ma anche nell’affermare le grandi potenzialità di Bear, evidenti in un certo rigore speculativo, nell’ingegnosità delle concezioni, e nel tentativo di non cedere troppo facilmente ad esiti commerciali e scontati.

Alcuni segnali decisivi si possono già cogliere, d’altro canto, nei racconti più recenti, da «Petra» (1982) a «Hardfought» (1983, Premio Nebula) ed allo stesso «Blood Music» (1983, Premio Hugo e Nebula), da cui Bear ha poi tratto questo romanzo. Qualche anno fa, parlando della sua narrativa, Bear affermò di aver sempre rivolto la sua attenzione all’universo «esterno», alle vaste distese cosmiche, sottolineando però la sua intenzione di esplorare in futuro «l’immagine inferiore, speculare, dell’universo che è racchiuso dentro di noi». Difficile non vedere riflessa in questo proposito la splendida ed affascinante ipotesi al centro de L’ultima fase: lo sviluppo di cellule somatiche intelligenti, prodotte artificialmente, che trasformano gli esseri umani in complesse neo-aggregazioni di materia senziente, in una sorta di trascendenza bio-cibernetica.

Bear descrive con grande abilità un evento di natura apocalittica, ma al tempo stesso uno straordinario fenomeno di evoluzione biologica: infatti, alla geniale invenzione di un’epidemia «intelligente» unisce lo scavo analitico del processo di transumanizzazione, che si esplica nelle modalità più radicali, ovvero la riprogrammazione e trasformazione di ciò che è umano attraverso la scomposizione nei suoi costituenti elementari, e la successiva ricomposizione in una nuova dimensione di vita intelligente, la «noosfera». In virtù di questa rigorosa e lucida esplorazione delle frontiere evolutive, il romanzo di Bear interroga direttamente i rapporti tra SF e trascendenza. La narrativa speculativa, e la SF in particolare, è uno dei veicoli privilegiati per il confronto con la realtà trascendente, ovvero con ciò che si colloca al di là dei limiti umani definiti dallo spaziotempo, dalla morte, dalla biologia delle specie, dagli stessi meccanismi cognitivi. La visione classica pone la realtà trascendente al di là della natura, e quindi nella sfera del metafisico e del soprannaturale, mentre la SF (in un certo senso erede di un atteggiamento che già si coglie nella tradizione romantica) offre una sorta di razionalizzazione del trascendente, riportandolo nell’ambito della natura, entro i confini del cosmo. Certo, esso rimane nei territori dell’ignoto, ma non implica necessariamente una discontinuità con il mondo naturale. Il destino evolutivo della specie, il passaggio a stati «superiori» di esistenza, vengono interrogati facendo ricorso al mondo fisico conosciuto e ad una sua razionale, ipotizzabile estensione (biologica, psichica, intervento di intelligenze superiori, ecc). Da questo punto di vista, il romanzo di Bear è esemplare e, pur collocandosi nel solco di una ricca tradizione (Olaf Stapledon, Arthur C. Clarke), si propone come modello particolarmente rigoroso. Nel celebre romanzo di Clarke, Le guide del tramonto (Childhood’s End, 1953), a cui L’ultima fase è stato paragonato con una certa insistenza, la finalità trascendente è raggiunta attraverso un intervento «superiore», che se non è a sua volta di natura trascendente, ne costituisce un analogo razionalizzato, comunque ambiguo e indeterminato (e lo stesso vale per l’ancor più famoso 2001: Odissea nello spazio [1968]. In Bear, invece, la realtà trascendente scaturisce da cause e processi naturali (biologici e tecnologici), esplorando le più avanzate frontiere scientifiche, ai confini tra genetica e cibernetica.

L’ultima fase è comunque assai ricco di spunti e percorsi ulteriori, tra i quali si ritrovano ad esempio i toni del thriller catastrofico e della storia d’orrore. In proposito è possibile notare alcune analogie nel clima psicologico e nei meccanismi di reazione tra lo scienziato Vergil Ulam ed il protagonista del recente film di David Cronenberg, La mosca (The Fly, 1986). E per rimanere in campo cinematografico, non si può dimenticare come alcuni momenti del romanzo ripropongano l’oscillazione tra horror story e speculazione metafisica sull’informe che caratterizza un film come La cosa (The Thing, 1982) di John Carpenter.

Vorrei infine segnalare le suggestive valenze assunte dal processo di dissoluzione del paesaggio americano, sottilmente correlato allo scenario psicologico del romanzo (offerto dai numerosi personaggi e dall’alternanza dei punti di vista) che è esso stesso un ritratto di frammentazione e di isolamento. Sotto quest’aspetto, il processo fisico di dissolvimento/reintegrazione può essere visto, nelle parole di Colin Greenland, come «la malinconica ricerca di una comunione cosmica da parte di una libera associazione di individui frammentati, separati dalla società e privi di qualunque legame reciproco».

Ma il romanzo sintetizza questo ed altri aspetti riaffermando il tema dominante dell’evoluzione. Non a caso per lo stesso Bear l’aspetto chiave del libro è quello di mostrare come «l’uomo e la tecnologia umana siano parte di un processo evolutivo organico nel quale siamo chiamati a giocare un ruolo temporaneo ma cruciale». Questa osservazione permette inoltre di chiarire la posizione dell’autore rispetto alla recente tendenza «neuromantica» della SF (già illustrata su queste pagine): se dal punto di vista stilistico Bear è assai lontano dalle tecniche virtuosistiche di un William Gibson o di un Bruce Sterling, ne condivide però sostanzialmente l’ideologia di fondo, che (nella definizione di Norman Spinrad) si può esprimere come «l’accettazione dell’evoluzione tecnologica e dell’alterazione della nostra definizione di umanità, la romantica accettazione della modificazione tecnologica della specie».

In fondo, la domanda implicita nel romanzo è la stessa recentemente rivolta da Bear ai partecipanti di un convegno: «Quanti di voi sono veramente convinti che tra cinquant’anni il nostro aspetto sarà ancora riconoscibilmente umano?». Molte furono le mani alzate, e pronta la replica dell’autore: «Siete tutti in errore». Ed è la stessa risposta che Bear ci ha dato con L’ultima fase.

Piergiorgio Nicolazzini

INTERFASE

Ogni ora, miriadi di trilioni di minuscoli esseri viventi — microbi e batteri, i contadini della Natura — nascono e muoiono, del tutto irrilevanti se non fosse per l’enormità del loro numero e l’effetto cumulativo delle loro microscopiche esistenze. Essi non percepiscono vere sensazioni, non soffrono. La morte di cento miliardi di loro non conta neppure una frazione di quella di un singolo essere umano.

Considerate nella loro totalità queste creature, siano piccole come i microbi oppure grandi come gli uomini, si equivalgono nello «slancio vitale», proprio come le fronde di un albero possente riunite assieme equivalgono alla massa dei rami sottostanti, e come la massa dei rami equivale a quella del tronco.

Oggi ne siamo certi con la stessa fermezza con cui i Re di Francia erano certi del loro diritto alla discendenza ereditaria. Quale, fra le generazioni future, verrà a darci torto?

ANAFASE

GIUGNO-SETTEMBRE

I

La Jolla, California

Una lastra rettangolare nero-ardesia incoronava un monticello, verde di trifoglio coreano fitto e brillante, aureolato di iris e racchiuso in un ruscelletto in cemento scuro pieno di koi. Sul lato verso la strada la lastra recava scolpito in rosse lettere romane GENETRON e, sotto il nome, un motto: «Qui le piccole cose portano a grandi mutamenti».

I laboratori Genetron e gli uffici amministrativi erano ospitati in una spoglia e massiccia costruzione a «U» stile Bauhaus, che racchiudeva un giardino quadrangolare. L’edificio aveva due piani, e balconate che correvano intorno all’intera circonferenza. Di fronte al giardino, oltre un prato su cui non era stato ancora piantato un solo filo d’erba, sorgeva una struttura cubica di vetro nero a quattro piani, cinta da una rete metallica elettrificata.

La Genetron non celava le sue due facce: i laboratori aperti, dove si conducevano ricerche biologiche, e l’edificio riservato ai contratti col Ministero della Difesa, in cui se ne studiavano le applicazioni militari.

Anche i laboratori aperti erano soggetti a rigide procedure di sicurezza. Tutti gli impiegati portavano targhette d’identità incise a laser, e l’ingresso dei non addetti era accuratamente controllato. La direzione della Genetron — cinque laureati di Stanford che avevano fondato la compagnia appena tre anni dopo aver finito l’università — pensava che fosse più probabile un atto di spionaggio industriale nel reparto amministrazione che una fuga di notizie dal cubo nero. Tuttavia negli uffici regnava un’atmosfera serena, e si faceva il possibile per mettere in opera le misure di sicurezza col guanto di velluto.

L’uomo alto, dalle spalle un po’ curve e con disordinati capelli neri, si districò dallo stretto abitacolo della Volvo sportiva rossa e mentre attraversava il parcheggio degli impiegati starnutì due volte. In quei primi giorni d’estate la vegetazione emetteva già nebbioline di polline irritante. Salutò con noncuranza Walter, il robusto e segaglino guardiano di mezz’età. Con altrettanta noncuranza, apparente, l’uomo controllò la sua targhetta facendola passare sotto il lettore laser.

— Sembra che stanotte non abbia dormito molto, non è vero, Mr. Ulam? — chiese Walter.

Vergil scosse il capo, con una smorfia. — Cocktail party, Walter. — Aveva gli occhi gonfi, e il naso arrossato dal continuo sfregamento del fazzoletto che ora, umido di muco, riposava appallottolato in una tasca.

— Come riesca un uomo indaffarato come lei a fare le ore piccole fra due giorni lavorativi, è una cosa che non capisco.

— Le signore hanno le loro esigenze, Walter — commentò Vergil, passando oltre. Il guardiano annuì con un sogghigno, benché dentro di sé dubitasse che Vergil si desse troppo da fare con le donne, cocktail party o meno. Per quanto i costumi si fossero rilassati dai suoi tempi, Walter sapeva che un uomo con la barba di una settimana difficilmente s’era dedicato ad avventure galanti.

Ulam non poteva vantarsi d’essere la figura più affascinante della Genetron. Superava l’1,85 d’altezza e camminava su larghi piedi piatti. A 32 anni soffriva d’artrosi dorsale, era una dozzina di chili al di sopra del peso-forma, aveva la pressione alta, e non avrebbe mai potuto radersi abbastanza a fondo da eliminare un’ombra scura sulla mandibola.

La sua voce sembrava la meno adatta a chi volesse conquistarsi degli amici: rauca, dura, tendente ad alzarsi troppo. Vent’anni in California avevano smorzato il suo accento texano, ma quando si eccitava o era irritato la secca parlata del Panhandle tornava a farsi sentire col suo tono tagliente.

Il suo solo punto a favore era costituito da due bellissimi occhi verde-smeraldo, larghi ed espressivi, ombreggiati da lunghe ciglia quasi sensuali. Erano tuttavia occhi più decorativi che funzionali, perché lo costringevano a portare un grosso paio d’occhiali dalla montatura nera. Vergil era piuttosto miope.

Si avviò su per le scale a lunghi passi, divorando due o tre scalini alla volta e facendo risuonare il marmo sotto le scarpe. Al primo piano imboccò il corridoio che immetteva nella sala-apparecchiature del Reparto Biochip Prototipi, conosciuta anche come il laboratorio comune. La sua mattinata di solito cominciava con un esame dei campioni rimasti in una delle cinque ultracentrifughe. La sua infornata più recente stava ruotando da sessanta ore a 200.000 giri/min, e adesso era pronta per l’analisi.

Per un uomo della sua mole Vergil aveva mani sorprendentemente delicate. Estrasse dall’ultracentrifuga il costoso rotore di titanio nero e richiuse il contenitore a vuoto in lucido acciaio. Depose poi il rotore su un bancone da lavoro, staccò le cinque tozze provette di vetro dai supporti sotto il volano fungoidale e gettò un’occhiata al loro contenuto. Sul fondo di ciascuna s’erano formati parecchi strati in diverse sfumature di marrone.

Le nere sopracciglia di Vergil s’inarcarono e si corrugarono, mentre allineava davanti a sé i cinque spessi contenitori. Annui fra sé e sorrise, mettendo in mostra denti che un’infanzia trascorsa in una zona di acqua a eccessivo contenuto di fluoro aveva reso un po’ scuri.

Stava risucchiando fuori la soluzione inerte e gli strati che non lo interessavano quando il telefono del laboratorio squillò. Depose la provetta in una rastrelliera e sollevò il ricevitore. — Laboratorio comune, qui Ulam.

— Vergil, sono Rita. Ti ho visto entrare, ma non ti ho trovato nel tuo laboratorio…

— Stamane il mio indirizzo è qui, Rita. Che c’è di nuovo?

— Mi avevi chiesto… cioè mi avevi pregato di farti sapere se una certa persona fosse arrivata. Penso che sia qui, Vergil.

— Michael Bernard? — esclamò lui, con un fremito nella voce.

— Credo che si tratti di lui. Ma Vergil…

— Scendo immediatamente.

— Vergil, non…

Lui riattaccò, indugiò qualche istante a fissare le provette, poi le lasciò dov’erano e uscì.

La zona in cui la Genetron riceveva gli ospiti era un’ala circolare che sporgeva in fuori dall’angolo est, rallegrata da finestre dai vetri colorati e da una quantità di aspidistrie piantate in vasi di ceramica cromata. Il sole ancora basso proiettava riquadri multicolori sulla moquette azzurra quando Vergil entrò dalla parte dei laboratori. Nel vederlo passare davanti alla sua scrivania Rita si alzò subito in piedi.

— Vergil…

— Grazie — si volse a dirle lui, ma i suoi occhi corsero sull’uomo distinto e dai capelli grigi che sedeva sul divano di fronte all’ufficio. Non c’erano dubbi sulla sua identità: Michael Bernard. Vergil aveva già visto alcune sue foto, e la copertina che il Time Magazine gli aveva dedicato tre mesi prima. S’avviò verso di lui e gli tese la mano con il suo più luminoso sorriso.

— È un vero piacere conoscerla, Mr. Bernard!

L’uomo gli restituì la stretta di mano, ma sembrò perplesso.

Oltre la spaziosa doppia porta dell’elegante ufficio in cui accoglieva i visitatori di riguardo era visibile Gerald T. Harrison, col ricevitore del telefono incastrato fra un orecchio e la spalla. Fu a lui che Bernard rivolse uno sguardo interrogativo.

— Sono felice che abbia ricevuto il mio messaggio… — riprese a dire Vergil, mentre Harrison non aveva ancora notato la sua presenza.

In quel momento il dirigente lo vide, salutò la persona con cui stava parlando e depose in fretta il telefono. — Spiacente, Vergil, ma il rango ha i suoi privilegi — esclamò, esibendo un sorriso artificioso, portandosi subito al fianco di Bernard.

— Mi spiace di non… quale messaggio? — stava chiedendo l’uomo.

— Questo è Vergil Ulam, uno dei nostri più attivi ricercatori — lo presentò Harrison con ossequiosa formalità. — La sua visita è un vero onore per noi, Mr. Bernard. Vergil, circa la cosa di cui è venuto a parlarmi ci vedremo più tardi.

Vergil non aveva chiesto di parlare con lui riguardo a niente. — Certo — annuì, rigido. Di nuovo fu urtato da quella vecchia familiare sensazione: venire snobbato, spinto da parte.

Era chiaro che Bernard non aveva mai sentito parlare di lui.

— Più tardi, Vergil — lo congedò Harrison con un sorrisetto fermo.

— Sicuro, naturalmente. — Indietreggiò, gettò a Bernard un’occhiata speranzosa, poi si girò e uscì dalla porta secondaria.

— Chi ha detto che è? — domandò Bernard.

— Un individuo un po’ troppo ambizioso — spiegò Harrison con una smorfia. — Ma lo teniamo sotto controllo.

L’ufficio di lavoro di Harrison era al pianterreno nell’ala ovest, sotto i laboratori. Tre delle pareti erano coperte da scaffali di legno fitti di ordinatissimi volumi. Il ripiano a livello degli occhi contenenva file di quaderni di appunti in plastica, che s’era portato dietro da Cold Spring Harbor. Sullo scaffale più sotto erano in mostra numerosi telefoni d’epoca — Harrison collezionava anche vecchi elenchi telefonici — e parecchi ripiani ospitavano testi di elettronica e sui computer. Sul liscio piano nero della sua scrivania campeggiava lo schermo di un terminale VDT.

Fra i soci fondatori della Genetron, soltanto Harrison e William Yng erano rimasti abbastanza a lungo da vedere i laboratori entrare pienamente in funzione. Entrambi erano più portati all’attività manageriale che alle ricerche, benché i loro diplomi facessero bella mostra di sé appesi nell’anticamera.

Harrison si appoggiò allo schienale della poltrona e sollevò le braccia, intrecciando le mani dietro la testa. Vergil notò un lievissimo alone di umidità sotto ciascuna della sue ascelle.

— Vergil, questo è stato molto imbarazzante per me — disse, evitando di scarruffarsi i capelli d’un biondo chiarissimo, pettinati ad arte per celare un prematuro accenno di calvizie.

— Mi spiace — disse Vergil.

— Non quanto a me. E così ha chiesto a Mr. Bernard se voleva visitare i nostri laboratori?

— Sì.

— Perché?

— Pensavo che si sarebbe interessato alle nostre realizzazioni.

— È quel che pensavamo anche noi. Ed è per questo che noi lo abbiamo invitato. Credo proprio che non abbia saputo nulla del suo invito, Vergil.

— Sembra di no.

— Lei ha agito alle nostre spalle.

Vergil restò in piedi davanti alla scrivania, fissando uno sguardo cupo sul retro del terminale VDT.

— Ha svolto una grossa quantità di lavoro utile, per noi. Rothwild mi dice che è brillante, forse perfino geniale (Rothwild era il supervisore dei progetti per i biochip). Ma altri dicono che non si può fare assegnamento su di lei. E adesso… questo.

— Bernard…

— Non Mr. Bernard, Vergil. Questo. — Fece ruotare lo schermo del VDT e premette un pulsante sulla tastiera. Le annotazioni segrete che Virgil aveva affidato al computer apparvero sul terminale. A quella vista sbarrò gli occhi un istante e sentì un nodo in gola, ma con uno sforzo d’autocontrollo riuscì a non mostrare altra emozione.

— Non ho letto tutto, però sembra chiaro che lei si sta occupando di cose decisamente sospette. Addirittura contrarie all’etica professionale. A noi piace tener d’occhio i programmi dei singoli, qui alla Genetron, specialmente in vista della posizione di preminenza che stiamo assumendo sul mercato. Ma non solo per questa ragione. Io mi compiaccio di credere che la nostra compagnia segua un’etica lodevole.

— Non ho fatto niente che non sia etico, Gerald.

— Oh? — Harrison riabbassò le braccia. — Lei sta progettando nuovi componenti della DNA per numerosi microrganismi NIH artificiali. E sta lavorando su cellule di mammiferi. Noi qui non abbiamo progetti in cui entrino cellule di mammiferi. Non siamo equipaggiati per i rischi biologici… non nei laboratori principali. Ma voglio supporre che possa dimostrarmi sia la sicurezza sia la natura innocua delle sue ricerche. Non è che stia per caso creando qualche arma batteriologica da rivendere ai rivoluzionari del Terzo Mondo, eh?

— No — disse Vergil con voce piatta.

— Bene. Parte di questo materiale va oltre la mia comprensione. Sembra come se volesse tentare nuovi sbocchi per il nostro progetto MAB. Qui potrebbe anche esserci qualcosa di utile. — Lo fissò un poco. — Cosa diavolo sta cercando di fare, Vergil?

Lui si tolse gli occhiali e li pulì con l’orlo della sua giacca da laboratorio. D’improvviso starnutì, con energia e copiosamente.

Harrison esibì un’espressione un po’ schifata. — Ieri abbiamo trovato il suo codice d’accesso. Quasi per caso. Perché ha nascosto questa roba? È qualcosa che secondo lei non dovremmo sapere?

Senza gli occhiali Vergil aveva uno sguardo vacuo e triste. Cominciò a balbettare qualcosa, poi tacque e strinse i denti. Le sue spesse sopracciglia nere si sollevarono con doloroso stupore.

— A mio avviso si direbbe che lei abbia fatto qualche lavoro col nostro manipolatore genetico. Senza autorizzazione, naturalmente. Non che abbia mai avuto molto rispetto per l’autorità.

Il volto di Vergil stava ora arrossendo sempre più.

— Che c’è, non si sente bene? — chiese Harrison, scoprendo che provava un perverso compiacimento nel vederlo torcersi per l’imbarazzo. La sua espressione inquisitoria minacciava di deformarsi in un sogghigno.

— Sto benissimo — disse Vergil. — Io volevo… sto… lavorando sulle biomolecole.

— Biomolecole? Questo termine non mi è familiare.

— Una branca laterale dei biochip. Computer organici autonomi. — Il sospetto d’aver detto anche troppo gli procurò una smorfia. Aveva scritto a Bernard — apparentemente senza il minimo effetto — con lo scopo di mostrargli il suo lavoro. Non era sua intenzione farne godere i risultati alla Genetron, neppure per il compenso previsto dal contratto per i lavori di carattere privato che si potevano svolgere nei laboratori. La cosa era ancora allo stadio di semplice idea, anche se gli era costata due anni di lavoro… due anni di sotterfugi e di notti insonni.

— Sono più che perplesso. — Harrison girò lo schermo verso di sé e lesse l’elenco di voci. — Non si parla affatto di proteine e aminoacidi. Qui vedo che lei ha almanaccato coi cromosomi. Alterato geni di mammiferi. Perfino, se leggo bene, combinandoli con geni batterici, o virali. — I suoi occhi si strinsero, facendosi grigi come pezzi di ghiaccio. — Potrebbe mandare all’aria la Genetron proprio adesso, Vergil, in questo stesso istante. Noi non abbiamo le misure protettive per roba di questo genere. E lei non ha neppure mai lavorato in condizioni di sicurezza P-3.

— Non sto giocando d’azzardo con geni riproduttivi.

— Ne esistono forse di altra specie? — Harrison si sporse bruscamente in avanti, irritato dal sospetto che lo stesse prendendo in giro.

— Introni. Catene molecolari che non codificano come strutture proteiche.

— Di che si tratta?

— Sto soltanto lavorando in quella direzione. E… aggiungendo più materiale genetico non riproduttivo.

— Questo mi suona come una contraddizione di termini, Vergil. Non ci sono prove che gli introni non codifichino come proteine o qualcos’altro.

— Sì, ma…

— Ma… — Harrison alzò una mano. — Tutto questo comunque non ha importanza. Il fatto è che qualunque cosa stesse per ottenere era sul punto di troncare il suo contratto di lavoro, agendo alle nostre spalle a favore di Bernard, con lo scopo di ottenere il suo aiuto per raggiungere un proprio obiettivo personale. È così?

Vergil non aprì bocca.

— Devo presumere che non sia un individuo molto smaliziato, Vergil. Non nel mondo duro degli affari. Forse non si è neppure soffermato a pensare alle conseguenze.

Vergil deglutì un groppo di saliva. Il suo volto era più arrossato che mai. Poteva sentire il sangue pulsargli negli orecchi, il sordo torpore delle vie respiratorie gonfie e otturate. Fu costretto a starnutire due volte.

— Bene, le dirò io cosa potrebbe accadere. Lei è andato molto vicino a vedersi i santissimi tagliati via e venduti come carne in scatola.

Vergil inarcò pensosamente le sopracciglia.

— Lei è importante per il progetto MAB. Se così non fosse la metterei fuori in un baleno, e mi accerterei personalmente che non un solo laboratorio privato sia disposto ad assumerla. Ma Thornton e Rothwild e pochi altri sono convinti che riusciremo a redimerla. Sì, Vergil, redimerla. Salvarla da se stesso. Non starò a seccare Yng con questa faccenda. E non voglio tornarci sopra… purché righi diritto.

Fissò su Vergil uno sguardo freddo e accigliato. — Basta con le sue attività extracurricolari. Terremo nella memoria del computer il materiale che ci ha messo, ma esigo che tutti i suoi esperimenti non connessi al MAB cessino, e che distrugga tutti i microrganismi che ha manipolato. Fra un paio d’ore ispezionerò personalmente il suo laboratorio. Se non l’avrà fatto, si consideri fuori. Due ore, Vergil. Tutto quanto, e non un minuto più tardi.

— Sissignore.

— Non c’è altro.

II

Il licenziamento di Vergil non avrebbe gettato i suoi colleghi nella costernazione più profonda. Nei suoi tre anni alla Genetron s’era macchiato d’innumerevoli violazioni alle regole del laboratorio. Spesso non lavava i vari contenitori in vetro, e due volte era stato accusato di non aver asciugato gocce di bromuro di ethidium — un forte mutagene — dai tavoli del laboratorio. Inoltre non usava un’eccessiva prudenza nel maneggiare i radionucleidi.

La maggior parte di quelli che lavoravano con lui non esibivano un carattere umile. Sapevano d’essere, dopotutto, i migliori giovani ricercatori in un campo assai promettente; molti già contavano che da lì a pochi anni avrebbero raggiunto la fama e si sarebbero trovati a dirigere i loro attuali colleghi. Vergil tuttavia non nutriva ambizioni di quel genere. Di giorno lavorava in silenzio e intensamente, e di notte faceva gli straordinari per conto suo. Non era una persona socievole, anche se nessuno l’avrebbe definito scostante: si limitava a ignorare una notevole quantità di colleghi.

Nel suo laboratorio condivideva lo spazio e i macchinari con Hazel Overton, la più pignola e meticolosa ricercatrice che si potesse immaginare. Hazel sarebbe stata l’ultima a lamentare la sua defenestrazione. Forse era stata proprio lei a scoprire il suo codice d’accesso alla memoria: era piuttosto esperta di computer, e poteva aver curiosato nella vaga speranza di trovare uno spunto per metterlo nei guai. Ma niente gli confermava un sospetto di quel genere, e decise che non aveva senso perdersi in pensieri paranoici.

Quando Vergil entrò, il laboratorio era al buio. Hazel stava sottoponendo a un esame di fluorescenza una matrice di gel per l’elettroforesi con una piccola lampada UV. Vergil accese la luce. Lei alzò la testa e si levò bruscamente gli occhiali con aria seccata.

— È in ritardo — osservò. — E il suo laboratorio sembra un letto disfatto. Vergil, tutto ciò è…

— Kaput! — terminò lui. Gettò il camice di traverso su uno sgabello.

— Ha lasciato alcune provette da centrifuga aperte sul banco, nel laboratorio comune. Temo che si siano rovinate.

— Si fottano!

Hazel sbarrò gli occhi. — Santo cielo, mi sembra un esagitato.

— Mi hanno tirato un colpo basso. E ora devo rinunciare al mio lavoro extracurricolare, sbatterlo via, o Harrison mi darà il benservito.

— Questo dimostra che se non altro è imparziale — borbottò Hazel, tornando al suo test. Un mese addietro Harrison l’aveva costretta a lasciar perdere un suo progetto extracurricolare. — Che cosa ha fatto?

— Se per lei fa lo stesso, preferirei esser lasciato solo. — Vergil la fissò dal lato opposto del bancone. — Quell’esame potrà finirlo anche nel laboratorio comune.

— Potrei, ma…

— Se non si sbriga — la avvertì cupamente — prenderò quel suo piattino di agar-agar e lo farò volare a calci fino alle scale.

Hazel lo scrutò per un momento e concluse che non stava scherzando. Spense gli elettrodi, raccolse i suoi campioni e si diresse alla porta. — Le mie condoglianze — lo salutò.

— Certo.

Doveva escogitare qualcosa. Grattandosi il mento ispido cercò di pensare a come ridurre al minimo le sue perdite. Avrebbe potuto cominciare col liberarsi dei campioni ormai inutili… le colture di E. Coli, ad esempio. Già da tempo erano in uno stadio in cui non gli servivano più. Le aveva tenute da parte solo come una specie di riserva, nel caso che il passo successivo lo portasse su una strada sbagliata. Nel suo lavoro non c’erano però stati passi falsi. Era ancora incompleto, ma già a un punto tale che riusciva a sentire il profumo del successo farsi sempre più vicino, lieve e inebriante.

Il lato del laboratorio appartenente ad Hazel era lindo come un salotto. Il suo invece era un caos di apparecchi e contenitori di sostanze chimiche. Una delle sue scarse concessioni alla sicurezza, il panno assorbente per sterilizzare le perdite di liquidi, penzolava giù dal bancone nero trattenuto per un angolo dal peso di una beuta di detergente.

Vergil si fermò davanti alla bianca lavagna degli appunti, si grattò la faccia ispida di barba e rilesse le ermetiche note che aveva scarabocchiato il giorno prima:

Mini-ingegneri. Costruire le macchine più piccole del mondo. Meglio dei MAB! Mini-chirurghi. Guerra ai tumori. Computer con capac. um. (Computer spec. in tum. HA!) e non più grossi di un volvox.

Chiaramente le farneticazioni di un pazzo, e Hazel non doveva averci fatto caso. Oppure no? Era consuetudine buttar giù sulla lavagna un’idea improvvisa, o un’ispirazione, anche in forma di battuta, e aspettarsi poi che qualche altro genio la correggesse o commentasse. Tuttavia…

Quelle note potevano aver destato la curiosità di qualcuno come Hazel, o di un altro altrettanto intuitivo. Specialmente se il suo lavoro sui MAB stava segnando il passo.

E naturalmente lui non aveva mai pensato di dover essere sospettoso.

I MAB — Biochip per Applicazioni Mediche — stavano per divenire la prima applicazione pratica della rivoluzione introdotta dai biochip, i circuiti di proteine molecolari abbinati all’elettronica e ai siliconi. Per anni i biochip erano stati un campo di speculazione per la letteratura specializzata, ma adesso la Genetron sperava di avere il primo campione funzionante e affidabile, e contava di sottoporlo entro tre mesi ai test della FDA.

Stavano fronteggiando un’agguerrita concorrenza. In quella che cominciava a essere conosciuta come la Enzyme Valley — l’equivalente per i biochip della Silicon Valley — almeno sei compagnie avevano messo in funzione alcuni impianti nella zona di La Jolla. Alcune avevano iniziato come fabbriche di medicinali, contando di mettere a frutto quel che era scaturito da diverse ricerche sul DNA. Messe fuori gioco da industrie maggiori, in possesso dei principali brevetti, avevano poi riconvertito gli impianti per dedicarsi ai biochip. La Genetron era il primo stabilimento che fin dalla costruzione era stato finalizzato specificamente sui biochip.

Vergil prese una cimosa e cancellò lentamente quelle note. Per l’intero corso della sua vita le cose avevano sempre cospirato per frustrarlo. Non di rado s’era dato da solo la zappa sui piedi… era abbastanza onesto da ammetterlo. Ma neppure una volta era stato capace di portare qualcosa a buon fine. Né per quanto riguardava il lavoro, né per la sua vita privata.

Non era mai riuscito a misurare con precisione le conseguenze delle sue azioni.

Tolse quattro quaderni con la costola a spirale dal cassetto della sua scrivania, chiuso a chiave, e li aggiunse al mucchio del materiale da far scomparire, che cresceva sempre più.

Non poteva distruggere tutto quanto, si disse. Le colture di cellule sanguigne bianche, i suoi linfociti speciali, quelli doveva salvarli. Ma dove tenerli? Cos’avrebbe potuto farne, fuori dal laboratorio?

Niente. Non esisteva un posto in cui lavorare con essi. Le apparecchiature che gli servivano erano lì alla Genetron, e per poter disporre di un altro laboratorio gli sarebbero occorsi mesi. Bastava invece un tempo molto inferiore perché il suo lavoro si disintegrasse, letteralmente.

Vergil uscì dalla porta posteriore del laboratorio e attraversò un corridoio interno e una saletta per i lavaggi e la disinfezione. Le incubatrici erano allineate in un locale separato, dietro il laboratorio comune. Lungo le pareti c’erano sette contenitori smaltati, grossi quanto un frigorifero, i cui monitor elettronici rivelavano quale temperatura e quale pressione di CO2 vi fosse in ogni unità. Nell’angolo più lontano, fra incubatrici più antiquate e di modelli diversi (acquistate da un laboratorio che era fallito) ce n’era una in lucido acciaio e plastica bianca, sul cui sportello un cartellino fissato con nastro adesivo avvertiva «Uso Riservato». La aprì e ne tolse una rastrelliera piena di dischetti di colture.

In ogni dischetto i batteri s’erano sviluppati in colonie dall’aspetto insolito: chiazze arancione o verdi, con aree che sembravano una mappa delle strade di Parigi, a incroci radiali, o a pianta reticolare come le strade di Washington. Le linee che si dipartivano dalle chiazze dividevano le colonie in sezioni; ogni sezione aveva il suo aspetto peculiare e — così Vergil supponeva — la sua funzione. Dal momento che ogni batterio di quelle colture aveva potenzialmente le capacità intellettuali di un topo, era abbastanza possibile che ogni coltura si fosse evoluta in una sorta di società primitiva, suddividendosi in unità con funzioni diversificate. Non aveva avuto tempo di studiarci sopra, preso com’era stato dai linfociti-B mutanti.

Pensava a questi ultimi un po’ come a dei suoi figli, tutti quanti. Ed erano diventati qualcosa di eccezionale.

Accese un becco Bunsen, e mentre con un paio di pinze esponeva alla fiamma i dischetti vitrei di E. Coli mutanti si sentì in colpa, e provò un senso di nausea.

Tornò nel suo laboratorio e immerse i dischetti delle colture in un bagno sterilizzante. Quello era il limite: non avrebbe potuto distruggere nient’altro. D’un tratto fu scosso da un fremito d’odio verso Harrison, che andava oltre qualsiasi emozione che avesse mai provato per altri esseri umani. Lacrime di rabbia gli annebbiarono gli occhi.

Aprì il Kelvinator del laboratorio e ne tolse una beuta e un supporto di plastica che conteneva ventidue provette per test. La beuta era piena di un fluido color paglierino, linfociti in siero medio. Aveva costruito un sistema di filtraggio — un’elica con palette di teflon — per ottenere il siero con un minor numero di cellule danneggiate rispetto alla centrifuga tradizionale.

Le provette contenevano una soluzione salina e uno speciale concentrato di siero nutriente, il cui scopo era di mantenere in buone condizioni le cellule quando le esaminava sotto il microscopio.

Stappò la beuta e con cautela versò alcune gocce di fluido a quattro delle provette sul supporto. Poi riappoggiò il contenitore sul banco. L’elica di teflon, nel suo interno, riprese a girare lentamente.

Non appena riscaldati a temperatura ambiente — un procedimento che di solito lui accelerava con un lieve soffio d’aria tiepida — i linfociti delle provette sarebbero tornati in attività, riprendendo il loro sviluppo dopo la pausa a cui la temperatura del frigorifero li aveva costretti.

Avrebbero continuato a imparare, aggiungendo nuovi segmenti alle porzioni modificate del loro DNA. E quando, nel normale corso di crescita cellulare, il nuovo DNA si fosse duplicato nel RNA, e quel RNA avesse esercitato la funzione di modello per la costruzione di aminoacidi, e gli aminoacidi si fossero convertiti in proteine…

Le proteine sarebbero state qualcosa di più che semplici strutture di cellule: altre cellule sarebbero state capaci di «leggerle». O il loro stesso RNA ne sarebbe stato spinto fuori per venir assorbito e «letto» da altre cellule. Oppure — e questa terza ipotesi s’era presentata da sola dopo che Vergil aveva inserito frammenti di DNA batterico in cromosomi di mammiferi — segmenti dello stesso DNA avrebbero potuto essere rimossi e utilizzati di nuovo.

Ogni volta che si soffermava a pensarci nella sua mente s’intrecciavano grovigli di possibilità, migliaia di modi in cui le cellule avrebbero potuto comunicare l’una all’altra e sviluppare il loro intelletto.

L’idea di una cellula intelligente gli appariva ancora meravigliosamente strana. Talora lo costringeva a fermarsi, con gli occhi fissi su un punto vuoto della parete, finché qualcosa non lo scuoteva riportandolo al lavoro che stava facendo.

Accese un microscopio e inserì una pipetta in una delle provette. Con lo strumento graduato assorbì una goccia di liquido, poi la espulse su un vetrino circolare.

Fin dall’inizio Vergil aveva saputo che le sue idee non erano né irrealizzabili né prive di scopo pratico. I primi tre mesi alla Genetron, in cui aveva aiutato a stabilire i rapporti silicone-proteine per i biochip, l’avevano convinto che i progettisti avevano tralasciato qualcosa di molto ovvio ed estremamente interessante.

Perché limitarsi a biochip di silicone e proteine larghi un centesimo di millimetro, quando quasi in ogni cellula vivente esisteva già un computer funzionante e dotato di una vasta memoria? Una cellula di DNA, nei mammiferi, conteneva milioni di geni ciascuno dei quali rappresentava un’informazione. Cos’era la riproduzione, infine, se non un procedimento biologico computerizzato di enorme complessità e affidabilità?

La Genetron non aveva ancora fatto quel semplice passo, e già da tempo Vergil aveva stabilito che questo gli tornava comodo. Avrebbe eseguito il lavóro ordinario, controllato privatamente la possibilità di creare miliardi di computer cellulari funzionanti, e poi avrebbe lasciato la Genetron per mettere in piedi un suo laboratorio, una ditta sua.

Dopo un anno e mezzo di preliminari e di studi aveva cominciato a lavorare di notte al manipolatore genetico. Usando la tastiera di un computer aveva costruito catene logiche di ACTG, le quattro sostanze base, mettendo insieme il progetto di una striscia a doppia elica di DNA-RNA proteico.

Queste prime catene molecolari erano state inserite in batteri E. Coli tramite particelle plasmiche circolari. Gli E. Coli avevano assorbito i plasmidi incorporandoli nel loro DNA originale. Nel duplicarsi i batteri avevano poi rilasciato i plasmidi passandoli alla struttura biologica di altre cellule. Nella fase più cruciale del suo lavoro Vergil aveva usato un virus, il cui apporto d’acido nucleico aveva funzionato da stabilizzatore nel «cappio» che univa il DNA al RNA. Anche i batteri più primitivi avevano impiegato i ribosomi come «codificatori» e «lettori», e l’RNA come una sorta di nastro magnetico. Col «cappio» a posto le cellule sviluppavano una loro memoria, e la capacità di agire secondo un certo programma in base a informazioni assunte indirettamente.

La vera sorpresa l’aveva avuta quando aveva messo alla prova i microbi mutanti. A paragone dell’elettronica costruita dall’uomo, anche la capacità nel computerizzare di un DNA batterico era enorme. Tutto ciò che Vergil doveva fare era di approfittare di quel che era già lì… dandogli una spinta nella direzione giusta.

Più di una volta era stato colpito dalla strana sensazione che il suo lavoro fosse troppo facile, e che lui non era tanto un costruttore quanto un servo della Natura… questo dopo aver visto le molecole cadere al proprio posto spontaneamente, o dopo aver fallito in tal modo che subito vedeva con chiarezza sia l’errore sia il procedimento per correggerlo.

Il brivido più strano e arcano l’aveva provato nel comprendere che stava facendo di più che creare piccoli computer. Una volta dato inizio al procedimento e messe in attività le sequenze di geni che potevano formare e duplicare i segmenti voluti del loro DNA, le cellule cominciavano a funzionare come unità autonome. Cominciavano a «pensare» da sole e sviluppavano un «cervello» più complesso.

I suoi primi E. Coli mutageni avevano mostrato la capacità d’apprendimento di un verme planaria; era riuscito a far loro percorrere semplici labirinti a T, premiandoli con molecole di zucchero. Presto avevano fatto meglio delle planarie: quei batteri — procarioti inferiori — s’erano rilevati superiori agli eucarioti pluricellulari! Dopo pochi mesi sapevano percorrere labirinti molto più complicati e — in rapporto alla loro scala — paragonabili a quelli ideati per i topi.

Rimosse queste sequenze biologiche dagli E. Coli mutageni le aveva inserite in linfociti-B, cellule bianche prelevate dal suo stesso sangue. Aveva rimpiazzato molte serie di introni (sequenze autoreplicanti di ACTG che in apparenza non codificavano per le proteine, e che costituivano una sorprendente percentuale del DNA in ogni cellula eucariotica) con le speciali catene molecolari da lui sviluppate. Negli ultimi sei mesi, usando proteine artificiali e ormoni come metodo di comunicazione, Vergil aveva «addestrato» i linfociti a interagire assai di più l’un l’altro e col loro ambiente esterno: un labirinto di vetro in miniatura molto complesso. I risultati erano stati superiori alle sue aspettative.

I linfociti avevano imparato a percorrere il labirinto e a guadagnarsi il nutrimento-premio con incredibile rapidità.

Attese che i suoi campioni fossero alla temperatura in cui tornavano attivi, poi inserì il vetrino nel pickup del sistema video e accese il primo dei quattro schermi del microscopio allineati sul banco. Su di esso comparvero i linfociti di forma pressappoco circolare nello studio dei quali aveva investito due anni della sua vita.

Erano già indaffarati a trasferirsi l’un l’altro materiale genetico, tramite lunghi tubicini flessuosi simili a pseudopodi o a file di batteri. Nei linfociti erano rimaste alcune caratteristiche sviluppatesi negli E. Coli dei primi esperimenti, per un motivo che lui ancora non aveva chiarito. I linfociti maturi non si riproducevano affatto, ed erano impegnati in una vera e propria orgia di scambi genetici.

Ogni linfocita del campione che stava osservando aveva in potenza le capacità intellettuali di una scimmia Rhesus. Dall’apparente semplicità del loro agire questo certo non risultava ovvio, tuttavia sapevano dimostrarlo nel corso totale della loro vita.

Vergil aveva comunicato con loro a livello di addestramento chimico, li aveva visti crescere e andare nella direzione in cui aveva sperato. E ora la loro breve esistenza giungeva al termine… gli era stato ordinato di assassinarli. Questo sarebbe stato fin troppo facile: se avesse aggiunto detergente nei contenitori le loro membrane si sarebbero dissolte. Alcuni manager dalla vista corta e dall’eccessiva cautela, capaci soltanto di strisciare verso il denaro come planarie in un labirinto, s’erano eletti a loro carnefici.

Mentre guardava i linfociti occupati nelle loro faccende strinse i denti per la rabbia.

Erano belli. Erano i suoi figli, estratti dal suo stesso sangue, nutriti con cura, costruiti secondo logica; con le sue mani aveva iniettato materiale biologico in almeno un migliaio di essi. E ora li vedeva indaffarati a trasformare tutti i loro compagni, l’uno dopo l’altro, senza interruzione…

Come Washoe, la scimpanzé che insegnava ai suoi figli il linguaggio gestuale appreso dai suoi «genitori» umani, loro stavano passandosi la torcia dell’intelligenza allo stato potenziale. Come avrebbe potuto scoprire qualora fossero stati capaci di usare quel potenziale?

Pasteur.

— Pasteur — disse ad alta voce. — Jenner.

Con cura Vergil preparò una siringa. Corrugando le sopracciglia infilò l’ago attraverso il tappo di cotone della prima provetta, immergendolo nella soluzione. Tirò indietro lo stantuffo. Il fluido pastelloso risalì nel cilindro di vetro, cinque, dieci, quindici cc.

Per alcuni minuti tenne la siringa sollevata davanti agli occhi, conscio che stava contemplando un rischio. Fino ad oggi, disse mentalmente alle sue creature, avete avuto la vita facile. La vita di Riley. Adagiati nel vostro siero, carezzandovi l’un l’altro, assorbendo tutti gli ormoni di cui avevate bisogno. Nessuno vi ha imposto di lavorare per vivere. Niente duri test, niente traumi. Nessuna necessità di usare ciò che io vi ho dato.

E cos’era quello che lui stava meditando? Metterli al lavoro nel loro ambiente naturale? Iniettandoli nel proprio corpo li avrebbe portati in salvo fuori dalla Genetron, e in seguito avrebbe potuto ritrovare abbastanza di loro da riprendere gli esperimenti.

— Ehi, Vergil! — Ernesto Villar bussò alla porta e mise dentro la testa. — È arrivato il film sull’arteria del topo. Abbiamo una riunione nella stanza 233. — Tamburellò con le dita sul battente e gli sorrise con calore. — Sei invitato. In veste di critico cinematografico.

Vergil riabbassò la siringa, con lo sguardo fisso nel nulla.

— Vergil?

— Sì, certo, adesso vengo — rispose in tono vago.

— Per carità, non eccitarti tanto! — brontolò Villar, seccato. — Comunque la proiezione della Prima comincia fra poco. — Richiuse la porta. Vergil udì i suoi passi allontanarsi nel corridoio.

Un rischio, infatti. Inserì di nuovo l’ago nel tappo di cotone, eiettò il siero nella provetta e mise la siringa in una bacinella d’alcool. Assicurò la provetta nel supporto, poi ripose il tutto nel Kelvinator. Fino a quel momento sulla beuta e sul porta-provette non c’era alcuna etichetta, a parte il suo nome. Staccò il cartellino dal portaprovette e lo sostituì con «Campioni di proteine per biochip — scarti di laboratorio 21-32». Sulla beuta incollò un’etichetta plastica «Antigeni di topo — scarti di laboratorio 13-14». Nessuno avrebbe ficcato il naso in un anonimo e non analizzato gruppo di scarti di laboratorio. Gli scarti erano sacri.

Gli occorreva un po’ di tempo per riflettere.

Rothwild e dieci degli elementi chiave del progetto MAB s’erano riuniti nella stanza 233, un laboratorio vuoto utilizzato per le assemblee. Rosso di capelli, piccolo e attivo, Rothwild fungeva da supervisore e da mediatore fra la direzione e i ricercatori. In piedi, a lato dello schermo, esibiva un’elegante giacca color crema e impeccabili pantaloni scuri. Villar offrì a Vergil una sedia di plastica verde-avocado e sedette al suo fianco in fondo al locale, intrecciando le mani dietro la testa.

Rothwild esordì con un’introduzione: — Questa è la conclusione del nostro lavoro sul Modello E-64. Tutti voi avete contribuito… — Lanciò uno sguardo incerto a Vergil. — E ora potete condividerne il… uh, il trionfo. Penso che potremmo senz’altro chiamarlo così.

«L’E-64 è il prototipo di un biochip per endoscopia, dal diametro di tre centesimi di millimetro, proteina su un substrato di silicone, sensibile a quarantasette diversi elementi della circolazione sanguigna. — Si schiarì la gola. Tutti ne erano al corrente, ma quella era un’occasione ufficiale. — Il 10 maggio abbiamo inserito l’E-64 nell’arteria di un topo, richiuso la piccola incisione e lasciato andare il biochip nella corrente sanguigna. Il suo viaggio è durato cinque secondi. Il topo è stato quindi sacrificato per poter recuperare il biochip. Subito dopo la squadra del Dr. Terence ha ricavato le informazioni dal biochip e interpretato i risultati. Trasformando tali risultati tramite uno speciale programma d’immagini computerizzate, ci è stato possibile ottenere un vero e proprio filmato.

Fece un gesto a Ernesto, che premette un pulsante sul proiettore del videoregistratore. Apparve una grafica costruita col computer: il simbolo stilizzato della Genetron, immagini pubblicitarie preliminari, poi uno stacco al buio. Ernesto spense la luce.

Sullo schermo si disegnò un circolo, che s’allargò deformandosi in un ovale irregolare. Entro di esso comparvero altri circoli. — Abbiamo rallentato sei volte la velocità del viaggio — spiegò Rothwild, — e per semplificare le cose abbiamo eliminato le letture della concentrazione di sostanze chimiche nel sangue del topo.

Vergil si sporse in avanti sulla sedia, dimenticando per un momento i suoi guai. Correnti di colore ondeggiarono lungo il fluttuante tunnel di circoli concentrici.

— Sangue che scorre attraverso l’arteria — intervenne Ernesto.

Il viaggio giù per il vaso sanguigno del topo durò trenta secondi. Vergil ebbe per un momento la pelle d’oca: se i suoi linfociti potevano vedere, questo era l’ambiente che avrebbero percepito nel lasciarsi trasportare sull’onda dei battiti cardiaci… un lungo tunnel irregolare, il sangue che fluiva lento, brevi occhiate nelle diramazioni laterali, poi l’arteria si faceva più stretta… i circoli si stringevano sempre mutevoli, improvvisi sbalzi mentre il biochip urtava qua e là nelle pareti… e infine il termine del viaggio quando andava a incastrarsi in fondo a un capillare.

Il filmato diventò un riquadro bianco lampeggiante. La stanza risuonò di voci che si congratulavano a vicenda.

— Adesso — disse Rothwild con un sorriso, e alzò le mani per invocare un po’ d’ordine, — ci sono commenti prima che la registrazione venga mostrata ad Harrison e a Yng?

Vergil si unì alle celebrazioni brindando con un bicchiere di champagne, e tornando nel suo laboratorio si sentì più depresso che mai. Dov’era il suo spirito di collaborazione? Valeva davvero la pena di tenere per sé un progetto così ambizioso come i suoi linfociti? Questa era stata la sua risoluzione… ma a rischio di vedere l’esperimento interrotto, forse perfino annientato.

Mise i quaderni di appunti in una scatola di fogli da fotocopiatrice e la sigillò col nastro adesivo. Sul lato del laboratorio di Hazel trovò una scatoletta vuota con un’etichetta: «Schede. Conservare.» e la staccò. La appiccicò sulla sua scatola e poggiò quest’ultima in territorio «neutrale» accanto a un lavello. Quindi lavò i contenitori in vetro che aveva lasciato lì attorno e mise ordine sui suoi banconi.

Quando fosse venuto il momento dell’ispezione si sarebbe mostrato mite e supplichevole come l’ultimo degli impiegati: Harrison doveva assaporare la soddisfazione della sua vittoria.

E poi, di nascosto — nelle due settimane successive — avrebbe portato all’esterno tutto il materiale che gli serviva. I linfociti avrebbero dovuto attendere l’ultimo turno; per un po’ di tempo poteva tenerli senza danni nel frigorifero, a casa sua. Rubare siero nutritivo per non farli deperire sarebbe stato abbastanza facile, tuttavia questo gli toglieva ogni possibilità di lavorare su di loro.

Più tardi avrebbe studiato come trovare le condizioni per continuare alla meglio i suoi esperimenti.

Harrison comparve sulla soglia del laboratorio.

— Tutto a posto — lo accolse Vergil, doverosamente pentito.

III

Nella settimana seguente lo tennero d’occhio da vicino; poi, spostando l’attenzione sui test conclusivi dei prototipi di MAB, avevano richiamato i loro cani da guardia. Il suo comportamento era stato indenne da pecche.

Adesso poteva compiere gli ultimi passi del suo volontario allontanamento dalla Genetron.

Vergil non era stato il solo a oltrepassare i confini della larghezza di vedute in vigore alla Genetron. Appena un mese prima la direzione, sempre nella persona di Gerald T. Harrison, era scesa in picchiata sul lavoro di Hazel. La ricercatrice aveva sgarrato dai canoni con le sue colture di E. Coli, nel tentativo di dimostrare che il sesso era stato in origine il risultato dell’invasione di una sequenza autonoma di DNA — un parassita chimico chiamato fattore-F — nelle prime forme di vita procariotica. Con questo presupponeva che il sesso non sarebbe stato indispensabile all’evoluzione — almeno non alle donne, che in teoria potevano riprodursi per partenogesi — e che l’uomo avrebbe finito col divenire superfluo.

Aveva messo insieme abbastanza prove perché Vergil, ficcando il naso negli appunti di lei, fosse d’accordo con le sue conclusioni. Ma il lavoro di Hazel non corrispondeva all’etica della Genetron. Era rivoluzionario, possibile fonte di controversie sociali. Harrison aveva pronunciato il verdetto; lei s’era ritirata da quella particolare branca di ricerche.

La Genetron non intendeva farsi pubblicità alimentando controversie scientifiche o sociali. Non ancora. Aveva bisogno di una reputazione senza macchia per il momento in cui avrebbe reso pubblici i suoi prodotti annunciando che stava realizzando MAB efficienti.

Nessuno s’era però preoccupato degli appunti di Hazel. Il fatto che Harrison avesse messo le mani sui suoi dati inseriti nel computer preoccupava Vergil.

Quando fu sicuro che la sorveglianza s’era allentata, cominciò a darsi da fare. Chiese il permesso di usare il computer della compagnia (permesso che gli era stato sospeso fino a nuovo ordine) e per non destare sospetti dichiarò che doveva visionare le strutture tridimensionali delle proteine da lui realizzate. Il permesso gli fu dato, e una sera dopo le otto poté sedersi alla tastiera del terminale nel laboratorio comune.

Vergil era nato troppo presto per essere classificato un bambino prodigio dei computer, ma negli ultimi sette anni aveva alterato la registrazione dei suoi documenti nella memoria elettronica di tre importanti ditte, e li aveva inseriti anche in quella di una famosa università. Questo era servito come supporto per la sua assunzione alla Genetron. Non provava alcun senso di colpa per quelle intrusioni e manipolazioni di dati.

A suo avviso la stima di cui godeva era meritata, e non vedeva perché avrebbe dovuto pentirsi se per ottenerla aveva forzato un po’ le cose. Sapeva d’essere pienamente all’altezza del lavoro che faceva alla Genetron: le false registrazioni introdotte negli archivi dell’università erano soltanto sviolinate per gli orecchi dei capi del personale che si pascevano di titoli e di aggettivi. D’altra parte Vergil era vissuto nella convinzione — fino a due anni prima — che il mondo fosse il suo personale videogame, e che ogni soluzione da lui trovata per sconfiggerlo, inclusa la manomissione di computer, fosse semplicemente consona alla sua natura.

Trovò ridicolmente facile aggirare il codice-chiave di Rinaldi messo a protezione dell’archivio segreto della Genetron. Per lui non c’erano misteri nei numeri di Godei e nelle sequenze di cifre digitali che apparvero sullo schermo. Si destreggiò fra i dati e le informazioni riservate come un pesce nell’acqua.

Trovò il suo fascicolo personale, e inserì un’equazione per chiudere con una chiave elettronica quella sezione della memoria. Poi decise che tanto valeva giocare sul sicuro: c’era sempre la possibilità, per quanto remota, che qualcun altro fosse più ingegnoso di lui. Cancellò completamente i suoi dati dal computer.

Ora il suo programma prevedeva di localizzare i documenti medici degli impiegati. Alterò tutti i termini della sua assicurazione, e i circuiti che avrebbero rivelato l’intrusione. Adesso qualsiasi richiesta d’informazioni sul suo conto dall’esterno lo avrebbe trovato ben coperto, anche dopo il suo allontanamento, e non ci sarebbero mai state domande circa i premi assicurativi che non aveva pagato.

Questo fatto però lo lasciò molto perplesso. La sua salute non era tale da poter fare del tutto a meno dell’assistenza medica.

Per qualche minuto rifletté su eventuali stratagemmi con cui avrebbe potuto mettere nei guai la Genetron, ma decise di rinunciarvi. Non era vendicativo. Spense il terminale con un sospiro e uscì.

Con sua sorpresa trascorse pochissimo tempo — soltanto due giorni — prima che la cancellazione dei dati fosse notata. Rothwild lo bloccò di primo mattino mentre entrava nel vasto atrio, informandolo che gli era precluso l’ingresso al suo laboratorio. Senza mostrasi troppo indignato Vergil replicò che c’era una scatola di oggetti personali che era suo diritto ritirare.

— Benissimo, ma nient’altro. Niente materiale biologico. E mi lascerà esaminare ogni cosa.

Vergil annuì con calma. — Posso sapere che c’è che non va, adesso?

— A esser franco, non l’ho chiesto — disse Rothwild. — E non m’interessa saperlo. Io avevo garantito per lei. E così Thornton. È una grossa delusione per tutti noi.

La mente di Vergil lavorava a ritmo frenetico. Non aveva ancora portato fuori i linfociti; sotto falsa etichetta, nel frigo del laboratorio, gli erano parsi abbastanza al sicuro, e non s’era atteso che le cose precipitassero così in fretta. — Sono licenziato?

— Proprio così. E temo che gli sarà difficile farsi assumere da un altro laboratorio privato. Harrison è furibondo.

Quando entrarono nel laboratorio Hazel era già al lavoro. Vergil prese la scatola che aveva messo nella zona «neutrale» fra i lavandini, coprendo l’etichetta con una mano. Finse di soppesarla, e di nascosto rimosse il nastro adesivo che appallottolò e lasciò cadere in un cestino per i rifiuti. — Un’altra cosa — disse. — Ho alcuni scarti di laboratorio, contrassegnati, di cui bisognerebbe occuparsi in modo opportuno. Cautamente. Radionucleidi.

— Oh, merda! — esclamò Hazel. — Dove?

— Nel frigo. No, non si preccupi… è solo carbonio 14. Posso? — Interrogò Rothwild con lo sguardo. Il sovrintendente gli accennò di poggiare la scatola sul bancone per lasciargliela ispezionare. — Posso? — ripeté Vergil. — Non voglio lasciare attorno niente che sia pericoloso.

Rothwild annuì, riluttante. Vergil si avviò verso il Kelvinator, e come per caso depose la giacca da laboratorio sul banco. La sua mano trovò una scatola di siringhe ipodermiche e ne trafugò una.

Il portaprovette coi linfociti era nello scomparto basso. S’inginocchiò e volgendo le spalle agli altri tolse una provetta, quindi vi inserì la siringa e ne estrasse venti cc. di siero. La siringa era nuova di zecca, e l’ago doveva essere ragionevolmente sterile; non c’era il tempo di una disinfezione con l’alcool, tuttavia era costretto a correre il rischio.

Mentre si puntava l’ago contro una vena all’interno del polso sinistro si domandò, per un attimo, cosa stava facendo e cosa sperava di ricavarne. C’erano scarse possibilità che i linfociti sarebbero sopravvissuti. Non era da scartarsi l’ipotesi che fossero ormai mutati al punto di non potersi adattare al suo sangue, e di morire, oppure di comportarsi come sostanze estranee e venire distrutti dai suoi anticorpi.

Oltre a ciò, la vita media di un linfocita attivo nel corpo umano poteva durare qualche settimana. I «poliziotti» del sangue non avevano un’esistenza facile.

L’ago entrò nella vena. Tutto ciò che sentì fu la lieve puntura, e un vago torpore quando il liquido freddo fluì nel suo sangue. Poi ritrasse l’ago e celò la siringa in fondo al frigorifero. Raccolse il portaprovette, la beuta, e col gomito richiuse lo sportello. Rothwild si tenne nervosamente a distanza mentre Vergil, con un paio di guanti di gomma, vuotava il contenuto delle provette in una bacinella di etanolo. Vi aggiunse anche il siero della beuta. Con un sorrisetto tappò la bacinella, la agitò per mescolare il tutto, quindi la ficcò in un contenitore di sicurezza per i rifiuti. Con un piede spinse il contenitore verso Rothwild. — È tutto suo — borbottò.

L’uomo aveva scartabellato fra i quaderni degli appunti. — Non sono certo che possa portarsi via questa roba — osservò. — Ha impiegato un bel po’ del nostro tempo a lavorarci sopra.

Il sorriso melenso di Vergil restò immutato. — Citerò per danni la Genetron, e alzerò polvere in ogni rivista specializzata su cui potrò scrivere. Sarà una buona pubblicità, proprio mentre cercate d’inserirvi sul mercato, no?

Rothwild lo fissò a occhi socchiusi, e un lieve rossore gli comparve sulle guance e sul collo. — Vada fuori di qui — disse. — Più tardi le sarà spedito il resto della sua roba.

Vergil si prese la scatola. Il freddo che gli aveva intorpidito l’avambraccio s’era dissolto. Rothwild lo scortò giù per le scale e lungo il vialetto fino al cancello del posteggio. Walter ritirò il distintivo di riconoscimento con faccia del tutto inespressiva. Non contento, il sovrintendente gli tenne dietro fino alla macchina.

— Non dimentichi il suo contratto — lo avvertì. — Pensi bene a ciò che può e non può dire.

— Mi sarà permesso dire una cosa, spero — replicò Vergil, sforzandosi di tenere la voce ferma mentre la rabbia saliva in lui.

— Che cosa? — domandò Rothwild.

— Andate a farvi fottere. Tutti quanti.

Sterzando attorno al monticello che sosteneva l’insegna della Genetron Vergil si volse, ripensando a tutto ciò che era accaduto dietro quelle austere mura. Gettò uno sguardo al cubo nero, più oltre, seminascosto da un filare di eucalipti.

Era più che probabile che quella fosse la fine del suo esperimento. Per un poco la tensione e il disgusto gli diedero un senso di nausea. Poi ripensò ai miliardi di linfociti che aveva appena annientato. La sua nausea aumentò al punto che avvertì in gola il sapore acido del succo gastrico.

— Oh, andrete a farvi fottere, è sicuro — mormorò, — perché tutto quello che tocco io va a farsi fottere.

IV

Gli esseri umani erano un gregge confusionario, decise Vergil, mentre appollaiato su uno sgabello si voltava a guardare i ballerini. Una musica mielata e pulsante accompagnava il lento ruotare della pista da ballo, e il lampeggiare delle luci colorate enfatizzava il sussultare dei corpi ammassati su di essa, maschili e femminili. Lungo tutto il bar uno stupefacente intreccio di lucidi tubi di rame sgocciolava e sputacchiava drink su ordinazione — per lo più vini vendemmiati in vitro — e quarantasette varietà di caffè. Le richieste di caffè erano in aumento; la notte si stava trasformando in mattino, e presto Weary’s avrebbe spento le luci e chiuso i battenti.

Gli ultimi sforzi creativi dei volonterosi danzatori diventavano sempre più ovvii. I loro movimenti avevano perso in fantasia, assumendo un tono quasi disperato. Accanto a Vergil un individuo tozzo in uno spiegazzato abito azzurro stava facendo le sue promesse da marinaio a una brunetta dai lineamenti asiatici che poco prima aveva pianto. Vergil si sentiva distaccato da tutto e da tutti. Non aveva ancora mosso un passo da dove si trovava, ed era entrato da Weary’s alle sette di sera. Del resto, neppure una femmina aveva fatto un passo verso di lui.

Non rappresentava una merce valida. Fermo o in movimento dava l’impressione di non saper dove mettere i piedi… e a parte un paio di viaggi nell’affollata zona dei tavolini e dei divani, non li aveva messi che sulla sbarra di quello sgabello. Negli ultimi anni aveva trascorso tanto di quel tempo in laboratorio che lì dentro riusciva a divertirsi quanto un gatto buttato su una giostra. Non aveva l’aria di un allegrone, e non intendeva spendere un grammo d’energia per attirare l’attenzione altrui.

Grazie al cielo, l’aria condizionata di Weary’s era almeno riuscita a placare il suo raffreddore da fieno.

Aveva trascorso la maggior parte della sera ad osservare la sorprendente varietà — e la sostanziale uniformità — delle tattiche che l’animale maschio metteva in opera verso la femmina. Lui se ne sentiva estraniato, sospeso in una sfera di distacco e di solitudine di cui non desiderava oltrepassare i confini. Dunque perché, chiese a se stesso, per prima cosa era venuto lì da Weary’s? Perché continuava a venire lì? Non aveva mai rimorchiato una donna in quel locale — e in nessun altro locale da ballo o bar — in tutta la sua vita.

— Salve.

Vergil sobbalzò e si volse, spalancando gli occhi.

— Scusami. Non volevo disturbarti.

Lui scosse la testa. La ragazza doveva essere sui ventotto anni: una bionda dalle sfumature dorate, così snella da sembrare sottile, e un volto non eccezionale ma attraente. Gli occhi castani, grandi e innocenti, erano la sua cosa migliore… salvo forse le gambe, si corresse, occhieggiandole d’istinto le caviglie.

— Non vieni qui molto spesso — disse lei. Gettò una rapida occhiata dietro di sé. — Oppure sì? Voglio dire, neppure io ci capito molto, del resto.

Lui si strinse nelle spalle. — Non spesso, già. Non è il caso. La mia percentuale di successi, qui dentro, non è spettacolosa.

La ragazza tornò a guardarlo e sorrise. — Su di te ne so più di quel che pensi — affermò. — Non ho bisogno di leggerti la mano. Sei un uomo abile, per prima cosa.

— Sul serio? — disse lui, sentendosi goffo.

— Abile con le mani, intendo. — Gli sfiorò il dorso di una mano che lui s’era poggiata su un ginocchio. — Hai dita sensibili. Puoi fare molte cose con mani come queste. Ma non hanno tracce di grasso, dunque non puoi essere un meccanico. E cerchi di vestirti bene, ma… — Ebbe una risatina cinguettante e la soffocò con le dita. — Scusa. Comunque ci provi.

Lui abbassò gli occhi sulla sua camicia di cotone, verde e nera, e sui pantaloni neri. Erano abiti nuovi e ben stirati. Cosa ci trovava di criticabile? Forse non le erano piaciute le scarpe bicolori; avevano fatto presto a sformarsi.

— Tu lavori… vediamo. — La ragazza si accarezzò una guancia con aria pensosa. Le sue unghie erano capolavori da manicure di classe, lunghi ovali dai riflessi bronzei. — Sei un cervello.

— Cosa?

— Lavori in uno dei laboratori che ci sono da queste parti. Hai i capelli troppo lunghi per essere uno della Marina, e del resto quelli non frequentano molto Weary’s. Non che io sappia. Lavori in un laboratorio e sei… no, tu non sei felice. Perché mai?

— Perché… — S’interruppe. Confessare che era disoccupato non era buona strategia. Per sei mesi avrebbe avuto diritto all’assegno governativo di disoccupazione; questo e i suoi risparmi avrebbero sopperito per un po’ di tempo alla mancanza di una paga fissa. — Come hai capito che lavoro in un laboratorio?

— Te lo rivelerò. La tasca della tua camicia… — Gliela toccò lievemente con le dita. — Il bordo è segnato dalla traccia della molla delle penne. Come se non facessi altro che levartele di tasca e rimetterle lì. — Sorrise, deliziosamente, e sporse la lingua in modo buffo come se lo avesse colto in fallo.

— Ma non mi dire.

— Sicuro. E porti il fermacravatta. Soltanto gli scienziati portano ancora il fermacravatta, al giorno d’oggi.

— Mi piace — si difese Vergil.

— Oh, anche a me. Il punto a cui voglio arrivare, però, è che non ho mai conosciuto uno scienziato. Voglio dire… intimamente.

Oh, Signore! pensò Vergil. — Che ti piacerebbe fare? — chiese, e immediatamente desiderò rimangiarsi quelle parole.

— Mi piacerebbe conoscerti, se non pensi che io stia andando troppo in fretta — disse lei, ignorando la domanda. — Guarda, il bar chiude fra pochi minuti. Non mi va di bere più niente e sono stanca di sentire musica. E tu?

Il suo nome era Candice Rhine. Ciò che faceva durante il giorno era accettare annunci per il La Jolla Light. Approvò la sua Volvo sportiva rossa e approvò il suo appartamento, un bicamera al terzo piano di un condominio a quattro isolati dalla spiaggia di La Jolla. Vergil l’aveva acquistato sei anni prima — appena uscito dalla scuola di medicina — da un antropologo che era partito per l’Ecuador subito dopo aver terminato uno studio sugli Indios del Sud America.

Candice entrò nell’appartamento come se ci avesse abitato per anni. Depose la blusa scamosciata sul divano e gettò la camicetta sul soprammobile in vetro e cromo al centro del tavolino. Con una risatina divertita sgusciò fuori dalla gonna e appese il reggiseno alla maniglia di una porta. Aveva seni piccoli, ma era così snella che su di lei sembravano voluminosi.

Vergil la guardava fra meravigliato e stupefatto.

— Vieni, scienziato — disse Candice, nuda sulla soglia della camera da letto. — Mi piace camminare sul pelo. — Vergil aveva messo la moquette sul pavimento, intorno al suo largo letto in stile California. Lei si mise in posa, con le mani sui fianchi, la schiena e un piede poggiati allo stipite della porta, poi ruotò sull’altro tallone e scomparve nel buio della stanza.

Vergil non si mosse finché lei non accese la lampada sul comodino da notte. — Lo sapevo! — la sentì esclamare. — Guarda tutti questi libri!

Più tardi, nel buio, Vergil pensò tardivamente ai pericoli del sesso in quel momento. Candice dormiva in silenzio al suo fianco, il sonno dovuto a diversi drink e a quattro riprese di sesso.

Quattro volte.

Non aveva mai fatto l’amore così intensamente. Prima d’addormentarsi lei aveva mormorato che i piloti lo facevano con regolarità, i medici con pazienza, ma soltanto gli scienziati con progressione geometrica.

Circa i pericoli… chiunque poteva vedere — e non solo nei libri di testo — i risultati della promiscuità in un mondo dove la gente viaggiava molto e aveva rapporti sessuali assai facili. Se Candice aveva molti rapporti sessuali (e Vergil era costretto a crederlo, visto che aveva preso l’iniziativa con assoluta disinvoltura) allora era impossibile dire quale specie di microrganismo stava ora accasandosi nel suo sangue.

Tuttavia dovette sorridere.

Quattro volte.

Candice mandò un mugolio nel sonno e lui sussultò, riaprendo gli occhi. Non avrebbe dormito bene, lo sapeva. Non era abituato ad avere qualcuno nel suo letto.

Quattro.

Nel buio i suoi denti, un po’ scuri, si scoprirono in un gran sorriso.

Il mattino dopo Candice si rivelò assai meno anticonformista. Insisté solennemente per occuparsi della colazione. Nel suo frigorifero ad angolo di vecchio modello Vergil aveva uova e fettine di carne, e lei cucinò con efficienza e precisione, quasi che avesse alle spalle un’esperienza di cuoca… o forse quello era semplicemente il modo in cui le donne facevano le cose? Lui non era mai riuscito a friggere un uovo in maniera decente. Gli venivano sempre o troppo crude o troppo cotte.

Seduta dall’altra parte del tavolo lei lo scrutò coi suoi grandi occhi castani. Vergil era affamato e mangiava in fretta. Non le stava offrendo un’esibizione di belle maniere, pensò. E con ciò? Cosa si aspettava da lui quella ragazza… o lui da lei?

— Sai, di solito io non resto per la notte — disse Candice. — Non faccio che chiamare il tassi alle quattro di mattina, quando l’amico già se la dorme. Ma tu mi hai tenuta… occupata fino alle cinque, e poi non volevo andarmene. Mi hai proprio sfinita.

Lui annuì e con l’ultimo pezzetto di toast raccolse l’ultimo gustoso pezzetto di tuorlo semiliquido. Non gli importava particolarmente sapere con quanti uomini fosse andata a letto. Meno di quel che sembrava, però, l’avrebbe giurato.

Vergil aveva fatto solo tre conquiste in vita sua, e una sola abbastanza soddisfacente. La prima a diciassette anni — gli era parsa un incredibile colpo di fortuna — e la terza un anno addietro. La terza era stata quella che lo aveva più soddisfatto e più ferito. E lo aveva convinto ad accettare la solitudine come un inferno della mente ma sempre preferibile al dolore delle delusioni.

— Suona un po’ orribile, non è vero? — chiese lei. — Voglio dire, i tassi alle quattro e il resto. — Lo fissò un poco. — Mi hai fatto godere sei volte — dichiarò.

— Bene.

— Tu quanti anni hai?

— Trentadue — le rispose.

— Lo fai come un ragazzino… a letto, dico. Sei instancabile.

Anche per lui quell’energia era stata un’esperienza nuova.

— Ti sono piaciuta?

Lui depose la forchetta e la osservò, assorto. Gli era piaciuta fin troppo. Quando sarebbe stata la prossima volta? — Sì, molto.

— Sai perché ho scelto te fra tutta quella gente? — Lei aveva appena toccato il suo solitario uovo in camicia, e ora masticava piccoli bocconi di carne ai ferri. Le sue unghie erano uscite intatte dalla nottata. Se non altro non era di quelle che graffiavano. Gli sarebbe piaciuto farsi graffiare?

— No — rispose.

— Perché sapevo che eri uno scienziato. Non avevo mai fatto l’amore con uno scienziato. Vergil. Dico bene, no? Vergil Ian Yullam.

— Ulam — la corresse.

— Ma mi sarei data da fare prima se l’avessi saputo — affermò Candice, e sorrise. I suoi denti erano candidi e affilati, anche se un po’ troppo larghi. Quella sua lieve imperfezione lo intenerì.

— Ti ringrazio. Non posso parlare a nome di tutti gli scienziati, ma apprezzo un complimento generoso.

— Be’, penso che tu sia molto dolce — disse lei. Il sorriso sfumò, sostituito da un’espressione seria e riflessiva. — Più che dolce. Lo giuro su Dio, Vergil. Sei il miglior amante che io abbia mai avuto. Oggi devi andare al lavoro?

— No — rispose. — Lavoro nell’orario che preferisco.

— Splendido. Allora, se hai finito con la colazione…

Altre tre volte prima di mezzogiorno. Vergil non riusciva a crederci.

Candice s’intristì al momento di lasciarlo. — Mi sento come se mi fossi allenata un anno di fila per il pentatlon — disse, ferma sulla porta e con la blusa in mano. — Non ti andrebbe se tornassi stasera? Voglio dire, a farti visita. — Nei suoi occhi ci fu una luce ansiosa. — Non credo che potrò fare all’amore di nuovo. Penso che tu abbia già esaurito tutto il mio programma mensile.

— Anzi, ti prego — annuì lui. Sorpreso vide che gli porgeva la mano. — Sarà bello. — Si strinsero la mano piuttosto formalmente, e Candice si allontanò nel tepore dell’aria primaverile. Vergil la seguì con lo sguardo per un poco, a tratti sorridendo e scuotendo la testa, ancora stupito.

V

Dopo una settimana dall’inizio della sua relazione con Candice le preferenze di Vergil in fatto di cibo cominciarono a cambiare. Fino allora aveva ecceduto coi grassi e gli amidi, divorando gran quantità di carne, pane e burro. La sua cena favorita era la pizza ai funghi, e aveva scoperto un locale dove a richiesta gliela caricavano con prosciutto, acciughe, olive o cos’altro volesse.

Candice suggerì che desse un taglio ai cibi troppo grassi — li chiamava «porcherie untuose» — e mangiasse più verdure, solo carne magra e niente dolci. Il corpo di lui parve trovarsi d’accordo.

Diminuì anche la quantità del cibo, e scoprì di sentirsi satollo dopo quello che prima avrebbe considerato un mezzo pasto. Il grasso che aveva attorno alla cintura calò a vista d’occhio. Stare in casa senza far niente lo rendeva sempre più inquieto.

Insieme al mutare dei suoi gusti in fatto di cibo notò un cambiamento nelle sue attitudini amorose. Questo non lo sorprese. Vergil ne sapeva abbastanza di psicologia per capire che quel che gli occorreva era una relazione soddisfacente, a correggere una sua tendenza alla misantropia. Candice serviva a espandere la sua personalità.

La sera si dedicava spesso a lunghi esercizi ginnici. I piedi non gli facevano più male, e si sentiva leggero. Il mondo gli sembrava un posto un tantino migliore. Anche i dolori artrosici alla schiena scomparvero, tanto che se ne dimenticò. Non ne sentiva certo la mancanza.

Vergil attribuì la maggior parte di quel suo benessere a Candice, un po’ come le chiacchiere degli adolescenti attribuiscono la scomparsa dei furuncoli alla perdita della verginità.

Di tanto in tanto la loro relazione aveva dei momenti neri. Candice lo trovava noiosissimo quando cercava di spiegarle il suo lavoro. A sua volta lui detestava la necessità di spiegarsi usando termini semplificati. Un pomeriggio fu sul punto di confessarle d’essersi iniettato i linfociti mutageni, e non lo fece soltanto perché lei esibiva già un’espressione di noia mortale. — Senti, fammi solo sapere quando avrai trovato una cura economica per l’aids — gli disse, — e allora tapperemo finalmente la bocca a tutti quei bigotti della Christian Action League.

Benché non si preoccupasse più delle malattie veneree — Candice aveva affrontato l’argomento, una sera, per convincerlo che era pulita — la notte successiva fu spaventato da uno strano disturbo: una singolare e irritante serie di forti contrazioni dei muscoli addominali. Quel sintomo scomparve però prima dell’alba, e in seguito non si ripresentò più.

Vergil intrecciò le mani dietro la nuca. Accanto a lui Candice era una flessuosa forma bianca che respirava lievemente, e il lenzuolo drappeggiava il suo corpo con la sensualità di un abito da sera studiato per scoprirla ad arte. Avevano finito di fare all’amore già da tre ore e lui era sempre lì, sveglio, a riflettere pigramente che nelle due settimane da cui s’era messo con Candice aveva avuto più rapporti sessuali che in tutto il resto della sua vita.

Questo stimolava la sua fantasia. Le statistiche lo avevano sempre interessato. In una serie di esperimenti scientifici il successo o il fallimento erano determinati dalle percentuali, come negli affari. Stava ora cominciando a pensare che il suo «esperimento» (applicata a lei la parola gli suonava strana) con Candice stava rivelandosi statisticamente un successo. La possibilità di ripetere gli stessi risultati nelle stesse condizioni era la caratteristica empirica di un buon esperimento, e dunque questo poteva definirsi…

I suoi pensieri andavano a ruota libera. Sempre più spesso trascorreva la notte a ruminare, ogni tanto dicendosi che avrebbe impiegato meglio il tempo dormendo.

Candice lo stupiva. Le donne avevano sempre stupito Vergil, che aveva avuto così scarse opportunità di conoscerle; ma sospettava che in Candice ci fosse qualcosa che lo stupiva ancora di più. Non riusciva ad avere un quadro preciso delle sue attitudini. La ragazza aveva smesso di prendere l’iniziativa in amore, tuttavia partecipava con notevole trasporto. Gli accadeva di pensare a lei come a una gatta in cerca di una nuova casa, che una volta trovato quel che voleva si accovacciava a fare le fusa senza più preoccuparsi di quel che le sarebbe accaduto l’indomani.

Né la sua capacità virile, né i suoi progetti di vita, pensava Vergil, potevano giustificare quella specie di soddisfatta indifferenza della ragazza.

Era riluttante a concludere che Candice gli fosse intellettualmente inferiore. Spesso era molto intuitiva, perspicace, e divertente da avere attorno. Ma le loro preoccupazioni esistenziali erano diverse. Candice credeva nei valori superficiali della vita: le apparenze, le consuetudini della società, ciò che l’altra gente faceva e pensava. A Vergil non importava niente di quel che pensavano gli altri, a meno che non venissero a interferire coi suoi progetti.

Candice accettava le cose e faceva esperienze. Vergil detestava tutto ciò che non poteva analizzare.

Sentiva d’invidiarla per questo. Gli sarebbe piaciuto prendersi una pausa dal suo continuo aggrovigliarsi nei pensieri, nei progetti, nelle preoccupazioni, in tutti quei processi in cui accumulava dati per agguantare nuovi punti di vista. Essere come Candice sarebbe stato come una perpetua vacanza dalla vita.

Candice, d’altra parte, certamente pensava che lui fosse un irrequieto, uno scontento. Lei portava avanti la propria vita evitando di fare piani, evitando i pensieri, ed evitando anche di farsi scrupoli… nessun rimorso e nessun ripensamento. Quando aveva capito che quell’uomo irrequieto, scontento era un disoccupato, la sua fiducia in lui era rimasta stranamente intatta. Forse, come una gatta, la sua preoccupazione per quel che non accadeva nelle immediate vicinanze era scarsissima.

E così lei dormiva, e lui stava lì a ruminare, tornando cento volte sui fatti accaduti alla Genetron, tormentandosi sulle conseguenze, sull’impulso chiaramente irragionevole che lo aveva spinto a iniettarsi i linfociti nel sangue, sulla sua incapacità di mettere a fuoco una qualsiasi futura linea di condotta. Vergil sollevò lo guardo al soffitto, poi si sfregò gli occhi per osservare i disegni luminosi eccitati nella rètina. Tolse la mano sinistra dal sedere di Candice e usò entrambi gli indici per premere l’esterno dei bulbi oculari e incrementare l’effetto. Ma quella notte sembrava che i suoi occhi non volessero intrattenerlo con giochi di luce psichedelici. La pressione non ottenne altro che una maggiore tenebra, punteggiata da lucori vaghi e lontani come l’alba su un altro continente.

Lasciato da parte quel giochetto infantile, dimentico delle sue elucubrazioni e tuttavia più che mai sveglio, Vergil si lasciò andare in uno stato d’inconsapevolezza, senza guardare niente, senza pensare a niente di concreto…

desideroso solo di evitare

nell’attesa del mattino

cercando di evitare

il ricordo di tutto ciò che aveva perduto

e di ciò che aveva appena guadagnato ma che poteva

essere perduto

mentre non era pronto

e continuava a essere irrequieto e scontento

inevitabilmente.

Era una domenica mattina, la terza settimana.

Candice gli porse una tazza di caffè bollente. Lui la fissò per alcuni istanti. C’era qualcosa che non andava nella tazza e nella mano di lei. Cercò a tentoni gli occhiali e se li mise, ma le lenti ferirono ancor di più i suoi occhi. — Grazie — borbottò, prendendo la tazza. Si appoggiò all’indietro sui cuscini, contro la spalliera del letto, e rovesciò alcune gocce di liquido marrone sulle lenzuola.

— Cosa pensi di fare, oggi? — chiese lei (Era implicito: cercherai lavoro? Ma Candice non metteva mai alla prova il suo senso di responsabilità, e non lo seccava con domande sulle sue intenzioni).

— Suppongo che cercherò lavoro — le rispose. Strizzò ancora gli occhi attraverso le lenti e mosse gli occhiali avanti e indietro tenendoli per una stanghetta.

— Io invece — disse lei — vado al Light per buttar giù un po’ di lavoro, poi farò la spesa in quel negozietto di verdure qui in fondo alla strada. Poi andrò a prepararmi il pranzo e mangerò da sola.

Vergil la fissò sorpreso, senza capire.

— Cosa c’è che non va? — domandò lei.

Mise gli occhiali da parte. — Perché vuoi pranzare da sola?

— Perché credo che tu stia cominciando a prendere troppo cose per scontate. Questo non mi va. Sento che tu mi accetti.

— Che c’è di sbagliato in questo?

— Niente — disse lei, paziente. S’era vestita e aveva sciolto i capelli, che le scendevano lunghi e luminosi sulle spalle. — Solo che non voglio far svanire il profumo.

— Profumo?

— Vedi, ogni relazione ha bisogno che la gatta tiri fuori le unghie di quando in quando. Io sto cominciando a credere che tu sia troppo buono per tirarle fuori, e questo non è bene.

— No — annuì Vergil, distratto.

— Non hai dormito questa notte? — volle sapere lei.

— No — disse Vergil. — Non molto. — Si accigliò, perplesso.

— Allora perché mi guardi così?

— Ti sto vedendo perfettamente.

— Mi vedi? Nel senso che prendi per scontata la mia presenza?

— No, voglio dire… senza gli occhiali. Posso vederti alla perfezione anche senza gli occhiali.

— Bene. Ne sono contenta — disse Candice, con insensibilità felina nei riguardi delle cose umane. — Domani ti telefono. Non preoccuparti.

— Oh, no — borbottò Vergil, sfregandosi le tempie con la punta delle dita.

Lei uscì, chiudendo la porta senza rumore.

Vergil girò lo sguardo per la camera.

Ogni cosa era meravigliosamente a fuoco. Non aveva mai visto con tale chiarezza da quando, a sette anni, il morbillo gli aveva causato l’insorgere di una miopia progressiva.

Quello era il primo miglioramento fisico che senza ombra di dubbio non poteva attribuire all’influenza positiva di Candice.

— Profumo… — mormorò, sbattendo le palpebre verso la finestra.

VI

A Vergil sembrava di aver trascorso settimane in uffici identici a quello: pareti dal lindo colore pastello, tavolo da lavoro in acciaio grigio, cestelli paralleli di documenti «evasi-da-evadere», un uomo o una donna che con pacata efficienza facevano domande dai risvolti psicologici e vagliavano le risposte. Stavolta si trattava di una donna, nitida e ben vestita, con un volto amichevole e paziente. Sulla scrivania davanti a lei c’erano i risultati di un test attitudinale e i suoi documenti di lavoro. Vergil sapeva da tempo come rispondere a quei test: quando l’esaminatore chiedeva di disegnare una scenetta evitare di eccedere nelle linee curve, evitare in modo assoluto gli oggetti acuminati o spigolosi, non disegnare gli occhi, mettere in risalto il cibo o la bellezza femminile. Indicare i propri obiettivi in termini brevi e pratici, ma con un filo di ambizione. Esibire immaginazione, ma non una fantasia sfrenata. La donna annuì fissando le carte e alzò gli occhi su di lui.

— I suoi documenti sono impeccabili, Mr. Ulam.

— Vergil, prego.

— Il suo curriculum universitario non è eccezionale, ma la sua esperienza di lavoro può senz’altro ovviare a questo. Suppongo che immagini ciò che adesso devo chiederle.

Lui allargò gli occhi con aria innocente.

— È stato un tantino vago circa quello che potrebbe fare per noi, Vergil. Mi piacerebbe saperne un po’ di più su come vorrebbe inserirsi nella Codon Research.

Lui gettò di nascosto un’occhiata all’orologio, non all’ora bensì alla data. Da lì a una settimana non ci sarebbe stata nessuna speranza o quasi di recuperare i suoi linfociti potenziati. Quella poteva davvero essere la sua ultima possibilità.

— Sono pienamente qualificato per qualunque lavoro di laboratorio, sia in fase di ricerca sia in fase industriale. La Codon Research ha ottenuto buoni risultati coi prodotti farmaceutici, e questo m’interessa, ma credo di potervi aiutare in ogni programma circa i biochip che intendiate sviluppare.

Gli occhi della direttrice del personale si strinsero di una frazione di millimetro. Non me la fai, pensò, la Codon Research sta già saltando sui biochip.

— Noi non abbiamo in programma di dedicarci ai biochip, Vergil. Tuttavia vedo qui che ha fatto un notevole lavoro coi prodotti collegati ai farmaceutici. Si è occupato di colture di tutti i generi. È il caso di dire che sarebbe prezioso per noi ma anche per una fabbrica di birra. — Era una versione annacquata di una vecchia battuta sulle fabbriche di vino. Vergil sorrise.

— C’è un problema, però. La valutazione che le hanno dato altre ditte in materia di sicurezza è di grado assai alto, ma quella che le ha affibbiato la Genetron, l’ultima presso cui ha lavorato, è disastrosa.

— Le ho spiegato che c’è alla base un conflitto di personalità…

— Sì, e di norma noi non siamo pignoli su questi particolari. La nostra compagnia è diversa dalle altre; infine, e se tutti i documenti di un potenziale dipendente sono soddisfacenti (e i suoi lo sono) non diamo peso a certe valutazioni altrui. Ma qualche volta io devo affidarmi all’istinto, Vergil. E qui c’è qualcosa che non mi torna. Lei ha lavorato ai programmi della Genetron per i biochip.

— In ricerche collaterali.

— Sì. Ci sta offrendo l’esperienza che ha acquisito alla Genetron? E questo è come dire: intende spiattellare i segreti del suo precedente datore di lavoro?

— Sì, e no — disse lui. — Prima di tutto, io non ero al centro del programma per i biochip. Non ero a conoscenza delle informazioni più riservate. Posso però offrirvi i risultati delle mie ricerche personali. Dal punto di vista legale, circa il lavoro privato che il contratto con la Genetron mi concedeva di fare, sono libero di mettere questi risultati a disposizione altrui. Ma c’è la complicazione che essi sono anche parte del lavoro di routine che ho fatto alla Genetron. — Sperò che quel seme cadesse su un terreno fertile. In esso c’era una menzogna — virtualmente sapeva tutto ciò che c’era da sapere sui biochip della Genetron — ma anche una verità, dal momento che sentiva che adesso lo stesso concetto dei biochip era sorpassato, nato morto.

— Mmh, mmh. — La donna tamburellò con le dita sui documenti. — Devo essere franca con lei, Vergil. Forse più franca di quello che è stato con me. Per noi rappresenta un po’ un’incognita, ma saremmo disposti a correre il rischio di assumerla… se non fosse per un particolare. Mr. Rothwild, della Genetron, è mio amico. Un amico di vecchia data. E mi ha passato alcune informazioni che peraltro si possono dire confidenziali. Non ha fatto nomi, e certo non poteva immaginare che un giorno lei si sarebbe trovato davanti alla mia scrivania. Ma mi ha detto che qualcuno alla Genetron stava lavorando su batteri NIH artificiali, e alterando il DNA di cellule di mammiferi. Sospetto fortemente che quel qualcuno sia lei. — Sorrise piacevolmente. — È così?

Nessun altro era stato licenziato o aveva abbandonato spontaneamente la Genetron da un anno a quella parte. Lui annuì.

— Era piuttosto indignato. Dice che lei è brillante, ma che darebbe dei guai a ogni compagnia che la assumesse. Ha detto d’averla minacciata di metterla sulla lista nera. Ora io so, e lui sa, che una minaccia del genere oggi non significa molto, per via delle leggi sul lavoro e degli interessi legati alla concorrenza. Ma in questa particolare occasione capita, per un caso, che la Codon Research sappia su di lei più di quel che ci farebbe piacere sapere. Glielo dico francamente perché non ci siano malintesi. E non rivelerò niente di tutto questo, anche se mi fosse richiesto. La vera ragione per cui non posso approvare la sua assunzione sta nel profilo psicologico. I suoi disegni sono troppo spaziati l’uno dall’altro, e indicano un’insana predisposizione all’autoisolamento. — Gli porse i suoi documenti. — Le sembra esatto?

Vergil annuì. Prese i fogli ed esitò. — Non conoscete Rothwild come pensate — disse. — Questo mi è già successo sei volte.

— Sì, be’, Mr. Ulam, la nostra è un’industria in crescita, è nata appena una quindicina di anni fa. Su certi argomenti le ditte private collaborano su una base di fiducia. Ufficialmente devono darsi una mano, anche se dietro le quinte si tagliano la gola a vicenda. È stato interessante parlare con lei, Mr. Ulam. Buongiorno.

All’esterno si volse a guardare la grande facciata della Codon Research, bianca nella luce accecante. Tanto per guardare cosa sto perdendo, pensò.

L’intero esperimento presto sarebbe svanito nel nulla. E forse non valeva neppure più la pena di prendersela tanto.

VII

Stava guidando l’auto verso nord, fra collinette dorate su cui sorgevano vecchie querce contorte, aggirando laghetti cerulei e profondi ancora limpidi dopo le ultime piogge primaverili. L’estate non era mai stata così mite, e anche nell’entroterra la temperatura era sotto i venticinque gradi.

La Volvo rombò dolcemente lungo gli interminabili rettilinei della Statale 5, attraverso i campi di cotone e poi le verdi distese coltivate ad arachidi. Vergil tagliò sulla 580 per aggirare i sobborghi di Tracy, con la mente del tutto vuota e gli automatismi della guida come una panacea per le sue preoccupazioni. Dozzine di enormi generatori a vento sorgevano sui due lati della strada, con le braccia elicoidali larghe la metà di un campo di calcio.

Non s’era mai sentito meglio in vita sua, e questo gli dava da pensare. Da due settimane non starnutiva, al culmine della stagione-madre delle allergie. L’ultima volta che aveva visto Candice, per dirle che stava andando a far visita a sua madre, la ragazza aveva commentato il fatto che non starnutiva più e che il colore della sua pelle aveva acquistato tono, facendosi più sano e rosato.

— Ogni volta che ti guardo sei più attraente, Vergil — aveva sorriso, baciandolo. — Torna presto. Mi mancherai.

Ci vedeva meglio, si sentiva meglio… apparentemente senza giustificazione. Il suo sentimentalismo non era certo tale da fargli credere che l’amore curava tutto, anche volendo definire amore quel che provava per Candice. Cos’era dunque?

Qualcos’altro.

Non aveva alcuna voglia di pensarci, e si concentrò sulla guida. Dieci ore più tardi, quando girò nella South Vasco Road verso le colline, era però ancora tormentato da un vago senso di fastìdio. Scese sulla destra in East Avenue ed entrò nella parte bassa di Livermore, una cittadina californiana dalle case in pietra e mattoni rossi, i cui sobborghi s’erano estesi a circondare le vecchie fattorie di legno ora assediate dalle luci al neon e dai supermarket. Appena fuori città sorgeva il Lawrence Livermore National Laboratory, dove si progettavano armi nucleari.

Si fermò al Guinevere’s Pizza Parlor, e si costrinse a ordinare una pizza coi funghi, insalata e Coca Cola. Mentre ne aspettava l’arrivo, seduto in uno dei separé pseudo-medievali, si chiese oziosamente se i Laboratori Livermore avessero impianti che lui potesse utilizzare. Chi era più vicino al Dottor Stranamore: i fabbricanti di armi o il buon vecchio Vergil I. Ulam?

La pizza arrivò, e i suoi occhi vagarono sull’abbondante condimento di cui era coperta. — Una volta questa roba ti piaceva — si disse, sottovoce. Spilluzzicò appena la pizza e finì l’insalata. Lasciando sul tavolo metà del cibo ordinato si pulì la bocca, sorrise alla ragazza dietro il registratore di cassa e risalì in macchina.

Vergil non era mai troppo impaziente di rivedere sua madre. In un certo modo, imprecisabile e irritante, aveva bisogno di quelle visite saltuarie, ma non ne godeva molto.

April Ulam abitava in una secolare ma ben tenuta casa a due piani, in fondo alla First Street. L’edificio era dipinto in verde scuro e inalberava un tetto a mansarda. Due piccoli spazi coltivabili cintati da una cancellata fiancheggiavano gli scalini dell’ingresso, uno tenuto a giardino e l’altro a orto. La veranda era interamente schermata, con una porta a vetri montata su cardini cigolanti e fornita di una chiusura a molla ancor più cigolante. L’ingresso principale era un’austera porta di quercia sulla facciata, sormontata da una finestrella semicircolare, con un batacchio a forma di testa di leone.

Nessuna di quelle antiquate comodità stonava in una vecchia casa di una cittadina della California. Un colpo del batacchio bastò per far apparire sulla soglia sua madre, una donna svelta e snella dai capelli neri appena ingrigiti alle tempie, che quel giorno indossava un abito di seta color lavanda, a fiori, e due scarpette dorate a tacco alto. Salutò Vergil con un abbraccio intiepidito da una naturale riservatezza, e poi lo condusse all’interno stringendogli una mano con le sue dita fredde e sottili.

Nel soggiorno la donna sedette su una poltrona rivestita di velluto argenteo, allargando la leggera gonna floreale attorno a sé. Il locale si adattava bene al resto della casa, poiché era stato ammobiliato da una donna anziana (l’inquilina precedente) con articoli che sembravano messi insieme durante una vita lunga e piuttosto interessante. A lato della poltrona c’era un divano rigonfio, con un’imbottitura a fiorellini blu, e di fronte un tavolino d’ottone sul cui piano erano incisi in cerchi concentrici alcuni proverbi arabi. In tre degli angoli c’erano lampade in stile Tiffany, mentre nel quarto campeggiava una statua cinese Kwan-Yin scolpita in un tronco di tek alto due metri. Suo padre — a cui nelle conversazioni ci si riferiva solo come «Frank» — l’aveva portato da un viaggio a Taiwan, e Vergil, che all’epoca aveva tre anni, ne era rimasto spaventato a morte.

Frank li aveva abbandonati tutti e due nel Texas, quando Vergil aveva dieci anni. In seguito s’erano trasferiti in California. Sua madre non s’era risposata, dichiarando che preferiva essere libera. Vergil non era neppure sicuro che lei e suo padre avessero divorziato. Lo ricordava come un uomo scuro e magro, dal volto duro e dalla voce secca, poco intelligente e intollerante, fornito di una risata tonante con cui sottolineava i momenti in cui gli altri erano ansiosi o indispettiti. Neppure da adulto era mai riuscito a immaginare sua madre e suo padre a letto insieme, e non capiva come avessero potuto far vita comune per undici anni. Non aveva mai sentito la mancanza di Frank, se non in via puramente speculativa: la mancanza di un padre, dell’immaginaria condizione di avere un padre con cui parlare, da aiutare nei lavoretti, alla cui saggezza appoggiarsi nei suoi crucci di bambino. Ciò di cui aveva sempre sentito la mancanza era un padre di quello stampo.

— E così sei disoccupato — disse April, studiando il figlio con l’espressione che dedicava alle seccature di media entità.Vergil non aveva detto una parola del suo licenziamento, e non le chiese neppure come ne fosse a conoscenza. April Ulam aveva sempre avuto una mente acuta e un intuito che le consentiva di leggere molte cose sulla faccia di suo figlio, specialmente il particolare genere di guaio in cui riusciva a cacciarsi dopo il precedente.

Annuì. — Da cinque settimane.

— Qualche prospettiva?

— Nessuna che io possa vedere.

— Una volta non eri così pessimista sul tuo valore.

— Una volta non davo tanto valore al mio pessimismo.

Lei sorrise; ora le schermaglie verbali potevano cominciare. Suo figlio era sempre sveglio e spiritoso, quali che fossero gli altri suoi difetti. Non la rattristava saperlo disoccupato: quello era semplicemente il modo in cui andavano le cose, e lui avrebbe bevuto o sarebbe affogato. Nel passato, a dispetto di ogni difficoltà, aveva visto suo figlio restare sempre a galla, magari sputacchiando acqua e con goffe bracciate, ma non era andato mai sotto.

Non gli era mai capitato di doverle chiedere un po’ di soldi da quando era andato via di casa, dieci anni prima.

— Dunque sei venuto a vedere come se la cava la tua vecchia mamma.

— Come se la cava l’anulare della mia vecchia mamma?

— Libero, come al solito — disse lei. — Sei proposte di arricchirlo con un cerchietto nell’ultimo mese. È terribile diventare vecchi e non riuscire ad accorgersene, Verge.

Vergil ridacchiò e scosse il capo, sapendo che lei si aspettava proprio questo. — Qualche prospettiva?

Lei assunse un’aria ironica. — Neppure vaga. Nessuno può sostituire Frank… grazie al cielo.

— Mi hanno dato il benservito perché facevo esperimenti miei personali — le disse. Lei annuì e chiese se voleva il tè, vino o una birra. — Una birra, grazie — rispose.

Lei indicò la cucina. — Il frigorifero è al solito posto.

Vergil trovò una lattina di Dos Equis, asciugò il velo d’umidità con una manica e tornò in soggiorno. Sedette in una poltrona dallo schienale largo e bevve una lunga sorsata.

— Non apprezzavano le tue brillanti capacità? Scosse il capo. — Nessuno mi capisce, mamma.

Lei si volse alla finestra e fece un sospiro. — Neppure io. Ti aspetti di trovare un lavoro entro breve tempo?

— Questo me l’hai già domandato.

— Pensavo che chiedendotelo in modo diverso forse avresti trovato una risposta diversa.

— La risposta sarebbe la stessa anche se me lo chiedessi in Swahili. Non ne posso più di lavorare per qualcun altro.

— Il mio triste e incompreso figliolo.

— Mamma! — sospirò lui, vagamente irritato.

— Di cosa ti stavi occupando?

Le fece un breve resoconto dell’accaduto, del quale lei comprese poco salvo i punti essenziali. — Volevi imbastire un affare alle loro spalle, allora.

Lui annuì. — Se avessi potuto disporre di un altro mese, e se Bernard avesse visto… tutto sarebbe andato liscio come l’olio. — Spesso era evasivo con sua madre. Era imperturbabile, difficile da trattare e ancor più difficile da prendere in giro.

— E ora non saresti qui a far visita alla tua vecchia e stanca madre.

— Probabilmente no. — Vergil scrollò le spalle. — Inoltre c’è una ragazza. Voglio dire una donna.

— Se lascia che tu la chiami ragazza, non è una donna.

— È piuttosto indipendente. — Per un po’ le parlò di Candice, del suo iniziale anticonformismo e del suo graduale aderire a schemi più domestici. — Ormai mi sto abituando ad averla attorno. Cioè, non stiamo convivendo. Siamo in uno stadio in cui cerchiamo di scoprire se la cosa potrebbe funzionare. E io ho un’esperienza insuperabile come animale domestico. — April annuì e gli chiese di portarle una birra. Lui trovò una bottiglia ancora chiusa di Anchor Steam.

— Le mie unghie non sono abbastanza dure — disse lei.

— Oh! — Vergil tornò in cucina e la stappò.

— Dunque. Cosa ti aspetti che faccia per te un barone della chirurgia cerebrale come Bernard?

— Non si occupa di chirurgia cerebrale. Da anni s’interessa alla IA.

— IA?

— Intelligenza artificiale.

— Ah! — Lei ebbe un radioso sorriso di comprensione. — Sei disoccupato — riassunse, — forse innamorato, senza prospettive economiche. Riscalda fino in fondo il cuore della tua genitrice: c’è qualcos’altro che non mi hai detto?

— Sto sperimentando su me stesso, credo.

April spalancò gli occhi. — E come?

— Be’, quelle cellule che ho mutato. Per portarmele via ho dovuto iniettarle nel mio corpo. E da allora non ho potuto mettere piede in nessun laboratorio adatto. Così non le ho ancora recuperate.

— Recuperate?

— Separate dalle altre. Ce ne sono miliardi, mamma.

— Se queste cellule sono tue, perché te ne preoccupi?

— Non noti nulla di cambiato?

Lo scrutò un poco. — Non sei più così pallido, e ho visto che ora porti le lenti a contatto.

— Non ho nessuna lente a contatto.

— Allora è segno che hai smesso con quella tua insana abitudine di leggere al buio. — Scosse la testa. — Non ho mai capito la passione che ti spinge a maneggiare provette pieni di microbi e sostanze disgustose.

Vergil ebbe un sorriso incredulo. — Mi sbalordisci — disse. — E se non riesci a vedere quanto sia importante, allora…

— Non fare commenti screanzati sulla mia cecità mentale. Può darsi che io abbia dei pregiudizi, ma non intendo barattarli con altri ancora peggiori. Non quando vedo il mondo andare dove sta andando oggi a causa di gente con le tue stesse inclinazioni intellettuali. Gente che nelle loro fabbriche e nei laboratori ogni giorno fa un passo avanti verso il Giorno del Giudizio…

— Non condannare tutti gli scienziati basandoti su di me, mamma. Io non sono un tipico esponente della categoria. Sono un po’ più… — Lasciò a metà la frase e sogghignò. Lei di rimando inarcò un sopracciglio, nell’espressione che Vergil non era mai riuscito a decifrare.

— Un po’ più matto — gli disse.

— Non ortodosso — la corresse Vergil.

— Non capisco dove vuoi arrivare, Vergil. Che razza di cellule sono quelle? È roba che hai estratto dal tuo sangue per lavorarci sopra, hai detto. E allora?

— Possono pensare, mamma.

Sempre imperturbabile, lei non mostrò alcuna reazione. — Insieme… voglio dire tutte loro, o ciascuna per conto suo?

— Ciascuna per conto suo. Anche se negli ultimi esperimenti tendevano a raggrupparsi insieme.

— E sono amichevoli?

Vergil alzò al soffitto uno sguardo esasperato. — Sono dei linfociti, mamma. Non vivono certo nel nostro stesso mondo. Non possono essere ostili o amichevoli nel senso che diamo a queste parole. Per loro tutto è una reazione chimica.

— Se possono pensare vuol dire che sentono qualcosa, a meno che la mia esperienza di vita non sia balorda. O a meno che non siano come Frank. Naturalmente lui non era considerato granché, perciò il paragone non è esatto.

— Non ho mai avuto il tempo di scoprire a chi o cosa somiglino, né se riescano a ragionare secondo… quello che è il loro potenziale.

— Qual è il loro potenziale?

— Sei certa che capiresti una cosa simile?

— Ho l’aria di una che questi argomenti non li capisce affatto?

— Sì. O almeno ho i miei dubbi. Comunque non so quale sia il loro potenziale. È enorme, direi.

— Verge, c’è sempre un metodo nella tua follia. Cosa conti di guadagnare da questa faccenda?

La domanda lo bloccò. Non era mai riuscito a comunicare a quel livello — il livello delle ambizioni e degli scopi — con sua madre. Lei non capiva la sua necessità di portare a termine qualcosa di valido. Per lei ambizioni e scopi significavano non far ringhiare i vicini di casa troppo spesso. — Non lo so. Forse niente. Lasciamo perdere.

— Lascerò perdere. Dove andiamo a cena, stasera?

— Mangiamo un boccone al Moroccan.

— Mentre fanno la danza del ventre. Certo.

Di tutte le cose che non capiva di April, il culmine era rappresentato dalla camera da letto della sua infanzia. Coi giocattoli, il letto, i mobili, i poster alle pareti, la stanza era conservata non com’era quando lui se n’era andato, ma com’era stata quando lui aveva dodici anni. I libri letti a quell’età erano stati tolti dalle scatole in solaio, e allineati sul piccolo scaffale che un tempo era servito per i suoi libri scolastici. Quaderni, romanzi di fantascienza e fumetti convivevano ora coi pochi testi scientifici e di elettronica rimasti in casa.

Manifesti cinematografici — ormai già con un certo valore d’antiquariato — mostravano Robbie il Robot con sottobraccio una Anne Frances di dimensioni molto ingrandite nello scenario irreale di un pianeta alieno; Cristopher Lee con occhi arrossati e sogghignanti canini acuminati; il volto teso e stupefatto di Keir Dullea all’interno del suo elmetto spaziale.

A diciannove anni aveva staccato via tutti quei poster, arrotolandoli sul fondo di un baule. April li aveva tirati fuori dopo che lui era partito per il college.

Aveva anche resuscitato il suo scendiletto coi cacciatori e i cani. Il letto stesso aveva la familiarità delle cose lasciate nel dimenticatoio e lo seduceva col sapore di una fanciullezza che non era certo d’aver mai avuto veramente.

Ricordava gli anni della sua prima adolescenza come un’epoca di continue paure e angosce. Paure d’essere una specie di anormale, e d’essere stato in qualche modo responsabile della fuga di suo padre; angoscia per l’obbligo di doversi misurare con gli altri a scuola. E, misti a quei timori, momenti di esaltazione. L’euforia e la meraviglia che aveva provato nell’arrotolare una striscia di carta, unendone le estremità a formare il suo primo nastro di Moebius; il suo formicaio nella cassetta di vetro, le eliche a moto perpetuo mosse dal calore; il giorno in cui aveva trovato tutti i fascicoli degli ultimi dieci anni di Scientific Americans accanto a un bidone di rifiuti in una strada dietro casa sua.

Nella penombra della stanza, già mezzo addormentato, sentì una fitta alla colonna vertebrale. Si massaggiò la schiena distrattamente, poi con un’imprecazione si tirò a sedere sul letto e continuò a massaggiarsi con ambo le mani attraverso il pigiama, dall’alto in basso, nel tentativo di lenire il dolore.

Si portò le dita alla faccia e la tastò. La sentiva del tutto sconosciuta, la faccia di qualcun altro: zigomi estranei, guance misteriose, naso e labbra troppo sporgenti. Ma quando provò con l’altra mano la sentì normale. Unì le dita di entrambe le mani. La sensazione aveva qualcosa di sbagliato. Una mano era molto più sensibile del solito, l’altra quasi anestetizzata.

Col fiato mozzo e accelerato Vergil scese dal letto, attraversò il pianerottolo in cima alle scale e accese la luce nel bagno. Un dolore insopportabile gli attanagliava il torace. Dai piedi alle ginocchia gli correvano fremiti simili a miriadi di morsi di formiche. Non s’era mai sentito così male da quando aveva avuto la varicella, a dieci anni, un mese prima che suo padre se ne andasse. Tremante e quasi incapace di pensare si strappò via di dosso il pigiama e aprì la doccia, sperando di trovare sollievo sotto il getto d’acqua fredda.

La vecchia doccia sputacchiava stanchi rivoli d’acqua che gli scendevano lungo la testa e il collo, le spalle e la schiena, suddividendosi in filamenti giù per l’addome e le gambe. Entrambe le mani era adesso deliziosamente, dolorosamente sensibili, e l’acqua svegliava in esse centinaia di punture d’ago, calde e fredde, roventi e gelide. Allargò le braccia in fuori e gli parve di afferrare l’aria stessa come un oggetto solido pieno di protuberanze.

Per quindici minuti rimase sotto la doccia, ansimando di sollievo mentre il dolore calava, sfregandosi le zone ipersensibili della pelle coi polsi e il dorso delle mani fino a lasciarsi chiazze di forte rossore. Le mani cominciarono a formicolargli, poi quella sensazione si smorzò nel pulsare del sangue che tornava a circolare normalmente.

Chiuse il rubinetto e si asciugò, quindi si appoggiò al davanzale della finestra, nudo, lasciandosi investire dalla corrente d’aria fresca e ascoltando il frinire dei grilli. — Oh, Cristo! — sussurrò con enfasi. Si girò a esaminarsi nello specchio del bagno. Sul petto aveva numerose chiazze rosse lasciate dalla violenza con cui s’era grattato. Da sopra una spalla si osservò la schiena.

Da una scapola all’altra in un intreccio che gli scendeva lungo la colonna vertebrale vide una quantità di strisce pallide simili a una mappa stradale, proprio sotto la superficie dell’epidermide. Intanto che cercava di esaminarle meglio svanirono lentamente finché, confuso, fu costretto a chiedersi se le avesse viste davvero.

Col cuore che continuava a pulsargli forte Vergil sedette sulla tazza del gabinetto e appoggiò il mento sulle mani, fissandosi i piedi scalzi. Adesso che riusciva a pensare si sentiva spaventato.

Riuscì ad emettere una risata rauca, amara.

— Hai messo quei pargoletti al lavoro, mh? — chiese a se stesso in un sussurro.

— Vergil, ti senti bene? — chiese sua madre dall’altra parte della porta del bagno.

— Sì, sto bene — rispose lui. Bene e sempre meglio, ogni giorno.

— Non capirò mai gli uomini finché avrò vita e respiro — disse sua madre, versandosi un’altra tazza di caffè nero. — Sempre ad almanaccare qualcosa, sempre a cacciarsi nei guai.

— Io non sono nei guai, mamma. — Quelle parole non suonarono convincenti neppure a lui.

— No?

Scrollò le spalle. — Godo di buona salute, posso permettermi di stare alcuni mesi senza lavoro… e qualcosa dovrà pur succedere.

— Finora non ne hai neppure la speranza.

Questo era abbastanza vero. — Devo superare un po’ di depressione — disse, ed era un’aperta menzogna.

— Balle — replicò April. — Tu non sei mai stato depresso in vita tua. Non sai neppure cosa significa. Dovresti provare a essere una donna per qualche anno, e poi me lo sapresti dire.

Il sole mattutino indorava le sottili tende della finestra e riempiva la cucina di un piacevole tepore. — Qualche volta ti comporti come se io fosse un muro di mattoni — brontolò Vergil.

— Qualche volta lo sei. Santo cielo, Verge, sei mio figlio. Ti ho dato io la vita (penso che si possa sorvolare sul contributo di Frank) e ti ho allevato fino all’età di ventidue anni. Ma non sei mai cresciuto, almeno per quel che riguarda la tua sensibilità emotiva. Sei un ragazzo brillante, però non sei del tutto completo.

— E tu — sogghignò lui, — sei un pozzo di saggezza e di comprensione.

— Non punzecchiare chi è più anziano di te, Vergil. Io ti capisco e ti sono accanto più di quanto meriti. Ora sei in un grosso guaio, non è vero? Questo esperimento.

— Vorrei che tu non battessi su questo tasto, sul fatto che io sono lo scienziato e che mi sono iniettato qualcosa e così via… — Chiuse la bocca con una smorfia e intrecciò le braccia sul petto. Tutto cominciava ad apparirgli più spiacevole che mai. I linfociti che s’era iniettato erano senza dubbio ormai morti o decrepiti. Nelle provette avevano subito profonde mutazioni, probabilmente avevano acquisito un’incompetibilità con gli altri anticorpi e già da qualche settimana erano stati attaccati e divorati dai loro immutati ex fratelli. E ogni altra supposizione, semplicemente, non era suffragata da prove. La notte prima lui non aveva avuto altro che una complessa reazione allergica. Perché doveva mettersi a discutere proprio con sua madre la possibilità che…

— Verge?

— È stato bello vederti, April, ma penso che adesso farei meglio ad andare.

— Quanto tempo ti resta?

Alzandosi lui la fissò, scosso. — Non sto morendo, mamma.

— Per tutta la vita mio figlio ha lavorato per giungere al suo momento supremo. Ho la sensazione che sia arrivato, Verge.

— Queste sono sciocchezze, pura follia.

— Tu non hai fatto altro che dirmi cose folli, figliolo. Io non sono un genio, ma neppure una stupida. Hai affermato d’aver creato dei batteri intelligenti, e allora io ti dico questo… chiunque abbia disinfettato un gabinetto o pulito un secchio della spazzatura può rabbrividire all’idea di microbi che pensano. Cosa succederebbe se volessero combatterci, Verge? Rispondi questo alla tua vecchia mamma.

Non c’era nessuna risposta. Vergil non era neanche certo che il soggetto di quella discussione fosse in vita: tutto gli sembrava insensato. Ma avvertì una contrazione alla bocca dello stomaco.

Era già passato attraverso quel rituale, mettendosi nei guai e poi facendo visita a sua madre, a disagio e incerto, senza sapere neanche quale fosse precisamente il guaio. Con immancabile regolarità lei aveva sempre osservato la cosa da un altro punto di vista e identificato il suo problema, presentandoglielo in modo da farlo divenire inevitabile. Questo non era un servizio che riusciva a fargliela amare di più, ma la rendeva preziosa per lui.

Si fermò ad accarezzarle un braccio. Lei si volse e gli prese la mano fra le sue. — Vai via adesso?

— Sì.

— Quanto tempo ci resta, Vergil?

— Cosa? — Non capì cosa volesse dire realmente, ma d’un tratto gli occhi gli si riempirono di lacrime e fu scosso da un tremito.

— Ritorna da me, se puoi — disse lei.

Terrorizzato lui raccolse la valigetta, preparata la sera prima, corse giù per gli scalini fino alla Volvo, spalancò il baule e ve la gettò dentro. Aggirando l’auto batté malamente un ginocchio nel paraurti. La fitta di dolore gli salì lungo la gamba, poi rapidamente svanì. Sedette al volante e avviò il motore.

Sua madre era in piedi sulla porta della veranda, la gonna di seta che fluttuava nella lieve brezza mattutina, e dopo aver ingranato la marcia Vergil le fece un cenno con la mano. Normalità, pensò. Saluti tua madre. Parti.

Parti, sapendo che tuo padre non è mai esistito, e che tua madre è una strega. E questo cos’ha fatto di te?

Scosse il capo finché la vista non cominciò a confonderglisi, riuscendo in qualche modo a tenere l’auto in linea retta lungo la strada.

Una sottile cresta bianca si stagliava sul dorso della sua mano sinistra, come una cordicella appiccicata all’epidermide con del muco.

VIII

Un insolito temporale estivo aveva lasciato il cielo striato di nuvole, l’aria fresca, e la finestra della camera da letto dell’appartamento rigata di gocce d’acqua. La risacca del mare si udiva anche da quattro isolati di distanza: un mormorio intercalato dallo scrosciare dei cavalloni. Vergil sedeva davanti al suo computer, il palmo di una mano poggiato sul bordo della tastiera, le dita chiuse. Sul VDT una molecola di DNA roteava e si evolveva, circondata da una nebbia proteica. Piccoli lampi sulla struttura a doppia elica di zuccheri e fosfati indicavano le rapidissime intrusioni degli enzimi, che si disseminavano nei punti in cui la molecola codificava con essi. Una colonna di cifre scorreva lungo il bordo inferiore dello schermo. Gli occhi di lui le fissavano senza troppa attenzione.

Avrebbe dovuto parlare al più presto con qualcuno. Qualcuno che non fosse sua madre, e certo non Candice. La ragazza s’era trasferita da lui una settimana dopo il suo ritorno da Livermore, e ora si incaricava dei lavori domestici e di preparargli i pasti con ferma decisione.

A volte uscivano a far compere insieme, cosa che li divertiva. A Candice piaceva aiutare Vergil nella scelta dei vestiti più alla moda, e lui la lasciava fare, anche sapendo che la cosa intaccava il suo già scarso conto in banca.

Quando la ragazza gli faceva domande su cose che a lei non piacevano, i suoi silenzi si facevano sempre più prolungati. Si meravigliava che lui insistesse per fare all’amore al buio.

Suggeriva che andassero alla spiaggia, ma Vergil cambiava discorso.

Si preoccupava per tutto il tempo che lui trascorreva sotto le nuove lampade che aveva comprato.

— Verge? — Candice apparve sulla porta della camera da letto, vestita con un abito aderente ricamato di rose.

— Non chiamarmi così. È già abbastanza che lo faccia mia madre.

— Scusa. Abbiamo deciso di andare a cavalcare al parco degli animali. Ricordi?

Vergil si poggiò un dito sui denti e mordicchiò l’unghia. Parve non averla affatto udita.

— Vergil?

— Non mi sento molto bene.

— Non esci mai. Ecco perché.

— In questo momento mi sento bene — disse lui, girando la sedia. La fissò, senza offrirle una spiegazione a quella frase.

— Be’, non ti capisco.

Le indicò lo schermo. — Non hai mai lasciato che te lo spiegassi.

— Perché ti arrabbi quando io non capisco. — Candice s’imbronciò.

— È più di quanto io abbia mai creduto possibile.

— Che cosa, Vergil?

— Le concatenazioni. Le combinazioni. La forza.

— Per favore, sii chiaro.

— Sono in trappola. Sedotto, ma non abbandonato.

— Io non ti ho esattamente sedotto…

— Non tu, dolcissima — disse distrattamente lui. — Non tu.

Candice si accostò al tavolo cautamente, quasi che lo schermo potesse mordere. I suoi occhi erano un po’ persi nel vuoto e si mordicchiava il labbro inferiore. — Tesoro…

Lui stava annotando le cifre che apparivano sul VDT.

— Vergil.

— Mmh?

— Hai fatto qualcosa sul lavoro? Voglio dire prima che tu lo lasciassi, prima che ci incontrassimo.

Lui rialzò il capo, girandosi a fissarla dolcemente.

— Ad esempio coi computer? Ti è preso un attacco di follia e hai spremuto i loro computer?

— No — ghignò lui. — Non ho spremuto niente. Ho spremuto un po’ loro, forse, ma niente che possano mai scoprire.

— Perché ho conosciuto un tipo, una volta. Aveva fatto qualcosa di illegale e cominciò a comportarsi stranamente. Non usciva di casa e non parlava molto. Proprio come te.

— E che aveva fatto? — chiese Vergil, seguitando ad annotare cifre.

— Aveva rapinato una banca.

La sua penna s’immobilizzò. Sollevò gli occhi. Candice stava piangendo.

— Io gli volevo bene e quando l’ho scoperto ho dovuto lasciarlo — disse la ragazza. — È che non posso vivere con uno che fa queste cose.

— Non preoccuparti.

— Ero già sul punto di lasciarti, poche settimane fa — continuò lei. — Pensavo che quello che potevamo fare insieme, tu e io, lo avevamo già fatto, e che non c’era altro. Ma questo era idiota. Non avevo mai incontrato uno come te. Tu eri… pazzo. Pazzo simpatico, non un pazzo con la testa cattiva come altri che ci sono in giro. E ho pensato che se avessimo potuto capirci veramente questo sarebbe stato meraviglioso. Ti sono stata ad ascoltare quando mi spiegavi qualcosa, perché forse avresti potuto insegnarmi un po’ di biologia e di elettronica. — Accennò allo schermo. — Potrei cercare di ascoltarti. Mi piacerebbe, sul serio.

La bocca di Vergil si aprì lentamente. La richiuse di colpo e fissò lo schermo, sbattendo le palpebre più volte.

— Ho capito che ti amavo. Quando sei andato a casa di tua madre. Non è strano?

— Candice…

— E se tu avessi fatto qualcosa di davvero brutto questo ferirebbe me adesso, non te. — Si fece indietro coi pugni premuti alla base del collo, come se si stesse colpendo da sola, lentamente.

— Io non voglio fare del male a nessuno — disse Vergil.

— Lo so. Non è questa la tua intenzione.

— Potrei spiegarti tutto, se solo sapessi cosa sta succedendo a me. Ma non lo so. Non ho fatto nulla per cui potrebbero mettermi in prigione. Nulla d’illegale. — Salvo falsificazioni di documenti e registrazioni.

— Non puoi farmi credere che niente ti preoccupa. Perché non possiamo parlarne? — Andò a prendere una seggiola pieghevole nel bagno e la aprì, poggiandola a un paio di metri dal tavolo, poi sedette con le ginocchia compostamente unite.

— Ho detto sul serio. Non so cosa sia.

— Hai fatto qualcosa… a te stesso? Voglio dire, hai preso qualche malattia in quel laboratorio, o qualcosa del genere? Ho sentito dire che succede, e che medici e scienziati lavorando con le malattie a volte si contagiano.

— Tu e mia madre — sospirò lui, scuotendo il capo.

— Siamo preoccupate. Pensi che conoscerò tua madre?

— Per qualche tempo probabilmente no.

— Mi spiace che… — Lei si morse le labbra. — Voglio soltanto che esista la sincerità fra noi.

— Questo è giusto — annuì lui.

— Vergil?

— Sì?

— Tu mi ami?

— Sì — disse lui, e fu sorpreso nel sentire che era vero, anche se non aveva distolto gli occhi dallo schermo.

— Perché?

— Perché siamo molto simili — le disse. Non era del tutto certo di come fosse giunto a quella conclusione; forse perché entrambi portavano il marchio dei falliti, o di coloro che comunque non sarebbero mai emersi… il che per Vergil era l’equivalente del fallimento.

— Oh, andiamo!

— Sul serio. Forse tu non te ne sei accorta.

— Io non sono intelligente come te, questo è certo.

È questo ciò che stanno scoprendo quei minuscoli globuli bianchi? La sofferenza legata all’intelligenza, alla necessità di sopravvivere?

— Ti va di fare un giro in macchina oggi? Potremmo fermarci da qualche parte per un picnic. C’è il pollo freddo avanzato da ieri sera.

Lui annotò l’ultima colonna di cifre e capì che ora sapeva quello che aveva desiderato conoscere. I linfociti potevano senz’altro trasmettere la loro struttura biologica ad altri tipi di cellule.

Avevano modo di fare facilmente ciò che aveva sospettato gli stessero facendo.

— Sì — disse. — Un picnic sarebbe favoloso.

— E poi, quando saremo tornati… con le luci accese?

— Perché no? — Lei avrebbe dovuto sapere, prima o poi. E lui avrebbe trovato qualche scusa per spiegare il reticolo di linee bianche. Le creste sporgenti e mucose s’erano appiattite fin da quando aveva cominciato a irradiarle con le lampade UV, un piccolo favore di cui ringraziava Iddio.

— Ti amo — disse lei, immobile sulla sedia e continuando a guardarlo.

Lui registrò nella memoria elettronica la grafica e i calcoli, e spense il computer. — Te ne sono grato — disse sottovoce.

PROFASE

OTTOBRE-DICEMBRE

IX

Irvine, California

Erano trascorsi due anni dall’ultima volta che Edward Milligan aveva visto Vergil. Adesso stentava a riconoscere il giovanotto abbronzato ed elegante che veniva sorridendo verso di lui. Il giorno prima s’erano accordati telefonicamente di pranzare insieme, dandosi appuntamento nel bar degli impiegati al nuovo Mount Freedom Medical Center di Irvine, davanti alla larga porta d’ingresso.

— Vergil! — Edward gli strinse la mano e poi gli girò attorno, esibendo un’esagerata espressione di meraviglia. — Dico, sei proprio tu?

— È un piacere rivederti, Edward. — Gli batté una mano su una spalla con energia. Aveva perso una dozzina di chili, e ciò che restava sembrava assai ben proporzionato. Alla scuola di medicina Vergil era stato un goffo e dinoccolato ragazzone senza il minimo gusto per i vestiti, che non si pettinava mai e propinava ai compagni di camera punch che rendevano azzurre le loro urine. E non aveva mai avuto un appuntamento salvo che con Eileen Termagant, la quale condivideva alcune delle sue caratteristiche fisiche.

— Hai un aspetto fantastico — disse Edward. — Hai trascorso l’estate a Cabo San Lucas?

Si misero in fila al bancone del self-service e cominciarono a riempirre i loro vassoi. — L’abbronzatura — disse Vergil prendendo un cartone di latte al cioccolato — è frutto di tre mesi sotto una lampada solare. Dall’ultima volta che ci siamo visti mi si sono raddrizzati i denti.

Edward lo scrutò da vicino e gli sollevò un labbro con la punta di un dito. — Li avevi storti, già. Ma sono ancora decolorati.

— Sì — annuì Vergil. Si passò una mano sulle labbra e fece un sospiro. — Be’, ti spiegherò anche il resto, ma è meglio cercare un posto dove si possa parlare in privato, o senza attrarre l’attenzione di nessuno.

Edward lo precedette verso l’angolo dei fumatori, dove tre appassionati della pipa avevano fatto il vuoto intorno a sei tavoli. — Sul serio mi stupisci — disse, mentre trasferivano sul piano di fòrmica il contenuto dei vassoi. — Sei cambiato. Non ti ho mai visto così in forma.

— Sono cambiato più di quel che credi — confessò Vergil in tono cupo da film dell’orrore, inarcando un sopracciglio per incrementare l’effetto. — Come sta Gail?

— Bene. Ci siamo sposati un anno fa.

— Ehi, congratulazioni! — Vergil abbassò un attimo lo sguardo sui suoi piatti: fette di ananas, formaggio di campagna e un pezzo di torta di banana alla crema. — Non noti altro in me? — chiese, con un filo di tensione nella voce.

Edward lo osservò attentamente. — Uh!

— Guardami bene.

— Non ne sono certo. Be’, sì. Non hai gli occhiali. Lenti a contatto?

— No. Non ho più bisogno di lenti.

— E sei un figurino. Chi è che ti sceglie i vestiti? Spero che sia carina quanto ha buon gusto.

— Candice — annuì lui, col suo vecchio e familiare sogghigno autodeprecatorio. Ma negli occhi ebbe un lampo di strana malizia. — Sono stato licenziato. Quattro mesi fa. Adesso vivo sulle spese.

— È dura — disse Edward. — Ma questo è un mondo duro. Perché non me lo racconti dal principio? Avevi un lavoro. Dove?

— Ultimamente ero alla Genetron, nella Enzyme Valley.

— A nord della Torrey Pine Road?

— Proprio lì. Un posto infame. E ne sentirai parlare presto. Stanno producendo materiale a spron battuto, e invaderanno il mercato. Si sono dedicati ai MAB, con successo.

— Biochip?

Lui annuì. — Ne hanno alcuni che funzionano.

— Cosa? — Edward lo fissò stupito.

— Circuiti logici microscopici. Tu li inietti nel corpo di un malato, e loro mettono su bottega nei punti predeterminati. Il tutto con l’approvazione del Dr. Michael Bernard.

Le sopracciglia di Edward balzarono all’insù. — Gesù, Vergil! Bernard è quasi un santo, oggi. È stato sulla copertina di Mega e di Rolling Storie neanche due mesi fa. Perché mi dici tutto questo?

— Si suppone che sia ancora un segreto… il progetto, il colpo a sorpresa sul mercato e il resto. Ma io ho qualche contatto alla Genetron. Conosci Hazel Overton?

Edward scosse il capo. — Dovrei?

— Probabilmente no. Penso che detesti a morte i miei metodi. D’altra parte ha per me una specie di astioso rispetto. Due mesi fa mi ha dato un colpo di telefono e mi ha chiesto se volevo far pubblicare a mio nome un suo studio sul fattore-F nei geni dell’E. Coli. - Si guardò attorno e abbassò la voce. — Tu puoi fare quel che diavolo credi. Ma io voglio tirare lo sgambetto a quei bastardi.

Edward fischiò fra i denti. — Vuoi farmi arricchire, eh?

— Se è questo ciò che desideri. Oppure puoi starmi ad ascoltare un momento, prima di correre dal tuo agente a dirgli su quali azioni buttarsi.

— Naturalmente. Voglio saperne di più.

Vergil non aveva ancora toccato il formaggio e la torta, però aveva mangiato l’ananas e bevuto il latte al cioccolato. — Circa cinque anni fa dovetti cominciare dal niente, e senza aiuto. Col mio diploma della scuola di medicina e l’esperienza che avevo nei computer era inevitabile che puntassi sulla Enzyme Valley. Andai avanti e indietro per tutta la Torrey Pine Road coi miei scartafacci in mano, e fui assunto dalla Genetron.

— Così, semplicemente?

— No. — Vergil infilò un pezzetto di formaggio, poi depose la forchetta. — Avevo rimaneggiato un po’ i miei documenti. Diplomi, risultati di esami, questo tipo di cose. Nessuno ha mai avuto sospetti. Fin dal principio feci un buon lavoro, e sviluppai per loro strutture proteiche necessarie alle ricerche preliminari sui biochip. La Genetron ha impianti costosi, e ci veniva dato tutto il necessario. Quattro mesi più tardi avevo il mio laboratorio personale, e inoltre il permesso di condurre ricerche indipendenti. Feci subito dei passi avanti in un campo nuovo. — Mosse una mano con fare noncurante. — Poi cominciai a uscire dalle loro regole. Portavo avanti il mio lavoro normale, ma era questione di tempo… la direzione scoprì tutto e mi fece fuori. Io ho agito in modo da… salvare i miei esperimenti. Però non sono stato precisamente accorto, né prudente. Così adesso l’esperimento continua fuori dal laboratorio.

Edward aveva sempre ritenuto Vergil un ambizioso, con più che una semplice tendenza a comportamenti anormali. Durante il periodo scolastico le sue relazioni con le autorità della scuola erano state tutt’altro che lisce. Già da tempo Edward aveva concluso che per Vergil la scienza era come una donna affascinante e irraggiungibile, la quale gli aveva aperto le braccia prima che lui fosse pronto per una relazione adulta… mettendogli addosso la paura di non saper sfruttare l’occasione, di non riscuotere il premio finale, di veder fuggire il suo obiettivo. All’apparenza l’aveva però raggiunto. — Fuori dal laboratorio? Non ti seguo.

— Voglio che tu mi esamini. Una visita medica completa. Forse anche i test sul cancro. Poi ti spiegherò tutto.

— Vuoi esami per un migliaio di dollari, insomma?

— Tutto quello che puoi farmi. Ultrasuoni, NMR, PET, termografie, e ogni altra analisi.

— Non so se potrò avere accesso a queste apparecchiature, Vergil. Le attrezzature per il PET a gamma intera sono state montate qui solo da un paio di mesi. Diavolo, non puoi accontentarti di uno economico…

— Allora ultrasuoni e NMR. Non avrai bisogno d’altro.

— Io sono un ostetrico, Vergil, non uno di questi brillanti astri del laboratorio. Potrei occuparmi a fondo di te solo se tu fossi una donna.

Vergil si protese avanti e uno dei suoi gomiti fu sul punto di poggiarsi sulla fetta della torta, ma la evitò per un millimetro all’ultimo istante. Il vecchio Vergil l’avrebbe spiaccicata. — Se mi visiti con attenzione vedrai che… — Socchiuse gli occhi e scosse il capo. — Visitami. È questo che ti chiedo.

— Va bene, prenderò appuntamento per gli ultrasuoni e il NMR. Ma chi è che paga?

— Ho un conto spese medico. L’ho inserito fra i miei documenti nel computer della Genetron, prima di andarmene. Posso arrivare a mille dollari senza che nessuno sospetti o controlli. E tutto dovrà restare assolutamente confidenziale.

Edward scosse la testa. — Stai chiedendo molto, Vergil.

— Vuoi scrivere il tuo nome nella storia della medicina, o no?

— È uno scherzo?

Vergil lo fissò. — Non per te, amico.

Edward si occupò delle formalità quel pomeriggio, riempiendo lui stesso i moduli. Da quel che sapeva della metodologia dell’ospedale, finché le prestazioni venivano pagate la maggior parte degli esami poteva essere eseguita senza darne nota ufficialmente. Per il suo servizio non chiese nulla. Dopotutto Vergil lo aveva fatto orinare azzurro. Erano amici.

Al termine del suo orario rimase in ufficio, e chiamò Gail per spiegargliene brevemente il motivo. Lei sospirò, come sospirano le mogli dei medici, e disse che gli avrebbe lasciato una cena fredda sul tavolo per quando fosse tornato a casa.

Vergil venne in ospedale alle dieci di sera e s’incontrò con Edward nella saletta dove s’erano dati appuntamento, al terzo piano di quello che le infermiere chiamavano il Padiglione Frankenstein. Seduto su una sedia di plastica arancione Edward depose la copia di My Things che stava leggendo, e notò che l’amico sembrava sperduto e preoccupato. Sotto le lampade fluorescenti la sua pelle aveva una tonalità verdolina.

Edward fece segno all’infermiera del turno di notte che quello era il suo paziente, e tenendolo per un gomito lo condusse nel reparto esami. Nessuno dei due parlò molto. Appena Vergil si fu spogliato lo fece distendere sul lettino mobile di fronte a una grossa apparecchiatura. — Hai le caviglie gonfie — disse, palpandogliele. Erano solide, per niente molli. Robuste, anche se diseguali. — Mmh! — borbottò Edward, un po’ stupito. Vergil inarcò un sopracciglio come per dire: «Ancora non hai visto niente».

— Va bene. Adesso ti farò una dozzina di stratigrafie soniche, poi trasformeremo i risultati in un’immagine video. — Dispose le membra di Vergil in modo che non vi fossero zone celate all’indagine dell’apparecchiatura. Poi girò il lettino e lo spinse nell’orifizio cilindrico — l’alveare, come lo definivano le infermiere — che sarebbe stato saturato dagli ultrasuoni. Dopo dodici stratigrafie diversamente orientate, dalla testa ai piedi, lo tirò fuori. Vergil aveva gli occhi chiusi e sudava un tantino.

— Ancora la claustrofobia? — s’informò Edward.

— Non come una volta.

— L’NMR sarà un po’ peggio.

— Guidami con cuore saldo, McDuff.

Lo scandaglio computerizzato NMR era un impotente parallelepipedo in cromo e plastica azzurra, e occupava quasi per intero un locale, lasciando appena lo spazio per manovrare col lettino a rotelle. — Ti avverto che in questo non sono un esperto, così potrà occorrermi un po’ più di tempo — disse Edward, spingendo Vergil nella cavità rettangolare.

— È il prezzo che paghiamo alla scienza — mugolò Vergil, e quando Edward bloccò il portello trasparente chiuse gli occhi. I massicci magneti che circondavano il suo corpo ronzarono per un quarto d’ora. Edward istruì il computer di trasferire i dati ai terminali diagnostici della stanza accanto, quindi aiutò l’amico a uscire.

— Tutto bene? — gli chiese.

— Courage - sospirò Vergil in francese.

Nel locale di diagnostica Edward accese un grande schermo VDT e chiese immagini integrate dei dati medici. Nella penombra il video balenò alcuni secondi, poi cominciarono a prender forma contorni riconoscibili.

— Ecco il tuo scheletro — disse Edward. Poi corrugò le sopracciglia, mentre sullo schermo apparivano gli organi del torace, quindi i muscoli, e infine il sistema vascolare e la pelle.

— Quanto tempo è trascorso dall’incidente? — domandò Edward, accostando il volto allo schermo. Non riuscì a reprimere un moto di sorpresa.

— Non ho avuto nessun incidente — rispose Vergil.

— Gesù! Ti hanno minacciato per farti tenere il segreto?

— Tu non vuoi capirmi, Edward. Guarda ancora l’immagine. Non c’è segno di traumi.

— E questi ispessimenti ossei come li chiami? — replicò lui, indicando l’articolazione tibio-tarsica bilaterale. — E le costole… tutte queste stranissime sporgenze a zig-zag. Ci sono state delle fratture, è ovvio. E qui…

— Osserva la mia colonna vertebrale — suggerì Vergil. Edward fece ruotare l’immagine posteriormente.

Per un attimo l’eco di quel nome, «Padiglione Frankenstein», lo fece trasalire. Ciò che vedeva era fantastico. Invece che da vertebre, la colonna di Vergil appariva composta da una fila di ossa triangolari, connesse fra loro in modo che lui non riuscì affatto a decifrare. E ancora meno a comprendere. — Ti spiace farti palpare un momento?

Vergil scosse il capo. Edward gli alzò la maglietta sulla schiena e fece scorrere le dita sulla spina dorsale. Con gli occhi levati al soffitto l’amico si lasciò premere e tocchettare.

— Non riesco a identificare… — borbottò Edward. — È morbida. C’è qualcosa di flessibile, ma più forte premo e più lo sento duro. — Girò di fronte a Vergil, accarezzandosi il mento. — Cristo, ma tu non hai i capezzoli! — esclamò. Sui muscoli pettorali c’erano due chiazze tonde e rosate, ma nessuna traccia di capezzoli.

— Visto? — disse Vergil. — Sono stato ricostruito, dall’interno all’esterno.

— Merda! — sussurrò Edward. Vergil ne sembrò sorpreso.

— Non puoi negare ciò che ti dicono gli occhi — sospirò. — Io non sono la stessa persona che ero quattro mesi fa.

— Non so di cosa stai parlando! — Edward tornò allo schermo, fece ruotare le immagini, passò attraverso serie di organi e tessuti, e costrinse l’NMR a mostrargli tutti i dati da angolazioni diverse.

— Hai mai visto niente di simile a me? Voglio dire, strutture organiche di questo genere.

— No — disse Edward con voce piatta. Si allontanò dalla tastiera. Di fronte alla porta chiusa si volse, con le mani nelle tasche del camice. — Dove… che cosa diavolo hai fatto?

Vergil glielo raccontò. La storia emerse in una spirale di fatti e deduzioni così legati all’irreale che per seguirla senza perdere il filo Edward dovette concentrarsi al massimo.

— Come hai fatto — chiese, — a ottenere un DNA capace di codificare e decodificare le informazioni?

— Per prima cosa devi trovare un tratto di DNA che codifichi per la iso-topomerasi e la p-girasi. Poi colleghi questo segmento al tuo DNA campione per abbassarne la valenza… sino a rendere negativa la valenza dell’intera molecola. Nei primi esperimenti usavo l’ethidium, ma…

— Semplifica, per favore. Sono anni che non parlo di biologia molecolare.

— Quel che devi ottenere è un frammento di DNA che funga da substrato per l’input, e l’uso di un enzima inserisce appunto un «feedback» che ha questo effetto. Quando il cappio elastico del «feedback» è a posto, la molecola si apre all’inserimento-dati con molta facilità, e più rapidamente. Il tuo programma può essere trascritto sopra due catene di RNA. Una di queste catene RNA diventerà il decodificatore, un ribosoma, per il contatto con le sostanze proteiche. Come inizio il primo RNA porterà un semplice codice-chiave, di apertura…

Edward appoggiò le spalle alla porta e continuò ad ascoltarlo per mezz’ora. Quando capì che Vergil non aveva alcuna intenzione di rallentare, e ancor meno di fermarsi, alzò una mano. — E come può tutto questo condurre all’intelligenza?

Vergil si accigliò. — Non ne sono ancora sicuro. Stavo appena cominciando a scoprire come si riproducono i circuiti logici più semplici. L’intera gamma dei geni sembra predisposta ad aprirsi spontaneamente a questo processo. Ce n’erano tratti interi che, te lo giuro, erano già codificati per specifiche funzioni raziocinanti… ma all’epoca credevo fossero semplici introni, sequenze che non codificano per le proteine. Sai, residui di forme primitive, non ancora eliminati dall’evoluzione. Sto parlando degli eucarioti, adesso. Gli eucarioti non hanno introni. Ma negli ultimi mesi ci ho pensato molto. Senza lavoro, ho avuto un bel po’ di tempo per pensare. Elucubrazioni.

Tacque e scosse il capo, intrecciando nervosamente le dita senza smettere.

— E allora?

— È molto strano, Edward. Sin dalla scuola di medicina sentiamo parlare di «geni individuali», e del fatto che la mescolanza degli individui non ha altro scopo che creare combinazioni genetiche. Dalle uova nascono galline che fanno altre uova, magari migliori. E la scienza sembrava credere che gli introni fossero soltanto geni che non hanno scopo, a parte quello di riprodurre se stessi nelle funzioni cellulari. E tutti accettavano questa opinione, dicendo che erano dei sovrappiù inutili. Per questo non ho sentito alcun senso di colpa lavorare coi miei eucarioti, coi miei introni. Diavolo, erano roba sacrificabile, il deserto genetico. Dunque potevo usarli per costruire quel che mi pareva. — Di nuovo tacque, ma Edward non intervenne. Vergil lo fissò con occhi velati. — Non vedevo colpa in me. Ero sedotto dalla ricerca.

— Io non ti sto giudicando, Vergil. — La voce di Edward suonò tesa, sull’orlo dell’irritazione. Era stanco, e in lui tornavano vecchi ricordi sull’indifferenza di Vergil per le opinioni altrui; era esausto, anzi, mentre Vergil andava a ruota libera senza dire nulla che per lui avesse un senso.

Vergil abbatté un pugno sul bordo del tavolo. — Loro mi hanno condotto a farlo. Quei maledetti geni!

— Perché mai, Vergil?

— Perché non vogliono più aver bisogno di noi. Il gene individuale per eccellenza. Io credo che in tutto questo tempo il DNA abbia cercato di evolversi fino al punto in cui io l’ho portato. Di diventare adulto, di andarsene di casa, facendo pressione su questo o su quello per ottenere infine da noi ciò che oscuramente voleva.

— Queste sono parole, Vergil.

— Tu non ci hai lavorato sopra, non hai provato quel che ho provato io. Per ottenere questi risultati ci sarebbe voluta un’intera squadra di ricerca, delle dimensioni del Progetto Manhattan. Io sono brillante, ma non brillante fino a questo punto. I risultati andavano a posto da soli. È stato troppo facile.

Edward si sfregò gli occhi. — Adesso ti preleverò sangue, feci e urine.

— A che scopo?

— Per scoprire cosa ti sta succedendo.

— Te l’ho appena detto.

— Mi hai detto delle cose pazzesche.

— Edward, tu hai visto quello schermo. Non porto più gli occhiali, l’artrosi dorsale è scomparsa, non ho un attacco d’allergia da quattro mesi e non ho avuto malattie. Avevo una vasta gamma d’allergie che mi procurava tutta una serie di infiammazioni. Non più raffreddore, non più infezioni, niente. Non mi sono mai sentito tanto bene.

— Così in te ci sono dei linfociti mutanti, e intelligenti, che scovano le magagne e le correggono.

Lui annuì. — Ora come ora, ogni gruppo di cellule è intelligente quanto te o me.

— Non avevi parlato di «gruppi».

— Sono soliti riunirsi, in sospensione. Forse due o trecento cellule. Non sono mai riuscito a immaginarne il perché. Ma adesso mi sembra ovvio: collaborano.

Edward lo guardò. — Sono piuttosto stanco.

— Da come la vedo io, ho perso peso perché loro hanno migliorato il mio metabolismo. Ho ossa più robuste. La mia colonna vertebrale è stata ricostruita…

— Il tuo cuore sembra anormale.

— Non so niente del mio cuore. — Esaminò da vicino l’immagine computerizzata. — Gesù! Voglio dire, non ho potuto seguire l’andamento di tutto questo da quando ho lasciato la Genetron; potevo solo fare deduzioni e preoccuparmi. Tu non sai che sollievo sia parlarne con qualcuno che può capire.

— Io non capisco.

— Edward, l’evidenza parla da sé. Ti stavo dicendo del grasso. Loro possono incrementare le cellule che desiderano alterando il mio metabolismo. Le mie abitudini alimentari sono cambiate, infatti. Ma non sono ancora riusciti a toccarmi il cervello. — Si batté un dito su una tempia. — Loro capiscono le glandole e il resto. È il loro ambiente. Ma non hanno la visuale del quadro completo, se afferri quel che voglio dire.

Edward controllò le pulsazioni di Vergil e i riflessi. — Penso che faremmo meglio a occuparci delle ultime analisi, e poi a dire basta per stasera.

— E non voglio che escano nella mia pelle. Questo mi ha spaventato sul serio. C’è stata una notte in cui hanno cercato di uscire sulla mia epidermide, e allora ho deciso di passare all’azione. Ho comprato alcune lampade al quarzo. Volevo tenerli sotto controllo, in ogni caso. Capisci? Cosa succederebbe se oltrepassassero la barriera fra il sangue e il cervello, e scoprissero me… le mie funzioni cerebrali? Immagino che il motivo per cui volevano impadronirsi anche della mia pelle fosse perché era più semplice stabilire i loro collegamenti lungo la superfice del corpo. Molto più facile che mantenere le comunicazioni attraverso i muscoli, gli organi e il sistema vascolare; molto più diretto. Ora alterno le lampade a raggi ultravioletti con quelle al quarzo, per sterilizzarli. Per tenerli fuori dalla mia pelle, in profondità, finché posso. E adesso sai perché vado in giro con una bella abbronzatura.

— Rischi un cancro alla pelle, anche — disse Edward, automaticamente.

— Questo non mi preoccupa. Loro lo leverebbero di mezzo, come piccoli poliziotti.

— D’accordo. — Edward sollevò le mani in un gesto rassegnato. — Ti ho fatto gli esami. Tu mi hai raccontato una storia che io non posso accettare. Cosa vuoi che faccia?

— La mia noncuranza è solo una maschera. Sono spaventato, Edward. Vorrei poter trovare un modo migliore di controllarli prima che scoprano cos’è il mio cervello. Capisci? Pensaci. Sono miliardi, adesso, e di più se hanno indotto la mutazione in altri tipi di cellule. Forse triliardi. E ciascun gruppo è intelligente. Io sono probabilmente la creatura che contiene più intelligenza di tutto il pianeta, e loro non hanno ancora cominciato ad agire veramente insieme. Non voglio che abbiano il sopravvento su di me. — Ebbe una risata acre. — Rubarmi l’anima, capisci? Cosi, cerca di trovare un trattamento che li blocchi. Magari possiamo eliminare le pulci facendole morire di fame. Ti chiedo solo di pensarci. E dammi un colpo di telefono.

Recuperò i pantaloni e diede a Edward un biglietto con l’indirizzo e il numero di telefono. Poi andò alla tastiera del computer e cancellò le immagini, eliminandole anche dalla memoria elettronica. — Soltanto tu. Nessun altro, per ora. E per favore… non perdere tempo.

Era l’una del mattino quando Vergil uscì dal reparto esami dopo aver terminato i prelievi. Nel grande andito strinse la mano a Edward, e il suo palmo era umido di sudore nervoso. — Stai attento coi campioni per le analisi — disse. — Bada a non inghiottire niente.

Edward seguì con gli occhi l’amico che attraversava il parcheggio fino alla sua Volvo rossa. Poi si volse e tornò lentamente al Padiglione Frankenstein. Mise un cc. del sangue di Vergil in una provetta, e alcuni cc. di urina in un’altra, quindi le inserì entrambe in un analizzatore automatico. Voleva avere i risultati per il mattino dopo, chiedendoli sul VDT del suo ufficio. Il campione di feci avrebbe richiesto un lavoro manuale, ma quello poteva aspettare; ormai si sentiva sfinito. Il suo orologio segnava le due.

Si tolse il camice, spense le luci e andò a gettarsi su un letto senza spogliarsi. Detestava dormire in ospedale. Quando Gail si sarebbe svegliata, verso le sei di quel mattino, avrebbe trovato un messaggio nella segreteria telefonica… un messaggio, ma nessuna spiegazione. Si domandò cosa gli sarebbe convenuto lasciarle detto.

— Soltanto che ho visto il buon vecchio Vergil — mormorò.

X

Edward si fece la barba con un vecchio rasoio a mano libera che teneva nel cassetto della scrivania per simili emergenze, si esaminò allo specchio dello spogliatoio dei medici e con espressione critica si passò una mano sulle guance. Nei suoi anni di studente aveva usato quel rasoio con regolarità, per snobismo; da allora aveva perso la mano, e la sua faccia ne era la prova: tre taglietti suturati con piccoli pezzi di tessuto emostatico. Controllò l’orologio. La batteria doveva essere quasi scarica perché le cifre digitali vacillavano. Gli diede un colpetto irritato e i cristalli si accesero: le 6,30 del mattino. Gail doveva essere già in piedi e vestita, pronta per andare a scuola.

Nel salotto riservato ai medici mise due quarti di dollaro nel telefono a gettone, sistemandosi nervosamente nel taschino del camice le penne e le matite.

— Pronto?

— Gail? Sono Edward. Ti amo, e mi dispiace.

— Una voce idealizzata dal telefono mi ha svegliata, poco fa. Poteva essere quella di mio marito. — Gail aveva una voce deliziosa, che per telefono gli dava ancora un brivido. Era stato così che l’aveva conosciuta, senza vederla in viso, parlandole al telefono in casa di un amico comune.

— Già. Be’…

— E subito dopo ha chiamato Vergil Ulam. Mi è parso ansioso. Erano anni che non gli parlavo.

— Gli avrai detto…

— Che tu sei ancora in ospedale, naturalmente. Oggi il tuo turno è alle otto?

— Come ieri. Due ore coi neolaureati in laboratorio, e sei di visite.

— Ha chiamato anche la signora Burdett. Giura che il suo piccolo Tony, o Antoinette, sta fischiando dentro di lei. Dice che può sentirlo.

— E la tua diagnosi? — sogghignò Edward.

— Gas.

— Ad alta pressione, direi — aggiunse lui.

— Forse ha un utero a vapore — ipotizzò Gail. Risero insieme, e Edward sentì il mattino diventare realtà. La sera prima aveva brancolato nelle nebbie della fantasia, ma adesso era al telefono con sua moglie, a scambiare battute su un feto musicista. Questa era la normalità. Questa era la vita.

— Questa sera ti porto fuori — le disse. — Un’altra cena alla Heisenberg.

— E cosa sarebbe?

— Il Principio d’Indeterminazione — spiegò vivacemente lui. — Sapremo dove andremo ma non cosa mangeremo. O viceversa.

— Sembra affascinante. Con la sua auto, magari.

— Ovvio. Ha una Quanta che supera la velocità della luce.

— Specialmente da quando Einstein ha revisionato la sua meccanica — ridacchiò Gail. Po la sua voce tornò seria. — Smettiamola d’imbrogliare, adesso.

— Non sei tu che mi imbrogli sempre?

Gail emise un borbottio. — Vergil farebbe meglio a chiamarti durante le ore di ufficio. Perché vuole vederti, comunque? Pensa di cambiare sesso? — Il pensiero tornò a farla ridere, finché cominciò a tossire. A lui parve di vederla mentre deponeva la sigaretta e con una mano schiariva l’aria attorno a sé. — Scusa. Sul serio, Edward, perché?

— È confidenziale, amore mio. In ogni modo non sono sicuro di saperlo. Forse più tardi.

— Andata. Alle sei?

— Facciamo alle cinque e mezzo.

— Starò ancora esaminando i miei videonastri.

— Li butterò dalla finestra.

— Delizioso, Edward.

Lui mise una mano a coppa intorno al microfono e amplificò il rumore di un bacio prima di riattaccare. Poi, sfregandosi le guance per accartocciare e staccar via i pezzetti di tessuto emostatico, andò all’ascensore e salì al terzo piano del Padiglione Frankenstein.

L’analizzatore automatico ronzava allegramente, saggiando coi suoi sensori dozzine di provette contrassegnate. Edward sedette al terminale dell’ufficio e chiese i risultati dei test di Vergil. Sulloschermo apparvero colonne di cifre. La diagnosi suggerita era insolitamente vaga. Le anomali erano evidenziate da caratteri rossi.

24 cc./siero/conteggio: 10.000 linfoc. mm3

25 cc./siero/conteggio: 14.500 linfoc. mm3

26 cc./controllo/conteggio: 15.000 linfoc. mm3

DIAGNOSI (???) Quali sono gli altri sintomi? Se la milza e i gangli linfatici mostrano gonfiore: possibile DIAGNOSI: il paziente (nome? pratica?) è all’ultimo stadio di una grave infezione.

Suggerimenti: conteggio istamina, conteggio livello proteico nel sangue, conteggio fagociti.

DIAGNOSI (???) (campioni sanguigni non-conclusivi) Se soggetto è anemico: dolori articolari, emorragie, febbre.

Possibile DIAGNOSI: Incipiente leucemia linfocitica. Suggerimenti: niente medicine. Attendere conferma diagnosi da successivi conteggi dei linfociti.

Edward chiese una copia scritta di tutte le analisi e la stampatrice gli fornì in silenzio un lungo foglio colmo di cifre. Lo studiò, accigliato, poi lo ripiegò e se lo mise in tasca. I risultati dell’esame delle urine sembravano abbastanza normali, quelli del sangue erano diversi da qualsiasi altro avesse mai visto. Non aveva bisogno di analizzare le feci per stabilire una linea di condotta: ricoverare il paziente in ospedale sotto osservazione. Tirò a sé il telefono e compose il numero di Vergil.

Al secondo squillo una pacata voce femminile rispose: — Casa Ulam, qui è Candice.

— Posso parlare con Vergil, per favore?

— Chi devo dirgli che lo desidera? — Il tono di lei era così formale da sembrare comico.

— Edward. Lui mi conosce bene.

— Naturalmente. È il medico. Aspettava questa sua chiamata. — Una mano coprì il microfono, smorzando la voce di lei, rauca e un po’ tesa: — Vergil! Il dottore.

Vergil ansimò, impaziente: — Edward! Che mi dici?

— Salve, Vergil. Ho alcuni risultati degli esami, non molto conclusivi. Però vorrei parlarti, qui, in ospedale.

— Cosa dicono questi esami?

— Che tu sei molto malato.

— Sciocchezze.

— Ti sto solo riferendo la diagnosi dell’analizzatore automatico. Un conteggio troppo alto dei linfociti…

— È naturale. Questo si accorda perfettamente…

— E un’incredibile varietà di proteine e detriti vari nel tuo sangue. Istamine. Sembri uno che stia morendo di qualche grave infezione.

Sul filo ci fu un lungo silenzio, poi Vergil disse: — Non sto morendo.

— Credo che tu dovresti venire qui e lasciarti fare altri esami. Chi ha risposto al telefono? Candice? Lei…

— No, Edward. Io ho chiesto il tuo aiuto. Lasciamone fuori gli altri. Sai bene ciò che penso degli ospedali.

Edward ebbe una risata secca. — Vergil, io non ho la competenza per farti una diagnosi da solo.

— Ti ho già detto di che si tratta. Adesso devi aiutarmi a tenerli sotto controllo.

— Questa è pazzia, cose senza senso, Vergil! — Edward si batté con forza un pungo su un ginocchio. — Scusa. Forse la mia reazione è eccessiva. Ma spero che tu ne capisca il motivo.

— Io spero che tu capisca come mi sento io in questo momento. Sono su di giri. E sto sudando freddo di paura. E mi sento fiero di me. Ti sembra che tutto questo abbia un senso?

— Vergil, io…

— Vieni a casa mia. Parleremo un po’ e cercheremo di capire a cosa sto andando incontro.

— Ho da fare, Vergil.

— Quando puoi liberarti?

— Ho l’agenda piena per i prossimi cinque giorni. Stasera, forse. Dopo cena.

— Soltanto tu, nessun altro — disse Vergil.

— D’accordo. — Cercò di far mente locale. Gli sarebbero occorsi almeno settanta minuti d’auto per arrivare a La Jolla. Disse a Vergil che sarebbe stato da lui per le nove.

Tornato a casa, verso le sei del pomeriggio, Edward spiegò a Gail come stavano le cose. — Mi spiace ma sembra che stasera dovrò uscire — disse, e si offrì di aiutarla a preparare qualcosa da cena.

Lei accolse quelle novità con un borbottio, e non parlò molto mentre lo aiutava a improvvisare un’insalata mista. — Mi sarebbe piaciuto che tu dessi un’occhiata a qualche videonastro — disse poi, a tavola, gettandogli un’occhiata in tralice. I ragazzini della sua classe si stavano cimentando da una settimana con la video-art, e lei era orgogliosa dei risultati.

— C’è il tempo? — chiese diplomaticamente lui. Prima di sposarsi avevano già sperimentato alcune situazioni critiche, rischiando quasi di lasciarsi. Adesso, quando insorgevano nuove difficoltà, ambedue tendevano a essere eccessivamente delicati ed a prendere l’argomento molto alla larga.

— Probabilmente no — ammise Gail. Si servì un’altra porzione di zucchini fritti. — Cos’ha Vergil che non va, questa volta?

— Questa volta?

— Sì. Ti ha già chiesto aiuto, anni fa. Quando lavorava per la Westinghouse e aveva dei guai con quei copyright.

— Svolgeva per loro un lavoro indipendente.

— Sì. E adesso cosa puoi fare per lui?

— Non sono neppure certo quale sia il suo problema — disse Edward, più evasivo di quel che avrebbe voluto.

— È un segreto?

— No. Forse. Ma è una faccenda strana.

— È ammalato?

Edward abbassò la testa e con una mano fece un gesto: Chi lo sa?

— Non te la senti di parlarmene?

— Non subito. — Le rivolse un sorrisetto nel tentativo di placarla, col prevedibile risultato d’irritarla ancor di più. — Mi ha chiesto di non parlarne a nessuno.

— C’è qualche probabilità che ti metta nei guai?

Quella era una cosa a cui Edward non aveva ancora pensato. — Credo di no — disse.

— A che ora tornerai, stanotte?

— Più presto che potrò — disse. Le accarezzò una guancia con la punta delle dita. — Non preoccuparti — mormorò dolcemente.

— Oh, no — lo rassicurò lei. — Neanche un po’.

Guidando l’auto sulla strada per La Jolla l’umore di Edward si fece cupo: qualunque cosa potesse pensare sulle condizioni di Vergil, aveva l’impressione di penetrare in un altro universo. Un universo dalle differenti leggi fisiche, in cui si sentiva incapace di prevedere le conseguenze di ogni azione.

Uscì dall’autostrada all’altezza di La Jolla Village Drive, poi seguì la Torrey Pine Road fino in città. La strada scendeva in lente curve lungo le quali piccole ville dall’aria costosa si alternavano a condominii di tre e quattro piani. Ciclisti e podisti in eleganti tute multicolori sfidavano l’aria fresca della sera; anche a quell’ora La Jolla era animata da gente che passeggiava o faceva esercizio.

Con una certa difficoltà trovò un piccolo posto per parcheggiare, e abilmente vi insinuò la Volkswagen. Mentre richiudeva la portiera annusò con piacere l’aria di mare, e si chiese se Gail sarebbe mai stata disposta a trasferirsi lì. Gli affitti dovevano essere esorbitanti, e fare il pendolare gli avrebbe portato via tempo prezioso. Decise che simili «status symbol» non gli importavano poi molto. Tuttavia i dintorni erano simpatici… 410 Pearl Street, non la zona migliore della cittadina, anche se sempre superiore a ciò che lui per il momento poteva permettersi. Era tipico di Vergil cercare e trovare occasioni come quel condominio. D’altra parte, stabilì Edward mentre suonava alla porta del pianterreno, se alla fortuna di Vergil doveva accompagnarsi tutto il resto della sua personalità, non gliela invidiava affatto.

L’ascensore aveva un impianto che suonava musica melodica e distribuiva serie d’immagini oleografiche per informare i condomini di vendite speciali, prezzi di prodotti e attività sociali della settimana. Al terzo piano Edward trovò due specchi in cornice di marmo e oro, e un mobiletto in stile Luigi XV.

Vergil era già ad attenderlo sulla porta dell’appartamento, e lo condusse subito dentro. Indossava una spiegazzata vestaglia a maniche lunghe e pantofole. In mano teneva nervosamente una pipa spenta, e mentre lo precedeva in soggiorno e si gettava a sedere in poltrona non disse una parola.

— Hai un’infezione — esordì Edward, mostrandogli il foglio delle analisi.

— Oh? — Vergil lo percorse appena con un’occhiata, poi lo depose sul vetro del tavolino da caffè.

— Questo è ciò che dice il nostro computer.

— Sì, be’, è chiaro che non è stato programmato per casi anomali di questo genere.

— Forse no, ma devo avvertirti che…

— Lo so. Scusa se sono stato rude, Edward, ma cosa può fare per me un ospedale? Farei prima a dare un computer a una tribù di cavernicoli e chiedergli di ripararmelo. Quelle immagini… senza dubbio mostravano qualcosa, però noi non siamo in grado di stabilire cosa.

Edward si tolse il soprabito. — Ascolta, non nascondo che tu mi preoccupi, adesso. — L’espressione di Vergil era lentamente mutata, il suo volto si distese in una sorta di beatitudine mentre alzava gli occhi al soffitto. Li socchiuse, con uno strano mormorio di compiacimento.

— Dov’è Candice? — chiese Edward, accigliato.

— Ha deciso di trascorrere la sera fuori. Non stiamo andando troppo bene in questo momento.

— Lei sa?

Vergil sorrise languidamente. — Come potrebbe non sapere? Mi può vedere nudo ogni notte. — E distolse subito lo sguardo. Edward capì che stava mentendo.

— Sembri ubriaco. Che ti succede?

Lui scosse il capo. Poi annuì lentamente. — Sto ascoltando — disse.

— Che cosa?

— Non lo so. Suoni. Non-suoni. Come una musica. Il cuore. Tutti i vasi sanguigni, la frizione del sangue lungo le vene e le arterie. Attività. Musica nel sangue. — Fissò blandamente Edward. — Che scusa hai raccontato a Gail?

— Nessuna. Le ho detto solo che eri un po’ nei guai e che venivo a parlare con te.

— Puoi restare?

— No. — Percorse il locale con uno sguardo insospettito, in cerca di mozziconi di sigarette drogate, bottiglie o altro materiale equivoco.

— Non sono ubriaco, Edward — disse Vergil. — Può darsi che mi sbagli, ma mi sta succedendo qualcosa di grosso. Penso che loro stiano scoprendo chi sono io.

Edward sedette di fronte a lui e lo scrutò con attenzione. Vergil parve non accorgersene. Era assorbito da qualcosa che accadeva dentro di lui.

— C’è del caffè? — chiese Edward. Vergil fece un cenno verso la cucina. Edward mise a bollire un po’ d’acqua e trovò un pacchetto di caffè liofilizzato. Ne versò un po’ in una tazza, infine tornò a sedersi in soggiorno. Vergil stava facendo oscillare la testa avanti e indietro, a occhi aperti.

— Tu hai sempre saputo quel che volevi diventare, vero? — domandò a Edward.

— Più o meno.

— Condotta integerrima. Un ginecologo. Mai un passo falso. Io ero diverso. Avevo dei traguardi, ma non una direzione di marcia. Come una mappa senza strade, soltanto con le città. Non ho fatto niente per nessuno, salvo che per me. Anche la scienza: un mezzo per giungere a un fine. C’è da sorprendersi che io sia arrivato tanto lontano. — Afferrò i braccioli della poltrona. — E in quanto a mia madre… — Le sue mani erano bianche per la tensione. — Una strega. Una strega e un fantasma per genitori. E come figlio un changeling. Qui le piccole cose portano a grandi mutamenti.

— Non ti senti bene?

— Loro mi stanno parlando, Edward. — Chiuse gli occhi.

— Gesù! — Non c’era nient’altro che potesse dire o pensare. Cercò di convincersi che Vergil era sempre stato un burlone, capace di tutto, anche di scherzi di cattivo gusto, ma non poteva prescindere dai fatti nudi e crudi che le apparecchiature diagnostiche gli avevano mostrato.

Per un quarto d’ora Vergil sembrò dormire in poltrona. Edward gli controllò il polso e lo sentì nitido e regolare; gli tastò la fronte, che risultò fresca, poi andò a farsi un altro po’ di caffè. Stava sbirciando il telefono, incerto se chiamare un’ambulanza oppure Gail, quando Vergil spalancò gli occhi e si girò a fissarlo intensamente.

— Difficile capire come scorra il tempo per loro — disse. — Ci hanno messo forse tre o quattro giorni per decifrare il senso del linguaggio, per trovare la chiave dei concetti umani. Riesci a immaginarlo, Edward? Loro non capivano. Loro pensavano che io fossi l’universo. Ma adesso ci stanno arrivando. Stanno arrivando a me. Proprio ora. — Si alzò, ciabattò sul tappeto beige fino alle tende chiuse della finestra, annaspò dietro di esse in cerca della cordicella e le aprì di colpo. La luce della stanza parve uscire nell’abisso dell’immensa notte stellata, e Vergil fissò il firmamento con un brivido. — Devono avere migliaia dei loro ricercatori intenti ad analizzare i miei neuroni. Sono maledettamente efficienti, sai, per non avermi ammazzato per sbaglio. Così delicati dentro di me. Cambiando e cambiando.

— L’ospedale — disse Edward con voce rauca. Si schiari la gola. — Ti prego, Vergil. Subito.

— Cosa diavolo può fare un ospedale? Riesci a immaginare un qualche modo di controllare le cellule? Voglio dire, loro sono me stesso. Colpisci loro e colpirai me.

— Avrei pensato una cosa. — In realtà l’idea gli era balenata in quel preciso istante, segno chiaro che stava cominciando a credere a Vergil. — L’actinomicina può fissarsi al DNA e bloccarne la capacità di codificare. Potremmo ostacolarli in questo modo… certo arresterebbe la loro azione, come hai detto, sulle altre molecole.

— Sono allergico all’actinomicina. Mi ucciderebbe.

Edward si fissò le mani senza vederle. Questa era stata la miglior soluzione che poteva escogitare, ne era sicuro. — Potremmo fare qualche esperimento, vedere come metabolizzano, scoprire la differenza con le cellule normali. E, una volta isolato il loro principale nutrimento, forse potremmo farli morire di fame. Oppure con l’uso di radiazioni…

— Colpisci loro — ripeté Vergil voltandosi a guardarlo, — e colpirai me. — Venne a fermarsi al centro del soggiorno e si tolse la vestaglia, restando in mutande. Ma Edward, con la luce negli occhi, non vide molto. — Non sono certo di volermi liberare di loro. Non mi stanno facendo alcun male.

Edward deglutì, cercando di controllare l’ira e la frustrazione, ma stava fremendo. — Come fai a saperlo?

Vergil scosse il capo e alzò un dito. — Stanno cercando di capire che cos’è lo spazio. Questo è difficile per loro. Concepiscono la distanza in termini di diverse concentrazioni di elementi chimici. Per loro lo spazio è un susseguirsi di variazioni nell’intensità di ciò che percepiscono.

— Vergil…

— Ascoltami, Edward, rifletti! — Il suo tono era eccitato ma sotto controllo. — Dentro di me sta accadendo qualcosa. Si parlano l’un l’altro mediante proteine e acidi nucleici, attraverso i fluidi, attraverso le membrane. Costruiscono qualcosa, forse dei virus, come veicoli per trasmettere lunghi messaggi, o tratti personali, o biologici. Strutture tipo plasmidi. C’è una logica. Questi sono alcuni dei comportamenti per cui li ho programmati. Forse è questo che il tuo computer scambia per un’infezione… tutte le nuove informazioni che scorrono nel mio sangue. Chiacchiere. Sapori di altri individui. Pari loro. Superiori. Subordinati.

— Vergil, io ti sto ascoltando ma…

— Questo è il mio show, Edward. Io sono il loro universo. Sono stupefatti da questa nuova scala di grandezze. — Tornò a sedersi e per un poco restò quieto. Edward si alzò e andò a raccogliere la vestaglia di Vergil. Fu in quel momento che notò l’intreccio di linee bianche sulle sue braccia.

— Io chiamo un’ambulanza — esclamò, andando al telefono.

— No! — gridò Vergil. Si alzò di scatto. — Te l’ho detto: non sono malato. Questo è il mio show. Cosa potrebbero fare altri per me? Sarebbe una farsa.

— Allora che accidenti sono venuto a fare qui? — chiese Edward, rabbiosamente. — Hai chiamato uno dei tuoi cavernicoli, e pretendi ora…

— Tu sei un amico — disse Edward, guardandolo negli occhi. Edward ebbe l’intollerabile sospetto d’essere fissato da qualcosa di più che il solo Vergil. — Volevo che tu fossi qui a tenermi compagnia. — Rise. — Ma non posso dire d’essere precisamente solo, vero?

— Devo chiamare Gail — disse Edward, componendo il numero.

— Gail, certo. Ma non dirle niente.

— Oh, no. Ci puoi scommettere.

XI

All’alba Vergil stava ancora andando avanti e indietro per l’appartamento, toccava oggetti, guardava fuori dalle finestre, e ogni tanto si fermava in cucina a mangiare qualcosa. — Sai, in questo momento posso sentire i loro pensieri — disse. Edward lo fissava, esausto e rigido per la tensione, da una poltrona del soggiorno. — Voglio dire, il loro citoplasma sembra avere una volontà sua. Una specie di vita inconscia, per contrasto con la razionalità che hanno acquisito così di recente. Sentono il rumore chimico delle molecole che scorrono loro attorno.

Si fermò al centro del soggiorno, con la vestaglia aperta, gli occhi chiusi. Era come se ogni tanto si fermasse per fare un sonnellino. Non era da escludere, pensò Edward, che si trattasse di brevi attacchi di petit mal. Chi poteva dire quali danni quei linfociti gli stessero facendo al cervello?

Edward chiamò ancora Gail dalla derivazione telefonica della cucina. La trovò alzata e sul punto di recarsi a scuola. Le chiese di telefonare in ospedale e di avvertire che lui stava troppo male per andare al lavoro.

— Sei costretto a cercare una scusa? Allora la cosa è seria. Cosa sta succedendo a Vergil. Non riesce a cambiarsi i pannolini da solo?

Edward non disse niente.

Dopo una lunga pausa lei chiese: — Va tutto bene?

Doveva essere sincero? Decise di no. — Benissimo — rispose.

— Cultura! — esclamò Vergil, sbucando da dietro il divisorio della cucina. Lui la salutò e riattaccò in fretta. — Nuotano continuamente in un bagno d’informazioni. Vi contribuiscono. È una specie di gestalt sociale. La gerarchia è assoluta. Mandano fagociti appositi alla caccia delle cellule che non interagiscono. Virus specifici contro un individuo o un gruppo. Non c’è fuga. Una volta attaccata dal virus la cellula si spacca e si dissolve. Ma non è esattamente una dittatura. Penso che in effetti godano di libertà maggiore della nostra. Sono così diversi… voglio dire da individuo a individuo, sempreché siano esseri individuali; ma lo sono in modi che non si possono paragonare ai nostri. Questo ha un senso per te?

— No — disse sottovoce Edward, massaggiandosi le tempie. — Vergil, mi stai portando allo stremo. Non potrò sopportare tutto questo per molto. Non capisco, e non sono neppure sicuro di cominciare a…

— Neppure adesso?

— Va bene, ammettiamo che tu mi stia dando la giusta interpretazione, l’esatta e completa versione della realtà. Ti sei preoccupato d’immaginarne le conseguenze?

Vergil lo fissò, guardingo. — Mia madre — disse.

— Che c’entra lei?

— C’entra chiunque debba pulire la tazza di un cesso.

— Per favore, sii chiaro. — La disperazione rese fievole la voce di Edward.

— Non sono mai stato molto bravo in questo — mormorò Vergil. — Nell’immaginare a cosa possa portare un avvenimento.

— Non hai paura?

— Sono terrorizzato — disse lui. Il suo sogghigno divenne maniacale. — Ed esilarato. — S’inginocchiò accanto alla sedia di Edward. — All’inizio volevo controllarli. Ma loro sono molto più abili di me. Ma chi sono io, uno sciocco confusionario, per tentare di ostacolarli? Loro stanno facendo qualcosa di molto importante.

— Che succederebbe se ti uccidessero?

Vergil si distese sul pavimento, allargando braccia e gambe. — Un cane morto! — dichiarò. Edward sentì l’impulso di dargli un calcio. — Guarda, non voglio che tu pensi che ti stia scavalcando, ma ieri sono andato a parlare con Michael Bernard. Mi ha ricevuto nella sua clinica privata, mi ha preso un sacco di campioni. Biopsie. Già non si distingue più dove mi ha tolto pezzetti di pelle, di tessuto muscolare e osseo: è tutto guarito. Cicatrizzato, ha detto lui. Mi ha chiesto di non parlarne con nessuno. — La sua espressione tornò a farsi sognante. — Città di cellule. Edward, loro costruiscono tubature come strade attraverso i tessuti, si spostano, mandano informazioni, trasformano altri tipi di cellule…

— Smettila! — esplose Edward, con voce rotta. — Che cosa è risultato da quegli esami?

— Da come la mette Bernard, io avrei dei linfociti «gravemente deformati». Gli altri dati non sono ancora pronti. Capisci, è stato soltanto ieri. Perciò non sei il solo a lambiccarti il cervello.

— E lui cosa pensa di fare?

— Sta cercando di convincere la Genetron a riassumermi. E a ridarmi il laboratorio.

— È questo che vuoi?

— Non si tratterebbe soltanto di avere un laboratorio a disposizione. Lascia che ti faccia vedere. Da quando ho interrotto il trattamento con le lampade la mia pelle sta cambiando di nuovo. — Sempre disteso sul pavimento si aprì la vestaglia.

Sull’intero corpo di Vergil l’epidermide era un fitto reticolo di strisce bianche. Si girò. Sulla schiena le linee si stavano ispessendo e formavano creste sporgenti.

— Mio Dio! — ansimò Edward.

— Sto diventando sempre meno adatto a girare in luoghi che non siano un laboratorio chiuso — dise Vergil. — Non avrei l’animo di mostrarmi in pubblico.

— Tu… tu puoi parlare loro, dirgli di smetterla. — Edward fu però subito conscio di quanto suonavano ridicole quelle parole.

— Si, certo che potrei, ma questo non significa che mi ascolterebbero.

— Pensavo che tu fossi il loro Dio.

— Quelli che si sono piazzati sui miei neuroni non sono i pezzi grossi. Sono i ricercatori, o almeno hanno funzioni analoghe. Loro sanno chi sono io, e che sono qui, ma non è detto che possano convincere i livelli superiori della loro gerarchia.

— Sono in dissidio fra loro?

— Qualcosa del genere. — Si rimise la vestaglia e andò alla finestra, sbirciando dalle tendine come in cerca di qualcuno. — Mi sono rimasti soltanto loro. E loro non hanno paura di niente. Edward, prima d’ora non mi ero mai sentito così vicino a qualcuno o a qualcosa. — di nuovo un sorriso di beatitudine. — Io sono responsabile per loro. La loro grande madre. Sai, fino a qualche giorno fa non avevo neppure un nome per identificarli. Una madre dovrebbe dare un nome alle sue creature, no?

Edward non rispose.

— Ho dato un’occhiata attorno… dizionari, libri di testo e così via. Poi mi è venuta l’ispirazione: Noociti. Dalla parola greca «noos», che significa «mente». Noociti. Suona un po’ macabro, vero? L’ho detto a Bernard. Credo che gli sia sembrato un buon nome…

Edward sollevò le braccia, esasperato. — Non hai la più pallida idea di quello che stanno facendo! Hai detto che sono come una società…

— Un migliaio di società.

— Sì, e le società si evolvono in modo drammatico. La guerra, le dispute sui confini… — Da quando era arrivato aveva cercato di controllare una paura sempre crescente, ma adesso era come se cercasse di aggrapparsi a una pagliuzza. Lui non aveva la competenza per destreggiarsi nell’enormità di quel che stava accadendo. E neppure Vergil. Vergil era l’ultimo individuo che Edward stimasse abbastanza riflessivo e analitico da esaminare le cose nella loro reale estensione.

— Ma io sono l’unico che rischia — osservò Vergil.

— Questo non lo sai. Gesù, ragazzo, guarda quello che ti stanno facendo!

— Io lo accetto — disse stoicamente lui.

Edward scosse il capo come davanti a una sconfitta. — E va bene. Bernard farà riaprire il laboratorio alla Genetron, tu ti trasferirai lì e reciterai la parte della cavia nei tuoi stessi esperimenti. E poi?

— Mi daranno il trattamento che merito. Adesso sono qualcosa di più che il buon vecchio Vergil I. Ulam. Sono una stramaledetta galassia, una super-madre.

— Un super-ospite, vorrai dire.

Vergil glielo concesse con una scrollata di spalle.

Edward aveva un groppo in gola. — Non posso far nulla per te — disse. — Non posso parlarti, né convincerti, né aiutarti. Sei più testardo che mai. — Il termine gli parve perfino benevolo: come poteva «testardo» descrivere il comportamento esibito da Vergil? Provò l’impulso di spiegarsi meglio, ma emise soltanto un ballettio confuso. — Devo andarmene — riuscì infine a dire. — Qui non posso fare niente di utile.

Vergil annuì. — Suppongo di no. Sarebbe impossibile.

— Già. — Edward deglutì a vuoto. Vergil fece un passo avanti e parve sul punto di mettergli una mano su una spalla. D’istinto lui indietreggiò.

— Se non altro, vorrei la tua comprensione — disse Vergil, riabbassando la mano. — Questa è la cosa più importante che io abbia mai fatto. — Il suo volto si contorse in un sogghigno. — Non so fino a quando potrò fronteggiarli. Faccia a faccia con loro, intendo. E non so se mi uccideranno oppure no. C’è una tensione reciproca, Edward.

Edward indietreggiò fino alla porta e poggiò una mano sulla maniglia. L’espressione di Vergil, contratta da quell’angoscia momentanea, tornò a distendersi nell’estasi. — Ehi! — mormorò. — Ascolta. Loro stanno…

Edward aprì la porta, uscì sul pianerottolo e la richiuse con decisione dietro di sé. A passi svelti raggiunse l’ascensore e premette il pulsante del pianterreno.

Nell’atrio sostò per qualche minuto, cercando di placare l’ansito che gli spezzava il respiro. Controllò l’orologio: le nove del mattino.

Chi stava ascoltando Vergil?

Aveva detto d’essersi consultato con Bernard; forse adesso era Bernard il cardine intorno a cui ruotava la situazione. Vergil ne aveva parlato come se l’uomo fosse non solo convinto ma anche molto interessato. Persone della statura di Bernard non perdevano il loro tempo con tutti i Vergil Ulam che bussavano alla loro porta, a meno che non presumessero di trarne qualche vantaggio. Mentre spingeva il doppio battente a vetri dell’ingresso Edward stabilì di verificare una sua idea.

Vergil era disteso a terra nel centro del soggiorno, con le braccia e le gambe spalancate, e rideva. Ad un tratto tornò serio e si domandò quale impressione avesse fatto a Edward, e anche a Bernard. Non era importante, decise. Niente aveva importanza se non quello che stava accadendo all’interno. L’universo interno.

— Sono sempre stato un bravo ragazzo — mormorò.

Tutte le cose.

— Sì, io sono tutto adesso.

Spiega.

— Cosa? Voglio dire, che c’è da spiegare?

Le cose semplici.

— Sì, immagino che sia duro svegliarsi alla vita. Be’, se avete delle difficoltà ve le meritate. Maledetto DNA finalmente sveglio.

Parlato con altri.

— Che cosa?

PAROLE comunicato con °corpo esterno struttura condivisa°. Questo è come se la °totalità° di °intero DENTRO° fosse simile a ESTERNO?

— Non vi capisco. Non siete chiari.

In lui scese il silenzio. Per quanto? Era difficile stabilire lo scorrere del tempo, suddividere i giorni in ore e i minuti in secondi. I noociti avevano sfasato il suo orologio cerebrale. E cos’altro?

TUO interfaccia sta fra °ESTERNO° e °INTERNO°. Questi sono uguali?

— L’interno e l’esterno? Oh, no.

Il °corpo struttura condivisa° ESTERNO è uguale?

— Volete dire Edward, no? Sì, infatti… condivide la mia struttura.

EDWARD e l’altra struttura hanno INTERNO simile/uguale?

— Oh, sì, sono abbastanza uguali per quel che riguarda voi. Solo… sì, ma lei sta meglio adesso? Ieri sera lei non stava bene.

A quella domanda non ci fu risposta.

Interrogare

— Lui non vi ha dentro di sé. Nessuno vi ha. Lei sta bene? Noi siamo gli unici. Io vi ho creato. Nessun altro che noi vi ha in sé.

Il silenzio restò profondo e assoluto.

Edward posteggiò l’auto fuori dal Museo d’Arte Moderna di La Jolla, e attraversò lo spiazzo di cemento fino a un telefono pubblico accanto a una fontana di bronzo. Dall’oceano saliva una nebbia che velava i contorni color crema della St. James Church, in stile spagnolo, e imperlava di umidità le foglie degli alberi. Inserì nel telefono la sua carta di credito e chiese il numero della Genetron Inc. L’informazione gli fu data da una voce elettronica, e lui fece la chiamata.

— Per favore, mi metta in contatto col Dr. Michael Bernard — disse alla centralinista.

— Chi lo desidera, prego?

— Questo è il suo Servizio Risposte. Abbiamo una chiamata di emergenza, e sembra che il suo apparecchio non funzioni. Pochi minuti dopo Bernard fu in linea. — Che diavolo significa? — chiese con calma. — Io non ho un Servizio Risposte.

— Mi chiamo Edward Milligan. Sono un amico di Vergil Ulam. Penso che abbiamo un certo problema da discutere.

All’altro capo del filo ci fu un lungo silenzio. — Lei lavora al Mount Freedom, non è così, Dr. Milligan?

— Sì.

— Si trova lì?

— Non esattamente.

— Oggi non posso vederla. Domattina andrebbe bene?

Edward rifletté su tutto il suo andare e venire, sul tempo che perdeva, su Gail che si preoccupava. Niente sembrava più molto importante. — Sì — rispose.

— Alle nove in punto, alla Genetron. 60895 North Torrey Pine Road.

— Benissimo.

Nel grigiore che offuscava l’aria Edward tornò all’auto. Mentre apriva la portiera e sedeva al volante ebbe un pensiero improvviso: quella notte Candice non era rientrata a casa.

Al mattino era stata lì, invece.

Vergil le aveva mentito su di lei, di questo non ebbe alcun dubbio. Perciò che ruolo stava giocando la ragazza?

E dove si trovava?

XII

Gail trovò Edward profondamente addormentato sul divano, mentre fuori sibilava una pungente brezza invernale. Sedette al suo fianco e gli toccò un braccio finché lui aprì gli occhi.

— Ehilà — disse lei.

— Ehilà a te. — Sbatté le palpebre e si guardo attorno. — Che ore sono?

— Sono appena arrivata a casa.

— Le quattro e mezzo. Cristo. Ho dormito finora?

— Io non ero qui — disse Gail. — Lo hai fatto?

— Mi sento ancora a pezzi.

— Dunque, cos’ha combinato Vergil stavolta?

Lui si costrinse a esibire una maschera di tranquillità. Le accarezzò una guancia con un dito, in un gesto che lei contestava definendolo «lisciare il pelo alla gatta».

— C’è qualcosa che non va — affermò Gail. — Hai intenzione di parlarmene, o dobbiamo far finta che tutto sia normale?

— Non so cosa dirti — rispose Edward.

— Oh, Signore! — con un sospiro lei si alzò. — Ho capito: vuoi divorziare per risposarti con la signora Baker. — La signora Baker pesava 150 chili, e non s’era accorta d’essere incinta fino al quinto mese.

— Non ancora — la informò Edward.

— Un commosso grazie. — Gail gli sfiorò lievemente la fronte. — Sai bene che farti il terzo grado mi dà il mal di testa.

— Be’, non c’è poi molto di cui io possa parlare, così… — Le prese la mano e gliela sbaciucchiò.

— Riconosco il tuo istinto protettivo all’opera. Sei ripugnante — disse lei. — Di conseguenza mi farò il tè. Ne vuoi un po’? — Attese di vederlo annuire e sparì in cucina.

Lui si chiese perché non rivelarle tutto. Un vecchio amico si stava trasformando in una galassia.

Invece di farlo cominciò a liberare il tavolo di cucina.

Quella notte, incapace di dormire, seduto contro un cuscino poggiato alla spalliera del letto, Edward abbassò gli occhi sulla forma immobile di Gail e cercò di determinare cosa c’era di reale, e di irreale, in quello che aveva saputo.

Io sono un medico, si disse. Una professione tecnica, scientifica. Si suppone che uno come me sia immune da cose come la paura del futuro.

Vergil Ulam si stava trasformando in una galassia.

Che sensazione avrebbe provato lui ad avere dentro di sé un miliardo di cinesi? Nell’oscurità sogghignò, e nello stesso istante fu sul punto di gemere. Ciò che Vergil aveva in sé era enormemente strano, piuttosto che enormemente cinese. Al di là di qualunque cosa lui — o Vergil — potesse mai capire. Forse definitivamente incomprensibile.

Che razza di psicologia, o di personalità, poteva mai sviluppare una cellula… o un gruppo di cellule, se era per questo? Cercò di ricordare le sue nozioni scolastiche sugli ambienti in cui le cellule umane si potevano muovere: il sangue, i vasi linfatici, molti tessuti, il fluido intestinale, il fluido cerebrospinale… Non poteva immaginare un organismo sociale, complesso come il corpo umano, che in un ambiente così chiuso non finisse con l’impazzire per la noia. Le strutture erano relativamente semplici, le necessità semplici, e le funzioni erano svolte da cellule, non da esseri umani. Forse lo stress sarebbe diventato il fattore chiave… l’ambiente era benevolo con le cellule a lui familiari, mortale con quelle estranee.

Ma se non sapeva cos’era reale era certo di sapere cos’era importante: la camera da letto, con le luci stradali e le ombre degli alberi proiettate sulle tende, e Gail addormentata.

Questo era importante. Gail a letto, che dormiva tranquilla.

Ripensò a Vergil che sterilizzava le colture di E. Coli mutanti. La beuta colma di linfociti intelligenti. Con perversa soddisfazione la paragonò a Krypton: la patria di Superman, con miliardi di esseri geniali distrutti da una calamità inevitabile. Omicidio? Genocidio?

La sua mente vagava fra la veglia e il sonno. Nelle tende si aprì una fessura da cui balenarono le luci della città. Avrebbe potuto essere una città qualsiasi, anche New York (se l’illuminazione fosse stata più forte) o Chicago. Lui aveva abitato a Chicago per due anni…

D’un tratto un colpo di vento spalancò silenziosamente la finestra e gli parve che la città si precipitasse all’interno: una confusione di segnali e di luci che parlavano un linguaggio preciso ma incomprensibile, fatto di lontani clackson, di voci, di rumori di cantieri al lavoro. Cercò di spingere fuori quel bailamme ma lo vide trasformarsi in una fiumana di cellule bianche che si rovesciavano sul letto, schizzavano su Gail e invadevano la stanza.

A ridestarlo, più tardi, fu una corrente d’aria e il rumore delle tende che ondeggiavano. Decise che era meglio evitare altri sogni e rimase a occhi aperti fino all’ora di svegliare Gail. Mentre la moglie usciva per andare a scuola la baciò con passione, assaporando la sana realtà delle sue labbra umane e inviolate.

Prima delle otto ripartì in auto, e sessanta chilometri più a sud imboccò di nuovo la Torrey Pine Road, oltrepassò l’Istituto Salk con la sua frastagliata e solida architettura e si lasciò alle spalle dozzine di quei nuovi o riconvertiti centri di ricerche che avevano dato il nome alla Enzyme Valley, cinti dagli eucalipti e dalle nuove conifere ibride a crescita rapida i cui antenati avevano a loro volta dato il nome alla strada.

La lastra nera incisa con rosse lettere romane incorniciava il monticello coltivato a trifoglio coreano. Gli edifici più oltre si accordavano alle stesse linee solide e squadrate, anche se il cubo nero riservato alle ricerche per il Ministero della Difesa aveva un’aria macabra.

Al cancello un uomo robusto e segaligno in divisa blu uscì dal suo cubicolo e si chinò accanto al finestrino della Volkswagen. Esaminò Edward con pacata indifferenza. — Sì, signore?

— Sono qui per vedere il Dr. Bernard.

Il guardiano gli chiese un documento d’identità. Tornò poi nel cubicolo e leggendone gli estremi parlò al telefono con qualcuno per un paio di minuti. Quando ne uscì la sua espressione placida era immutata. — Non abbiamo un parcheggio per i visitatori. Prenda il numero 31 nello spazio riservato agli impiegati. Si trova dietro quella curva, sull’ala ovest dell’edificio, di fronte all’ingresso degli uffici. Deve entrare subito, senza gironzolare altrove.

— Naturalmente! — borbottò Edward, stizzito. — Dietro la curva — ripeté. Il guardiano annuì seccamente e rientrò nel suo cubicolo.

Edward seguì il sentiero in lastre di roccia fino all’ingresso degli uffici. Rossi papiri crescevano intorno a vasche di cemento piene di carpe rosa e dorate. La porta a vetri si aprì da sola davanti a lui, lasciandolo entrare in un’anticamera circolare fornita solo di un divano per i visitatori e di un tavolo con sopra giornali e riviste tecniche.

— Cosa posso fare per lei? — domandò la receptionist, una ragazza snella e attraente coi capelli accuratamente sollevati nella ciambella in quei giorni molto di moda e che Gail non poteva assolutamente soffrire.

— Il Dr. Bernard, per favore.

— Il Dr. Bernard? — si stupì lei. — Noi non abbiamo…

— Dr. Milligan? — disse una voce.

Edward si volse e vide il Dr. Bernard entrare dalla porta automatica. L’uomo sorrise alla receptionist. — Grazie, Janet. — Lei annuì e tornò a occuparsi delle chiamate telefoniche interne. — Prego, venga con me, Dr. Milligan. Avremo una sala-conferenze tutta per noi. — Condusse Edward fuori per la porta posteriore e poi lungo il sentiero in cemento che correva attorno al pianterreno dell’ala ovest.

Bernard indossava un elegante abito grigio che si accordava al colore dei suoi capelli; il suo profilo era magro e attraente, molto simile a quello di Leonard Bernstein, e non era difficile capire perché la stampa gli accordava spesso una copertina. Era un pioniere della scienza, e per di più fotogenico. — Qui teniamo molto alla sicurezza. È un obbligo imposto dal Governo dieci anni fa, come saprà. Una massa di idioti, a mio parere. Costringono i laboratori a circondarsi di reti elettrificate, e poi a ogni conferenza di studiosi circolano valanghe di notizie. Ma cosa c’è da aspettarsi quando i politicanti ignorano la realtà che ci sta intorno? — La domanda sembrava retorica. Edward si limitò ad annuire, poi ubbidì al gesto con cui l’altro lo indirizzava su per una scala d’acciaio verso il secondo piano.

— Ha visto Vergil di recente? — chiese Bernard, chiudendo dietro di sé la porta della stanza 245.

— Ieri.

Bernard accese le luci. Il locale non era più largo di cinque metri, fornito di un tavolo rotondo con quattro sedie e una lavagna sul muro. — Sediamoci — lo invitò. Edward prese una sedia e l’altro si accomodò di fronte a lui, poggiando i gomiti sul tavolo. — Ulam è brillante. E anche, non esito a dirlo, coraggioso.

— È mio amico. Sono molto preoccupato per lui.

Bernard alzò un dito. — Coraggioso… ma è stato un maledetto sciocco. Quel che gli è accaduto non avrebbe mai dovuto essere consentito. Può aver agito per cause di forza maggiore, però non ha scuse. Comunque, quel che è fatto è fatto. Lei sa tutto, presumo.

— Nelle linee generali — annuì Edward. — Ma non ho ancora capito come sia arrivato a quel punto.

— Neanche noi, Dr. Milligan. Questo è uno dei motivi per cui gli abbiamo offerto di nuovo un laboratorio. E una casa, intanto che cercheremo di capire meglio questa faccenda.

— Non può mostrarsi in pubblico — disse Edward.

— No, infatti. Stiamo costruendo un laboratorio isolato proprio ora. Ma siamo una compagnia privata, e le nostre risorse sono limitate.

— Questo dovrebbe essere riferito alla NIH e alla FDA.

Bernard sospirò. — Sì. Be’, se in questo momento la cosa trapelasse rischieremmo di perdere molto. Non sto parlando di decisioni manageriali… vedremo andare a gambe all’aria l’intera industria dei biochip. Le conseguenze nel mondo degli affari sarebbero clamorose.

— Vergil è molto malato. Fisicamente e mentalmente. Potrebbe morire.

— Non sono affatto certo che rischi la vita — disse Bernard. — Ma ci stiamo allontanando dal nocciolo della questione.

— Quale sarebbe il nocciolo? — sbottò Edward, irritato. — Suppongo che lei stia lavorando a braccetto con la Genetron, adesso… e parla tenendo presenti gli interessi della ditta. Cosa conta di guadagnarci la Genetron?

Bernard si appoggiò allo schienale della sedia. — Posso ipotizzare un gran numero di usi pratici per minuscoli elementi computerizzati a base biologica. Lei no? La Genetron ha già fatto questo passo. Ma il lavoro di Vergil è qualcosa di ancor più evoluto.

— Quali sviluppi prevede?

Il sorriso di Bernard fu luminoso e chiaramente falso. — Non sono veramente autorizzato a parlarne. Sarà qualcosa di rivoluzionario. Dovremo studiarlo in condizioni di laboratorio. Occorreranno esperimenti su animali. Bisognerà ripartire dall’inizio, naturalmente. Vergil è… uh, una colonia che non può essere trasferita. La coltura è basata sulle sue stesse cellule. Dovremo sviluppare organismi che non possano far scattare reazioni immunizzanti in altri animali.

— Come un’infezione? — chiese Edward.

— Suppongo che ci siano dei paralleli. Ma Vergil non è infetto o ammalato nel comune significato del termine.

— Gli esami che ho fatto io dicono che lo è — replicò Edward.

— Non credo che la normale diagnostica sia appropriata, le pare?

— Non lo so.

— Ascolti — disse Bernard, piegandosi in avanti. — Mi piacerebbe che venisse a lavorare con noi, una volta che Vergil sarà sistemato qui. La sua esperienza può esserci utile.

Dietro quell’offerta c’era un’intenzione così scoperta che Edward per poco non si alzò. — Che cosa pensa di trarre da tutto ciò? — chiese. — Intendo lei personalmente.

— Edward, io sono sempre stato un uomo d’avanguardia nella mia professione. Non vedo ragioni per cui non dovrei dare una mano qui. Con la mia esperienza del cervello e delle funzioni nervose, e le ricerche che ho fatto sull’intelligenza artificiale e in neurofisiologia…

— Potrebbe aiutare la Genetron a tenere alla larga un’indagine governativa — terminò Edward.

— Questo è molto poco gentile. È ingiusto e offensivo. — Per un momento Edward captò in Bernard un momento d’incertezza, e perfino di ansia.

— Forse lo sono — rispose. — E forse questa non è la peggiore fra le cose che possono succedere.

— Non la seguo — disse lo scienziato.

— Sogni premonitori, Mr. Bernard.

L’altro strinse le labbra e inarcò un sopracciglio. Quella era un’espressione che il pubblico non gli conosceva, e ben poco adatta alle copertine di Time, Mega o Rolling Stone: una smorfia perplessa e irritata. — Il nostro tempo è troppo prezioso per sprecarne ancora. Le ho fatto un’offerta in buona fede.

— Naturalmente — disse Edward. — E naturalmente mi piacerebbe visitare il laboratorio dove Vergil verrà sistemato. Se sarò il benvenuto, scarsa gentilezza e tutto.

— Naturalmente — gli fece eco Bernard, ma i suoi occhi dicevano ben altra cosa: Edward poteva togliersi dalla testa l’idea di ficcare il naso nel suo lavoro. Si alzarono insieme e lo studioso tese la mano. Aveva il palmo umido; era nervoso almeno quanto Edward.

— Suppongo che desideri che tutto ciò resti strettamente confidenziale — disse Edward.

— Non sono certo di poterglielo chiedere. Lei non è sotto contratto.

— No — sottolineò Edward.

Bernard lo fissò per un lungo momento, poi annuì. — La accompagno.

— C’è un’altra cosa. Sa niente di una ragazza di nome Candice?

— Vergil ha detto che aveva un’amica di questo nome.

— Aveva o ha?

— Sì, capisco cosa intende dire — si accigliò Bernard. — Potrebbe rappresentare un problema per la sicurezza.

— No, non è questo che volevo dire — puntualizzò seccamente Edward. — Non è affatto ciò che volevo dire.

XIII

Bernard lesse con cura il fascicolo che aveva davanti, con una mano sulla fronte, girando lentamente i fogli dall’aspetto ufficiale, e il suo cipiglio si fece sempre più scuro.

Ciò che stava accadendo nel cubo nero era abbastanza da farlo incanutire del tutto. Il rapporto era chiaramente incompleto, e tuttavia i suoi amici a Washington avevano fatto un buon lavoro. Gli era stato recapitato da un corriere speciale appena mezz’ora dopo che Edward Milligan se n’era andato.

Quella conversazione l’aveva riempito di un senso di vergogna che aveva finito col metterlo sulla difensiva. In quel giovane dottore dallo sguardo franco aveva visto una lontana versione di se stesso, e il paragone lo feriva. Il vecchio e famoso Michael Bernard non s’era forse incamminato, negli ultimi mesi, nella palude delle seduzioni capitalistiche?

All’inizio l’offerta della Genetron gli era parsa pulita e gradevole: una minima partecipazione nei primi mesi, e poi il riconoscimento come Padre e Pioniere, e la sua immagine usata per scopi promozionali.

Gli era occorso decisamente troppo tempo per scoprire quanto era vicino a sentir scattare la trappola.

Si volse alla finestra, poi si alzò per aprire le tende. Con quel semplice movimento ebbe una visione dolorosamente chiara della Genetron, del cubo nero, e delle nuvole spazzate dal vento al di là di esso.

Poteva sentire l’odore del disastro. Il cubo nero, ironicamente, non vi sarebbe stato coinvolto; ma se non fosse stato Vergil Ulam a far precipitare gli eventi, prima o poi l’avrebbe fatto l’altra faccia della Genetron.

Ulam era stato tolto di mezzo così precipitosamente, e messo sulla lista nera spietatamente, non perché aveva condotto ricerche pericolose e incaute… ma perché aveva arato nel campo che il reparto ricerche della Difesa stava recintando per sé. Lui aveva avuto successo dove loro non erano finiti che in strade senza sbocco e fallimenti. E malgrado che si fossero studiati per mesi i suoi appunti (ne avevano fatte innumerevoli copie) non erano riusciti a duplicare i suoi risultati.

Il giorno prima Harrison aveva borbottato che le scoperte di Ulam dovevano essere state in buona parte casuali. Adesso era ovvio il motivo per cui parlava così.

Ulam era andato vicinissimo a completare i suoi studi ed a lasciare la Genetron — e il Governo — con le braghe in mano. I Pezzi Grossi non potevano né permettersi quello smacco né dare fiducia a Ulam.

Ulam era la frattura nel loro sistema. Nessun servizio di sicurezza avrebbe mai potuto dargli il suo benestare.

Così lo avevano fatto fuori, e avevano cercato di sotterrarlo.

E poi lui era tornato indietro, come uno spettro che scuotesse le sue catene intorno alla Genetron. Ora non avrebbero potuto rifiutarlo.

Bernard rilesse l’incartamento una seconda volta e si chiese come poteva tirarsi fuori da quell’imbroglio con un minimo danno.

Se la sentiva di farlo? Se costoro erano dei tali idioti, la sua esperienza non sarebbe stata utile… o almeno chiarificatrice? Non aveva alcun dubbio di vederci più chiaro di Harrison e di Yng.

Ma alla Genetron lui interessava più che altro per la sua immagine, come facciata. Quanta influenza reale aveva ancora, in effetti?

Chiuse le tende e andò al telefono, quindi compose il numero interno dell’ufficio di Harrison.

— Sì?

— Qui Bernard.

— Oh, certo, Michael.

— Sto per informare Ulam. È il momento di portarlo qui, adesso. Oggi stesso. Guarda di tener pronta tutta la squadra, e anche quelli del reparto ricerche per la Difesa.

— Michael, questo è…

— Non possiamo più permetterci di lasciarlo là. Harrison ci pensò un poco. — Già. Sono d’accordo.

— Allora datevi da fare.

XIV

Edward pranzò nel separé di un self-service, e al termine del pasto poggiò un gomito sul davanzale della finestra e attraverso i vetri fissò il traffico esterno senza vederlo. Alla Genetron stava accadendo qualcosa di poco chiaro. Analizzare i suoi presentimenti più forti non gli era mai stato difficile: quella parte del cervello con cui catalogava e sommava i dettagli insignificanti talvolta metteva insieme due più due e otteneva un inquietante cinque, e questo significava che per il suo subconscio uno di quei due era in realtà un tre. Anche se a livello razionale non ne aveva le prove.

Bernard e Harrison stavano nascondendo qualcosa d’importante. La Genetron stava facendo di più che aiutare un dipendente con un problema collegato al suo lavoro, di più che limitarsi a trarre vantaggio da quel passo in avanti nella ricerca scientifica. Ma non potevano agire con precipitazione, cosa che avrebbe destato sospetti. E forse non erano sicuri di possedere i mezzi tecnici e le leve politiche per condurre avanti la manovra.

Si accigliò, sforzandosi di estrapolare quella catena di deduzioni dalla palude del suo inconscio per esaminarla anello per anello. Bernard aveva parlato di problemi di sicurezza in rapporto a Candice. A preoccuparli poteva essere null’altro che la generica paura dello spionaggio industriale, quella che aveva trasformato ogni ditta privata lungo la Torrey Pine Road in una torta circondata dal filo spinato e chiusa al pubblico. Ma doveva esserci dell’altro.

Non potevano essere sciocchi e di vista corta come Vergil; dovevano aver capito che quanto stava accadendo a Vergil era troppo importante per restare circoscritto in una semplice operazione di mercato.

Di conseguenza avevano già contattato il Governo. Questa era una deduzione giustificata? (Che la Genetron l’avesse fatto o meno, forse c’era qualcosa che lui poteva fare). Comunque il Governo aveva i suoi tempi di manovra — misurabili in giorni o settimane — per prendere decisioni, stabilire programmi e passare all’azione. E nel frattempo Vergil era solo. La Genetron non avrebbe osato far niente contro la sua volontà; le ricerche genetiche erano già guardate dal pubblico con abbastanza sospetto, e uno scandalo poteva far perfino di peggio che distruggere i loro piani.

Vergil era lasciato a se stesso. E Edward conosceva il suo vecchio amico troppo bene per ignorare che non avrebbe comunque permesso a nessuno di controllarlo. Meno che mai a chi non lo riteneva affidabile. Ma si era messo da solo in quarantena (all’apparenza) nel suo appartamento, affetto da una sorta di trasformazione mentale, aggrovigliato in un’estasi psichica autoindotta, prigioniero dei risultati del suo lavoro.

Con un brivido Edward concluse di essere l’unica persona che avrebbe potuto fare qualcosa.

Lui era rimasto il solo individuo responsabile.

Era tempo di tornare all’appartamento di Vergil per cercare almeno di mettere in chiaro la situazione prima che i Pezzi Grossi piombassero sulla scena.

Mentre guidava l’auto Edward rifletté sul cambiamento fisico. Un cambiamento troppo grosso, forse, perché un individuo potesse sopportarne il pensiero. Le innovazioni, anche quelle radicali, erano essenziali alla società, ma i risultati dovevano essere applicati con cautela e con lucida visione del futuro. Niente doveva essere forzato o imposto. Questo era l’ideale. Ciascuno aveva il diritto di restare fisicamente lo stesso finché non avrebbe deciso altrimenti.

Questa era una visuale maledettamente ingenua, ringhiò fra sé.

Ciò che Vergil aveva fatto era la cosa più grossa mai accaduta alla scienza da…

Da quando? Non c’erano paragoni. Vergil Ulam era diventato un Dio. Nelle sue carni portava centinaia di miliardi di creature intelligenti.

Edward non riusciva ad afferrare quel concetto. — Eretico. Neo Luddita — borbottò a se stesso in pungente tono d’accusa.

Quando suonò il campanello alla porta di sicurezza del condominio, Vergil rispose quasi all’istante. — Sì? — canterellò, chiaramente esilarato e su di giri.

— Edward.

— Ehilà, Edward! Vieni su. Sto facendo il bagno. La porta è aperta.

Edward entrò nel soggiorno dell’appartamento e girò nel corridio che portava alla stanza da bagno. Vergil era nella vasca, immerso fino alla nuca in un’acqua color rosa. Sorrise vagamente all’amico e agitò il liquido con le mani. — Sembra che io mi sia tagliato i polsi, no? — disse allegramente. — Non preoccuparti. Adesso tutto è a posto. La Genetron sta preparandosi ad accogliermi. Bernard e Harrison, i ragazzi dei laboratori e tutta la baracca. — Il suo volto era costellato di pallide creste, e le mani pullulavano di tonde escrescenze bianche.

— Questa mattina ho parlato con Bernard — disse Edward, perplesso.

— Ehi, mi hanno chiamato proprio poco fa. — Vergil indicò il telefono-interfono del bagno. — Me ne sto qui da un’ora, un’ora e mezzo. A galleggiare e a pensare.

Edward sedette sulla tazza del cesso. La lampada al quarzo, spenta, era stata ficcata dietro il porta-asciugamani.

— Sei sicuro che questo è ciò che vuoi? — chiese, curvando le spalle.

— Sì. Sicurissimo — annuì Vergil. — Sarà una bella riunione di famiglia. Il ritorno del figliol prodigo, fin troppo prodigo. Sai, non ho mai capito cosa significhi prodigo. Non vorrà dire prodigioso? Io lo sono certamente. Torno in grande stile. Tutto sarà in grande stile d’ora in poi.

Il colore rosa dell’acqua non sembrava dovuto al sapone. — Usi sali da bagno? — domandò Edward. D’un tratto un altro pensiero gli fece accapponare la pelle.

— No — rispose Vergil. — Viene fuori dalla mia epidermide. Loro non mi dicono tutto, ma sospetto che mandino esploratori all’esterno. Ehilà, astronauti! Sicuro! — E guardò l’amico con un’espressione che non riusciva a esprimere paura; più che altro, anzi, curiosità su come lui avrebbe reagito.

Edward aveva i muscoli addominali contratti quasi in attesa di un secondo pugno. Fino allora non aveva voluto — non consciamente — considerare quella possibilità, preferendo lo sforzo di concentrarsi su problemi più immediati. — È la prima volta?

— Sì — disse Vergil, e rise. — Ho una mezza intenzione di lasciar andare quelle piccole pulci curiose giù per lo scarico. Di fargli scoprire cos’è realmente il mondo esterno.

— Potrebbero andare ovunque — osservò Edward.

— Abbastanza probabile.

Edward annuì. Abbastanza probabile. — Non mi hai mai presentato a Candice — disse. Vergil scosse il capo.

— Ehi, questo è vero. — Non aggiunse altro.

— Come… come ti senti?

— In questo momento molto bene. Devono essercene miliardi. — Agitò l’acqua con le dita, scrutandola. — Che ne pensi, devo lasciare che le pulci vadano fuori?

— Ho bisogno di bere qualcosa — disse Edward.

— Candice tiene una bottiglia di whisky in uno stipo, in cucina.

Edward s’inginocchiò accanto alla vasca, e Vergil lo scrutò incuriosito. — Che cosa dobbiamo fare? — mormorò.

L’espressione di Vergil mutò di colpo, trasformandosi in una maschera di tristezza. — Gesù, Edward, mia madre… vedi, stanno venendo a riprendermi con loro, ma lei mi ha chiesto… dovrei chiamarla. Parlarle. — Due lacrime gli scivolarono sulle creste che ormai gli deformavano le guance. — Mi ha chiesto di tornare da lei. Quando… quando sarebbe venuto il momento. È il momento, Edward?

— Sì — disse lui, sentendosi come sospeso in una nebbia brulicante di scintille. — Penso che debba esserlo. — Allungò una mano alla lampada al quarzo e le sue dita risalirono per il supporto in cerca dell’interruttore.

Vergil era stato uno studente goffo e bislacco, gli aveva fatto bere un punch per colorare di azzurro la sua urina, aveva giocato a tutti centinaia di scherzi di cattivo gusto, e non era mai cresciuto, mai diventato abbastanza maturo da capire quanto fosse in realtà geniale, e quanto capace di stravolgere il mondo.

Vergil frugò con una mano in cerca del tappo della vasca. — Sai, Edward, credo proprio che…

Non finì mai quella frase. Edward aveva inserito la spina nella presa a muro, sollevando la lampada, e dopo che l’ebbe gettata nella vasca balzò indietro per evitare il lampo e le zaffate di scintille che scaturirono dagli elettrodi fusi, mentre nell’aria si alzava un’onda di vapore.

La luce del bagno si spense. Vergil urlò, si agitò in brevi convulsioni che fecero schizzare l’acqua, ricadde indietro e poi tutto fu immobile, eccetto la spirale di fumo che gli saliva dai capelli e le bollicine che gorgogliavano fuori dalla lampada. Dalla finestra filtrava un raggio di sole che tagliava come una lama l’aria densa di fumo.

Edward sollevò il coperchio della tazza del gabinetto e vomitò. Poi si asciugò la faccia e barcollò lungo il corridoio fino in soggiorno. Le gambe gli si piegarono e cadde di traverso sul divano.

Ma non c’era tempo. Si tirò in piedi, debole per la nausea, e andò in cucina. Trovò il whisky di Candice, una bottiglia di Jack Daniel’s, e tornò nel bagno. Tolse il tappo, quindi versò il contenuto della bottiglia nella vasca cercando di non guardare il volto di Vergil. Ma occorreva qualcos’altro. Avrebbe dovuto sterilizzare bene tutto prima di andarsene.

Per un attimo fu sul punto di chiedere a Vergil se aveva della candeggina o dell’ammoniaca, ma si trattenne in tempo. Vergil era morto. Lo stomaco di Edward riprese a torcersi, un sussulto di vomito lo fece sbandare contro la parete del corridoio e per un poco restò lì con una guancia premuta contro la tappezzeria fredda. Da quando la sua vita aveva cominciato a diventare irreale?

Dal giorno in cui Vergil era entrato al Mount Freedom Medical Center. Questo era come un altro degli scherzi di Vergil, pensò. Gli aveva fatto bere un punch di follia che avrebbe colorato di nero tutto il resto della sua esistenza, col ricordo di ciò che aveva fatto a un amico.

Frugò negli armadietti di cucina ma trovò solo tovaglie e tovaglioli. In camera da letto aprì l’armadio ma non vide altro che vestiti e biancheria di Vergil. Solo allora si accorse che l’appartamento aveva i doppi servizi, e che oltre la camera da letto c’era un secondo bagno; da dove si trovava poteva vedere la tazza del gabinetto. Aggirò il letto disfatto ed entrò nel bagno. Era più grande dell’altro, e in fondo c’era una cabina separata per la doccia. Da sotto la porta usciva un rivoletto d’acqua. Edward cercò di accendere la luce, ma in quella parte dell’appartamento l’elettricità mancava; l’unica illuminazione era data dalla finestra della camera da letto. Dietro la tazza del cesso trovò comunque un contenitore di candeggina e una latta da mezzo litro di detergente ammoniacale.

Ripercorse il corridoio e vuotò entrambi i liquidi nella vasca, sempre evitando di guardare gli occhi spalancati di Vergil. Se ne levò un vapore aspro e puzzolente che lo costrinse a uscire ed a chiudere la porta, tossendo.

Qualcuno stava chiamando sottovoce il nome di Vergil. Con i contenitori vuoti in mano Edward tornò in camera, e stupito s’accorse che la voce sembrava provenire dal bagno più grande. Fermo sulla soglia, ancora tossendo a tratti per il vapore ammoniacale, si accigliò e tese gli orecchi.

— Ehi, Vergil, sei tu? — domandò la voce. Proveniva dallo sgabuzzino della doccia. Edward fece un passo avanti, poi si fermò. È troppo, pensò. La realtà adesso stava roteando troppo, e lui voleva solo fermarsi e uscire da quell’allucinazione. Fece un secondo passo, quindi un terzo, e con una mano sfiorò il vetro opacizzato della porta.

La voce gli era parsa quella di una donna, rauca, strana, ma abbastanza tranquilla.

A tentoni trovò la maniglia e la abbassò. Con un lieve click la porta si aprì. Sforzandosi di adattare gli occhi al buio sbirciò all’interno della doccia.

— Gesù, Vergil, non mi trascurare così. Dobbiamo andarcene da questo albergo. È buio e piccolo, e non mi piace.

Riconobbe la voce che gli aveva risposto al telefono, anche se non avrebbe potuto in nessun modo riconoscere lei dall’aspetto, neppure se avesse visto una sua fotografia.

— Candice? — sussurrò.

— Vergil? Andiamo via.

Edward si volse e fuggì.

XV

Quando Edward rientrò a casa il telefono stava suonando. Non rispose. Avrebbe potuto essere l’ospedale. Avrebbe potuto essere Bernard… o la polizia. S’immaginò nell’atto di dover raccontare ogni cosa alla polizia. La Genetron avrebbe fatto tutto l’ostruzionismo possibile; Bernard era praticamente un intoccabile.

Edward era esausto, tutti i muscoli del corpo gli si erano contratti per la tensione, per il groviglio di sensazioni che una persona normale può provare dopo aver…

Commesso un genocidio?

Questo sicuramente non sembrava realistico. Non poteva convincersi di aver appena assassinato un triliardo di creature intelligenti. Noociti. Che volevano conquistare una galassia. C’era addirittura da ridere. Ma lui non rise.

Poteva ancora vedere Candice, in quella doccia.

Il lavoro era andato avanti su di lei molto più rapidamente. Le sue gambe erano andate; il torace era ridotto a qualcosa di molto sottile e impressionante. La ragazza aveva sollevato verso di lui un volto coperto di creste bianche spesse come la costola di un libro.

Aveva lasciato il palazzo a tempo per vedere un furgone bianco apparire velocemente da dietro la curva e parcheggiare di fronte, seguito dalla limousine di Bernard. Seduto nella Volkswagen aveva spiato gli uomini in candide tute isolanti usciti dal furgone, che, ci aveva fatto caso, era privo di contrassegni.

Poi aveva messo in moto, ingranato la marcia, ed era filato via di nascosto. Con la massima facilità. Per tornare a Irvine. Per scacciare l’intera faccenda dalla testa in qualunque modo, a qualunque costo, altrimenti sarebbe diventato ben presto pazzo come lo era diventata Candice.

Candice, che si stava trasformando sopra lo scarico aperto di una doccia. Lasciamo andar fuori quelle piccole pulci, aveva detto Vergil. Mostriamo loro cos’è il mondo esterno.

Non era per niente difficile convincersi che aveva appena ucciso un essere umano, un amico. Il fumo, gli elettrodi fusi della lampada, il cordone che sfrigolava nell’acqua e il puzzo di bruciato.

Vergil.

Lui aveva immerso la lampada nella vasca in cui c’era Vergil.

Erano bastati il corto circuito e il disinfettante a eliminare tutte le cellule? Forse Bernard e il suo gruppo si sarebbero preoccupati di finire ciò che lui aveva cominciato.

Ma ne dubitava molto. Chi mai avrebbe potuto circoscrivere davvero quella faccenda, capirla davvero? Lui no di certo; erano accaduti dei fatti orribili, spiacevoli da pensare e ancor peggiori da vedere, e non poteva illudersi di presagire ciò che sarebbe successo in seguito. A stento riusciva a credere vero quel che era capitato.

Ricordò il sogno, la città di leucociti che aggrediva Gail, le galassie di cellule che turbinavano contro tutti loro. Che angoscia… e tuttavia poi che potenziale di seduzione: un nuovo genere di vita, di simbiosi e di trasformazioni.

No. Quello era un pensiero sbagliato. Ma cambiare — cambiare molto — poteva significare in meglio e così come giustificare le sue obiezioni a un nuovo ordine, una nuova trasformazione visto che, lui lo sapeva bene, gli esseri umani non erano ancora abbastanza evoluti, e doveva esserci qualcosa di più, e Vergil aveva fatto quel passo, e nel suo modo sciocco e cieco aveva dato l’avvio al prossimo stadio dell’umanità.

No. Nella vita non c’erano stadi né mutamenti così drastici, non c’era posto per cose sconvolgenti come Candice nella doccia o Vergil morto nella vasca. La vita era il diritto di un individuo al normale progresso della sua normalità. Chi poteva togliergli quel diritto? Chi poteva presumere che avrebbe accettato di perderlo? E perché lui si metteva a ipotizzare su quel che poteva succedere, se non capiva neppure quel che era successo? Gli girava la testa.

Disteso sul divano si coprì gli occhi con un avambraccio. In vita sua non s’era mai sentito così stanco: psichicamente svuotato, senza più emozioni, incapace anche di pensare con chiarezza. Ma era riluttante a dormire un poco; sentiva gli incubi costruire già le loro teste di ponte, in attesa di mostrargli echi deformati di ciò che aveva visto.

Spostò il braccio e fissò il soffitto. C’era una vaga possibilità di quello che aveva appena avuto inizio venisse fermato. Forse lui era il solo che poteva dare il via a una catena di fatti diretti a quell’obiettivo. Avrebbe potuto avvertire il Centro Controllo Malattie Epidemiche (sì, ma quali erano le loro possibilità di azione?). O forse il Ministero della Difesa. O cominciare dall’Ufficio Igiene della Contea, attraverso la solita burocrazia? E c’erano anche il VA Hospital e la Clinica Scripps di La Jolla.

Si rimise l’avambraccio sugli occhi. Non esisteva alcuna chiara linea di condotta.

Gli eventi, semplicemente, esorbitavano dalla sua capacità di affrontarli. Immaginava che nella storia umana fosse capitato spesso: onde di marea di avvenimenti che surclassavano gli individui singoli e li trascinavano via. Li spingevano a pensare con desiderio a qualche posto isolato, magari un piccolo villaggio messicano dove niente accadeva mai, e dove potevano rifugiarsi a dormire, nient’altro che dormire.

— Edward? — Gail era china su di lui e gli sfiorava la fronte con dita fresche. — Ogni volta che torno a casa ti trovo qui… morto al mondo. Non hai un bell’aspetto. Ti senti bene?

— Certo. — Si sedette sul bordo del divano. Lo stordinemto e la debolezza rischiarono di fargli perdere l’equilibrio. — Che pensi di fare per cena? — La sua bocca non stava funzionando a dovere, impastava la parole. — Potremmo andare a mangiar fuori.

— Tu hai la febbre — disse Gail. — Una febbre da cavallo. Vado a prendere il termometro. Non ti muovere da qui.

— No — cercò di richiamarla stancamente. Si alzò e barcollò fino in bagno per guardarsi allo specchio. Lei lo raggiunse e gli ficcò il termometro sotto la lingua. E come al solito Edward fece finta di morderlo come Harpo Marx, assaporandolo come un candito. Da sopra una sua spalla lei lo studiò nello specchio.

— Che cosa sono queste? — gli chiese.

Sotto il colletto di lui, attorno al collo, c’erano delle linee. Strisce bianche, come un intreccio di strade.

— Le mani umide — sussurrò. — Vergil aveva le mani umide. E loro erano già dentro di lui, ormai da giorni. — Era talmente ovvio.

— Edward, ti prego! Che cos’è?

— Devo fare una telefonata — disse lui. Gail lo seguì in camera da letto e restò in piedi, mentre lui componeva il numero della Genetron. — Il Dr. Bernard, per favore — chiese. La receptionist rispose con eccessiva fretta che alla Genetron non c’era nessuno con quel nome. — Non faccia la stupida. È una cosa troppo importante — la rimbeccò freddamente. — Dica al Dr. Bernard che sono Edward Milligan, e che è urgente.

La receptionist lo lasciò attendere in linea. Forse Bernard era ancora a casa di Vergil, pensò, e cercava di mettere insieme i pezzi di quel rompicapo; o forse stavano semplicemente mandando qualcuno ad arrestarlo. La cosa non avrebbe ormai avuto nessuna importanza.

— Qui Bernard. — La voce dello scienziato era piatta e affilata: simile, si disse Edward, a quella che doveva sembrare la sua.

— È troppo tardi, dottore. Abbiamo stretto la mano a Vergil. Palmo umido. Ricorda? E cominci a chiedersi chi ha toccato lei da quel momento. Tutti noi siamo i portatori, adesso.

— Oggi sono stato a La Jolla, Milligan — sbottò Bernard. — Ha ucciso lei Ulam?

— Sì. Stava per mettere in circolazione i suoi… microbi. I noociti. O qualunque cosa siano diventati.

— Ha trovato la sua ragazza.

— Sì.

— Che ne ha fatto di lei?

— Di lei? Niente. Era nella doccia. Ma stia a sentire…

— Quando siamo arrivati noi lei era sparita. C’erano solo i suoi vestiti. Ha ucciso anche lei?

— Apra gli orecchi, dottore. Io sono pieno dei microbi di Vergil. E così anche lei.

All’altro capo del filo ci fu un lungo silenzio, poi un sospiro. — Sì?

— Ha ideato un sistema per tenerli sotto controllo? Voglio dire, all’interno del nostro corpo?

— Sì. — Poi, sottovoce: — No, non ancora. Antimetabolici, terapia con radiazioni controllate, actinomicina. Non abbiamo provato tutto. Però… no.

— Allora lei sa come stanno le cose, Dr. Bernard.

Un’altra lunga pausa. — Mmh!

— Io intendo stare qui con mia moglie, per trascorrere insieme il tempo che ci resta.

— Sì, — disse Bernard. — Grazie per avermi chiamato.

— Era mio dovere. Arrivederci.

Edward riappese e passò un braccio attorno alle spalle di Gail.

— È un’epidemia, è vero? — mormorò lei.

Edward annuì. — Questo è ciò che ha creato Vergil: un’epidemia che pensa. E non credo che esista un modo per fermare una malattia intelligente.

XVI

Harrison sfogliava il manuale delle procedure, interrompendosi per prendere metodicamente qualche nota. In un angolo Yng era sprofondato in una morbida poltrona di cuoio, le dita di entrambe le mani unite a piramide davanti alla faccia, coi lunghi capelli neri che gli ricadevano flosci fin sulle lenti degli occhiali. In piedi accanto al piano in fòrmica nera della scrivania Bernard sembrava curvarsi sotto il peso di quel silenzio. Harrison si appoggiò indietro allo schienale e batté un dito sul suo blocco per appunti.

— Prima cosa, non siamo noi i responsabili. Questo è quanto mi risulta qui. Ulam ha condotto le sue ricerche senza la nostra autorizzazione…

— Ma non lo abbiamo licenziato nel momento in cui ce ne siamo accorti — replicò Yng. — Questo sarebbe un punto a nostro sfavore in tribunale.

— Di tutto ciò ce ne preoccuperemo più avanti — disse secco Harrison. — Quello di cui siamo responsabili è il rapporto alla CDC. Questo non è uno scarico abusivo di sostanze nocive, né un inquinamento dovuto ai laboratori, ma…

— Nessuno di noi, nessuno, ha pensato che le cellule di Ulam potessero disperdersi all’esterno del corpo — disse Yng, intrecciando con forza le dita.

— È molto probabile che non potessero farlo, all’inizio — disse Bernard, attirato suo malgrado nella discussione. — È ovvio che c’è stato un grosso cambiamento rispetto ai linfociti originali. Un cambiamento autodiretto.

— Io continuo a rifiutarmi di credere che Ulam abbia creato delle cellule intelligenti — disse Harrison. — Le nostre ricerche nel cubo nero hanno dimostrato quanto ciò sarebbe difficile. Come ha determinato la loro intelligenza? Come ha potuto addestrarle? No… c’è qualcosa…

Yng rise. — Il corpo di Ulam è stato trasformato, ridisegnato… come possiamo dubitare che ci fosse un’intelligenza dietro quelle sue trasformazioni?

— Signori — disse a bassa voce Bernard. — Tutto questo è accademico. Ci decidiamo a mettere sull’avviso Atlanta e Bethesda, oppure no?

— E cosa diavolo dovremmo dirgli?

— Che siamo tutti allo stadio iniziale di una pericolosa affezione epidemica — disse Bernard, — originata nei nostri laboratori da un ricercatore, attualmente perito…

— Assassinato — mormorò Yng, scuotendo il capo con stupore.

— … e che bisogna dare il via alle misure precauzionali.

— Sì — disse Yng. — Ma cosa può fare la CDC in merito? Il contagio si è sparso, a quest’ora forse già per tutto il continente.

— No — disse Harrison, — non su un raggio così vasto. Vergil non ha avuto contatti con molta gente. Potrebbe essere ancora circoscritto alla California meridionale.

— Ha avuto contatti con noi - si lamentò Yng. — Secondo la vostra opinione, siamo contagiati?

— Sì — disse Bernard.

— C’è qualcosa che possiamo fare, per noi personalmente?

Lui fece mostra di rifletterci, poi scosse il capo. — Se volete scusarmi c’è del lavoro che devo fare prima che rilasciamo una dichiarazione. — Uscì dalla sala-conferenze e percorse il corridoio esterno fino alle scale. Di fronte all’ala ovest c’era un telefono pubblico. Tolse dal portafoglio la carta di credito, la inserì nella fessura e compose il numero del suo ufficio di Los Angeles.

— Qui Bernard — disse. — Sto per partire con la mia limousine per l’aeroporto di San Diego. George è disponibile?

— La receptionist fece alcune chiamate e riuscì a metterlo in linea con George Dilman, il suo ingegnere e talvolta suo pilota.

— George? Mi spiace darti un preavviso così breve, ma è una specie di emergenza. Il jet dev’essere pronto fra un’ora e mezzo, con i serbatoi pieni.

— Dove, stavolta? — chiese Dilman, già abituato a voli lunghi ed a preavvisi brevi.

— Europa. Fra una mezz’ora saprò dirti dove con precisione, così potrai comunicare il piano di volo.

— Ci sarà qualche problema, dottore.

— Un’ora e mezzo, George.

— Saremo pronti.

— Viaggerò da solo.

— Dottore, preferirei pilotare io, in caso…

— Da solo, George.

George sospirò, riluttante. — Va bene.

Riabbassò il contatto del ricevitore e quindi compose un numero di ventisette cifre, che iniziava col prefisso per mettersi in linea via satellite e terminava con una chiave in codice, confidenziale, per inserirsi in un impianto anti-intercettazioni. A rispondere fu una donna, in tedesco.

— Doktor Heinz Paulsen-Fuchs, bitte.

Lei non fece domande. Chiunque avesse potuto usare quella linea il dottore gli avrebbe parlato. Paulsen-Fuchs rispose solo dopo diversi minuti, e nel frattempo Bernard si guardò attorno a disagio, conscio che lì in piena vista stava correndo qualche rischio.

— Paul, qui Michael Bernard. Devo chiederti un favore, una cosa di estrema importanza.

— Herr doktor Bernard! Tu sei sempre il benvenuto, sempre! Cosa posso fare per te?

— Hai un laboratorio a isolamento totale nell’impianto di Wiesbaden? Uno che possa essere reso libero in giornata?

— Per quale scopo? Scusami Michael, ma entro un tempo così breve… è davvero indispensabile?

— Sì, te lo assicuro.

— Se c’è un’emergenza seria, be’… suppongo di sì.

— Bene. Avrò bisogno di quel laboratorio, e anche dei codici privati di comunicazione della B.K. Pharmek. Quando scenderò dal mio aereo dovrò disporre di una tuta isolante, e trasferirmi all’istante in un furgone sigillato per trasporti biologici ad alto rìschio. Poi il mio aereo verrà distrutto sulla pista, e l’intera area dovrà essere cosparsa di schiuma sterilizzante. Credo che sarò tuo ospite… se così si può dire, per un periodo indefinito. Bisogna che il laboratorio sia attrezzato in modo che io possa abitare all’interno e fare il mio lavoro. Dovrò usufruire di un terminale del vostro computer, con tutti i servizi.

— Tu sei un famigerato scolabottiglie, Michael, e quando abbiamo fatto bagordi insieme non ti sei mai smentito. Ma questa ha l’aria di una cosa seria. Stiamo parlando di un contagio, Michael? Qualcosa che hai preso dalla provetta di un laboratorio?

Bernard si chiese come Paulsen-Fuchs avesse scoperto che lui stava lavorando sull’ingegneria genetica. O la sua era solo una deduzione? — È un’emergenza grave, Herr Doktor. Puoi favorirmi?

— La cosa verrà resa pubblica?

— Sì. E andrà a tuo vantaggio, e a vantaggio della tua nazione esserne al corrente in anticipo.

— Sembra una cosa poco divertente, Michael.

Lui provò un irrazionale impulso di rabbia. — A paragone di questo, qualsiasi altra cosa è divertente, Paul!

— Allora quel che chiedi sarà fatto. Quando possiamo aspettarti?

— Entro ventiquattr’ore. Ti ringrazio, Paul.

Riappese e gettò un’occhiata all’orologio. Dubitava che chiunque alla Genetron avesse capito l’enormità di ciò che stava per accadere. Lui stesso faticava a immaginarlo. Ma una cosa era certa: entro quarantott’ore dall’arrivo del rapporto di Harrison alla CDC l’intero continente Nordamericano sarebbe stato praticamente messo in quarantena… sia che le autorità prendessero alla lettera le informazioni o meno. Le parole chiave sarebbero state «epidemia» e «laboratori per l’ingegneria genetica». L’azione sarebbe stata del tutto giustificabile, ma lui non credeva che avrebbe servito a molto. Poi sarebbero state prese misure molto più drastiche.

Non aveva intenzione di restare bloccato negli USA quando questo fosse accaduto, ma d’altra parte non voleva essere responsabile di un diffondersi del contagio. Così si sarebbe offerto come una sorta di cavia ad uso della più attrezzata industria per le ricerche farmaceutiche esistente in Europa.

La mente di Bernard era strutturata in modo da non avere mai ripensamenti o dubbi dell’ultima ora… non nel suo lavoro, comunque. In un’emergenza o in una situazione critica questo gli consentiva di proporre una soluzione in anticipo, non di rado quella corretta. Le soluzioni di riserva restavano a maturare indisturbate nel suo subconscio intanto che lui agiva. Così era sempre stato nelle riunioni operative, e così era adesso. Non guardava a quella sua capacità con molto compiacimento. A volte lo trasformava in un freddo robot, mosso da una fiducia in sé che andava oltre la ragione. Ma doveva ad essa il successo, la posizione di grande prestigio che aveva raggiunto nel campo della ricerca neurofisiologica, e il rispetto di cui godeva presso gli studiosi e il pubblico.

Tornò nella sala-conferenze e recuperò la sua valigetta. La limousine, come sempre, lo attendeva nel parcheggio della Genetron, con l’autista che leggeva o giocava a scacchi su un computer da tasca. — Se avrete bisogno di me, sarò nel mio ufficio — mentì, rivolto ad Harrison. Yng era intento a fissare la lavagna, vuota, con le mani dietro la schiena.

— Ho appena telefonato alla CDC — disse Harrison. — Ci richiameranno per darci istruzioni.

La notizia si sarebbe subito sparsa in tutti gli ospedali della zona. Fra quanto avrebbero ordinato di chiudere gli aeroporti? Fino a che punto sarebbero stati efficienti? — Tenetemi informato, allora — disse Bernard. Uscì dalla porta, e per un attimo esitò chiedendosi se non c’era altro che avrebbe dovuto portare con sé. Decise di no. Nella valigetta aveva copie su disco delle note lasciate da Ulam nel computer. E in quanto ai microrganismi di Ulam li aveva nel sangue.

Di certo questo sarebbe bastato a tenerlo occupatissimo per un po’ di tempo.

Conoscenti? Qualcuno che fosse suo dovere avvertire?

L’una o l’altra delle sue tre ex mogli? Non sapeva neppure dove abitassero, adesso. Era l’amministratore a mandar loro l’assegno degli alimenti. E in realtà non c’era alcun modo sicuro per…

Qualcuno che gli stava davvero a cuore, o a cui stesse a cuore lui?

L’ultima volta che aveva visto Paulette era stato in marzo. S’erano lasciati in modo amichevole. Ogni cosa era stata amichevole. Avevano orbitato l’uno intorno all’altra come un pianeta e una luna, senza mai realmente toccarsi. A Paulette non era piaciuto essere la sua luna, e abbastanza a buon diritto. Era salita in alto col suo lavoro, come direttrice per la citotecnologia alla Cetus Corporation di Palo Alto.

Ora che ci pensava, probabilmente era stata lei a suggerire inizialmente il suo nome ad Harrison alla Genetron. Dopo il loro successo coi biochip. Senza dubbio s’era detta che agiva in modo imparziale e obiettivo, ed era stata all’oscuro dei retroscena.

Non poteva farle una colpa di questo. Ma in lui non aleggiava alcun sentimento che lo spingesse a chiamarla, ad avvertirla.

Sarebbe stata una cosa poco opportuna.

Da suo figlio non aveva ricevuto neppure una lettera in cinque anni. Era da qualche parte in Cina, con una borsa di studio per la ricerca scientifica.

S’era tolto dalla testa anche l’idea della sua esistenza.

Forse non ho proprio nessun bisogno di una camera d’isolamento, pensò. Sono già fin troppo maledettamente isolato dal mondo.

XVII

Sapevano che la morte era vicina. Edward non aveva neppure la forza di muoversi, e con gli occhi socchiusi guardò Gail telefonare ai suoi genitori, poi ad alcuni ospedali, infine alla scuola. Il timore d’aver contagiato i suoi alunni la rendeva quasi frenetica. Lui tentò d’immaginare l’effetto di quella notizia quando la voce si sarebbe sparsa a macchia d’olio. Il panico. Ma Gail non ce la fece a continuare, ebbe un tremito di stanchezza e si lasciò cadere sul letto al suo fianco.

La giovane donna cercò di sedersi e imprecò, fremendo come un cavallo che si sforzasse di alzarsi dopo essersi spezzato una gamba, ma i suoi tentativi furono inutili.

Con le ultime energie si girò verso di lui, e giacquero l’uno nelle braccia dell’altra, bagnati di sudore. Gail aveva gli occhi chiusi, il volto color del gesso. Pian piano il suo corpo si fece inerte come quello di una bambola di pezza. Per un poco Edward pensò che fosse già morta, e pur debole com’era tremò di rabbia e di odio, sentendosi angosciosamente in colpa per ciò che le aveva trasmesso e per la sua lentezza nell’esaminare le peggiori ipotesi. Poi anche questo perse ogni importanza. Perfino tenere gli occhi aperti era troppo faticoso, così li chiuse e attese.

C’era un ritmo nelle sue braccia, nelle sue gambe. A ogni pulsazione del sangue una specie di suono sgorgava in lui come un’orchestra che provasse centinaia di strumenti, ma non all’unisono: erano sinfonie e sinfonie che si sovrapponevano. Musica nel sangue. La sensazione si fece più precisa e udibile, le onde sonore salirono e scesero d’intensità, poi si separarono in intervalli armonici.

Gli intervalli erano ritmati sui battiti del suo cuore.

Nessuno dei due aveva più il senso dello scorrere del tempo. Potevano essere passati giorni quando lui ritrovò abbastanza forza da barcollare fino al lavandino, in bagno. Bevve fino a non poterne più e tornò con un bicchiere d’acqua. Sollevò la testa di Gail e glielo premette alla bocca. Aveva le labbra screpolate, gli occhi rossi e cerchiati da un gonfiore giallastro, ma le era tornato un po’ di colore sulla pelle. — Stiamo morendo, Edward? — ansimò con voce fievole e rauca. — Voglio essere fra le tue braccia quando moriremo.

Qualche minuto dopo lui ebbe l’energia di portarla a sedere in cucina. Sbucciò un’arancia e la divise con lei, e sentì pulsare lo zucchero e il succo e l’acido giù per l’esofago. — Che fine hanno fatto tutti? — mormorò lei. — Ho chiamato l’ospedale, i nostri amici… dove sono?

La sensazione di un’orchestra al lavoro tornò in lui, coi battiti coordinati in frammenti riconoscibili. I frammenti si unirono, cominciarono a esprimere significati, e ad un tratto…

È presente DISAGIO?

— Sì.

Edward aveva risposto automaticamente e con calma, come se si fosse atteso quel contatto e fosse pronto per una lunga conversazione.

PAZIENZA. Ci sono difficoltà.

— Cosa? Non capisco…

°Rispostaimmunizzante°. °Conflitto°. Difficoltà.

— Lasciateci stare, allora! Andate via!

Non possibile. Troppo INTEGRATI.

Non stavano guarendo. Non nel senso che si dà allo scemare di un’infezione. Ogni momentanea sensazione di miglioramento era illusoria. In poche parole, poiché le forze non gli consentivano altro, cercò di spiegare a Gail ciò che sapeva su quel che stava loro accadendo.

Lei riuscì ad alzarsi dalla sedia e andò alla finestra con le gambe scosse da tremiti, poi si appoggiò al davanzale e lasciò vagare gli occhi sul prato e sugli appartamenti di fronte. — Cos’è successo alla gente? — domandò. — L’hanno presa anche loro? È per questo che non c’è nessuno fuori?

— Non lo so. Probabilmente è presto.

— Loro ti… la malattia, ti stava parlando?

Lui annuì.

— Allora non sono impazzita. — Lentamente lei attraversò il soggiorno. — Sento che non ce la faccio più a muovermi. E tu? Forse potremmo cercare di fuggire.

Lui le prese una mano e scosse il capo. — Sono dentro di noi, ormai parte del nostro corpo. Loro sono noi. Dove potremmo fuggire?

— Allora quando non potremo più muoverci voglio stare a letto con te. Voglio le tue braccia intorno a me.

Tornarono a stendersi sul letto e si abbracciarono debolmente.

— Eddie…

Quello fu l’ultimo suono che lui udì. Cercò di opporsi, ma ondate di pace rotolavano su di lui e poté soltanto assorbire quell’esperienza. Fluttuò sopra un immenso mare viola e azzurro. Era il suo corpo visto dall’interno, fatto di distese senza limiti, irretito di percorsi. Gli interventi dei noociti erano visibili ovunque, e gli fu facile rendersi conto dei loro progressi. Era ovvio che il suo corpo era già quasi del tutto noocita e solo ancora in minima parte Milligan.

— Cos’altro ci accadrà?

Non più MOVIMENTO.

— Stiamo morendo?

Cambiando.

— E se non volessimo cambiare?

Niente DOLORE.

— Né paura? Non ci permettete neppure di avere paura?

Il mare azzurro e viola e l’intreccio di percorsi svanirono in una calda tenebra.

Aveva ora quanto tempo voleva per riflettere sui fatti, ma non abbastanza informazioni. Era questo ciò che Vergil aveva sperimentato? Non c’era da stupirsi se era parso scivolare nella follia. Sepolto nella sua prospettiva interna, priva dei rapporti con lo spazio. Sentì un aumento del calore, una vicinanza e una presenza impellente.

(Edward…)

— Gail? Io riesco a udirti… no, non a udirti…

(Edward, so che dovrei essere terrorizzata. Vorrei provare rabbia, ma non posso.)

Non essenziale.

(Andate via! Edward, voglio combatterli…)

— Lasciateci, per favore! Lasciateci!

PAZIENZA. Difficoltà.

Parve loro di scivolare con placida semplicità nel piacere della reciproca compagnia. Ciò che Edward si sentiva accanto non era la forma fisica di Gail, neppure l’immagine che aveva della personalità di lei, ma qualcosa di ancor più convincente con tutti i dettagli e i caratteri della realtà. Stava sperimentando una diversa dimensione di Gail.

— Quanto tempo è trascorso?

(Non lo so. Domandalo a loro.)

Una pausa di silenzio.

(Te lo hanno detto?)

— No. Non credo che loro sappiano veramente come parlare con noi… non ancora. Forse questa è tutta un’allucinazione. Vergil aveva allucinazioni, e può darsi che io stia solo imitando i suoi sogni febbrili…

(Dimmi chi sta dando allucinazioni e a chi. Aspetta. Arriva qualcosa. Puoi vederlo?)

— Non riesco a vedere niente… ma posso percepirlo.

(Descrivimelo.)

— Non posso.

(Guarda… sta facendo qualcosa.)

Con riluttanza: (È bello.)

— È molto… Non credo che ci sia da averne paura. È più vicino, adesso.

Non MALATTIA. Non DOLORE. °Imparare° e °adattare°.

Non si trattava di un’allucinazione, tuttavia non poteva essere descritta a parole. Edward non si agitò mentre la sentiva avvicinarsi.

(Che cos’è?)

— È il posto dove staremo per qualche tempo, credo.

(Resta con me!)

— Naturalmente…

D’improvviso ci fu un gran lavoro da fare e a cui prepararsi.

Edward e Gail crebbero assieme sul letto: sostanza che passava attraverso i vestiti, pelle che si univa solidificando il loro abbraccio, e labbra che si fondevano alle labbra nel punto di contatto.

XVIII

Bernard era molto orgoglioso del suo Falcon 10. L’aveva acquistato a Parigi dal presidente di una fabbrica di computer che era fallito. Per prendere la licenza da pilota gli erano bastati tre mesi di intense lezioni, e da tre anni ormai si coccolava quel levigato jet da affarista internazionale. Con un dito sfiorò amorevolmente il bordo del nero pannello dei comandi, assaporando il contatto del mogano. Era singolare che dopo essersi lasciato tutto alle spalle — e dopo aver perduto tanto — l’interno di un aereo potesse significare per lui qualcosa d’importante. Libertà, appagamento, prestigio… chiaro che nelle prossime settimane, se avesse vissuto tanto, avrebbe subito molti cambiamenti dal lato fisico. Si sarebbe trovato alle prese con la sua fragilità umana, la sua caducità.

L’aereo era stato rifornito al La Guardia senza bisogno che lui lasciasse l’abitacolo. Aveva dato istruzioni per radio, accordandosi col servizio a terra per gli aerei privati, ed era sceso sulla pista. Gli inservienti avevano fatto rapidamente il loro lavoro, quindi lui s’era accordato con la torre di controllo per continuare secondo il suo piano di volo. Non aveva toccato nessuno, né respirato la stessa aria del personale di terra.

A Reykjavik aveva dovuto scendere e provvedere da solo al rifornimento, ma indossava tuta e casco ben stretti ed era stato attento a non toccare niente senza i guanti.

Mentre faceva rotta verso la Germania la mente gli si era schiarita un po’… solo per divenire acuta in modo spiacevole nell’autocritica. Neppure una delle conclusioni cui pervenne gli piacque. Cercò di scacciarle dalla mente, ma nella carlinga c’era poco a cui dedicare la sua attenzione e le accuse e le recriminazioni tornavano di continuo a tormentarlo, finché non decise di mettere il pilota automatico e di affrontarle a viso aperto.

Molto presto lui sarebbe morto. Offrire se stesso alla Pharmek, al mondo che ancora non era stato contaminato, era probabilmente una specie di nobile autosacrificio. Ma questo non bastava certo a compensare ciò che lui aveva lasciato accadere.

Come avrebbe potuto immaginarselo?

— Milligan sapeva — si disse a denti stretti. — Dannazione a tutti loro! — Dannazione a Vergil I. Ulam. Ma lui non era della stessa razza di Vergil, forse? No, questo rifiutava di ammetterlo. Vergil era stato brillante (rivide il corpo arrossato e coperto di escrescenze nella vasca da bagno. Era stato, era stato) ma irresponsabile, cieco alle precauzioni che lui invece avrebbe preso quasi d’istinto. Tuttavia, se Vergil avesse preso quelle precauzioni non avrebbe mai terminato il suo lavoro.

Nessuno glielo avrebbe permesso.

E Michael Bernard sapeva fin troppo bene quanto fosse avvilente vedersi bloccare da altri mentre si stava seguendo una promettente linea di ricerca. Lui avrebbe potuto curare migliaia di vecchi affetti dal Morbo di Parkinson… se solo gli fosse stato concesso di usare parti del tessuto cerebrale di embrioni abortiti. Invece, nel loro fervore moralistico, gli individui — con e senza faccia — da cui era stato fermato avevano contribuito a lasciare migliaia di persone nella sofferenza più umiliante. Quante volte s’era augurato che la giovane Mary Shelley non avesse mai scritto quel romanzo, o almeno non avesse scelto un nome tedesco per il suo scienziato. Tutte le paure nate agli inizi dell’età della scienza vivevano ancora nella mentalità della gente…

Sì, sì, e lui stesso non aveva appena maledetto Ulam per la sua genialità? Non aveva fatto inconsciamente quel paragone?

Il mostro di Frankenstein. Inevitabile. Noiosamente ovvio.

La gente temeva tutto ciò che era nuovo, ogni cambiamento.

E ora anche lui aveva paura, benché ammettere quella paura non fosse facile. Meglio essere razionale e presentarsi come un soggetto di studio, un involontario sacrificio umano come il Dr. Louis Slotin, a Los Alamos nel 1946. Vittime di un incidente, Slotin e altri sette erano stati esposti a una forte dose di radizioni ionizzanti. Slotin aveva ordinato agli altri sette di non muoversi. Poi aveva tracciato circoli intorno ai suoi piedi e ai loro, per dare agli scienziati dati probanti sulla distanza dalla sorgente e sull’intensità dell’esposizione su cui basare i loro studi. Slotin era morto dieci giorni dopo. Un altro era morto vent’anni più tardi per complicazioni attribuite alle radizioni. Altri due erano morti di una forma acuta di leucemia.

Cavie umane. Nobile, stoico Slotin.

Ma non era accaduto loro di desiderare, in quei terribili momenti, che nessuno avesse mai scoperto come scindere l’atomo?

La Pharmek aveva affittato un piccolo aeroporto a due chilometri dai propri impianti di ricerca, nella campagna fuori Wiesbaden, per ricevere scienziati e uomini d’affari, materiali di ogni genere, sostanze chimiche e campioni spediti da squadre di ricerca di tutto il pianeta. Bernard si mise a volare in cerchio sopra i boschi e i campi arati, a tremila metri di quota, proprio mentre il cielo d’oriente si schiariva nell’alba.

Collegò la sua radio secondaria al sistema automatico ILS della Pharmek, e facendo scattare due volte il microfono ottenne l’accensione delle luci del campo. La pista apparve sotto di lui nel grigiore antelucano, con una freccia luminosa laterale che indicava la direzione del vento.

Bernard planò in direzione della doppia fila di luci e sentì le ruote poggiarsi con un lieve tonfo sulla pista di cemento: un atterraggio perfetto, l’ultimo che lo snello jet dirigenziale avrebbe compiuto.

Dal portello laterale della carlinga poté vedere un grosso furgone bianco e alcune persone con indosso tute a protezione integrale, in attesa che lui scendesse. Gli stavano puntando contro un grosso riflettore mobile. Aprì un finestrino e con una mano fece loro cenno di non muoversi da dove stavano. Poi tornò alla radio e disse: — Deponete una tuta isolante a cento metri di distanza dal jet. Il furgone dovrà attendermi altri cento metri ancora più indietro.

Un uomo in piedi sul predellino del furgone ascoltò il collega alla guida e segnalò «ricevuto» alzando il pollice. La tuta in plastica venne appoggiata sulla pista, quindi il furgone e gli uomini indietreggiarono alla distanza richiesta.

Bernard spense i motori e le apparecchiature di bordo, lasciando accese solo le luci interne e il sistema per lo scarico d’emergenza del carburante. Con la valigetta Jeppesen sotto un braccio attraversò la cabina passeggeri e tolse una latta pressurizzata di disinfettante dallo scomparto dei bagagli. Con un profondo respiro si allacciò sulla faccia una maschera-filtro di gomma, e lesse le istruzioni stampate sulla latta. Era fornita di un tubo flessibile, terminante in un beccuccio nero a pistola. Sul grilletto c’era un sigillo che lui strappò.

Con la latta in una mano e l’estremità del tubo nell’altra Bernard tornò nella cabina di pilotaggio e cosparse di spray i comandi, i sedili, il soffitto e il pavimento, finché tutto grondò di fluido verdastro e schiumoso. Poi tornò nello scomparto dei passeggeri e spruzzò ogni cosa che poteva avere toccato, finché la pressione all’interno della latta fu a zero. La depose su uno dei sedili di pelle.

Guardandosi attorno si tastò con una mano la tasca dei pantaloni per accertarsi che la pistola da segnalazione fosse ben infilata, insieme alle sei cartucce di riserva, quindi scese dalla scaletta e andò a deporre la valigetta Jeppesen sulla pista, a una decina di metri dal rosso muso del piccolo jet. Ne tolse gli utensili.

Passo per passo sabotò il velivolo, dapprima svuotando del contenuto i sistemi idraulici, poi spaccando i tubi dell’aria compressa e dei freni. Con un accettino sfondò i vetri della cabina di pilotaggio e gli oblò laterali, arrampicandosi su un’ala per raggiungerli.

Risalì la scaletta, tornò in cabina e si appoggiò a uno dei sedili grondanti di schiuma verde per girare l’interruttore dello scarico d’emergenza del carburante. Un coperchietto schizzò via, scoprendo un pulsante rosso; lo premette e le valvole si aprirono. Bernard uscì in fretta dal velivolo, chiuse la valigetta e corse fin dove la tuta isolante grigia e arancione giaceva sulla pista.

I tecnici e il personale della Pharmek non avevano neppure accennato a intervenire. Bernard si tolse di tasca la pistola e i razzi di riserva, si spogliò completamente nudo e indossò l’indumento pressurizzato. Arrotolando gli indumenti li portò fino alla pozza di benzina sotto il Falcon 10. Tornò indietro, aprì la valigetta, ne tolse soltanto il suo passaporto e lo mise in una scatoletta di plastica. Poi raccolse la pistola.

La cartuccia scivolò liscia nella canna. Prese accuratamente la mira — sperando che la traiettoria non fosse troppo curva — e sparò il razzo contro il jet che era stato il suo orgoglio e la sua gioia.

Il carburante prese fuoco con un’alta fiammata arancione che in pochi secondi si striò di lingue nere, mentre bruciavano plastiche e vernici. Una silhouette scura sullo sfondo di quell’inferno di fiamme; Bernard raccolse la valigetta e s’incamminò verso il furgone.

Era poco probabile che fra i presenti ci fosse un funzionario della dogana, ma per rispettare le formalità legali lui sollevò la scatoletta trasparente col passaporto e la indicò con un dito. Un uomo in tuta isolante simile alla sua si fece avanti e lo prese.

— Niente da dichiarare — disse Bernard. L’uomo sollevò una mano davanti al copricapo integrale in rigida plastica nell’imitazione di un saluto militare, quindi indietreggiò. — Disinfettatemi, prego.

Girò su se stesso sotto il getto di un liquido sterilizzante rosato, sollevando le braccia e uno alla volta anche i piedi. Mentre saliva dalla scaletta nel furgone isolato sentì i filtri dell’aria mettersi in moto e vide accendersi le luci antibatteriche a raggi ultravioletti. Il portello fu chiuso dietro di lui, con un lieve fruscio di guanizioni a tenuta che venivano compresse.

Durante il percorso fino alla Pharmek, su una stretta strada a due corsie fra verdi e umidi pascoli, Bernard poté gettare un’occhiata dal finestrino laterale alla pista dell’aeroporto. La fusoliera del jet era già ridotta a un nero scheletro fumante. Le fiamme lingueggiavano basse sullo sfondo del cielo chiarissimo, e sembrava che nella carcassa di metallo arroventato non vi fosse ormai più niente ad alimentarle.

XIX

Heinz Paulsen-Fuchs guardò l’elenco delle chiamate sullo schermo del suo telefono. Avevano già cominciato. C’erano in corso inchieste di parecchie commissioni governative, inclusi il Bundesumweltamt (l’organo della Sorveglianza Ambientale) e il Bundesgesundheitsamt (l’Ufficio Federale per la Sanità). Le autorità municipali di Francoforte e di Wiesbaden erano altrettanto preoccupate.

Tutti i voli da e per gli Stati Uniti erano stati cancellati. Ci si poteva già aspettare l’arrivo di qualche funzionario, questione di ore. E prima di doversi spiegare con loro Paulsen-Fuchs intendeva avere chiarimenti da Bernard.

Non era quella la prima volta che gli capitava di pentirsi amaramente d’aver aiutato un amico. E non poteva permettersi quella sua debolezza: era uno dei più importanti operatori industriali della Germania post-bellica, e agiva come un sentimentale dal cuore tenero.

Indossò un impermeabile trasparente sul completo di lana grigia e con cura si sistemò il berretto sui capelli bianchi. Poi si fermò davanti alla porta di casa in attesa che la Citroen bagnata di pioggia venisse a fermarsi sul vialetto.

— Buon giorno, Uwe — salutò l’autista, sceso ad aprirgli la portiera, e salì in fretta sul sedile posteriore. — Ti avevo promesso questi per Richard. — Gli porse tre romanzi gialli. Richard era il figlio dodicenne di Uwe, e come Paulsen-Fuchs era un appassionato di narrativa gialla. — Vai un po’ più in fretta del solito, per favore.

— Devi scusarmi se non ti sono venuto incontro all’aeroporto — disse Paulsen-Fuchs. — Ero qui a preparare le cose per il tuo arrivo… e poi sono stato chiamato altrove. Il mio Governo ha già ordinato inchieste a vari livelli. Sta succedendo qualcosa di molto serio. Tu ne sei al corrente?

Bernard si avvicinò al triplo cristallo della larga finestra che separava il laboratorio a isolamento biologico dall’anticamera. Sollevò una mano a mostrare l’intreccio di linee bianche che la ricopriva. — Sono contaminato.

Paulsen-Fuchs strinse le palpebre e si grattò una guancia con due dita. — È chiaro che non sei il solo, Michael. Cosa sta succedendo in America?

— Da quando ne sono partito non ho saputo più niente.

— Il vostro Centro Controllo Malattie Epidemiche di Atlanta ha diramato istruzioni d’emergenza. Tutti i voli interni e internazionali sono stati aboliti. Si dice che alcune città non rispondano alle comunicazioni, sia radio sia telefoniche. Sembra che molti stati siano in preda al caos. Ora tu sei venuto qui, hai bruciato il tuo aereo sulla pista, facendo in modo di essere l’unica creatura vivente e ben sterilizzata giunta fino a noi da oltre oceano. Che genere di provvedimenti ti aspetti da noi, Michael?

— Paul, ci sono diverse misure che il resto del mondo dovrà prendere immediatamente. Bisogna che mettiate in quarantena tutti i viaggiatori arrivati di recente dagli USA e dal Messico… possibilmente da tutto il Nord America. Non ho idea di quanto lontano possa estendersi il contagio, però sembra che si espanda rapidamente.

— Sì, il nostro Governo sta già lavorando in questa direzione. Ma tu sai quanto sia lenta la burocrazia…

— Dovete aggirare la burocrazia. Troncate ogni contatto fisico col Nord America.

— Non posso certo convincerli, se mi limito a suggerire…

— Paul — disse Bernard, tornando a mostrargli le mani. — Ho forse una settimana; meno se quel che riferisci è certo. Spiega al tuo Governo che questa è più che una semplice epidemia. Ho tutti i dati più importanti nella mia valigetta. Dovrò conferire coi vostri migliori biologi appena avrò fatto un paio d’ore di sonno. Prima che vengano a parlarmi, voglio che si studino gli appunti che ho portato con me. Inserirò i dischi nel terminale, qui. Adesso non posso dirti molto di più. Casco letteralmente dal sonno.

— Molto bene, Michael. — Paulsen-Fuchs si morse le labbra, il volto segnato da rughe di preoccupazione. — È una delle cose che avevamo ipotizzato potessero accadere?

Bernard ci pensò un momento. — No — mormorò. — Direi di no.

— Ancora peggio, allora — disse Paulsen-Fuchs. — Farò subito il necessario. Trasferisci i dati nel computer. E poi dormi. — Spense la luce nella camera di osservazione e uscì.

Bernard attraversò la sua nuova abitazione, un locale di appena tre metri per tre. Il laboratorio era stato costruito nel 1980 per esperimenti genetici che all’epoca venivano ritenuti potenzialmente pericolosi. L’intera camera interna era sospesa in un contenitore ad alta pressione; ogni falla nella parete avrebbe prodotto un ingresso di aria, non una fuga. L’intercapedine pressurizzata poteva essere saturata da diversi tipi di disinfettanti, ed era circondata da un altro contenitore in cui c’era il vuoto pneumatico. Tutti i contatti elettrici e i sistemi meccanici che passavano attraverso i contenitori erano immersi in un bagno di soluzione sterilizzante. L’aria e i rifiuti in uscita dal laboratorio venivano sottoposti a due successivi processi di cremazione; ogni campione prelevato dall’interno passava in un locale adiacente dove lo si trattava con cautela non minore. Da quel momento fino alla soluzione del problema, o alla morte di Bernard, nulla che provenisse dal suo corpo sarebbe stato toccato da un altro essere vivente fuori dal laboratorio.

Le pareti erano di un grigio neutro; la luce era data da lampade al neon incorporate verticalmente nei muri, e da tre pannelli mobili a luce diurna controllabili sia dall’interno sia dall’esterno. Il pavimento era in lisce mattonelle nere. Nel centro del locale, chiaramente visibile da entrambe le opposte camere di osservazione, c’era una scrivania da ufficio con una poltroncina girevole, e su di essa campeggiava un terminale VDT ad alta risoluzione. Un letto dall’aspetto pratico ma comodo, privo di lenzuola e di coperte, lo attendeva in un angolo. Uno scaffale a cassetti stava sotto il portello d’acciaio a chiusura ermetica del passa-oggetti. Alla parete opposta un’altra scaffalatura conteneva attrezzi più voluminosi. L’arredamento era completato da un tavolo da lavoro e da una doccia-gabinetto chiusa da una tenda, che sembrava essere stata tolta di peso da un piccolo aereo o da un veicolo per lunghi percorsi.

Sollevò i pantaloni e la camicia lasciati per lui sul lettuccio e ne tastò la stoffa fra il pollice e l’indice. Non ci sarebbe stata alcuna concessione all’intimità e alla decenza da quel momento. Lui non era più una persona privata. Sarebbe stato studiato, tenuto in gabbia e analizzato dai medici, e trattato in tutto come un animale da laboratorio.

Molto bene, pensò, stendendosi sul letto. Me lo sono meritato. Mi merito qualunque cosa accadrà adesso. Mea culpa.

Bernard si rilassò sul materasso e chiuse gli occhi.

Le pulsazioni del sangue gli suonavano negli orecchi.

METAFASE

NOVEMBRE

XX

Brooklyn Heights

— Mamma? Howard? — Suzy McKenzie s’infilò il vestito di flanella azzurro-cielo che il suo ragazzo le aveva regalato il mese prima in occasione del suo diciottesimo compleanno, e uscì a piedi nudi in corridoio. — Ken? — Come al solito lei era l’ultima ad alzarsi dal letto. Suzy la Pigra, così talvolta si riferiva a se stessa con un sorrisetto segreto.

Non teneva orologi nella sua camera, ma fuori dalla finestra il sole era abbastanza alto da far pensare che fossero almeno le dieci. Le porte delle altre stanze da letto erano chiuse. — Mamma? — Bussò piano alla camera di sua madre. Non ci fu risposta.

Sicuramente uno dei suoi fratelli era già alzato. — Kenneth? Howard? — A metà del corridoio tornò indietro, facendo cigolare alcune assicelle del pavimento di legno. Girò la maniglia della prima porta e aprì. — Mamma? — Il letto non era stato ancora rifatto, e le coperte giacevano per metà in terra. Dovevano essere tutti al piano di sotto. Andò in bagno a lavarsi la faccia, ispezionò la pelle delle guance in cerca di eventuali punti neri e fu soddisfatta di non trovarne neppure uno, quindi scese le scale e attraversò l’andito. Non si sentiva volare una mosca.

— Ehi! — chiamò dal soggiorno, confusa e di malumore. — Nessuno mi ha svegliato. Farò tardi al lavoro! — Da tre mesi era stata assunta come cameriera in un ristorante delle vicinanze. Quel lavoro le piaceva (era molto più interessante e reale che sgobbare nella cucina economica dell’Esercito della Salvezza) e le permetteva di dare un contributo in casa. Sua madre aveva perso l’impiego tre mesi prima e vivevano con gli assegni saltuari del padre di Suzy, oltreché coi loro risparmi in rapida diminuzione. Gettò uno sguardo all’orologio navale Benrus sul tavolo e scosse il capo. Le dieci e mezzo; era sul serio in ritardo. Ma questo non la preoccupava come il pensiero di dove potessero esser andati gli altri. Bisticciavano spesso, certo, però erano una famiglia molto unita (salvo il padre, di cui lei difficilmente sentiva la mancanza. Non molto, comunque) e nessuno sarebbe uscito senza dirle niente, tantomeno senza svegliarla.

Spinse la porta a molla della cucina e dopo due passi si fermò di colpo. Dapprima i suoi occhi non registrarono ciò che si trovò davanti: tre forme stranamente scomposte, tre corpi, uno contenuto in un vestito da donna e steso sul pavimento, contro la base del lavandino, un altro con i soli jeans addosso e seduto al tavolo di cucina, e il terzo mezzo dentro e mezzo fuori dalla dispensa. Nessun movimento, nessun rumore, soltanto tre corpi che lei non riuscì affatto a riconoscere.

Per un poco la ragazza non ebbe alcuna reazione. Riusciva solo a pensare che aprire la porta in quel momento doveva essere stato un errore: se l’avesse aperta un secondo prima, o un secondo dopo, tutto quanto sarebbe stato normale. In qualche modo avrebbe allora spalancato una porta diversa — la porta del suo mondo — e la sola cosa fuori posto sarebbe stato il fatto che nessuno l’aveva svegliata per tempo. Invece lei non era stata attenta, e questo era proprio spiacevole: aveva aperto la porta nel momento sbagliato, e adesso era troppo tardi per richiuderla.

Il corpo accanto all’acquaio indossava un vestito di sua madre. La faccia, le braccia, le gambe e le mani erano marcate da rigonfie strisce bianche. Suzy fece un altro breve passo avanti, col fiato mozzo e accelerato. La porta le scivolò via dalle dita e si richiuse. Indietreggiò e fece un passo di lato, come se il suo corpo scattasse in una danza di terrore e indecisione. Avrebbe dovuto chiamare la polizia, naturalmente. Forse un’ambulanza. Ma prima doveva scoprire cos’era successo, e tutti i suoi istinti la spingevano a correre via da quella cucina, a fuggire in strada.

Howard aveva vent’anni, e d’abitudine in casa girava con i soli jeans, senza camicia. Gli piaceva andare a petto nudo da quando aveva messo su un robusta massa muscolare. Ora il suo torace era di un colore bruno rossastro, come quello di un indiano, strisciato da protuberanze simili a quelle di un’asse per lavare vecchio stile. Aveva gli occhi chiusi, la bocca chiusa, e i lineamenti distesi. Stava ancora respirando.

Kenneth — doveva essere Kenneth — sembrava più un mucchio di frittelle avvolto in un vestito che il suo fratello più anziano.

Qualunque cosa fosse accaduta era totalmente incomprensibile. Si chiese se non si trattasse di una cosa che tutti gli altri già sapevano, ma di cui avessero dimenticato d’informarla.

No, questo non aveva senso. A volte la gente era crudele con lei, ma sua madre e i suoi fratelli non erano mai crudeli. La cosa migliore era uscire di lì e chiamare la polizia, o qualcuno. Qualcuno che sapesse ciò che bisognava fare.

Nell’ingresso scorse la lista di numeri appesa sopra il vecchio telefono nero, quindi cercò di comporre quello del soccorso d’emergenza. Le sue dita tremanti incespicavano nei fori del disco. Aveva gli occhi pieni di lacrime quando finalmente riuscì a fare le tre cifre.

Per alcuni minuti l’auricolare le trasmise soltanto il suo monotono squillo. Poi una registrazione le rispose: — Le nostre linee sono sovraccariche. È pregato di non riappendere o perderà la sua priorità. — Tornarono a farsi udire gli squilli. Dopo altri cinque minuti, con un singhiozzo, riappese e compose il numero della centrale telefonica. Neppure da lì ebbe risposta. D’un tratto ricordò quel che aveva detto sua madre la sera prima circa una qualche specie di epidemia in California. Ne aveva parlato la radio. Gente che si ammalava, e l’esercito chiamato a prestare soccorso. Soltanto allora, scossa da quel pensiero, Suzy McKenzie corse fuori dalla porta d’ingresso, si fermò sugli scalini e chiamò aiuto con voce rotta.

La strada era deserta. Su entrambi i lati erano parcheggiate file di auto… incomprensibilmente, perché la sosta era proibita dalle otto alle diciotto di tutti i giorni salvo il giovedì e il venerdì, e quello era un giovedì, e la polizia non scherzava. Non c’era un’auto in movimento. E non si vedeva un’anima né sui marciapiedi, né in macchina, né alle finestre delle case. La ragazza cominciò a correre in una direzione a caso, piangendo e a tratti gridando in tono supplichevole, poi con rabbia, quindi con voce stridula per il terrore, infine di nuovo invocando aiuto.

Smise di gridare quando vide un postino steso al suolo davanti a un elegante edificio d’appartamenti, fra le cancellate che portavano all’ingresso. Giaceva sulla schiena, a occhi chiusi, e sembrava ridotto proprio come Howard e sua madre. Per Suzy i postini erano sacri e degni di fiducia come i poliziotti. Si passò le mani sulla faccia come per toglierne la maschera di terrore e chiuse gli occhi, cercando di pensare. — Quell’epidemia si è sparsa dappertutto — si disse. — Qualcuno dovrà pur sapere cosa bisogna fare.

Tornò a casa sua e prese di nuovo il telefono. Poi cominciò a chiamare tutti i numeri che conosceva. Alcuni squillarono a vuoto, altri risposero solo col silenzio o con strani rumori da computer. Rifece il numero del suo ragazzo, Cary Smyslov, e ascoltò l’apparecchio suonare otto, nove, dieci volte prima di riappendere. Fece una pausa, rifletté qualche istante, quindi chiamò sua zia Dawn, nel Vermont.

Stavolta ebbe risposta al primo squillo. — Pronto? — La voce era tremula e sfinita, ma apparteneva senza dubbio a sua zia.

— Zia Dawn, qui è Suzy, da Brooklyn. Ci sta succedendo una cosa terribile, noi…

— Suzy? — balbettò la donna, come incapace di collegare quel nome.

— Sì, lo sai, Suzy. Suzy McKenzie.

— Cara, adesso non mi sento troppo bene. — La zia Dawn non era una vecchia decrepita. Aveva soltanto trentun’anni. Ma la sua voce adesso ne dimostrava il doppio.

— La mamma è malata, forse è morta, non lo so, e Kenneth e Howard, e qui non c’è più nessuno, oppure sono tutti ammalati, e io non so cosa…

— Anch’io mi sento molto male — disse zia Dawn. — Ho preso quei bubboni. Tuo zio non è tornato a casa, o forse è in garage. Comunque non lo vedo da… — Ebbe un ansito. — Da ieri sera. Parlava da solo come un matto. E non è ancora rientrato. Cara…

— Cosa sta succedendo? — gridò Suzy, con voce rotta.

— Cara, io non lo so, ma non ce la faccio più a parlare. Penso che stia diventando matta. Arrivederci, Suzy. — E poi, incredibilmente, riattaccò. La ragazza cercò di chiamarla ancora ma non ci fu risposta, e infine, alla terza volta, neppure lo squillo sulla linea.

Fu sul punto di aprire l’elenco telefonico e di fare chiamate a caso, ma lasciò perdere quell’idea e tornò in cucina. Doveva sforzarsi di fare qualcosa per loro… tenerli al fresco, oppure al caldo, o trovare nell’armadietto un qualche medicinale che potesse servire.

Sua madre era visibilmente assottigliata. Le creste bianche sembravano essersi gonfiate molto sul volto e sulle braccia. Suzy allungò una mano verso una guancia della donna, esitò, poi si costrinse a toccarla. La pelle era tiepida e asciutta, non febbricitante, abbastanza normale a parte il colore. In quel momento sua madre aprì gli occhi.

— Oh, mamma! — gemette Suzy. — Cosa sta succedendo?

— Be’… — disse la donna. Si passò la lingua sulle labbra. — È abbastanza bello in questo momento. Tu stai bene, vero? Ah, Suzy! — Poi chiuse gli occhi e non disse altro. La ragazza si volse a Howard, che sedeva appoggiato al tavolo. Gli sfiorò un braccio, e sentendo che la pelle sembrava sgonfiarsi come un sacco vuoto fece un balzo indietro. Solo allora notò l’intreccio di tubicini simili a radici che gli sbucavano da sotto i pantaloni e andavano a sparire dentro una fessura, fra il pavimento e il muro.

Altre di quelle strane radici emergevano dal corpo color pastafrolla di Kenneth, e giravano dietro l’angolo della dispensa. E seminascosto dalla schiena di sua madre c’era un singolo spesso tubo di carne pallida, che uscendo da sotto la gonna serpeggiava fin dentro l’armadietto accanto all’acquaio. In un istante di follia Suzy pensò che quello era cinema dell’orrore, un trucco, e che i suoi familiari stavano girando un film senza averle detto niente. Si accostò a sbirciare dietro al corpo di sua madre. Lei non era un’esperta, però quel tubo di carne non era un trucco. Poteva vedere il sangue che pulsava dentro di esso.

Lentamente Suzy risalì le scale e tornò in camera sua. Sedette sul letto, passandosi le dita fra i lunghi capelli biondi e del tutto inconscia di quel che faceva, infine si distese e fissò la vecchia tappezzeria argentea del soffitto. — Gesù, ti prego, vieni ad aiutarmi perché ho bisogno di te adesso — mormorò. — Gesù, ti prego, vieni ad aiutarmi perché ho bisogno di te adesso.

La ragazza continuò a sussurrare suppliche per ore e ore, finché nel pomeriggio la sete la costrinse ad andare a bere nel bagno. E anche dopo aver inghiottito qualche sorso ripeté meccanicamente la sua preghiera, finché l’insensata monotonia della cosa non la ridusse al silenzio. Si appoggiò alla ringhiera delle scale, sempre vestita con l’abito azzurro che aveva messo quel mattino, e cominciò a pensare a quel che doveva fare. Lei non era ammalata — non ancora — e certamente non era morta.

Dunque doveva esserci qualcosa che potesse fare, qualche posto dove andare.

E tuttavia, in un angolo della mente, ancora sperava che forse nell’aprire una porta o nel girare un angolo di strada avrebbe trovato il varco attraverso il quale tornare nel suo mondo normale. Non credeva che ciò fosse probable, ma per quella vaga speranza valeva la pena di muoversi.

C’erano da prendere alcune difficili decisioni. A cosa le servivano la sua educazione e tutti i suoi studi se non riusciva a pensare a se stessa ed a prendere decisioni difficili? C’era una cosa che non voleva fare, ed era di andare in cucina, però il cibo era in cucina. Avrebbe potuto tentar di penetrare in altre case, o nel negozio di alimentari in fondo al caseggiato, ma sospettava che avrebbe trovato altri corpi là.

Se non altro questi corpi — vivi o morti — erano i i suoi familiari. Entrò in cucina tenendo o sguardo sul soffitto. Poco a poco però, mentre passava da un armadietto all’altro, i suoi occhi si abbassarono. I corpi erano diminuiti di volume visibilmente; Kenneth sembrava poco più che una chiazza coperta da filamenti negli abiti afflosciati. Le radici color carne serpeggiavano sul pavimento, si arrampicavano su per l’acquaio e sparivano nel foro stappato dello scarico. Rigida, aspettandosi che da un momento all’altro qualcosa si protendesse ad afferrarla — o che sua madre o Howard si alzassero come orribili zombies — strinse i denti finché si sentì dolere la mandibola, ma nessuno di loro si mosse. Non avevano più neppure l’aspetto di qualcosa capace di muoversi.

Uscì da lì con una cassetta piena di roba in scatola: il cibo che pensava le sarebbe bastato per qualche giorno… e l’apriscatole, che s’era quasi dimeticato.

Era il crepuscolo quando le venne l’idea di accendere la radio. Non avevano più avuto un apparecchio televisivo da dopo che l’ultimo s’era guastato oltre ogni possibilità di riparazione; la sua carcassa ora raccoglieva polvere nel sottoscala fra pile di vecchie riviste. Accese l’apparecchio, che sua madre teneva sempre con le pile cariche, e metodicamente esplorò le frequenze. Da bambina aveva manovarato con abilità la sua piccola radio, ma ora tutte quelle cifre non le dicevano niente.

Sulle bande AM e FM non stava trasmettendo neppure una stazione. Passò a esaminare le onde corte: lì alcune si ricevevano con chiarezza, però nessuna era in lingua inglese.

La stanza s’era fatta sempre più buia. Un estremo dubbio bloccò il suo desiderio di accendere la luce: se tutti erano ammalati ci sarebbero state ancora luci?

Quando la stanza fu immersa dalle d’ombre e non ci fu modo di evitare il dilemma — sedere nel buio o scoprire se doveva sedere nel buio — andò alla grossa lampada a stelo accanto al divano e girò l’interruttore.

La luce si diffuse, intensa e ferma.

Questo squarciò la diga che aveva alzato davanti alle sue emozioni, e cominciò a piangere. Stesa sul divano e con le ginocchia strette al petto si rotolò da una parte e dall’altra, gemendo come una demente, il volto bagnato di lacrime e le mani nei capelli. Con la lampada che spandeva luce dorata e impersonale sul suo pianto singhiozzò finché la gola cominciò a dolerle e gli occhi le si gonfiarono al punto che non riusciva più a tenerli aperti.

Senza mangiare nulla risalì al piano di sopra, accese tutte le luci — ogni lampada in più era un’amica — e crollò sul letto. Ma non poté dormire, perché con l’immaginazione continuava a udire orribili passi su per le scale e cose che strisciavano in corridoio fino alla sua porta.

Quella notte durò un’eternità, e nel lento trascorrere delle ore Suzy diventò un po’ più matura, o soltanto un po’ pazza, non seppe stabilire quale delle due cose. Alcuni fatti smisero di pesarle addosso. Seppe che aveva la forza di volontà, ad esempio, di lasciarsi il passato alle spalle per cercare un nuovo modo di vivere. Si aggrappò a quella risoluzione nella speranza che qualunque cosa fosse accaduta questo non impedisse alle luci di brillare ogni notte.

L’alba la trovò in uno stato di esaurimento psichico: sfinita, affamata ma nauseata all’idea di mangiare, i muscoli tesi e contratti dalla paura e dalla mancanza di sonno. Bevve ancora dal rubinetto del bagno… e d’improvviso ricordò le radici carnose che s’immergevano nell’acquaio. Con un sussulto si ritrasse e sedette sul bordo della vasca, restando a fissare insospettita il getto d’acqua limpida. Infine la sete la convinse a correre il rischio, ma si ripromise di aggiungere alle provviste qualche bottiglia d’acqua.

In soggiorno fece colazione con carne in scatola fredda e piselli, e scoprì d’essere abbastanza affamata da vuotare inoltre un vasetto di marmellata di prugne. Lasciò le scatolette in fila sul malconcio tavolino da caffè. Poi ripulì il barattolo di marmellata; niente le era mai parso così gustoso.

Tornò a stendersi in camera da letto, e stavolta dormì per cinque ore, finché un tonfo rumoroso non la strappò dal sonno. Qualcosa era caduto, all’interno della casa. Cautamente scese le scale e sbirciò nell’ingresso e nel soggiorno.

— Non in cucina — sussurrò, e all’istante fu certa che il rumore era giunto proprio da lì. Lentamente aprì la porta a molla. Le vesti di sua madre — ma non sua madre — giacevano in un mucchietto davanti all’acquaio. Suzy entrò e guardò la soglia della dispensa, dov’era stato Kenneth. Vestiti vuoti e nient’altro. Si volse.

I jeans di Howard poggiavano su una gamba della seggiola, rovesciata di lato. Un lucido strato simile a una tappezzeria marroncina ricopriva tutte le pareti del locale, delineando nettamente la forma delle cornici, degli infissi e degli oggetti che ricopriva.

La ragazza prese la scopa dall’angolo dietro il frigorifero e fece qualche passo avanti, puntando il manico contro quella strana tappezzeria. Sto diventando incredibilmente coraggiosa, pensò. Dapprima premette leggermente il lenzuolo marroncino; la sua superficie si aprì e il manico penetrò oltrepassando la vernice, l’intonaco e fermandosi solo contro i mattoni sottostanti. Il lenzuolo fu percorso da fremiti ma non ebbe altra reazione. — Tu! — strillò lei. Vibrò la scopa avanti e indietro lungo lo strato, aprendovi squarci da un angolo all’altro della parete. — Tu!

Quando dozzine di frammenti furono piombati a terra e il muro fu pieno di buchi, lei gettò via la scopa e fuggì dalla cucina.

L’orologio navale batté l’una del pomeriggio. Suzy riprese fiato e fece il giro della casa, spegnendo le luci. Quella miracolosa energia poteva abbandonarla presto, perciò doveva usarla senza perdere tempo.

Prese l’agenda degli indirizzi dal tavolino del telefono e fece l’inventario dei rifornimenti di cibo, annotando ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Le restavano almeno cinque ore di luce diurna, poco più se calcolava il lungo crepuscolo. S’infilò il soprabito e uscì, lasciando la porta aperta dietro di sé.

Sotto il soprabito aveva una tuta azzurra da ginnastica, sulla quale aveva infilato un pesante pigiama. Tenendosi al centro della strada fra le immobili file delle auto si diresse all’angolo dove c’era il negozio di generi alimentari, riflettendo che non aveva con sé neanche un dollaro ma decisa a capire cos’era successo nel resto di Brooklyn e nel mondo esterno. Si sentiva perfino vagamente tranquilla. Il vento si stava rinfrescando ancora e refoli di foglie secche staccatesi dai rari alberi scivolavano sull’asfalto. L’edera s’arrampicava sulle cancellate dei minuscoli giardini davanti alle case, e sui davanzali delle finestre i vasi da fiori erano vivaci chiazze di colore.

L’ingresso principale della Mithridates’ Grocery era chiuso da una saracinesca a inferriata. Sbirciò attraverso le sbarre delle finestre chiedendosi se non ci fosse un modo per entrare, e le venne in mente la porta di servizio oltre l’angolo. Con suo sollievo la trovò socchiusa: dovette spingere con tutta la sua forza un pesante battente rinforzato in metallo per aprire un po’ di più. Scivolò dentro e lo controllò con un’occhiata per accertarsi che non si sarebbe richiuso. Nel corridoio di servizio scavalcò un altro mucchietto di vestiti distesi a terra, spinse la porta a molla e penetrò nel vasto negozio silenzioso.

Decisa ad agire con metodo Suzy andò all’ingresso e prese un carrello. Ne tolse via una foglia di lattuga appassita e un lungo scontrino rilasciato dalla cassa, quindi si avviò lungo i banchi scegliendo quello che le parve un buon rifornimento di cibarie. Le sue abitudini alimentari non erano fra le migliori; tuttavia il suo corpo aveva una linea molto più estetica di tutti i fanatici delle diete e della macrobiotica che conosceva… cosa questa che le dava una solenne sensazione d’orgoglio.

Prese scatolette di prosciutto, confezioni di bistecche sottovuoto, lattine di pollo disossato, verdura fresca e frutta (immaginando che presto non ce ne sarebbe stata più), marmellata, tutte le bottiglie d’acqua minerale che poté mettere in una cassetta per liquori nello scomparto inferiore del carrello, pane e qualche leggera confezione di brioches, e due contenitori di latte ancora freddo dai banconi a bassa temperatura. Si fornì di aspirina e di shampoo, pur chiedendosi per quanto tempo ancora vi sarebbe stata acqua nelle case, e di una grossa confezione di vitamine. Sullo scaffale dei sanitari cercò qualcosa che potesse combattere ciò di cui era stata preda la sua famiglia… e il postino, e il padrone del negozio, e forse tutti gli altri. Lesse e rilesse le etichette su tutte le confezioni e i barattoli che c’erano, ma non trovò niente che le sembrasse adatto.

Spinse infine il carrello fino ai registratori di cassa, fermandosi nello spazio fra questi e la porta chiusa. Nessuno a cui pagare. Una fortuna, visto che non aveva soldi. Oltrepassò il cancelletto girevole e tornò sul retro. Era a mezza strada quando un pensiero la rese perplessa, e girò nuovamente il carrello verso la cassa.

Proprio dove immaginava che ne avrebbe trovata una, nel cassetto sotto il registratore, c’era una grossa pistola nera a canna lunga. La esaminò cautamente, badando bene a non puntarsela addosso, finché non scoprì il modo di far ruotare il tamburo. Era caricato con sei grosse pallottole.

Suzy detestava le armi. Suo padre aveva alcuni fucili da caccia, e le poche volte che gli aveva fatto visita era stata avvertita di starne lontana e di non sfiorarli neppure. Ma una pistola era un’arma da difesa non un giocattolo, e lei non intendeva giocare con quell’affare, di questo era certa. D’altro canto dubitava che si sarebbe trovata davanti a qualcosa a cui avrebbe potuto sparare con qualche risultato effettivo.

— Però non si sa mai — disse. Mise la pistola in una scatola di plastica marrone e la sistemò nel piccolo scomparto anteriore, poi spinse il carrello nel corridoio sul retro, oltrepassò i vestiti del negoziante e uscì sul marciapiede.

Tornata a casa sistemò le cibarie nell’ingresso ed esitò, con un cartone di latte in ogni mano, cercando di decidere se doveva andare a metterli in frigorifero. — Andrà a male, se non lo faccio — disse a se stessa, sforzandosi d’assumere un tono pratico. — Oh, Dio! — mormorò con un tremito violento. Depose i cartoni e si strinse le braccia al petto. Chiudendo gli occhi aveva l’impressione di vedere tutte le cucine di Brooklyn, piene di vestiti afflosciati a terra o di corpi che si dissolvevano. Si appoggiò alla ringhiera delle scale e chinò il capo. — Suzy, Suzy… — sussurrò. Trasse un lungo respiro, si raddrizzò e raccolse i contenitori. — Devo andare — si disse con uno sforzo di volontà.

Il lenzuolo marroncino era svanito, lasciando solo una quantità di buchi nei muri. Aprì il frigorifero e mise il latte nello scomparto inferiore, poi tirò fuori qualcosa da preparare per cena.

La vista dei vestiti sul pavimento la disturbava. Raccolse la scopa e smosse gli indumenti di sua madre per vedere se ci fosse qualcosa nascosta fra la stoffa; non c’era niente. Sollevò la gonna fra il pollice e l’indice. Un paio di slip e la maglietta scivolarono al suolo, e dagli slip rotolò fuori un tampone assorbente bianco. Qualcosa tintinnò sotto la camicetta e lei si chinò a guardare. Minuscoli pezzi di metallo grigio e d’oro, di forma irregolare.

La spiegazione riuscì a emergere dalla nebbia d’angoscia che le aveva ottuso la mente: otturazioni dentarie e capsule d’oro.

Raccolse gli abiti e li gettò nella cesta della biancheria sporca nella veranda posteriore. Per quello che valevano, pensò. Addio mamma, e Kenneth, e Howard.

Poi spazzò il pavimento, raccolse le otturazioni e la polvere (non c’erano scarafaggi morti, il che era insolito) con una paletta e vuotò il tutto nella pattumiera accanto al frigorifero.

— Io sono la sola — disse quand’ebbe finito. — Sono la sola rimasta a Brooklyn. Non mi sono ammalata. — In piedi davanti al tavolo mordicchiò pensosamente la mela che aveva tolto dalla fruttiera. — Perché? — chiese.

— Perché — si rispose, girando per la cucina ed esplorando con gli occhi ogni angoletto nascosto, — perché sono bellissima, e il diavolo mi vuol prendere in sposa.

XXI

— Negli ultimi quattro giorni — disse Paulsen-Fuchs, — abbiamo perso i contatti con la maggior parte del continente nordamericano. L’eziologia del morbo non è nota con precisione, tuttavia è chiaro che non corrisponde a nessuno dei vettori noti agli epidemiologi. Gli appunti di Mr. Bernard indicano che i microrganismi portatori della malattia sono essi stessi intelligenti e capaci di azioni predeterminate.

I visitatori nella camera di osservazione — direttori della Pharmek e rappresentanti di quattro nazioni europee — sedevano con faccia impassibile nelle loro poltroncine. Paulsen-Fuchs, in piedi di fronte agli esponenti francesi e danesi, dava le spalle alla tripla finestra. Si volse a indicare Bernard, che sedeva alla scrivania e ne tocchettava il piano con una mano pesantemente segnata da creste bianche.

— Con gran rischio personale, e una certa sconsideratezza, Mr. Bernard è venuto in Germania Occidentale per fornirci di un soggetto per i nostri esperimenti. Come potete vedere le strutture di cui disponiamo sono ben equipaggiate per dare a Mr. Bernard un sicuro isolamento, senza che ci sia bisogno di trasferirlo in altri laboratori o ospedali. Un simile trasferimento potrebbe in effetti essere molto pericoloso. Siamo comunque ben disposti ad accogliere suggerimenti esterni sulla condotta da seguire.

«Francamente, anzi, non sappiamo ancora quale genere di esperimento iniziare. Campioni di tessuto prelevati a Mr. Bernard indicano che la malattia (se vogliamo chiamarla così) avanza rapidamente nel suo organismo, benché non ne stia ancora danneggiando le funzioni. In realtà egli dichiara che, con l’eccezione di alcuni sintomi peculiari di cui parleremo più tardi, non si è mai sentito meglio in vita sua. Ed è evidente che la sua anatomia ha subito alterazioni sostanziali.

— Perché Mr. Bernard non si è trasformato completamente? — chiese il rappresentante della Danimarca, un giovanotto grassoccio dai capelli a spazzola vestito di un completo nero. — Dai nostri contatti radio con gli Stati Uniti risulta che la trasformazione e la dissoluzione avvengono entro una settimana dal contagio.

— Non lo so — rispose Bernard. — La mia situazione non è identica a quella di chi ne è stato affetto in un ambiente esterno. Forse gli organismi nel mio corpo sono consci che non converrebbe loro completare la trasformazione.

Lo stupore delle persone che lo fissavano gli confermò che non avevano ancora afferrato ciò che erano i noociti. O forse semplicemente non gli credevano.

Paulsen-Fuchs proseguì la conferenza, ma Bernard chiuse gli occhi e cercò di ignorare i visitatori. Era peggio di quel che aveva immaginato: in appena quattro giorni lo avevano costretto (esibendo cortesia e mielata preoccupazione) a sopportare quattordici riunioni di quel genere, una raffica di test condotti attraverso il pannello di comunicazione, e domande su ogni aspetto della sua vita, passata e presente, privata e pubblica. Era al centro dell’ondata secondaria di spavento che stava facendo il giro del mondo, l’ondata della reazione a ciò che era accaduto nel Nord America.

Ne era venuto via appena in tempo. L’eziologia dell’epidemia s’era alterata enormemente e ora seguiva diversi schemi, o forse nessuno schema; era possibile che i microrganismi reagissero all’ambiente e si accordassero per diversificare il loro comportamento. Comunque le grandi città tendevano a cadere in un improvviso silenzio, con tutti o quasi i loro abitanti trasformati a quarantott’ore dal momento del contagio. Le piccole città e le zone rurali, forse per la scarsezza di fognature e condutture d’acqua, venivano colpite più gradualmente. Lì il contagio sembrava espandersi usando come veicoli gli animali e gli insetti più che gli esseri umani.

Fotografie a raggi infrarossi, prese da satelliti meteorologici e satelliti spia, e analizzate in Giappone e in Gran Bretagna, mostravano incipienti cambiamenti perfino lungo le foreste e le vie d’acqua del Nord America.

Michael Bernard aveva già l’impressione di non esistere più. Era stato sommerso da qualcosa di più grande e impressionante di lui, e adesso era nulla più d’un reperto da museo, etichettato e, abbastanza stranamente, capace di rispondere ai visitatori. Ex-neurochirurgo, maschio, una volta ben conosciuto e stimato, di recente non molto attivo, incline ai rituali della società ed esperto nell’arricchirsi con giri di conferenze, diritti editoriali, esibizioni dinanzi alle telecamere…

Non era da escludere che Michael Bernard fosse un essere inesistente da ormai sei anni, svanito qualche tempo dopo aver applicato per l’ultima volta il bisturi alla carne, il trapano a un cranio.

Aprì gli occhi e guardò la donna e gli uomini nella camera d’osservazione.

— Dr. Bernard! — La donna stava cercando d’attirare la sua attenzione, evidentemente per la terza o la quarta volta.

— Sì?

— È vero che lei è, almeno in parte, responsabile dell’epidemia?

— No, non direttamente.

— Indirettamente?

— Non potevo in alcun modo prevedere le conseguenze delle azioni di altra gente. Non sono un chiaroveggente.

Il volto della donna mostrò un improvviso rossore, anche al di là dei tre pannelli di vetro. — Io ho… o avevo, una sorella negli Stati Uniti. Benché di nazionalità francese, sono nata in California. Cos’è accaduto laggiù? Lo sapete?

— No, signora, non lo so.

La donna diede un colpo sul braccio a Paulsen-Fuchs, che aveva alzato una mano, e gridò: — Non finirà mai questo? Disastri e morte, e gli scienziati… sono responsabili, voi tutti siete colpevoli. E io vi dico che allora voi… — Non terminò la frase perché gli altri stavano uscendo e Paulsen-Fuchs ne approfittò per spingerla fuori. L’anziano studioso rientrò, ebbe un gesto di scusa e scosse il capo. Le due salette d’osservazione si svuotarono e lui fu lasciato solo.

E poiché era un niente, un nessuno, questo significava che una volta lasciato solo lì non c’era più assolutamente nulla.

Nulla salvo i microbi, i noociti, col loro incredibile potenziale, in attesa del loro momento… del loro scopo.

In attesa di trasformarlo in qualcosa di più di ciò che lui fosse mai stato.

XXII

Le luci si spensero il quarto giorno: al mattino, appena dopo che lei s’era svegliata. Indossò i suoi jeans firmati (provenienti dal magazzino dell’Esercito della Salvezza), il pullover migliore e una blusa, poi tolse l’impermeabile dall’attaccapanni nell’ingresso e uscì nella luce del giorno. Non era più benedetta, disse a se stessa, non più desiderata dal diavolo né da nessun altro. — La mia fortuna se ne va! — esclamò.

Ma aveva un po’ di cibo, e l’acqua usciva ancora dai rubinetti. Considerò per un momento la sua situazione e stabilì di non essere poi così malridotta. — Perdonami, Signore — mormorò gettando uno sguardo al cielo.

Sull’altro lato della strada le case erano completamente tappezzate da un lenzuolo biancastro e marroncino, che sotto il sole riluceva come pelle o cuoio. Dagli alberi e dalle ringhiere di ferro pendevano brandelli della stessa sostanza. Anche gli edifici adiacenti a casa sua stavano per esserne del tutto ricoperti.

Era l’ora di andarsene. Non sarebbe stata risparmiata ancora per molto.

Impacchettò il cibo e mise sacchetti e scatolette in un cestello. Il gas arrivava sempre; si cucinò una bistecca con le ultime uova e un po’ di pancetta, abbrustoli fette di pane sul fornello come sua madre le aveva insegnato, le spalmò con quel che restava del burro e le coprì con fettine di prosciutto. Terminato di mangiare scese nel sottoscala in cerca di una borsa da viaggio. Meglio viaggiare leggera, pensò. Una robusta giacca da inverno, vestiti, la pistola, stivaletti. Calze di lana dai cassetti dei suoi fratelli. Guanti. I giorni della frontiera, l’epoca dei pionieri.

— Potrei essere l’ultima donna della Terra — meditò. — Dovrò essere pratica.

L’ultima cosa che sistemò nel carrello da supermarket, in attesa sul marciapiede davanti agli scalini, fu la radio. L’aveva accesa soltanto pochi minuti ogni sera, e da Mithridates’ s’era provvista d’una scatola di batterie. Le sarebbero state utili per qualche tempo.

Dalla radio aveva appreso che la gente era molto, molto preoccupata, non solo per ciò che era accaduto a Brooklyn ma in tutti gli Stati Uniti, e anche al di là dei confini, in Messico e in Canada. Una nuova stazione inglese, sulle onde corte, aveva parlato del silenzio radio, dell’epidemia, di viaggiatori messi in quarantena, e di sommergibili e aerei che sorvegliavano le coste. Uno speaker inglese dalla voce educata aveva detto che nessun velivolo era penetrato nello spazio aereo del Nord America, e che da voci raccolte presso chi usava i satelliti-spia risultava che la nazione era paralizzata, forse morta.

Non io, pensò Sizy. Paralizzata significava incapace di muoversi. — Io mi muovo. Mandate i vostri sommergibili e aeroplani a guardarmi. Io mi muoverò, dovunque sia il posto in cui andrò.

Era tardo pomeriggio quando Suzy spinse il carrello lungo Adams Street. La nebbia oscurava i lontani grattacieli di Manhattan, consentendo solo alla pallida silhouette del World Trade Center di emergere dalla grigia e biancastra opacità. Non aveva mai visto una nebbia così fitta sul fiume.

Voltandosi a guardare indietro vide stralci e vele di sostanza marrone aleggiare nel vento sopra Cadman Plaza. La Williamsburgh Saving Bank era tappezzata in tutti i suoi duecento metri d’altezza da un rivestimento marrone scuro, come un grattacielo impacchettato e pronto a essere spedito per posta. Girò per la Tillary, e stava percorrendo la Flatbush diretta al ponte quando dovette riflettere a quanto assomigliava a un’accattona.

L’ipotesi di poter diventare un’accattona l’aveva sempre spaventata. Sapeva che talvolta la gente che aveva dei problemi come il suo non riusciva a trovare un’abitazione, e si rassegnava a vivere nelle strade.

Adesso questo non le faceva affatto paura. Le cose erano molto diverse. Il pensiero stuzzicò anzi il suo senso dell’umorismo. Un’accattona in una città ricoperta da uno strato di sostanza marrone. La situazione aveva perfino un lato divertente, ma era troppo stanca per riderci sopra.

Qualsiasi genere di compagnia sarebbe stata la benvenuta: accattoni, gatti, uccelli. Ma non si muoveva nulla, salvo il lenzuolo marroncino.

Spinse il carrello lungo la Flatbush, si fermò un poco a riposare su una panchina alla fermata dei mezzi pubblici, quindi proseguì. Aveva fatto bene a portare con sé la blusa di Kenneth: se la mise sulle spalle accorgendosi che l’aria della sera era piuttosto fredda. — Potrei canticchiare per riscaldarmi — disse a se stessa. Aveva sempre la testa piena di ritornelli, rock e rhythm-and-blues, ma in quel momento non riusciva ad azzeccare le note. Mentre sollevava il carrello sul marciapiede del ponte, una ruota alla volta, finalmente le note giuste le vennero in mente e cominciò a cantare Michelle, dei Beatles, che risaliva ai tempi in cui sua madre era ragazza. Ma Michelle, ma belle erano le uniche parole che ricordava, cosicché continuò a canticchiare solo quelle intanto che ansando spingeva avanti il carrello carico.

La nebbia avviluppava l’East River, addensandosi intorno ai piloni. La lunga campata la sovrastava, come una strada distesa sulle nuvole. Infreddolita e solitaria Suzy proseguì la marcia, accompagnata soltanto dal fruscio del vento e da uno strano mormorio che dopo un poco identificò come il vibrare dei possenti cavi d’acciaio.

Senza alcun traffico, dal ponte poteva sentire piccoli rumori di ogni genere che prima non le erano mai giunti agli orecchi: i gemiti del metallo, bassi e soffocati ma impressionanti, il canto lontano del fiume, il profondo silenzio al di là di esso. Nessuna voce umana, nessun rumore umano. Avrebbe potuto trovarsi in mezzo a un deserto.

— Come un pioniere — ricordò a se stessa. L’orizzonte era già buio ovunque, salvo che dalla parte del New Jersey dove a ricordo del sole restava una striscia di luce verde-arancio. La strada divenne una trincea d’oscurità. Fermò il carrello e si accovacciò sul bordo del marciapiede stringendosi nei vestiti, poi indossò i calzini di lana e gli stivali. Per alcune ore restò seduta in uno stato di smarrimento accanto alle sue cose, con la punta di un piede sotto una ruota per impedire al carrello di rotolare via.

Sotto il ponte il rumore del fiume mutò. Sentì i capelli che le si rizzavano sulla nuca, benché non vedesse nessun vero motivo d’avere paura. Tuttavia poteva avvertire una presenza, l’impressione che qualcosa le passasse vicino. In alto le stelle splendevano nitide e brillanti, e la Via Lattea tracciava un pulviscolo di luce sul buio e sulla nebbia della città.

Si alzò e si stiracchiò, sbadigliando, spaurita dalla sua solitudine eppure sentendosi stranamente euforica. Scavalcò la ringhiera, attraversò la corsia esterna del ponte e fece qualche passo proprio sull’orlo. Con le mani intorpidite dal freddo malgrado i guanti si appoggiò alla balaustra e spinse lo sguardo sull’East River, verso South Street, poi si volse a osservare la chiazza più chiara dell’approdo dei ferry-boat.

Mancava ancora molto all’alba, e tuttavia le acque del fiume erano colme di una misteriosa luminosità, che lungo le rive si addensava in linee di luci soffuse verdi e azzurrine. La corrente era piena di occhi, di ruote, di dischi e cerchi che giravano lenti bruciando in miriadi di fuochi interni, stagliandosi contro profondità in cui aleggiava un’immobile luce color cobalto. Le parve di osservare dall’alto milioni di città che rotolavano e passavano via in una notte bluastra e ultraterrena.

Il fiume era vivo, da una riva all’altra e fin giù a Governors Island, dove la Upper Bay sembrava una Via Lattea rovesciata. Il fiume baluginava, si muoveva, e ogni particella di esso aveva uno scopo; Suzy questo lo sapeva.

E sapeva di essere ora appena una formica nella strada di una grande città. Lei era una creatura inconsapevole, limitata, effimera e fragile. Il fiume era più complesso e affascinante delle luci al neon di Manhattan il sabato sera.

— Non credo che capirò mai questo — mormorò. Scosse il capo e alzò lo sguardo verso i grattacieli.

Uno di essi non era completamente all’oscuro. All’ultimo piano della torre meridionale del World Trade Center brillava una luce verdolina. — Ehi! — disse, più meravigliata da quello che da tutto il resto.

Si allontanò dalla balaustra e tornò accanto al carrello sul marciapiede interno. Le luci soffuse del fiume erano molto belle, pensò, ma la cosa più importante era di stare al calduccio fra i suoi abiti in attesa che l’alba le consentisse di vederci abbastanza da riprendere il cammino. Si sedette vicino al carrello.

— Andrò a vedere cosa c’è in quel palazzo — disse. — Forse un altro come me, qualcuno che almeno s’intende di elettricità. Domattina andrò a vedere.

Mentre dormicchiava, a tratti svegliandosi tremante per coprirsi meglio, con la fantasia continuò a sentire qualcosa al di là dell’udito: il rumore del cambiamento, l’epidemia, il fiume e le ruote fluttuanti in esso come un immenso coro parrocchiale i cui membri spalancavano migliaia di bocche, cantando il silenzio.

XXIII

Con un lontano strofinio metallico Paulsen-Fuchs avvicinò una sedia al vetro della camera di osservazione e sedette. Disteso sul letto Bernard lo guardò con occhi insonnoliti. — A quest’ora di mattina? — borbottò.

— È pomeriggio. Hai perso la cognizione del tempo.

— Sono in una miniera, per quel che riguarda il mondo. Niente visitatori oggi?

Pulsen-Fuchs scosse il capo ma non aggiunse spiegazioni.

— Novità?

— I russi sono usciti dall’ONU, a Ginevra. Ovviamente non vedono il vantaggio di far parte delle Nazioni Unite, ora che sono l’unica superpotenza nucleare del pianeta. Ma prima di andarsene hanno cercato di far dichiarare al consiglio di sicurezza che gli Stati Uniti, senza Governo, sono un pericolo per tutto il resto del mondo.

— A cosa mirano?

— Credo che tentassero d’avere l’approvazione per un attacco atomico.

— Buon Dio! — disse Bernard. Sedette sul bordo del lettino e si sfregò gli occhi col dorso delle mani. Le creste bianche s’erano sgonfiate di recente; le lampade al quarzo ottenevano se non altro un effetto cosmetico. — Non hanno parlato del Messico e del Canada?

— Solo degli Stati Uniti. Vogliono prendere a calci il cadavere.

— E gli altri cosa ne dicono? Che stanno facendo?

— Le forze americane stanziate in Europa vogliono organizzare un Governo a interim. Hanno dichiarato un senatore della California, qui in giro turistico, l’unico in linea di successione per la presidenza. Ma gli ufficiali delle vostre basi aeree stanno facendo resistenza. Affermano che il Governo provvisorio degli Stati Uniti è pertinenza dei militari. In tutte le vostre ambasciate regna il caos. I russi pretendono che tutte le navi e i sommergibili americani siano riuniti in quarantena a Cuba e nei porti sovietici del Pacifico e del Mar del Giappone.

— E le navi sono d’accordo?

— Nessuna risposta finora. Almeno, credo. — L’uomo sorrise.

— E sul fronte dei pesci e degli uccelli?

— Sì. In Inghilterra stanno ammazzando tutti gli uccelli migratori, che vengano dal Nord America o meno. Alcuni vogliono sterminare ogni specie di volatili. C’è una reazione selvaggia, e non solo contro gli animali, Michael. Dappertutto gli americani stanno subendo un trattamento indegno, anche se hanno vissuto per decenni in Europa. Certi gruppi religiosi affermano che Cristo ha stabilito negli USA la sua base per il Secondo Avvento e sta per marciare sull’Europa. Ma avrai la tua dose di notizie giornaliere sul terminale, come al solito. Potrai divertirti a leggerle da solo.

— Quelle cattive sono migliori se portate da un amico.

— Sì — disse Paulsen-Fuchs. — Ma anche le parole di un amico non possono migliorare quelle di oggi.

— Un attacco nucleare potrebbe risolvere il problema? Io non sono un esperto di epidemiologia, ma… ora come ora, l’America potrebbe essere sterilizzata?

— Altamente improbabile, e i russi ne sono consapevoli. Sappiamo abbastanza sulle loro testate atomiche, percentuali d’imprecisione e così via. Potrebbero distruggere ogni forma di vita su forse metà del continenete nordamericano. Questo sarebbe praticamente inutile. E le ricadute radioattive, per non parlare dei mutamenti meteorologici e dei microrganismi che si solleverebbero con le nubi di polvere, sarebbero insostenibili. Ma… — Scosse le spalle. — Loro sono russi. Tu non li ricordi a Berlino. Io sì. Ero un ragazzino, ma non ho dimenticato… forti, sentimentali, crudeli, capaci e stupidi allo stesso tempo.

Bernard si trattenne dal fare commenti su quello che era stato il comportamento dei tedeschi in Russia. — Allora cos’è che li trattiene?

— La NATO. La Francia, sorprendentemente. Le forti obiezioni dei paesi non allineati, specialmente del Centro e Sud America. Ma ora basta con questo. Ho bisogno del tuo rapporto.

— Ay, Ay - lo salutò Bernard. — Mi sento bene, anche se un po’ stordito. Vengo considerato un alienato mentale che blatera stupidaggini. E mi sento in prigione.

— Comprensibile.

— Ancora nessuna volontaria di sesso femminile?

— No. — Paulsen-Fuchs scosse il capo. Assolutamente serio aggiunse: — E non le capisco. Si dice che la fama sia l’afrodisiaco migliore.

— Per me non basta, suppongo. Se ti è di qualche consolazione non ho notato alcun mutamento nella mia anatomia da l’altro ieri. — Era da allora che le creste bianche avevano cominciato a recedere.

— Hai deciso di continuare con le lampade al quarzo?

Bernard annuì. — Datemi qualcosa da fare.

— Stiamo ancora vagliando gli antimetabolici, e gli inibitori della polimerasi del DNA. Gli animali infettati non mostrano ancora sintomi… pare che ai tuoi noociti gli animali non piacciano. Non qui, almeno. Ci sono teorie di ogni sorta. Hai mai avuto mal di testa, dolori muscolari o altro del genere, ma di natura diversa dai dolori comuni?

— Non sono mai stato meglio in vita mia. Dormo come un bambino, ogni cibo mi risulta appetitoso, niente dolori o malesseri. Ogni tanto un prurito epidermico. Oh… e qualche volta doloretti addominali che non riesco a localizzare bene. Non sono fastidiosi.

— Il ritratto della salute — disse Paulsen-Fuchs, spegnendo il computer tascabile su cui aveva preso appunti. — Ti spiacerebbe se mettessimo alla prova la tua sincerità?

— Non ho molta scelta, no?

Gli fecero completi esami medici due volte al giorno, regolandosi sull’orario dei suoi peraltro imprevedibili periodi di sonno. Lui li sopportò esibendo un sogghigno di pazienza messa a dura prova. Poi vennero inserite nel laboratorio quattro braccia snodabili in metallo e plastica, e fu sperimentata l’efficienza delle estremità prensili. Nello scomparto sterile dietro i comandi degli arti meccanici entrò una donna, che sbirciò Bernard attraverso i cristalli. Sul gomito di una delle braccia artificiali una telecamera girò con un ronzio, la spia rossa accesa.

— Buongiorno, Dr. Bernard — lo salutò cortesemente. Era giovane, seria e attraente, con capelli color mogano riuniti in una ciambellina dietro la nuca.

— È adorabile, dottoressa Schatz — disse lui, steso sul tavolo girevole sotto l’attrezzatura elettronica.

— Solo per lei, e solo per oggi, sono Frieda. Anche noi la troviamo adorabile, dottore — disse la Schatz. — Ma se fossi al suo posto non adorerei affatto chi sta al mio.

— La faccenda sta cominciando ad avere aspetti piacevoli, Frieda.

— Umpf! — La Schatz usò un micromanipolatore per sollevare un’ampolla a vuoto da un vassoio. Con abilità ed efficienza ne azionò un altro, fornito di siringa, per inserirgli un ago in una vena del braccio e gli estrasse 10 cc. di sangue. Lui notò con un certo interesse che il sangue aveva un colore rosa acceso.

— Attenta che i miei piccoli amici non la mordano — la avvertì.

— Non siamo molto attenti, dottore — disse lei. Bernard intuì la tensione dietro il suo sorrisetto professionale. Potevano esserci moltissime cose circa le sue condizioni che loro non gli avevano detto. Ma perché nascondergli qualcosa? Da tempo lui si riteneva ormai condannato.

— Lei non me la racconta giusta, Frieda — osservò, mentre gli applicava un tampone per prelievi batterici alla pelle della schiena. Il micromanipolatore premette, poi strappò via il tampone adesivo e lo mise in una beuta. Un altro braccio meccanico sigillò il contenitore e lo immerse in un bagno di paraffina liquida.

— Oh, io credo che tutti siano sinceri con lei — replicò la dottoressa distrattamente, concentrata sui suoi attrezzi. — Ha qualche domanda da fare?

— Nel mio corpo sono rimaste ancora cellule non trasformate?

— Non tutti sono noociti, Dr, Bernard. Ma la più parte delle cellule ha subito mutamenti, sì, in un modo o nell’altro.

— Cosa ne fate di loro dopo che li avete analizzati?

— A quel punto sono ormai tutti morti, dottore. Non si preoccupi. Noi siamo molto accurati.

— Non sono preoccupato, Frieda.

— Questo è bene. Ora si giri, prego.

— Non di nuovo l’uretra! Dove vuole infilarmi quell’affare?

— Mi è stato detto che una volta i giovani gentiluomini della Repubblica di Weimar lo consideravano un divertimento molto costoso. Una rara esperienza nei sofisticati bordelli di Berlino.

— Frieda, devo dire che lei mi fa rimanere sbalordito.

— Sì. Ora per favore si giri, dottore.

Lui si girò supino e chiuse gli occhi.

XXIV

Le candele erano allineate sul davanzale della finestra del grande atrio al pianterreno, di fronte alla piazza. Suzy si fece indietro ed esaminò il suo lavoro. Il giorno prima s’era aperta la strada fra vasti brandelli del lenzuolo marroncino, scossi dal vento, penetrando in un negozio dove vendevano candele. Usando un altro carrello, rubato in un piccolo supermarket armeno di South Street, aveva riportato uno scatolone di candele votive al World Trade Center, dopo aver stabilito la sua residenza al piano terra della torre nord. Dal basso aveva ancora visto la luce verde alla sommità dell’altissimo edificio.

Con tutte quelle candele forse un sottomarino o un aeroplano l’avrebbero trovata. E un altro impulso la spingeva ad accenderle, ma era così sciocco che nel pensarci ridacchiava. Era determinata a rispondere al fiume. Così accese l’una dopo l’altra tutte le candele, e sospirò nel vedere com’erano insignificanti le loro fiammelle stagliate contro l’immensa tenebra che avevano di fronte.

Nei giorni successivi ne dispose altre in ampie spirali sul pavimento, nello spazio che aumentava a mano a mano che le sue scorte diminuivano. La sera le accendeva passando dall’una all’altra, in ginocchio sulla moquette spessa, sorridendo alle loro piccole luci e sentendosi vagamente in colpa per la cera che colava dappertutto.

Al tramonto del terzo giorno cenò con una confezione di cibo sottovuoto M M, e alla luce di cinque candele lesse una copia di Lady’s Home Journal rubata a un’edicola. Leggere non era mai stato il suo forte, ed era lenta, inoltre c’erano molte parole che non capiva. Le pagine della rivista, con la loro abbondanza di cifre e di colonne scritte fittamente sotto le foto degli abiti e dei cibi, avevano comunque su di lei un piacevole effetto soporifero.

Distesa supina su un tappeto, accanto al carrello del cibo e a quello delle candele, si chiese se si sarebbe mai sposata — sempreché ci fossero ancora uomini da sposare — e se avrebbe mai avuto un casa da riempire con gli oggetti che esaminava con occhi assonnati. — Probabilmente no — si disse. — Adesso sono davvero una zitella. — Non aveva mai avuto molti appuntamenti, e anche a Cary non aveva concesso di avere molto da lei. Nella classe speciale delle scuole medie cui era stata iscritta aveva goduto fama d’essere simpatica… e stupida. Ma nessun ragazzo di quella classe era stato troppo sveglio, in specie per quel che riguardava i rapporti con le compagne di sesso diverso.

— Be’, io sono ancora qui — disse, fissando l’alto soffitto oscuro. — E sono ancora stupida.

Si alzò, scese nell’elegante seminterrato con una candela e in uno degli uffici trovò una copia di Cosmopolitan da leggere. Risalita nell’atrio dormicchiò per un poco, si ridestò con un sussulto quando la rivista le sfuggì dalle mani e girò fra le candele accese soffiando su ognuna di esse nel caso che avesse voluto usarle anche l’indomani. Poi tornò a stendersi sul tappeto, con una sola candela accesa accanto a sé e la giacca di Kenneth arrotolata sotto la testa, e pensò a quant’era enorme l’edificio che la sovrastava. Non ricordava se le due torri gemelle erano ancora le più alte del mondo. Le sembrava di no. Ciascuna era come un transatlantico puntato verticalmente verso il cielo… anzi, più alta di un transatlantico, come diceva la pubblicità per i turisti.

Sarebbe stato divertente esplorare tutti gli uffici e i negozi del seminterrato, ma anche insonnolita com’era Suzy sapeva quel che invece avrebbe dovuto fare. Voleva arrampicarsi per le scale — dovunque fossero quelle scale — fino alla sommità, per scoprire cos’era quella luce e guardare il panorama di New York. Da lassù avrebbe potuto vedere tutta la città e buona parte dello stato, vedere cos’era accaduto e cosa stava accadendo. A quell’altezza la radio avrebbe forse ricevuto più stazioni. Inoltre sapeva che sulla cima c’era un ristorante, e questo significava altro cibo. E c’era un bar. D’improvviso desiderò di potersi ubriacare, una cosa che aveva tentato di fare solo altre due volte in vita sua.

Non sarebbe stato facile. Sapeva che per salire quelle scale poteva occorrerle un giorno o forse più.

Uscì dal sonno con un sussulto. Qualcosa aveva prodotto un rumore nelle vicinanze, un suono prolungato e frusciante. All’esterno l’alba stava spandendo la sua grigia luce diffusa. Nella piazza c’erano dei movimenti: oggetti che rotolavano mollemente, come grumi di peluria sotto un letto o cespugli divelti. Sbatté le palpebre e si sfregò gli occhi, alzandosi in ginocchio per vedere meglio.

Enormi foglie scure ondeggiavano nel vento, talora precipitando al suolo, talaltra attraversando l’intera estensione della piazza, con i loro orli irregolari e sbrindellati che sventolavano attorno. I pezzi che cadevano sull’asfalto vi aderivano e si estendevano, allargando stralci che crescevano a vista d’occhio. Stavano invadendo la piazza adesso, con l’arrivo del giorno, ricoprendo finestre e porte, panchine, muri e marciapiedi con uno strato bianco-grigiastro o marroncino.

— Non potrò più uscire in strada — disse fra sé. — Uh… mmh!

Mangiò un paio di brioches e accese la radio sperando di ricevere ancora la stazione inglese dei giorni precedenti. Dopo aver girato la manopola sentì lo speaker, oltre un crepitio di scariche. La sua voce era stanca, come quella di un uomo che parlasse da solo.

— … e dire che l’economia mondiale avrà un collasso è quasi un eufemismo. Chi può dire quante delle risorse del pianeta (sia minerarie sia in forma di merci, documenti bancari e capitali) giacciano ora inaccessibili nel Nord America? Capisco che molti si preoccupino più della loro sopravvivenza e si domandino se il morbo attraverserà l’oceano, o se non sia già in incubazione fra noi, ma… — Scariche statiche sopraffecero il segnale per alcuni minuti. Suzy restò seduta a gambe incociate davanti alla radio, in paziente attesa. Non capiva molto, ma quella voce era confortante. — … perciò, come economista, mi preoccupo di cosa accadrà al termine della crisi. Se questa avrà un termine. Ma io non rinuncio all’ottimismo. Dio, nella Sua saggezza, avrà dei motivi per fare questo. Sì. Dunque non abbiamo più avuto comunicazioni dal Nord America, con l’eccezione della nota stazione meteorologica di Afognak Island. I grandi manovratori della finanza sono morti, allora. Gli USA sono sempre stati il principale bastione del capitale privato. Oggi la nazione che domina il pianeta è la Russia, sia militarmente sia finanziariamente. Cosa possiamo prevedere?

Suzy spense la radio. Chiacchiere. Lei aveva bisogno di sapere che cos’era successo in casa sua.

— Perché? — chiese ad alta voce. Guardò i rotoli marroncini scivolare su e giù per la piazza, ricoprendo pian piano l’asfalto. — Perché non uccidermi e farla finita con tutto? — Allargò di colpo le braccia in gesto melodrammatico e dalla bocca le sfuggì una risata. Rise finché col fiato mozzo e la gola dolorante capì, spaventata, che non riusciva a smetterla. Con le mani sulla bocca corse alla fontana in mezzo all’atrio e bevve a garganella, il volto immerso nell’acqua limpida e ferma.

Ciò che la preoccupava realmente, rifletté infine, era il pensiero dell’arrampicata fino in cima al grattacielo. Avrebbe avuto bisogno di chiavi? Sarebbe arrivata fino a metà altezza per scoprire che qualcosa le impediva di proseguire?

— Sarò coraggiosa — disse, mangiando un’altra brioche. — Dovrò esserlo per forza.

XXV

Livermore, California

La sua era stata una vita normale e accettabile. Aveva venduto pezzi d’automobile e oggetti usati nel cortile posteriore, tutta roba racimolata alle aste pubbliche o comprata a prezzi di realizzo. Aveva allevato un figlio ed era stato orgoglioso di sua moglie, maestra elementare. Le più grandi soddisfazioni le aveva avute dai suoi affari migliori: un carico di piastrelle in ceramica, di tipi diversi, con cui aveva rifatto il bagno e la cucina nella loro vecchia casa bianca; una jeep inglese d’epoca; quindici fra auto e furgoni tutti di colore azzurro; una tonnellata e mezzo di vecchi mobìli da ufficio, incluso un antico armadietto di legno la cui vendita l’aveva ripagato dell’acquisto di tutto il lotto.

La cosa più bislacca che avesse mai fatto (a parte il matrimonio) era stato di radersi la sommità del cranio per accelerare il momento in cui sarebbe andato del tutto in piazza. Detestava le vie di mezzo. Ruth s’era messa a piangere dopo averlo visto. Questo comunque era successo due mesi prima, e adesso i radi capelli gli erano ricresciuti, meno estetici e più disordinati che mai.

John Olafsen era stato contento di vivere quando la vita era ancora qualcosa di comprensibile. Aveva mantenuto decentemente Ruth e il piccolo Loren, di sette anni, ben vestiti e ben nutriti. La casa apparteneva alla sua famiglia da novant’anni, anche se li dimostrava tutti. E loro non avevano avuto molte pretese.

Abbassò lo scalcinato binocolo nero e si asciugò la fatica e il sudore dagli occhi col suo fazzolettone rosso. Poi continuò a guardare nelle lenti. Stava osservando il complesso dei Lawrence Livermore National Laboratory, ed i Sandia Laboratory dall’altra parte della strada. L’odore d’erba secca e di polvere gli saturava il naso, mettendogli una gran voglia d’alzarsi, prendere su le sue cose e andarsene… ma dove? Stare lì era esattamente lo stesso che andarsene altrove, perché non aveva più nessun posto in cui andare. Erano le cinque e mezzo, e stava scendendo il crepuscolo. — Sventola il fazzoletto, Jerry — ringhiò fra sé. — Muoviti, figlio di puttana.

Jerry era il suo fratello gemello, cinque minuti più giovane e cinque volte più irrequieto di lui. Jerry aveva evitato per un pelo quelle dannate cose che s’erano sparse per la Salinas ValIey. Come fosse riuscito a squagliarsela da laggiù era ancora un mistero per loro; probabilmente era troppo pieno di DDT e di EDB e degli altri veleni che gli facevano maneggiare sul lavoro. A suo dire, lui non provava alcun interesse per quella cosa, qualunque cosa fosse, che s’era mangiata tutto quanto, anche la cittadina di Livermore.

E Ruth, e Loren.

Jerry era giù fra i grossi e squadrati edifici più moderni, e i bungalow e le vecchie costruzioni minori, per esaminare la montagnola alta una decina di metri che ora sorgeva sul terreno degli LLNL dove una volta c’era stato un cortile vuoto. Aveva un altro fazzolettone rosso legato a un bastone. Né l’uno né l’altro dei gemelli usciva mai senza uno di quei fazzoletti attorno al collo. Ogni Natale se ne regalavano uno a vicenda, in un pacchetto rosso ornato di nastri anch’essi rossi.

— Fai il segnale! — grugnì John. Giusto allora il binocolo gli mostrò un oggetto rosso: il fazzolettone compì un giro a destra, uno a sinistra e poi altri tre a destra in rapida successione. Questo significava che John avrebbe dovuto scendere e vedere da vicino quel che c’era da vedere. Niente di pericoloso… almeno, a parere di Jerry.

Tirò in piedi i suoi cento chili di ossa e muscoli e si spazzolò le ginocchia dei malridotti Levis neri. A oriente il cielo s’era scurito. Passandosi una mano sulla barba rossiccia l’uomo uscì dal canaletto di drenaggio, quindi oltrepassò una rete metallica, strisciò attraverso il filo spinato e superò un terzo reticolato in cui non passava più la corrente elettrica.

Scese di corsa per un pendio erboso, saltò un altro canaletto e sul sentiero si fermò qualche istante. Si accese una sigaretta e spezzò il fiammifero gettandolo nella polvere. Quindici o venti auto erano ancora parcheggiate sullo spiazzo di cemento, di fronte alle complesse tubature di un edificio dove un tempo s’erano fatti esperimenti sulla fusione nucleare. Sull’adiacente spazio sterrato sorgeva un monticello emisferico, largo una ventina di metri, che aveva l’aria di ricoprire qualcosa. Jerry era salito su di esso. Da qualche parte aveva trovato un piccone e ora stava saggiando il terriccio col manico, il volto privo di barba contratto in un sogghigno.

— Nessun vagabondo in vista — esclamò, mentre John s’inerpicava verso di lui. Quello era il nome con cui si riferivano alle strane cose che avevano visto vagare per Livermore. Era parso loro adatto, dal momento che quelle cose si muovevano in continuazione e non ne avevano mai vista una starsene ferma.

— Adesso fammi ridere — disse John. — Che stai combinando qui?

— Mi scavo la strada per la Cina. — Jerry batté ancora sul terreno. — Tu non sei curioso?

— Ci sono curiosi e curiosi — borbottò John. — Che succede se qui sotto c’è roba sepolta da quella gente dei laboratori… dico roba dell’esercito, o magari un esperimento sfuggito al loro controllo?

— L’esperimento è già sfuggito da un pezzo al loro controllo. Te l’ho detto.

— Però non credo che quella roba sia uscita da qui.

— Merda! — Jerry girò il piccone e saggiò il terriccio, pieno di crepe e di cespuglii d’erba secca. — Perché no? E da dove diavolo è venuta fuori, allora?

— Di laboratori ce n’è dappertutto.

— Sicuro. E magari è venuta dallo spazio.

John scosse le spalle. Era probabile che non l’avrebbero saputo mai. — Se hai voglia di scavare, scava.

Jerry sollevò il piccone e con un movimento esperto lo abbatté. La punta oltrepassò lo strato di terreno come un guscio d’uovo e urtò contro qualcosa di solido, con un colpo che gli fece quasi sfuggire il manico dalle dita. — Vuoto — grugnì, scalzando via l’attrezzo. Si chinò a esaminare la buchetta. — Non ci vedo. — Si rialzò e sollevò ancora il piccone.

— Aspetta. — John si leccò nervosamente le labbra. — Non colpire così. Faccio io.

— Non sappiamo un accidente di quello che c’è qui sotto — disse Jerry, tenendo il piccone lontano dalla larga mano protesa del fratello.

John annuì con riluttanza e si ficcò la mano in tasca. Controllò l’altezza del sole e scosse il capo. — Non c’è niente che possiamo fare contro di loro — brontolò. — Siamo soli.

Jerry sferrò tre colpi in rapida successione, e d’un tratto si aperse un foro largo un braccio. I due fratelli balzarono indietro, poi si allontanarono di qualche passo per maggior sicurezza. Il resto del monticello sembrava però solido. Jerry si accovacciò a quattro zampe e avanzò fino al bordo del foro. — Non ci vedo, qui dentro — disse. — Vai a prendere la torcia elettrica.

Quando John tornò con la grossa lampada a prova d’acqua che aveva lasciato sul furgone era già quasi buio. Jerry era seduto sul bordo della buca e fumava, scuotendovi dentro la cenere della sigaretta. — Ho portato anche una fune — disse John, gettando il rotolo di corda accanto al fratello.

— Hai dato un’occhiata a quello che succede in città? — chiese Jerry.

— Da quel che ho visto è sempre uguale a prima, più o meno.

— Credi che domani non ci resterà niente?

John fece spallucce. — Ci resterà quello in cui si sta trasformando, suppongo.

— Va bene. Là è già buio e la notte non fa differenza. Tu reggi la corda, io vado giù con la lampada e…

— Nossignore — sbottò John. — Io qui al buio non ci resto.

— Allora scendi tu.

John ci pensò sopra. — Diavolo, no. Possiamo legare la corda a una macchina e andar giù tutti e due.

— Benone — annuì Jerry. Scese con la corda fino alla più vicina delle auto, la annodò a un paraurti e risalì svolgendola dietro di sé. Quando fu in cima al monticello ne restavano ancora una dozzina di metri. — Prima io — disse.

— È un bel salto — disse la Rana.

Jerry cominciò a calarsi nel foro. — La luce.

John gli diede la lampada. La testa di Jerry scomparve oltre il bordo. — Si riflette qui attorno — borbottò. Il raggio che usciva verticalmente nell’aria un po’ nebbiosa della sera illuminò il volto di John quando si sporse a guardare. Appena ebbe spazio a sufficienza si afferrò con forza alla robusta corda e seguì il fratello.

La loro madre aveva raccontato loro delle favole, che a sua volta aveva udito dalla nonna danese, circa simili monticelli di terreno in cui abitavano gli elfi, pieni di tesori e di scheletri e di esseri demoniaci che gridavano nel sottosuolo.

John non lo avrebbe ammesso, ma ciò che si aspettava veramente di trovare erano i Morlock.

I gemelli stavano sudando copiosamente allorché misero piede sul fondo del pozzo. L’aria era molto più calda e più umida che all’esterno. Il raggio della grossa torcia tagliava una nebbia spessa che in bocca dava un sapore dolciastro. I loro stivali affondavano in una superficie purpurea, elastica, che appena si mossero mandò un forte scricchiolio. — Ghaa! Porca…! — rantolarono contemporaneamente.

— Cosa accidenti pensi di fare, adesso che siamo qui? — chiese John appena si fu calmato.

— Dobbiamo cercare Ruth e Loren, e forse anche Tricia. — Tricia era stata l’amichetta di Jerry negli ultimi sei anni. Lui non l’aveva vista dissolversi, ma non ci voleva molto a supporre che questo fosse accaduto anche a lei.

— Loro sono morti — sussurrò John cupamente, con un groppo in gola.

— Morti un corno. Sono stati smontati a pezzettini e portati quaggiù.

— Dove diavolo l’hai presa quest’idea?

Jerry scosse la testa. — O le cose stanno così oppure, come hai detto tu, sono morti. Ti sembrava che fossero morti?

John ci rifletté un momento. — No — ammise. Entrambi avevano già sperimentato la sensazione che la morte di un parente stretto dava loro, anche a distanza, prima ancora che qualcuno li informasse. — Ma forse sto soltanto prendendo in giro me stesso.

— Stupidaggini — disse Jerry. — Io so che loro non sono morti. E se non sono morti, non lo sono neanche tutti gli altri. Perché hai visto…

— Ho visto! — sbottò John. Aveva visto i loro abiti pieni di carne che si dissolveva. E non aveva saputo cosa fare. Era successo nella tarda mattinata, quando Ruth e Loren erano scesi con addosso quella che sembrava la malattia di cui aveva parlato la radio la sera prima. Strisce bianche sulle mani e sulla faccia. Lui era uscito a tirare fuori il furgone per portarli dal dottore, e rientrando li aveva trovati a terra. Da lì al momento in cui era arrivato Jerry i vestiti s’erano vuotati, e lui era così rauco per il gran gridare che a stento era riuscito a parlare.

Lo guardò di tralice. — Allora perché non l’abbiamo presa anche noi?

Jerry si batté una mano sull’addome, prominiente come quello del fratello. — Troppo duri da mordere — disse. Agitò la nebbia con una mano. Il raggio della torcia non penetrava per più di un paio di metri in ogni direzione. — Gesù, ho paura — disse.

— Mettiti a fischiare — brontolò John.

— Be’, sei tu quello che ha avuto la pensata di scendere qui — disse Jerry, rovesciando completamente la verità. — Adesso decidi tu da che parte si deve andare.

— Diritto in avanti — stabilì John. — E attento ai Morlock.

— Sì, Gesù! I Morlock.

A passi lenti si mossero sulla morbida superficie purpurea. Trascorsero parecchi minuti in quella nebbia che li colmava di disagio prima che la luce si riflettesse contro una superficie verticale. C’erano alcune tubature orizzontali dal tono grigio e marroncino, e qualcosa che sembrava uno strato di materiale vagamente lucido, steso sul muro, che pulsava ritmicamente. Sulla sinistra i tubi giravano un angolo e sparivano dentro un tunnel oscuro. — Non ci credo! — sussurrò Jerry.

— E allora? — John indicò interrogativamente il tunnel.

Jerry annuì. — Ora sappiamo che le cose stanno ancora peggio.

— Non sappiamo un fottuto niente — grugnì John.

Jerry gli accennò di muoversi. — Prima tu.

— Carino, l’amico.

— E muoviti!

I due fratelli avanzarono nel tunnel.

XXVI

Paulsen-Fuchs disse a Uwe di fermare l’auto alla sommità dell’altura. Nell’ultima settimana l’accampamento dei manifestanti intorno ai recinti della Pharmek era raddoppiato di dimensioni. Adesso dovevano essercene circa centomila: un mare di tende punteggiato da cartelli e striscioni, per lo più davanti al cancello principale sul lato est. Non sembrava una protesta organizzata, ed era questo a preoccuparlo. Fra loro non c’erano politicanti: era gente di ogni estrazione, tedeschi trascinati lì dalla paura di una catastrofe che non riuscivano a capire. Stavano picchettando la Pharmek a causa della presenza di Bernard, e senza neanche sapere quel che volevano. Ma così non sarebbe durata. Qualcuno avrebbe finito per prenderli sotto controllo e dare loro un obiettivo.

Non mancavano i cartelli che chiedevano l’eliminazione di Bernard e la sterilizzazione del suo laboratorio, ma un’ipotesi simile era quanto mai improbabile. Quasi tutti i Governi europei avevano dichiarato che la ricerca accentrata su Bernard poteva essere l’unica strada per studiare l’epidemia e trovare il modo di tenerla sotto controllo.

Tuttavia l’Europa era nella morsa del panico. Moltissimi viaggiatori — turisti, uomini d’affari, perfino militari — erano tornati dal Nord America prima che ci si decidesse a ordinare la quarantena. Localizzarli tutti s’era rivelato impossibile. Alcuni erano stati trovati già in via di trasformazione fisica in stanze d’albergo, o a casa loro. Quasi invariabilmente le vittime erano state uccise dalle autorità locali, gli edifici dati accuratamente alle fiamme, e le fogne e condutture dell’acqua inondate di sostanze sterilizzanti.

Nessuno sapeva se quelle misure erano state davvero efficaci.

Molti studiosi, sparsi in ogni angolo del mondo, erano convinti che fosse solo questione di tempo.

Dopo le notizie che aveva ricevuto quel mattino lui sperava quasi che avessero ragione. L’epidemia poteva essere preferibile al suicidio. — Al cancello nord — ordinò Paulsen-Fuchs, rientrando nell’auto.

L’attrezzatura gli era stata finalmente fornita ed ora riempiva metà della camera di contenimento. Bernard cambiò posto al letto e alla scrivania, poi fece un passo indietro ed esaminò con soddisfazione il laboratorio di cui disponeva. Adesso avrebbe potuto punzecchiarsi e manipolarsi da solo.

Erano trascorse settimane e il suo corpo era ancora lontanissimo dalla trasformazione finale. Nessuno di coloro che lo studiavano sapeva dirgliene il perché, né lui sapeva spiegare a se stesso perché non aveva ancora comunicato con i noociti, come Vergil aveva fatto. O come credeva di aver fatto.

Forse Vergil era semplicemente diventato pazzo. Comunicare sembrava in effetti piuttosto irreale.

Gli sarebbero servite più attrezzature di quelle che il locale poteva contenere, comunque pensava di far eseguire all’esterno quasi tutte le analisi chimiche, i cui dati gli sarebbero giunti sul suo terminale.

Sentiva ora tornare qualcosa del vecchio Michael Bernard. Era al lavoro. Intendeva scoprire, o aiutare gli altri a scoprire, il sistema di comunicazione delle cellule, il linguaggio chimico che esse usavano. E se non avessero voluto parlargli direttamente voleva cercare un metodo per parlare a loro. Forse per metterle sotto controllo. La Pharmek disponeva delle possibilità e dell’equipaggiamento, tutto ciò che aveva avuto Ulam e ancora di più; se necessario potevano duplicare i suoi esperimenti ripartendo da zero.

Bernard dubitava che questo gli sarebbe stato concesso. Dalle conversazioni con Paulsen-Fuchs e altri dipendenti della Pharmek aveva avuto l’impressione che intorno a lui si stesse addensando un temporale.

Dopo un breve inventario delle attrezzature cominciò a leggere i manuali acclusi per rinfrescarsi la memoria sulle procedure. Qualche ora più tardi se ne stancò e tirò fuori il suo minicomputer per inserire i primi appunti nella memoria, ben conscio che presto o tardi la Pharmek sarebbe riuscita a metterci il naso; per non parlare degli psicologi e dei medici che il Governo aveva accluso al personale. Tutto ciò che riguardava lui era adesso ritenuto importante.

A mio avviso non esiste nessuna ragione di carattere biologico per cui la Terra intera non avrebbe già dovuto soccombere da tempo. L’agente epidemico è versatile, capace di trasformare ogni creatura vivente. Ma l’Europa ne è rimasta immune (a parte episodi isolati) e dubito che ciò sia stato merito delle misure protettive. Forse la risposta al perché io sono un caso atipico rispetto alle recenti vittime (subisco mutamenti più simili a quelli di Vergil Ulam) spiegherà anche quest’altro mistero. Domani i tecnici mi preleveranno campioni di sangue e tessuti, ma non tutti saranno esaminati all’esterno. Lavorerò io su alcuni di essi, in particolare sul sangue e sulla linfa.

Esitò, con le dita sulla tastiera, e stava per continuare quando Paulsen-Fuchs richiamò la sua attenzione col cicalino della camera d’osservazione.

— Buon pomeriggio — disse Bernard, ruotando sulla poltroncina girevole. Come al solito era nudo. Una telecamera piazzata in una angolo alto nella stanza oltre i cristalli riprendeva di continuo contorni e caratteristiche del suo corpo, mandando l’immagine a un computer che l’analizzava.

— Non è un buon pomeriggio, Michael — disse Paulsen-Fuchs. La sua faccia era ancora più lunga e malinconica del consueto. — Come se non avessimo già abbastanza guai, ora siamo di fronte all’eventualità d’una guerra.

Bernard vide che lo studioso gli mostrava la prima pagina di un quotidiano inglese e s’accostò alla finestra. Il titolo a caratteri cubitali gli produsse un brivido gelido lungo la schiena.

BOMBARDAMENTO ATOMICO RUSSO SU PANAMA

— Quando? — domandò.

— Ieri pomeriggio. I cubani registrano una nube radiattiva che avanza sull’Atlantico. I satelliti militari della NATO hanno confermato le esplosioni avvenute sul canale. Suppongo che i militari l’abbiano saputo subito, grazie ai loro sismografi o in altri modi, ma la stampa lo ha scoperto solo in nottata. I russi hanno usato nove o dieci bombe da un megatone, probabilmente lanciate da un sommergibile. L’intera zona del canale è… — Scosse il capo. — Da Mosca nessuna dichiarazione. Metà della popolazione, qui, si aspetta che la Germania sia invasa entro la settimana. L’altra metà è ubriaca.

— Niente messaggi dal continente? — Era così che si riferivano al Nord America da un paio di giorni: il continente, il centro effettivo di ciò che stava accadendo.

— Niente. — Paulsen-Fuchs sbatté il giornale sul tavolo della camera d’osservazione.

— Voi… dico voi europei, vi aspettate che la Russia invada il Nord America?

— Sì. Da un giorno all’altro. Diritto d’esproprio, o comunque lo definiate voi in inglese. Diritti di recupero. — Ebbe una risatina. — Io non sono un avvocato, ma non c’è dubbio che scoveranno fuori una formula legalmente corretta per giustificarsi a Ginevra. Sempre che nel frattempo non abbiano bombardato anche Ginevra. — Poggiò le mani sul tavolo, ai lati del giornale. — Nessuno è preparato a discutere le contromisure in caso di una loro invasione. Il Governo USA in esilio ha fatto capire che le vostre basi aeree e navali in Europa reagiranno, ma la Russia non li prende sul serio. Un mese fa, quando mi hai telefonato, stavo progettando di prendermi la prima vacanza da sette anni a questa parte. Non so se ci riuscirò più — disse. — Michael, tu hai scombussolato la mia esistenza con qualcosa che può condurmi alla tomba. Scusa se ogni tanto ti sembra che io vada fuori fase.

— Capisco — disse sottovoce Bernard.

— Qui in Germania abbiamo un proverbio — mormorò Paulsen-Fuchs fissandolo. — È la bomba che non senti arrivare quella che ti scoppia sulla testa. Significa qualcosa per te?

Lui annuì.

— Allora mettiti al lavoro, Michael. Dacci dentro prima che la bomba che ci hai messo in mano ci ammazzi tutti.

XXVII

Dietro il bancone della portineria Suzy trovò una lunga e potente torcia elettrica, simile a un complicato cannocchiale nero e con un raggio che poteva essere dilatato oppure ristretto al massimo. Scese così a esplorare il seminterrato e i livelli sotterranei che collegavano le due torri gemelle. Impiegò un po’ di tempo a provarsi abiti in una boutique, ma alla luce della torcia non riusciva a vedersi bene e presto le venne a noia. Inoltre era piuttosto tesa. Col batticuore s’era costretta a guardare se altri come lei erano entrati nell’edificio, avventurandosi perfino brevemente nella stazione della metropolitana di Courtland Street. Quando fu certa che i sotterranei erano vuoti — a parte i macabri vestiti vuoti stesi al suolo dovunque — tornò nella Sala delle Candele, come l’aveva chiamata, e cominciò a pensare all’ascensione che la aspettava.

Nella torre nord aveva trovato una pianta del grattacielo, e con un dito seguì il percorso dall’atrio ai piani superiori. Scartabellando lo spesso libretto riuscì a stabilire che l’edificio non aveva una scala continua, bensì rampe scaglionate in punti diversi di ogni piano.

Questo avrebbe reso la sua arrampicata ancora più difficile. Individuò sulla carta la porta oltre cui c’era la prima scala e vi si diresse. Era chiusa a chiave. Tornò al banco della portineria, frugò con un piede in un’uniforme che giaceva sul pavimento e mise allo scoperto un grosso anello pieno di chiavi fissato a una catenella. Lo sollevò, insieme alla cintura cui era collegato, e mentre staccava la fibbia dall’uniforme cadde fuori un reggiseno. — Scusatemi — sussurrò, rimettendo gli abiti più o meno nella posizione originaria. — Le sto solo prendendo a prestito. E ve le restituirò quanto prima. — Poi si azzitti con una mano, rabbrividendo, e si morse il pollice fino a lasciarvi un segno rosso. Qui non c’è nessuno, si disse. Nessuno, da nessuna parte. Ci sono solo io adesso.

Le occorsero alcuni minuti per leggere le piccole etichette delle chiavi e trovare quella che apriva la porta del piano terra. Al di là di essa c’era una rampa in metallo, pratica quanto disadorna. Al primo piano terminava, e c’era una porta che dava in un corridoio. La ragazza lo seguì fino all’angolo oltrepassando molti locali adibiti a ufficio, alcuni con porte intestate a ditte diverse e altri semplicemente numerati. Le brevi occhiate che gettò in vari uffici non le dissero molto.

— Va bene — rifletté. — Sarà soltanto una scarpinata. Ho bisogno di cibo e acqua. — Abbassò gli occhi sui suoi stivaletti e sospirò. Doveva accontentarsene, a meno che non avesse deciso di prelevare un paio di scarpe più comode da uno dei…

L’idea non le sorrideva. Tornata nell’atrio trovò una borsa di plastica da massaia e la riempì coi cibi più leggeri che aveva nel carrello. L’acqua era un problema, poiché la teneva in una tanichetta piuttosto scomoda da portarsi appesa alla cintura, ma sospirò fra sé che non aveva altra scelta. E se avesse trovato acqua potabile ai piani superiori — dovevano pur esserci distributori o frigoriferi — avrebbe potuto liberarsi di quel contenitore.

Erano le otto e mezzo del mattino quando cominciò a salire. Ciò che le conveniva, pensò, era superare dieci piani e poi fare una pausa per riposare, magari davanti a una finestra che le consentisse di osservare il panorama esterno da quel livello. Misurando le forze avrebbe potuto arrivare in cima verso sera.

Canticchiando Michelle e con una mano sulla ringhiera salì da un piano all’altro, oltrepassando porta dopo porta. Ciò che le serviva era un ritmo. Una volta Kenneth e Howard l’avevano portata a fare una lunga camminata, nel Maine, e aveva imparato che ogni tipo di marcia doveva avere il suo ritmo. Seguendolo si andava avanti con facilità; rompere il ritmo o cambiarlo significava maggior dispendio di energie.

— Ma non ho nessuno da seguire — sospirò al quarto piano. Tentò di ricominciare con Michelle ma quel ritmo non si adattava al suo passo, così fischiettò una marcetta di John Williams. Al nono piano scoprì di avere il fiato grosso. — Un altro ancora. — E al decimo cadde a sedere con la schiena appoggiata al muro oltre cui c’era il pozzo dell’ascensore, di fronte alla porta. — Forse non è stata una buona idea. — Ma lei era testarda (sua madre lo diceva sempre, con un certo orgoglio) e perciò avrebbe continuato. — Non c’è altro da fare — disse, e la sua voce risuonò nel silenzio assoluto della scale.

Appena ebbe ripreso fiato si alzò, sistemò meglio il contenitore dell’acqua e la borsa, andò alla porta e la aprì. Su per un’altra rampa, un altro pianerottolo e un’altra porta, altri corridoi e altri uffici. Decise di esplorare una delle varie sale di attesa.

— Vediamo se c’è dell’acqua — disse. Davanti a lei c’erano due porte: Uomini e Donne. Ridacchiò fra sé e poi scelse quella Uomini. Spostando il raggio della torcia elettrica sugli specchi e sugli infissi fu colta dalla curiosità e avanzò lungo i lavandini. Non aveva mai visto prima gli alti infissi in ceramica bianca allineati verticalmente lungo il muro. Aveva anche dimenticato come si chiamavano. Gettò un’occhiata sotto le porte dei cessi e rabbrividì, mentre la sua curiosità si mutava in un fremito di paura e di pena.

Dentro uno di essi alcuni abiti giacevano al suolo. — Risucchiato giù nel gabinetto — mormorò, raddrizzandosi, e si asciugò le lacrime che le erano spuntate negli occhi. — Poveraccio. Dio lo accolga. — Terminò di tamponarsi gli occhi con una manica della blusa, quindi girò il rubinetto dell’acqua calda di un lavandino. Ne uscì un breve rigagnolo. Da quello della fredda ne sgorgò di più, ma anche lì mancava la pressione.

Usci dai gabinetti e s’incamminò per un corridoio. Oltre una grossa doppia porta di legno con inciso un nome che suonava giapponese scoprì una sala d’attesa, divani di morbido velluto e tavolini di vetro, e sul fondo una massiccia scrivania. Dietro di essa non c’erano vestiti al posto occupato un tempo dalla receptionist. E non c’era nulla che la interessasse.

Dalla finestra del locale guardò giù nella piazza. Il cemento era adesso completamente coperto da uno strato marrone. Sali, disse a se stessa. Tutte le scale portano al cielo. Se morirai lassù sarai più vicina al Paradiso. Sali.

XXVIII

— È come scendere nella gola di una balena — bofonchiò John.

— Gesù, sei delicato!

— E con questo? A te piace qui dentro?

— Già — rifletté Jerry. Grugnì e rallentò il passo. — Ci stiamo comportando da idioti. Perché siamo scesi qui, e perché adesso?

— Quel buco l’hai aperto tu.

— E non so perché. Forse proprio senza nessuna ragione.

— Una ragione vale l’altra, suppongo.

Mentre avanzavano poterono vedere che le pareti del tunnel cambiavano aspetto. I grossi tubi color carne si ramificavano in una rete di sostanza lucida simile a trippa spruzzata di vernice trasparente. John avvicinò il volto e la lampada per esaminarla, e scorse minuscole incavature piene di quelli che sembravano dischetti, cubi e palline ammucchiati confusamente. Il percorso si restringeva, e la spugnosa pavimentazione purpurea si sollevava in creste parallele ai muri del tunnel. — Drenaggio — ipotizzò Jerry, indicandole.

Sostavano di continuo qua e là il raggio della torcia per tranquillizzarsi con la sua luce, a tratti puntandosela in faccia a vicenda, o ispezionandosi la pelle e i vestiti per accertarsi che nulla si stesse arrampicando loro addosso.

D’improvviso il tunnel si allargò e intorno a loro roteò densa la nebbia dolciastra. — Abbiamo camminato abbastanza da essere finiti sotto un altro monticello — disse Jerry. Si fermò e sollevò uno stivale da qualcosa di vischioso. — Il pavimento è tutto coperto da questa robaccia.

John gli diresse il raggio sullo scarpone. La suola grondava di poltiglia bruno-rossiccia. — Non sembra molto profonda — disse.

— Non ancora, comunque. — La foschia aveva un vago odore di fertilizzante, o di salmastro. Viveva. Circolava in veli alti e spessi, come imprigionata fra cortine d’aria.

— Da che parte adesso? Non possiamo stare qui a guardarci attorno — disse Jerry.

— Sei tu il capo — replicò John. — Non chiedere a me una decisione.

— C’è un puzzo come di alghe e di pasticceria — brontolò Jerry. — Mi confonde il naso.

— Funghi — disse John, puntando la luce a terra. Tutto intorno ai loro piedi spuntavano bolle biancastre larghe pochi centimetri, che vibravano mollemente a contatto delle scarpe. Rialzò la lampada e vide linee orizzontali e verticali che intersecavano la nebbia davanti a loro.

— Scaffalature — disse Jerry. — Ripiani con certa roba che ci cresce sopra. — Gli scaffali erano spessi un paio di centimetri e sostenuti da mensole irregolarmente spaziate, il tutto fatto d’una materia bianca e dura che rifletteva la luce. Sui ripiani c’erano mucchietti di quella che sembrava carta bruciata… carta bruciata e inzuppata d’acqua.

— Polpa — commentò Jerry saggiando uno dei mucchietti con un dito.

— Se fossi te non toccherei niente — lo rimbrottò John.

— Diavolo, tu sei me. Con poche differenze.

— Io però non tocco niente.

— Già. Forse è una buona idea.

Continuarono per tutta la lunghezza delle scaffalature e giunsero a un muro ricoperto di tubi. I tubi giravano sopra i ripiani e si ramificavano in altri più piccoli, che finivano nei mucchietti di sostanza umida e marroncina. — Cos’è questa roba, plastica o che altro? — chiese Jerry, tastando una delle mensole di sostegno.

— Non sembra plastica — disse John. — Ha più l’aria di osso, bianco e liscio. — Si fissarono l’un l’altro.

— Spero che non lo sia. — Jerry si allontanò. Incamminandosi nei lenti turbini di nebbia fino al lato opposto dello scaffale i due trovarono una palla spugnosa e biancastra, simile a un favo di miele, coperta da bubboni aperti in cui luccicava uno sciroppo purpureo. Da alcuni bubboni il liquido colava sul pavimento, e le gocce sfrigolavano e fumavano sulla sua superficie.

John non seppe trattenere una smorfia e mugolò qualcosa sull’impulso di vomitare.

— Certo — disse Jerry, chinandosi a guardare i bubboni. — Ma prima dai un’occhiata qui.

Riluttante John s’inginocchiò e osservò il bubbone che il fratello gli indicava.

— Guarda tutti questi filamenti — borbottò Jerry. — Ci sono diverse bollicine che viaggiano sui fili, sopra quella roba purpurea. Bolle rosse. Sembra sangue, no?

John annuì. Si frugò nella tasca posteriore dei jeans e ne tolse un coltello in dotazione all’esercito svizzero che aveva trovato sotto il sedile della jeep inglese. Con un’unghia estrasse una piccola lente d’ingrandimento dal manico di plastica. — Illumina quest’affare. — Col raggio di luce puntato sul bubbone mise a fuoco la lente sul liquido purpureo e sui filamenti cosparsi di goccioline rosse.

Con un occhio quasi applicato al vetro riuscì a distinguere minuti dettagli. Nulla che potesse riconoscere, tuttavia la superficie dello sciroppo purpureo era composta da miriadi di piramidi. Il materiale bianco assomigliava a schiuma plastica o a sughero.

Digrignò i denti. — Molto interessante — commentò. Afferrò l’orlo del bubbone e lo strappò via. Il liquido precipitò ai suoi piedi e la nebbia s’infittì. — Loro non sono qui.

— Perché l’hai fatto? — domandò Jerry.

John colpì con violenza il morbido favo e la sua mano luccicò di liquido purpureo. — Perché loro non sono qui.

— Loro chi?

— Ruth e Loren. Sono proprio andati.

— No, fermo… — cercò di trattenerlo Jerry, ma il fratello ora colpiva con ambo le mani, spaccando i bubboni e facendo schizzare via il contenuto. La nebbia dolciastra che questo produceva a contatto del suolo li avvolgeva entrambi. Jerry lo afferrò per le spalle, tirandolo indietro. — Basta! Basta, John, maledizione!

— Loro li hanno presi! — urlò il fratello. Vacillò, con le lacrime agli occhi, e continuò a prendere a pugni il favo mandando gemiti finché non scivolò. — Non ci sono qui, Jerry!

I due ruzzolarono avvinghiati nella poltiglia che copriva il pavimento, con la lampada che rimbalzava fra le loro gambe. Poi Jerry riuscì a tirare il fratello a sedere e lo tenne fermo. John si passò una mano sugli occhi e scosse il capo, quindi cominciò a singhiozzare, a denti stretti e in silenzio. Jerry recuperò la lampada, la girò attorno nella fitta caligine e gli poggiò una mano su una spalla. — Su, su — mormorò più volte. Grondavano di maleodorante sostanza marroncina. — Su, non fare così.

— È troppo che me lo tengo dentro — disse l’altro dopo un ultimo tremulo sospiro. — Lasciami sfogare, Jerry. È troppo che me lo tengo dentro. Andiamocene via da qui. Tanto non c’è nessuno. Non c’è nessuno qui sotto.

— Già — disse Jerry. — Non qui. Forse da altre parti, ma non qui.

— Io posso sentirli, Jerry.

— Lo so. Ma non qui.

— Allora dove accidenti…

— Ssssh! — Restarono seduti nella poltiglia, con gli orecchi tesi all’impercettibile fruscio della nebbia e delle cortine d’aria. Jerry s’accorse che i suoi occhi erano spalancati come quelli di un gatto nel buio. — Ssssh! C’è qualcosa…

— Oh, Cristo! — ansimò John, sciogliendosi dalle braccia del fratello. Gocciolando brodaglia si tirarono in piedi, lo sguardo fisso lungo il raggio della lampada. Dentro di esso la nebbia si torceva e ondeggiava.

— È un vagabondo — sussurrò John, quando nella caligine apparve una vaga forma.

— È troppo grosso — replicò Jerry.

L’oggetto era una sfoglia piatta larga circa tre metri, con frange che pendevano attorno, e nella debole luminosità appariva di un colore marrone chiaro.

— Non ha gambe — mormorò Jerry spaurito. — Sta fluttuando nell’aria.

John fece un passo avanti. — Maledetti marziani — disse, freddamente. Sollevò un pugno. — Io gli spacco il…

Un istante dopo intorno a loro tutto fu tenebra e oblio.

L’aurora spandeva nel cielo un pallido colore acquamarina. E coperta da uno strato di sostanza bianca e marrone la città aveva l’aspetto di qualcosa che sarebbe stato più facile immaginare sott’acqua, una piatta e bassa sezione del fondo oceanico.

I due erano in piedi nel fossato fuori dai recinti, e fissavano quel panorama un tempo abitato.

— Quasi non ce la faccio a muovermi — si lamentò Jerry.

— Neppure io.

— Credo che quella cosa ci abbia punti.

— Io non ho sentito niente.

John mosse le braccia come per collaudarle. — Penso di averli visti.

— Visti chi?

— Mi sento stordito, Jerry.

— Anch’io.

Prima che trovassero l’energia di mettersi in cammino il sole era già alto nel cielo. Sopra la città, fra i contorni degli edifici, si vedevano aleggiare alcuni emisferi trasparenti dai quali ogni tanto scendevano sottili raggi di luce. — Guarda un po’, sembrano meduse — commentò Jerry mentre scendevano sulla strada verso il furgone.

— Credo d’avere visto Ruth e Loren. Non ne sono sicuro — disse John. Raggiunsero il veicolo lentamente, a passi rigidi, e dopo avere chiuso il portello posteriore sedettero nella cabina. — Filiamocela.

— Dove?

— Li ho visti quando eravamo in quel buco. Ma non erano là. Questo non ha senso.

— No, voglio dire dove andiamo adesso.

— Fuori città. Da qualche altra parte.

— Loro sono dappertutto, John. Lo ha detto la radio.

— Maledetti marziani.

Jerry sospirò. — I marziani ci avrebbero fatti fuori, John.

— Si fottano. Andiamocene da qui.

— Qualunque cosa siano — disse Jerry. — Giurerei che sono usciti da qualche posto qua attorno. — Indicò i terreni circostanti. — Forse proprio da dentro quel recinto.

— Metti in moto — disse John. Il fratello girò la chiavetta, ingranò la marcia e accelerò lungo la strada polverosa. Più avanti sbucarono sulla East Avenue, evitarono per un capello un’auto abbandonata in mezzo all’incrocio e girarono per la South Vasco Road verso l’autostrada. — Quanta benzina abbiamo?

— Ieri ho fatto il pieno prima che quella roba marrone ricoprisse anche il distributore.

— Sai una cosa — borbottò John raccogliendo dal pavimento uno straccio bisunto per asciugarsi le mani. — Credo che non ne capiremo mai abbastanza per sapere cos’è successo. È che non ne abbiamo la minima idea.

— Non abbiamo fantasia, forse. — Jerry strinse le palpebre: un miglio più avanti, sulla strada, c’era qualcuno che agitava vigorosamente le braccia. Vedendolo stupito John seguì il suo sguardo.

— Sembra che non siamo soli — commentò.

Jerry rallentò. — È una donna. — Si fermarono a una trentina di metri dalla sconosciuta, che li attendeva sul bordo della strada. Jerry si sporse dal finestrino per esaminarla meglio. — Non è una donna giovane — borbottò un po’ deluso.

Dimostrava una cinquantina d’anni, ma aveva capelli neri e lunghi e una gonna giovanile, color pesca, che nel correre le svolazzava attorno.

Si avvicinò sulla destra del furgone, sorridente e col fiato mozzo. — Grazie a Dio! — ansimò. — O a chi per lui. Credevo d’essere l’unica superstite della città.

— Evidentemente no — disse Jerry. John aprì lo sportello, si scostò per farle posto e lei salì in cabina; si gettò a sedere con un sospiro e rise ancora. Poi li scrutò entrambi con occhi acuti e vivaci. — Voi due non sarete giovinastri da strada, eh?

— Non credo proprio — replicò Jerry, esplorando i dintorni con un’occhiata. — Lei di dov’è?

— Abitavo qui in città. La mia casa è andata, e tutte le altre sono impacchettate e pronte per essere spedite… chissà dove. A dirla tutta credevo d’essere rimasta sola al mondo.

— Allora non ha ascoltato la radio — disse John.

— No. Non mi piacciono le carabattole elettroniche. Comunque so già cos’è successo.

— Ah, sì? — chiese Jerry, rimettendo in movimento il furgone.

— Proprio così. Mio figlio. È lui il responsabile di tutto questo. Non avevo idea di quale forma avrebbe preso la cosa, ma già allora non dubitavo che sarebbe accaduto. L’ho anche avvertito.

I gemelli si fissarono l’un l’altro. La donna scosse i capelli e se li fermò intorno alla fronte con un nastro.

— Sì, lo so — ridacchiò fra sé. — Matto come un cavallo. Più matto di chiunque altro in città. Ma intanto posso dirvi io dove andare.

— Dove? — domandò Jerry.

— A sud — disse lei con fermezza. — Dove mio figlio lavorava. — Si stirò la gonna sulle ginocchia. — Il mio nome, se vi interessa, è Ulam. April Ulam.

— John — si presentò lui, imbarazzato, stringendole la mano. — Questo è mio fratello Jerry.

— Vedo — annuì April. — Gemelli. Questo ha un significato, suppongo.

Jerry cominciò a ridere, e dopo un po’ gli si riempirono gli occhi di lacrime. Se le asciugò con il dorso della mano, ancora sporco di poltiglia marroncina secca. — A sud, signora?

— Senza esitare.

XXIX

Diario elettronico di Michael Bernard

15 Gennaio: Oggi hanno cominciato a parlare con me. Dapprima non senza difficoltà, ma sempre più facilmente col trascorrere delle ore.

Come descrivere l’esperienza delle loro voci? Hanno finalmente attraversato la barriera sangue-cervello, ed esplorato l’immensa frontiera costituita dalla mia mente, e scoperto lo schema che sta dietro le attività bioelettriche di questo mondo (lo schema che sono io) e scoperto che le informazioni sul loro passato e sulla loro origine sono vere, e che fuori di me esiste un mondo macroscopico…

E dopo aver appreso tutto ciò, essi dovevano comprendere cosa significa essere un uomo. Perché solo così potevano comunicare con questo loro Deus ex Machina. Incaricando decine di milioni di studiosi di lavorare a questo progetto, credo solo negli ultimi tre giorni, hanno chiarito la situazione e adesso chiacchierano con me non più stranamente che se fossero (ad esempio) aborigeni australiani.

Mi siedo alla scrivania e quando viene il momento stabilito converso con loro. In parte lo faccio in inglese (credo che loro captino la fase pre-vocale, quella che subito dopo la mia mente trasforma in parole), in parte in immagini visive, in parte con impressioni sensorie: più che altro il senso del gusto da cui sono particolarmente attratti.

Non ho ancora afferrato la complessità della popolazione che vive dentro di me. Si dividono in molte classi: i noociti originali e i loro derivati, quelli trasformati subito dopo l’invasione, le categorie di cellule mobili molte delle quali evidentemente nuove nel mio corpo, di nuova concezione e con nuove funzioni; le cellule fisse, forse non dotate d’individualità mentale, senza mobilità e con funzioni più complesse; le cellule tuttora non alterate (quasi tutto il mio cervello e il sistema nervoso rientra in questo gruppo) e poi altre di tipo a me ancora non conosciuto.

Insieme, ammontano a decine di trilioni.

A occhio e croce direi che in me esistono forse due trilioni di individui dall’intelligenza pienamente sviluppata.

Se moltiplico questo numero per il numero degli abitanti del Nord America (mezzo miliardo, all’incirca), ottengo una cifra di almeno un bilione di trilioni, nell’ordine di 1020. Tanti sono attualmente gli esseri senzienti sulla faccia della Terra… trascurando, è ovvio, l’ormai trascurabile popolazione umana.

Dopo avere fissato le note nella memoria elettronica, Bernard scostò la poltroncina dalla scrivania. Ci sarebbe stato troppo da registrare, troppi particolari; non sperava più di riuscire a spiegare quelle sensazioni ai ricercatori esterni. Dopo settimane di frustrazione, di isolamento, di tentativi d’interpretare il linguaggio chimico del suo sangue, adesso era subissato da una tale quantità d’informazioni che non riusciva ad assorbirne neppure una parte. Tutto ciò che doveva fare era chiedere, e mille o un milione di esseri intelligenti si organizzavano per analizzare le sue domande e fornirgli rapide e dettagliate risposte.

— Chi sono io per voi? — avrebbe ottenuto in risposta:

Padre/Madre/Universo

Mondo-Sfida

Sorgente di tutto

Antico, lento

°montagna-galassia°

E poteva trascorrere ore facendosi spiegare le complesse sensazioni che accompagnavano le parole: il sapore del suo siero sanguigno, i tessuti del suo corpo, la gioia con cui venivano accolte le sostanze nutritive, le necessità relative alla protezione e alla pulizia.

Nella quiete notturna, disteso sul letto e senza altro che uno scanner a infrarossi puntato addosso e gli immancabili sensori scaglionati sul corpo, s’immergeva nei suoi sogni e nelle caute, quasi riverenti, domande e risposte dei noociti. Ogni tanto si destava, come se un cane da guardia mentale lo avvertisse che un nuovo territorio dentro di lui veniva esplorato.

Anche durante il giorno gli capitava di perdere il senso del tempo. I minuti trascorsi a conversare con le cellule gli sembravano ore, e tornava poi alle attrezzature che lo circondavano con un’impressione distorta della realtà.

Le visite di Paulsen-Fuchs e degli altri avvenivano a intervalli che gli risultavano casuali e irregolari, mentre di fatto erano programmate ogni giorno sempre alla stessa ora.

Alle tre pomeridiane Paulsen-Fuchs arrivava con le sue interpretazioni delle notizie che Bernard aveva già letto o visto sullo schermo quel mattino. Le novità erano invariabilmente spiacevoli e sempre peggiori. L’Unione Sovietica, imprevedibile come un orso solitario, dopo aver indotto l’Europa al panico la lasciava ora in preda a una rabbia impotente. S’era trincerata in un improvviso silenzio che non tranquillizzava nessuno. Bernard rifletté un poco su quei problemi, poi chiese a Paulsen-Fuchs quali progressi s’erano fatti nel controllo delle cellule intelligenti.

— Nessuno. È ovvio che hanno in mano l’intero sistema immunitario; e oltre a possedere un tasso metabolico accelerato si travestono nei modi più diversi. Pensiamo che adesso riescano a neutralizzare ogni antimetabolita prima che entri in azione, e sono già capaci di fronteggiare inibitori come l’actinomicina. In breve, non possiamo danneggiare loro senza danneggiare te.

Bernard annuì. Stranamente questo non lo preoccupava più.

— E ora tu sei in comunicazione con loro — disse Paulsen-Fuchs.

— Sì.

Lo studioso sospirò, scostandosi dal triplo cristallo. — Sei ancora un essere umano, Michael?

— Si capisce che lo sono — esclamò lui. Ma poi dovette riflettere che il suo corpo non lo era, e che da più di un mese non poteva definirsi esattamente umano. — Sono sempre me stesso, Paul.

— Perché ci hai costretti a ficcare il naso nei tuoi appunti per scoprire questo fatto?

— Io non lo chiamerei curiosare. Davo per scontato che i miei appunti venissero scovati e analizzati.

— Michael, perché non lo hai detto a me? Mi sento sciocco, e offeso. Credevo di contare qualcosa nel tuo mondo.

Bernard ridacchiò e scosse il capo. — E conti molto, Paul. Sono tuo ospite. Appena avrò chiarito a me stesso, in parole, quel che devo dirti, te ne parlerò. Ti dirò tutto. Il discorso fra me e i noociti è appena all’inizio; non posso essere certo che fra me e loro non vi siano dei fraintendimenti sulle cose basilari.

Paulsen-Fuchs si mosse verso la porta di sicurezza. — Fammi sapere quando sarai pronto. Potrebbe essere molto importante — disse stancamente.

— Stanne certo.

Paulsen-Fuchs uscì dalla camera d’osservazione.

Bernard aveva captato in lui una certa freddezza. Lo stavano trattando come qualcuno sospeso dal consesso umano. E Paulsen-Fuchs era un amico.

Comunque lui cosa poteva farci?

Forse la sua umanità stava davvero giungendo al termine.

XXX

Al sessantesimo piano Suzy comprese che per quel giorno non ce l’avrebbe fatta a salire più in alto. Sedette sulla poltrona di un dirigente (aveva gettato in un angolo le scarpe di coccodrillo, la camicia di seta e l’elegante completo grigio del dirigente) e dalla finestra osservò la città duecento metri più in basso. Le pareti erano tappezzate in pannelli di mogano, con infissi artistici di bronzo firmati Norman Rockwell. La ragazza aveva mangiato cracker con prosciutto e burro d’arachidi tolti dalla sua borsa, e bevuto da una bottiglia di acqua minerale Calistoga trovata nel ben fornito bar dell’ufficio.

Il piccolo telescopio montato sul davanzale le aveva dato un’ampia visuale del quartiere intorno a casa sua, ora coperto da uno spesso strato di sostanza color del cuoio, e di tutta la periferia a sud e ad est su cui aveva puntato lo strumento. Il fiume intorno a Governor’s Island non sembrava più composto da acqua. La corrente aveva l’aspetto di fanghiglia congelata, e strane onde semisolide s’allargavano in circolo a incontrare altre onde provenienti da Ellis Island e Liberty Island. Si sarebbe detta più sabbia scomposta che acqua, ma lei sapeva che il fiume non poteva essere diventato sabbia.

— Devi esser stato un uomo molto ricco, e avere fatto un sacco di soldi — disse al vestito grigio, alla camicia di seta e alle scarpe. — Voglio dire, qui è tutto elegante e bello. Ti ringrazierei, se potessi. — La bottiglia era finita e la depose in un cestino per la cartastraccia sotto la scrivania, anch’esso in mogano.

La poltrona era abbastanza comoda da prestarsi a un pisolino, ma lei contava di trovare un letto. Sul suo vecchio televisore aveva visto spesso che gli alti dirigenti avevano camere da letto private annesse agli uffici. Quello era un ufficio così lussuoso che non poteva esserne privo. Decise però d’essere troppo stanca per alzarsi e andare a cercarla.

Mentre il sole scendeva sul New Jersey si massaggiò le gambe irrigidite dalla fatica.

La maggior parte della città, a quanto poteva vedere da lì, era nascosta sotto una tappezzeria marroncina e nerastra. Non riusciva a descriverla in un modo migliore. Qualche tappezziere era andato attorno ricoprendo di quel lenzuolo gli edifici di tutta Manhattan fino al decimo e anche al ventesimo piano. Di tanto in tanto vedeva ampi stralci di quel materiale sollevarsi nell’aria e svolazzare via, come avevano fatto a Brooklyn, ma adesso quel tipo d’attività era diminuito.

— Arrivederci, sole — disse. La rimanente sezione del disco rosso rimpicciolì, scomparve, e per la prima volta in vita sua lei vide, nell’estremo bagliore di luce riflessa, un brevissimo lampo verde. Alla scuola superiore gliene avevano parlato; l’insegnante aveva detto che si trattava di un fenomeno molto raro (anche se non s’era preoccupato di spiegare cosa lo produceva) e la ragazza sorrise compiaciuta: lo aveva visto, infine.

— Sono una privilegiata, questo è tutto — disse. Un’idea cominciò a prendere forma in lei. Non sapeva se si trattasse di una delle sue premonizioni bislacche o soltanto di un sogno a occhi aperti. La sorvegliavano. Il lenzuolo marrone stava spiando lei. Il fiume. Il mucchietto di vestiti. Qualsiasi cosa fosse, la sostanza in cui la gente s’era trasformata la teneva d’occhio. Non era uno spiare maligno, perché Suzy sentiva di piacere a quella cosa. Ma lei non si sarebbe trasformata, non finché avrebbe continuato a fare quel che stava facendo.

— Be’, andiamo a cercare un letto adesso — stabilì, alzandosi dalla poltrona. — Simpatico quest’ufficio — disse al mucchietto degli abiti.

Nell’anticamera, dietro la scrivania della segreteria, c’era una piccola porta priva di contrassegni. La spinse e vide un ripostiglio pieno di fogli e cancelleria ordinata su uno scaffale, e fissata al muro una cassetta metallica su cui brillava una spia rossa. Lì continuava ad arrivare l’elettricità. Forse si trattava di un impianto antifurto, pensò, alimentato a batterie. Forse un impianto antincendio. Chiuse la porta e s’avviò nella direzione opposta. Sulla destra dell’ufficio principale c’era un’altra porta, su cui una targhetta d’ottone diceva Privato. Lei annuì fra sé e girò la maniglia. La trovò chiusa, però era ormai diventata un’esperta sgominatrice di serrature. Frugò nella scrivania, vi trovò chiavi che sembravano andare bene e le provò. Il secondo tentativo fu quello buono. Spinse la maniglia e aprì la porta.

La stanza era buia. Accese la torcia elettrica e il fascio di luce le mostrò un letto dall’aria confortevole, un comodino un tavolo con un piccolo computer in un angolo e…

Suzy gridò di spavento. Sentì un tonfo e con la coda dell’occhio vide una piccola forma muoversi sotto il tavolo, mentre altre scivolavano sotto il letto. Risollevò la torcia: da oltre il letto una specie di tubo si alzò verticalmente. Sulla cima di esso c’era un oggetto pieno di sporgenze triangolari e corti lacci che pendevano attorno, che ondeggiò come per sfuggire alla luce. Qualcosa di piccolo e scuro passò velocemente fra i piedi della ragazza, che balzò indietro e puntò la torcia al suolo.

Avrebbe potuto essere un topo, ma era troppo grosso e di tutt’altra forma, e non assomigliava neppure a un gatto. Possedeva molti occhi, o comunque fessure luccicanti, intorno alla testa, ma aveva soltanto tre zampe coperte di peluria rossa. Lo vide correre nell’ufficio del dirigente. Chiuse di colpo la porta della camera da letto e indietreggiò, con le mani sulla bocca.

Al diavolo la cima del grattacielo. Non le importava più nulla.

Il corridoio che usciva dall’anticamera era sgombro. Con mani tremanti raccolse la radio, la tanichetta dell’acqua e la borsa dalla scrivania della segretaria; agganciò il manico del contenitore alla cintura e si gettò la borsa a tracolla. — Gesù! Gesù! — sussurrò. Corse via per il corridoio, con la tanichetta che le batteva su una coscia, e spalancò la porta delle scale. — Giù! — ansimò. — Giù, giù, giù! — Avrebbe dovuto fuggire da quel grattacielo. Se ai piani superiori c’erano cose di quel genere non aveva scelta. I suoi stivaletti ticchettarono rapidamente giù per le scale. Ad un tratto la borsa le s’impigliò nella ringhiera e si spaccò da cima a fondo: cracker e scatolette e brioches volarono sugli scalini. Un vasetto andò in pezzi, e una confezione di prugne secche rimbalzò e rotolò fin sul pianerottolo inferiore.

Lei esitò, corse a raccogliere le prugne, e nel girarsi vide il muro:era coperto da uno strato di sostanza bianca e marroncina. Lentamente, a occhi sbarrati, girò lo sguardo sulla ringhiera. Filamenti biancastri stavano risalendo lungo di essa, tortuosi e oscillanti, ed altri avanzavano sulla porta e sul muro esterno.

— No! — gemette. — Maledetti, no! Lasciatemi stare, lasciatemi andare via da qui! — Ciecamente si gettò contro la ringhiera e colpì i filamenti con i pugni chiusi, spellandosi e graffiandosi le dita. Il suo volto era rigato di lacrime. — Non toccatemi! Andatevene! - gridò. Ma il lenzuolo marroncino continuò a muoversi verso di lei.

Doveva salire. Qualunque cosa ci fosse più in alto doveva rischiare. Colpire quella roba con la scopa era un conto, ma camminarci in mezzo… no, questo sarebbe stato troppo per lei, avrebbe finito col farla impazzire.

Raccolse tutto il cibo che poteva e se ne riempì le tasche. Nel ristorante doveva pur esserci qualcosa da mangiare.

— Non voglio neppure pensarci! — disse a se stessa, e continuò a ripeterselo più volte. Ma non si riferiva al cibo che in quel momento era l’ultima delle sue preoccupazioni. Ciò che non voleva pensare era quel che avrebbe fatto dopo essere arrivata in cima al grattacielo.

Quel mare di sostanza sottile color cuoio aveva evidentemente deciso di sommergere l’intera città, perfino gli ultimi piani del World Trade Center.

E questo avrebbe lasciato molto poco spazio per Suzy McKenzie.

XXXI

Volgendosi verso il sole nascente April Ulam si fece schermo agli occhi. I generatori a vento di Tracy erano silhouette possenti contro l’arancione del cielo, e le pale ancora in movimento continuavano a mandare energia elettrica alla stazione di servizio dove i gemelli avevano rifornito il furgone. La donna fissò John e annuì senza parlare: sì, proprio così, quello era un altro giorno. Poi entrò nel piccolo negozio di alimentari a dirigere le scelte di Jerry che era entrato in cerca di cibo.

John stabilì che era molto più dura e decisa di quel che sembrava. Pazza o no, lui e il fratello pendevano dalle sue labbra. Avevano trascorso la notte lì al distributore, esausti benché non si fossero allontanati che di una quarantina di chilometri da Livermore. La sera prima avevano deciso di prendere la statale al centro della valle. Era stata April a suggerirlo, dicendo che sarebbe stato meglio evitare le zone un tempo molto popolate. — A giudicare da quanto è successo a Livermore — aveva detto — dobbiamo cercare di non cacciarci in trappola a San Josè o in posti simili.

La strada che stavano seguendo li avrebbe portati inevitabilmente attraverso Los Angeles se non avessero trovato il modo di aggirare la città, ma John aveva fatto a meno di dirlo.

Lei stava dando loro una meta, se non altro. Criticarla non avrebbe avuto senso, visto che senza di lei loro sarebbero rimasti intorno a Livermore e che questo li avrebbe fatti ammattire entrambi… forse di brutto. John girò intorno al furgone, con le mani in tasca e lo sguardo nella polvere.

Tutti loro erano attesi dalla morte.

Non gli importava niente. Dalla notte precedente si sentiva enormemente stanco: stanco in un modo che il semplice sonno non poteva curare. E capiva che per Jerry era lo stesso. Che quella donna bislacca se li portasse pure dietro per il naso: chi se ne curava?

Los Angeles poteva essere interessante. Comunque, lui dubitava che sarebbero veramente andati a La Jolla.

April e Jerry uscirono dal negozio portando ciascuno due borse piene di cibarie. Le misero nel retro del furgone, poi Jerry tirò fuori una carta stradale malconcia dallo scomparto dei guanti.

— Sono 580 chilometri, andando a sud sulla 5 — disse. April ebbe un cenno d’assenso. John prese il volante e partirono sulla statale.

Per buona parte l’autostrada che imboccarono era sgombra di macchine. Ma ogni tanto videro fermi sui bordi alcuni veicoli abbandonati — autocarri, auto, anche bus dell’Air Force — su cui non c’era nessuno, o almeno nessun essere umano. Non si fermarono a investigare.

L’asfalto era libero e la guida veloce. Le colline intorno alle riserve forestali di San Luis e di Los Banos avrebbero dovuto essere verdi per le piogge invernali, invece apparivano di un grigio fosco, come se si fossero spogliate nell’attesa di assumere un nuovo colore. Anche le foreste, immobili come ricami di vetro, avevano una tonalità smorta. Non si vedevano da nessuna parte uccelli né insetti. April osservava quel panorama con una sorta di oscuro orgoglio; mio figlio ha fatto questo, sembrava voler dire, e mentre guardava accigliata la riserva sparire più indietro aveva quasi l’aria di non disapprovare tutto ciò.

Jerry era confuso dagli atteggiamenti di lei, anche un po’ spaurito, e si asteneva dal fare qualsiasi commento. Tuttavia John poteva avvertire il suo disagio.

I campi ai lati dell’autostrada 5 erano coperti da un irregolare lenzuolo marrone che sotto il sole luccicava come plastica. — Tutti quegli alberi, e gli ortaggi — disse April scuotendo il capo. — Secondo voi che cos’è successo ai raccolti?

— Non lo so, signora — borbottò Jerry. — Io spruzzavo antiparassitari e basta, mica m’intendevo di campi.

— Non soltanto la gente. Ha preso ogni cosa. - Sorrise e scosse ancora la testa. — Povero Vergil. Non se lo immaginava proprio.

Uscirono dall’autostrada per fermarsi qualche minuto al Carl’s Junior Restaurant. Le porte alla francese erano aperte, e accanto al bancone del bar c’erano mucchietti di vestiti, ma l’edificio era libero e non trasformato. Nella saletta d’attesa, mentre orinavano fianco a fianco, John disse: — Io le credo.

— Perché?

— Perché è sicura di quel che dice.

— Questo non è un motivo.

— Non ha l’aria di chi racconta balle.

— Diavolo, no. È una squilibrata.

— Non credo.

Jerry si tirò su la lampo e grugnì: — È una strega, quella.

John non volle dargli torto.

Il monotono manto marroncino dei campi mutò gradualmente aspetto e colore mentre s’avvicinavano ai versanti delle Colline Perdute. Cominciò ad apparire molta terra nuda, polverosa e spoglia di vegetazione. In distanza piccoli turbini d’aria percorrevano la campagna, come donne di servizio che spazzassero dopo un party selvaggio. — Dove sono finite le piante e i raccolti? — si meravigliò April.

Jerry scosse il capo. Non lo sapeva. Non voleva saperlo.

John aguzzò lo sguardo verso la polverosa caligine verso cui si dirigevano e tolse il piede dal pedale dell’acceleratore, rallentando con esperta delicatezza. Ma ad un tratto inchiodò il freno di colpo e il furgone sbandò con uno stridore di pneumatici. Jerry bestemmiò, mentre April si puntellava a fatica contro il finestrino aperto.

Il veicolo si arrestò di traverso nel centro della strada. John lo raddrizzò di nuovo, ma invece di ripartire mise in folle.

I tre guardarono ciò che accadeva più avanti. Nessun commento era necessario… o addirittura possibile.

Una collina stava attraversando l’autostrada. Lenta, poderosa, alta forse una quarantina di metri, l’enorme massa striata di marrone traslucido e di grigio si spostava in una nuvola di polvere a poco più di trecento metri di distanza da loro.

— Quante di quelle cose ci sono lì dentro, secondo voi? — chiese bruscamente April, rompendo il silenzio.

— Non si può dire — mormorò John.

— Forse è l’ultima delle Colline Perdute che torna a casa — disse Jerry, ma non col tono di chi vuol fare dello spirito.

— Può essere che tutti i raccolti siano finiti lì — speculò April.

I due fratelli non si presero la briga di ragionare su quel particolare. John attese che l’enorme massa avesse liberato la strada, strisciando sui campi verso ovest, e mezz’ora dopo stabilì che poteva rimettere in movimento il furgone. Con cautela oltrepassò i detriti rimasti sull’asfalto sconvolto. L’aria odorava di polvere e di piante schiacciate.

— Marziani — borbottò John. Quella fu la sua ultima obiezione alla sicurezza con cui April aveva detto di conoscere ciò che era veramente accaduto. Da lì in poi non parlò quasi, finché non risalirono i versanti del Grapevine oltrepassando gli alberi ancora intatti, le costruzioni di Fort Tejon e quelle più lontane e velate di Fort Gorman. Mentre procedevano verso la sommità delle alture si volse a Jerry, con occhi dilatati e pupille sbarrate, e disse: — Si avvicina la Città degli Angeli.

Erano le cinque della sera e stava scendendo il crepuscolo.

L’aria al di sopra di Los Angeles era purpurea come carne ustionata.

XXXII

A mezzogiorno Bernard si vide consegnare il pranzo attraverso il piccolo portello di comunicazione: un vassoio di frutta, un sandwich contenente una fetta di carne e una bottiglia d’acqua minerale. Mangiò senza fretta, assorto nei suoi pensieri e gettando ogni tanto un’occhiata al VDT. Sullo schermo c’erano i risultati delle ultime analisi di repertorio sulle proteine del suo siero.

Il video aveva uno sfondo verdolino. Sotto le cifre prendevano forma linee rosse, che poi sparivano a mano a mano che venivano aggiunte altre file di numeri.

Bernard, cos’è questo?

— Non preoccupatevi — rispose alla domanda interna. — Se non faccio ricerche comincio a funzionare male.

Il livello delle comunicazioni era enormemente migliorato in appena un paio di giorni.

?Tu stai analizzando qualcosa da fare con i nostri collegamenti. Non ce n’è bisogno. Comunichi già attraverso il canale adatto, attraverso noi.

— Sì, infatti. Ma mi direte tutto ciò che ho bisogno di sapere?

Ti diciamo ciò che siamo incaricati di dirti.

— Ma mi ponete certi indovinelli, perciò consentitemi di fare lo stesso nei vostri confronti. Ho bisogno di sapere che non sono un impotente, che sto facendo qualcosa di utile.

Con grande difficoltà abbiamo cercato di comprendere °codificare° la tua situazione. Di VISUALIZZARE. Tu sei in uno SPAZIO chiuso. Questo è uno SPAZIO di concentrazione che tu consideri PICCOLO.

— Ma adeguato, ora che ho voi ragazzi con cui chiacchierare.

Tu sei trattenuto. Tu non puoi °diffonderti° oltre i limiti dello SPAZIO chiuso. Questo essere trattenuto è una tua scelta?

— Non mi stanno punendo, se è di questo che vi preoccupate.

Noi non °codifichiamo° comprendiamo PUNIRE. Tu stai bene. Le tue funzioni organiche sono in ordine. Le tue EMOZIONI non sono estreme.

— Perché dovrei essere sconvolto? Io sono finito. Tutto è perduto fuorché il (ahem!) codificare altre nozioni.

Noi VORREMMO che tu fossi più conscio della psicologia del tuo cervello. Noi potremmo dirti molto di più sul tuo stato. Stando così le cose abbiamo estrema difficoltà nel trovare PAROLE per descrivere la dislocazione delle nostre squadre. Ma torniamo al primo interrogativo. Perché vuoi escogitare altre forme di comunicazione?

— Io non sto bloccando i miei pensieri, no? (Lo sto facendo?) Dovreste essere capaci di estrapolare da soli quello che intendo fare. (Come potrei celarvi i miei pensieri?)

Tu hai capito la nostra capacità inadeguata. Tu sei molto nuovo per noi. Noi ti consideriamo con…

— Sì?

Quelli che sono stati assegnati a replicare questo stato su°°°°°° Questo none chiaro.

— Direi anch’io.

Noi ti consideriamo come se tu fossi capace di un certo biasimo °dissociazione° per le prestazioni minime in progetti assegnati.

— Voi mi considerate cosa?

Noi ti consideriamo come °supremo comando di gruppo°.

— Cosa sarebbe? E questo porta in superficie un intero scaglione di domande che mi piacerebbe farvi.

Noi siamo stati autorizzati a rispondere a queste domande.

(Gesù! Conoscevamo il contenuto delle domande ancor prima che gli si formassero nella mente).

— Mi piacerebbe parlare a un individuo.

INDIVIDUO?

— Non proprio la squadra o il gruppo di ricerca. Uno di voi, il quale agisce da solo.

Noi abbiamo studiato la tua concezione di INDIVIDUO. Non corrispondiamo a questa parola.

— Non ci sono individui?

Non precisamente. Le informazioni sono condivise fra gruppi di°°°°°°

— Non è chiaro.

Forse questo è ciò che tu intendi per INDIVIDUO. Non è lo stesso che una mentalità singola. Tu sai che le cellule si raggruppano per formare strutture di base. Ogni gruppo è il minimo INDIVIDUO. I gruppi raramente si separano a lungo entro le singole cellule. Le informazioni passano fra i gruppi che condividono compiti assegnati, inclusi la memoria e l’istruzione. La mentalità è perciò suddivisa fra gruppi che compiono una funzione. Memorie importanti possono essere °diffuse° a tutti i gruppi. Ciò che tu consideri come INDIVIDUO può definirsi attraverso la °totalità°.

— Ma voi non fate tutti parte di una sola mentalità, di un gruppo mentale, di una consapevolezza collettiva.

No, per quanto possiamo capire analizzando questi concetti.

— Voi potete litigare l’un l’altro.

Possono esserci diversità di approccio, sì.

— Allora cos’è un gruppo di comando?

Un gruppo chiave dislocato su un percorso di collegamento, nei vasi sanguigni o linfatici, per controllare le prestazioni dei gruppi in spostamento, delle cellule di servizio, delle cellule °costruite°. Tu sei come il più grosso dei gruppi di comando delle cellule, tuttavia tu sei CHIUSO e non hai ancora deciso di esercitare il tuo potere di °espansione°. Perché non eserciti il controllo?

A occhi chiusi lui ponderò a lungo — un secondo o forse più — su quella domanda, e replicò:

— Vi state ormai abituando al mistero.

Le tue ricerche con le nostre comunicazioni sono da interpretare come un atto di sfida?

— No.

C’è una frattura nel collegamento qui.

— Adesso sono stanco. Per favore, lasciatemi solo per un poco.

Capito.

Si sfregò gli occhi e raccolse una mezza mela. D’improvviso si sentiva esausto.

— Michael?

Paulsen-Fuchs era in piedi nella camera d’osservazione. — Salve, Paul — disse Bernard. — Ho appena avuto la più strana delle conversazioni.

— Sì?

— Credo che mi stiano trattando come una specie di deità minore.

— Oh, povero caro! — sospirò Paulsen-Fuchs.

— E probabilmente non mi restano che un paio di settimane.

— Quando sei arrivato qui dicesti… proprio quel giorno, parlasti di una settimana al massimo.

— Adesso posso sentire il cambiamento. È lento, ma inevitabile nel suo avanzare.

Attraverso i tre strati di cristallo si fissarono l’un l’altro. Paulsen-Fuchs fece alcuni tentativi di parlare, ma non riuscì a proferire verbo. Allargò le mani con aria scoraggiata.

— Proprio così — sospirò Bernard.

XXXIII

Nord America. Trasmissione via Satellite dallo RB-IH per ricognizioni da grande altezza. Voce di Lloyd Upton, corrispondente della EBN.

Sì, a posto… alquanto raffazzonate queste linee separate… Qui siamo tutti un po’ nervosi, non fate caso se mi sentite battere i denti. Registrate adesso? E il collegamento diretto… sì, Arnold? Uno, due, tre, qui Lloyd Upstonato, che è come mi sento… D’accordo, Colin, quella bottiglia lì. Questo vestito arancione non manderà fuori fase il video? Be’, manda fuori fase me. Andiamo a cominciare.

Salve a tutti, qui è Lloyd Upton, della branca inglese della European Broadcasting Network. Vi sto parlando da un’altezza di ventimila metri sopra il territorio degli Stati Uniti d’America, e più precisamente dallo scompartimento poppiero di un bombardiere americano B-I modificato in esploratore da alta quota, un RB-IH. Con me ci sono i corrispondenti inviati dalle principali reti continentali, compresi quelli delle due organizzazioni nuove e separate degli statunitensi in Europa, e i colleghi della BBC. Siamo i primi giornalisti civili autorizzati a volare sopra gli Stati Uniti dall’inizio di quella che è la più orribile catastrofe nella storia dell’umanità. Con noi ci sono due scienziati non militari che intervisteremo nel percorso di ritorno del nostro volo, il quale procede a una velocità doppia di quella del suono, vale a dire Match 2.

In appena otto settimane, due soli mesi, l’intero continente nordamericano ha dovuto soccombere a una trasformazione praticamente indescrivibile. Tutti i familiari punti di riferimento — intere città — si sono trasformati in un panorma che è un incubo biologico, o sono stati assorbiti dentro di esso. Il nostro velivolo ha seguito un percorso a zig-zag da New York ad Atlantic City, poi su Washington, quindi attraverso la Virginia, il Kentucky e l’Ohio, e presto ci abbasseremo a mille metri di quota per sorvolare Chicago, l’Illinois e i Grandi Laghi. A questo punto torneremo indietro lungo la costa orientale fino in Florida e oltre il Golfo del Messico per rifornirci da una cisterna volante decollata dalla Base Navale di Guantanamo a Cuba, che è miracolosamente scampata ai peggiori effetti del morbo.

Possiamo immaginare il dolore degli americani rimasti in Inghilterra, in Europa e in Asia, o in altre parti del globo. Temo molto che non potremo portare loro nessun sollievo con questo storico volo. Ciò che abbiamo visto può solo rattristare ogni membro della razza umana. Tuttavia non abbiamo osservato soltanto desolazione, bensì anche un selvaggio e — se mi si scusa questo giudizio estetico un po’ bizzarro — meraviglioso panorama formato da un’inusitata forma di vita le cui origini sono avvolte nel mistero, benché non sia escluso che vari Governi ne sappiano qualcosa. Le voci secondo cui il morbo sia dilagato da un laboratorio di San Diego, in California, non sono state negate né confermate dalle autorità politiche, e la EBN non ha avuto il permesso d’intervistare uno degli uomini chiave di questo… uh, dramma, il famoso neurochirurgo Michael Bernard, attualmente sotto sorveglianza in una camera sterile presso Wiesbaden, nella Germania Ovest.

Stiamo ora trasmettendo immagini video e fotografie riprese da grande altezza grazie a una speciale telecamera posta a bordo del nostro velivolo. Questa che vedete è una registrazione. Altri filmati sono in preparazione, ma presto potremo mostrarvi in diretta momenti significativi del nostro storico volo.

Come posso soltanto cominciare a descrivere il territorio che si stende sotto di noi? Sarebbe necessario un nuovo vocabolario, un nuovo linguaggio. Strutture e forme del tutto sconosciute ai biologi o ai geologi coprono le città e i sobborghi, perfino le terre incolte del Nord America. Intere foreste sono diventate grigiastre… uh… foreste di spine, aculei, aghi. Attraverso le lenti ad alto potere d’ingrandimento abbiamo notato dei movimenti in quelle strutture, oggetti delle dimensioni di un elefante che si spostavano in attività incomprensibili. Abbiamo visto fiumi la cui corrente appariva sotto una sorta di controllo esterno, il cui flusso esulava da quello delle normali masse d’acqua. Sulla costa atlantica, specialmente di fronte a New York e ad Atlantic City e per un’estensione di dieci o venti chilometri, lo stesso oceano era coperto da quello che aveva l’aspetto di uno strato vivente, di un brillante colore verdolino.

In quanto alle città… non un segno delle normali creature viventi, non una traccia di esseri umani. New York è un irriconoscibile dedalo di forme geometriche, una città evidentemente smantellata e ricostruita per adeguarsi agli scopi di un’epidemia… se un’epidemia può avere scopi. In realtà ciò che abbiamo visto conferma le dicerie secondo cui il Nord America è stato invaso da una forma di vita biologica intelligente, ovvero microrganismi intelligenti, i quali cooperano, si adattano, mutano e alterano il loro ambiente. Il New Yersey e il Connecticut mostrano simili strutture biologiche, che i giornalisti chiamano megaplexis in mancanza di un termine migliore, cioè megaorgani. Lasceremo agli scienziati il compito di trovare definizioni più adeguate.

Ecco, stiamo scendendo. La città di Chicago si trova nell’Illinois, all’estremità meridionale del Lago Michigan: un’enorme distesa d’acqua tranquilla. Ci troviamo a undici chilometri di distanza, e stiamo dirigendo sopra il lago verso la città. La telecamera ora inquadra quello che noi, giornalisti e studiosi, stiamo guardando a occhio nudo. Il sistema d’ingrandimento ad alta definizione vi mostra la superficie del lago, ed è assolutamente liscia, molto simile a quella dell’oceano di fronte alle aree metropolitane. Il reticolo che vedete serve, a quanto mi dicono, per cartografare la zona. Scusate se inserisco una mano nel campo visivo, ma vorrei adesso farvi notare queste strane forme già da noi osservate nelle acque del fiume Hudson… ecco, questi circoli caratteristici di un giallo-verde brillante, e questi atolli con le complesse linee radiali simili ai raggi di una ruota. Non è ancora stata data nessuna spiegazione su queste forme, benché foto scattate da satelliti abbiano talora mostrato che vasti addensamenti di esse lungo una spiaggia siano in connessione con i cambiamenti topografici del territorio interno.

Scusate… Sì? Certo, capisco. Chiedo scusa, ma mi hanno appena informato che certi particolari sono da considerarsi confidenziali per il momento. Solo per gli occhi degli esperti diciamo così.

Adesso abbiamo cambiato rotta e stiamo percorrendo un semicerchio, e mi dicono che quella sotto di noi è Waukegan, Illinois. L’Illinois è noto per il suo territorio piatto, come per le sue automobili, visto che a Detroit… no, uh, Detroit si trova nel Michigan. Sì, notoriamente quella dell’Illinois è una topografia piatta, e Chicago è detta anche la Città del Vento, per via dei venti che soffiano dal Lago Michigan. Ma da quel che possiamo vedere il territorio ha suddivisioni simili a campi e fattorie, con la differenza che invece di rettangoli queste suddivisioni formano degli ovali… delle ellissi, anzi, e noto anche dei cerchi, piccoli cerchi all’interno di altri più larghi. Nel centro di ogni cerchio campeggia un monticello, qualcosa che ricorda il punto centrale dei crateri lunari, di forma conica. Questi coni… be’, ora che li vedo meglio direi piuttosto piramidi… sì, piramidi con quelli che sembrano scalini o gradinate concentriche lungo i lati esterni. La cima di queste piramidi o coni è arancione, un po’ come il colore dell’abito che indosso in questo momento. Arancione acceso, molto intenso.

Abbiamo notevolmente rallentato. I deflettori sono stati aperti e stiamo sorvolando a velocità ridotta Evanston, a nord di Chicago. Dovunque si guardi non c’è nulla che sembri umano. Tutti noi siamo… mmh, piuttosto nervosi adesso, anche gli ufficiali e l’equipaggio americano dell’Air Force, perché se qualcosa andasse male ci vedremmo depositati proprio nel mezzo di… sì, be’, meglio non pensare in mezzo a cosa finiremo. Ci abbassiamo e rallentiamo ancora.

Abbiamo stabilito di passare sopra Chicago perché le foto scattate da grande altezza da alcuni satelliti hanno rivelato una concentrazione di attività biologica intorno a questa città un tempo assai popolosa. Così come allora Chicago era un po’ la capitale dei territori interni americani, oggi appare al centro di un’attività che riguarda vastissime zone circostanti, forse una specie di centrale di smistamento fra il Canada e il Messico. Sono visibili enormi tubature che giungono a Chicago da tutte le direzioni. In alcuni tratti queste tubature appaiono aperte, come grossi canali, nei quali in questo momento possiamo vedere un liquido verdastro e vischioso che scorre rapido… sì, laggiù. Possiamo…? Be’, più tardi allora trasmetteremo queste immagini registrate. Il canale che sto osservando dev’essere largo mezzo chilometro. Stupefacente. Impressionante!

Voci raccolte nelle sedi del controspionaggio militare a Wiesbaden, a Londra e in Scozia dicono che esiste un altro centro d’attività, di diverso genere, sulla costa occidentale degli Stati Uniti. I particolari non sono disponibili, ma è chiaro che Chicago condivide con la California meridionale il titolo di località più interessante per gli osservatori e gli studiosi. Tuttavia noi non sorvoleremo la costa del Pacifico: il nostro velivolo non ne avrebbe l’autonomia senza rifornimento in volo, e questo non può esserci fornito su quel lato del continente.

Stiamo ora compiendo giri piuttosto stretti e veloci, in cui sperimentiamo una certa forza centrifuga. Passando sopra il sobborgo di Oak Park ho controllato sulla mappa qui davanti a me: nessuna strada può essere identificata. Ora dovremmo essere sul centro di Chicago. E ora a giudicare dalla distanza su Cicero Avenue. Ed eccoci di nuovo sul lago… sì, quello è il Porto di Montrose, e poi la Lake Shore Drive e il Lincoln Park, che però identifico solo grazie alla posizione relativa al lago. Acceleriamo un poco allargando il circolo sulla zona del Museo della Scienza e dell’Industria… o almeno è quello che supponiamo tutti noi. Posso ora scorgere dell’acqua, forse il Canale delle Navi. Ci troviamo ad appena un migliaio di metri da terra, una quota piuttosto pericolosa visto che non abbiamo idea dell’altezza a cui eventuali microrganismi potrebbero giungere. Santo cielo, confesso che ho paura. Tutti quanti l’abbiamo. Adesso stiamo passando sopra… sì…

Gesù! Scusatemi. Quelli dovevano essere i recinti del bestiame, gli Union Stockyards. Ecco cos’erano, una volta. Ho fatto appena in tempo a dare un’occhiata perché il pilota ha cabrato velocemente dirigendo poi a sud. Ma quello che ho visto…

Chiedo scusa. Stento ancora a credere di non aver avuto un’allucinazione. È spaventoso. Non ho mai visto niente di simile in tutto il tempo che abbiamo trascorso sopra questa terra da incubo. Mi passano ora le telefoto appena sviluppate, scattate su dettagli di quelli che una volta erano i famosi recinti del bestiame di Chicago. Quando si pensi all’enorme quantità di animali — vitelli e maiali — concentrate laggiù forse non dovremmo essere sorpresi o sconvolti. Ma le più grosse creature viventi che ho visto in vita mia sono le balene, e ciò che mostrano queste foto è molto più grosso di qualsiasi balena. Enormi ovoidi bianchi e marrone, che sembravano spostarsi a poche spanne d’altezza. O forse strisciavano a livello del suolo. Più grosse di dinosauri, ma senza gambe visibili, né teste, né code. Non prive di… uh, lineamenti, tuttavia: sporgenze, prolungamenti sostenuti o circondati da poliedri, non saprei, icosaedri o dodecaedri… questi con zampe da insetto, non articolate, rigide, zampe spesse direi due o tre metri. Le creature ovoidali, qualunque cosa siano, potrebbero riempire comodamente ciascuna un campo da rugby.

Sì, sì. Ci dicono ora… sono appena stato informato che ci sono forme di vita volanti, esseri viventi, e che per un capello non ne abbiamo investito un paio, simili a gigantesche manta molto piatte, tipo alianti o pipistrelli, anch’essi di colore bianco e marroncino. Stanno fluttuando sulle ali del vento verso sud-ovest, insieme ad altri, come in formazione. Scusatemi. Scusate.

Taglia il sonoro! Chiudi i microfoni, maledizione! E non puntare la telecamera su di me!

(Una pausa di cinque minuti)

Siamo sulla rotta di ritorno. Scusate l’interruzione. Io sono soltanto un essere umano e… be’, a volte il panico ha un brutto effetto. Spero che chi mi ascolta capisca. In quanto a me, sono stupefatto dalla calma e dalla padronanza di cui stanno dando prova gli… uh, gli ufficiali e l’equipaggio di questo velivolo. Tutti professionisti, e ragazzi dannatamente in gamba. Abbiamo appena oltrepassato Danville, nell’Illinois, e fra breve… fra pochi secondi saremo sopra Indianapolis. Abbiamo visto dei cambiamenti nelle caratteristiche fisiche, o forse dovrei dire biologiche, del territorio. Forme e colori che siamo lungi dal poter interpretare. E come se sorvolassimo un pianeta del tutto nuovo. E i nostri due scienziati sono troppo occupati a prendere appunti e ad annotare dati strumentali per dare voce alle ipotesi e teorie che potrebbero avere.

Indianapolis è sotto di noi, tanto indecifrabile e misteriosa quanto… affascinante e aliena come gli altri megaplexis. Molte delle strutture qui si direbbero alte quanto gli edifici di cui hanno preso il posto, altre sono cento o duecento metri più alte, e col sole basso proiettano immense ombre. Presto il tempo sembrerà accelerarsi per noi, mentre faremo rotta a est, anzi a sud-est, e vedremo il sole tramontare più in fretta. Le ombre già coprono questo panorama biologico, l’atmosfera è piuttosto limpida: niente industrie né automobili… tuttavia chi può dire quale specie d’inquinamento può emettere questa biologia aliena? All’apparenza tuttavia esso non riguarda l’atmosfera.

Sì? Cosa…

Sì, questo è confermato anche dai nostri scienziati. Quando abbiamo sorvolato Chicago gli strumenti indicavano un’aria molto pura, senza tracce di fumo o sostanze chimiche, e ciò si nota nella limpidezza dell’orizzonte. C’è però molta umidità, e per questa stagione dell’anno una temperatura inspiegabilmente alta. Sembra che quest’anno il Nord America godrà di un inverno assai mite, visto che a Chicago e in altre zone settentrionali non abbiamo notato neve. Niente neve. Ci sono piogge, calde e con grosse gocce… abbiamo oltrepassato densi banchi di nuvole, ma niente neve, né ghiaccio.

Sì, sì, l’ho visto anch’io. Stiamo osservando una palla di fuoco, forse una meteora di qualche genere; notevole… e ce ne sono altre. Sembra che…

(Voci in sottofondo, in tono alto e indecifrabile, grida di sorpresa)

Mio Dio! Questo era evidentemente un veicolo in rientro, o un gruppo di moduli in rientro dall’alta atmosfera, ad appena una dozzina di chilometri da noi. Gli strumenti di bordo hanno indicato la presenza di forti radiazioni. I piloti e gli ufficiali hanno attivato tutti i sistemi d’emergenza e stiamo salendo di quota per allontanarci dalla zona con… sì, con una… no! Siamo in planata rapida. Scendiamo, credo, presentando la poppa all’oggetto che… qualunque cosa sia…

Qui mi dicono che il velivolo esploso poco fa era un satellite sovietico, e che gli oggetti in rientro dall’alta atmosfera erano missili balistici a lungo raggio. Ripeto, missili balistici a lungo raggio. Ma non siamo stati raggiunti dall’onda d’urto, e non dovremmo precipitare. Non dovremmo precipitare adesso…

(Altre voci, imprecazioni stupite, rumori e grida d’allarme)

Credo che non ce la faremo a risalire dalla caduta a vite. Abbiamo grossi danni alla strumentazione. I motori sono spenti, e stiamo precipitando. Vedo che la radio funziona ancora, ma…

(Termine della trasmissione dell’RB-IH. Fine della cronaca diretta di Lloyd Upton. Interruzione nell’arrivo dei dati telemetrici.)

XXXIV

Bernard era disteso sul letto, con una gamba di fuori e l’altra ripiegata, il piede bloccato contro il materasso. Da una settimana non si radeva né faceva la doccia. La sua pelle era pesantemente segnata da creste bianche, e sulle gambe gli erano cresciute alcune prominenze dalle ginocchia in giù, anche sotto la pianta dei piedi. Benché nudo, sembrava che indossasse strani stivali alti fino ai fianchi.

Non gliene importava. A parte l’ora di colloquio con Paulsen-Fuchs e i dieci minuti giornalieri di esami fisici, non faceva altro che stare sul letto a occhi chiusi e comunicare con i noociti. A tratti si alzava e cercava di analizzare il linguaggio chimico. In questo i noociti non gli davano molto aiuto. L’ultima conversazione sull’argomento era avvenuta tre giorni prima.

La tua idea non è completa, non è corretta.

— Ancora non ho finito.

Perché non lasci che siano i tuoi compagni a lavorare su questo? Ci sono altre cose che potrebbero essere portate a termine se dedicassi la tua attenzione all’interno.

— Sarebbe più semplice se voi ci diceste come comunicate…

Noi VORREMMO essere più °puri° l’un l’altro, ma il nostro gruppo di comando crede che per ora sia preferibile la segretezza.

— Già, infatti.

I noociti nel frattempo assorbivano dati da lui… e dai ricercatori esterni alla camera d’isolamento. A sua volta la Pharmek ricavava dati dal suo corpo. Bernard poteva solo fare supposizioni sui loro scopi; non s’era ribellato quando Paulsen-Fuchs aveva cominciato a ridurre sempre più la sua razione quotidiana di notizie e di quelli che erano i risultati delle ricerche. In un certo modo questo non gli interessava molto: aveva fin troppo da fare per adattarsi alle interazioni dei noociti.

Il terminale era acceso in continuazione, e mostrava l’elaborazione di dati inseriti nel computer tre giorni addietro. I numeri verdi erano stati completamente rimpiazzati dalle righe rosse. Ogni tanto ad esse si appaiavano delle frasi in blu. La curva determinata dalle loro lunghezze si appiattiva sempre più, come se, un bit dopo l’altro, la chimica lasciasse il posto a un linguaggio matematico che nella fase successiva si sarebbe trasformato in una specie di pidgin, fatto di immagini logiche e di inglese. Ma quella fase distava ancora settimane o mesi.

Focalizzando la sua attenzione sui ricordi causò un’interruzione, insolita, da parte dei noociti:

Bernard. Tu lavori ancora sulla °musica del sangue°.

Non era stato Ulam a usare quella frase, un giorno?

È questo che VUOI per unirti a noi al nostro livello? Non avevamo considerato questa possibilità.

— Non sono sicuro di capire cosa state suggerendo.

La parte di te che sta dietro tutta la comunicazione emessa può essere codificata, attivata, rimandata. Sarà come un SOGNO, se abbiamo capito il significato di questa parola. (NOTA: Tu sogni tutto il tempo. Lo sapevi?)

— Io potrei diventare uno di voi?

Noi pensiamo che questa affermazione sia giusta. Tu sei già uno di noi. Abbiamo codificato parti di te in molte squadre per elaborarle. Tu puoi codificare la tua PERSONALITÀ e completare il cerchio. Sarai uno di noi, temporaneamente, se lo desideri. Adesso possiamo fare questo.

— Ho paura. Ho paura che voi possiate rubarmi l’anima dall’interno…

La tua ANIMA è già stata codificata, Bernard. Noi non cominceremo senza averne ricevuto il permesso da tutti i tuoi frammenti mentali.

— Michael? — La voce di Paulsen-Fuchs lo distolse dalla conversazione. Bernard scosse il capo e socchiuse le palpebre, fissando la finestra della camera d’osservazione. — Michael, sei sveglio?

— Io ero… sveglio. Che c’è?

— Qualche giorno fa ci hai dato il permesso di invitare Sean Gogarty. Adesso è qui.

— Sì, sì. — Michael si alzò. — È lì con te? Ho la vista offuscata.

— No, è fuori. Pensavo che avresti voluto vestirti e metterti in ordine prima di riceverlo.

— Perché? — replicò secco lui. — Sbarbato o meno resto una vista ben poco piacevole.

— Vuoi incontrarti con lui in quelle condizioni?

— Sì. Portatelo dentro. Hai interrotto qualcosa d’interessante, Paul.

— Ormai non facciamo altro che interromperti di continuo, no?

Bernard cercò di sorridere. Si sentiva la faccia rigida, estranea. — Fallo entrare, Paul.

Sean Gogarty, dell’Università di Londra, insegnante di fisica teorica al Kings College, avanzò nella camera d’osservazione e si fece schermo agli occhi con una mano per guardare il laboratorio al di là dei cristalli. Aveva un volto aperto, amichevole, un naso lungo e aguzzo e denti sporgenti. Fisicamente era alto e di bel portamento, con braccia muscolose sotto le maniche della sua giacca di lana scozzese. Mentre fissava Bernard attraverso le lenti degli occhiali strinse le palpebre e il suo sorriso si smorzò. — Dr. Bernard — salutò, con piacevole accento scozzese in cui non mancava un tocco di Oxford.

— Dr. Gogarty.

— La prego, professore, può bastare Sean. Preferisco fare a meno dei titoli.

— Allora io sono Michael. — Lo sono?

— Sì, be’, nel tuo caso… uh, mi è meno facile darti del tu. Io ti conosco, ma sono certo che tu non hai mai sentito parlare di me, uh, Michael. — Sorrise di nuovo, benché con uno sforzo. Come se, pensò Bernard, si fosse atteso d’incontrare un essere umano e invece…

— Paul mi ha riassunto alcuni dei tuoi lavori. Tu sei qualche passo più avanti di me, Sean.

— Penso di sì. Ma quanto è accaduto nella tua terra va oltre la mia comprensione, ne sono sicuro. C’è qualcosa di cui vorrei parlare con te, Michael, e non solo con te.

Paulsen-Fuchs stava fissando Gogarty con una certa apprensione. Senza dubbio quella visita era stata approvata dal Governo, rifletté Bernard, altrimenti non avrebbe avuto luogo, eppure Paul era sulle spine.

— Vuoi dire con i miei colleghi. — Bernard accennò verso Paulsen-Fuchs.

— Non con i tuoi colleghi umani, no — disse Gogarty.

— I miei noociti.

— Noociti? Sì, sì, capisco. I tuoi noociti. Tielhard de Chardin avrebbe approvato questo nome, credo.

— Ultimamente non ho avuto molto tempo per pensare a Tielhard de Chardin — annuì Bernard, — ma avrebbe potuto essermi d’ispirazione.

— Già. Be’, io sono riuscito a entrare qui per il rotto della cuffia — disse Gogarty — e mi hanno concesso un tempo limitato. Ho una teoria da proporti, e mi piacerebbe che tu e i tuoi piccoli colleghi la esaminaste.

— Come hai avuto informazioni dettagliate su di me e sui noociti? — domandò Bernard.

— Sono stati contattati esperti di tutta l’Europa. Alcuni sono venuti a chiedermi un consulto. Spero che non se la prendano se ho lavorato sulle loro informazioni. Non posso dire d’essere eccessivamente rispettato da tutti i miei colleghi, Dr. Bernard… Michael. Le mie idee sono più che semplicemente anticonformiste.

— Esponimele pure — lo incitò Bernard impaziente.

— Sì. Penso che tu non abbia mai sentito parlare della Meccanica dell’Informazione, è così?

— Neppure un sussurro — disse Bernard.

— Io sto lavorando in una branca molto specializzata della fisica, finora mai esplorata, che riguarda gli effetti dei processi informativi sullo spazio-tempo. La riassumo così perché i noociti potrebbero già saperne più di me, ed essere in grado di spiegartela…

— Non contarci. A loro piacciono le cose complicate, e a me no.

Gogarty sedette e restò immobile e silenzioso per parecchi secondi. Paulsen-Fuchs lo scrutava con crescente preoccupazione.

— Michael, ho raccolto una gran quantità di strutture teoriche per supportare quello che sto per dirti. — Fece un profondo respiro. — Il processo informativo (o più strettamente, l’osservazione) ha un effetto sugli eventi che accadono nello spazio-tempo. Gli esseri viventi consapevoli giocano un ruolo integrale nell’universo: noi fissiamo i suoi limiti, determiniamo in alto grado la sua natura, proprio come esso determina la nostra natura. Ho ragione di credere (è solo un’ipotesi per ora) che più che scoprire le leggi fisiche noi collaboriamo alla loro esistenza. Le nostre teorie sono costruite su osservazioni fatte in passato da noi stessi… e dall’universo. Se l’universo è d’accordo che gli eventi passati non contraddicono una teoria, questa diviene un fatto reale. E l’universo la assume come funzionante. Più le teorie collimano con i fatti, e più a lungo durano… e su spazi più vasti. Di conseguenza noi dividiamo l’universo in territori, e il nostro particolare territorio, il nostro spazio umano diviene sempre più distinto dal resto. Sai che non abbiamo contatti extraterrestri. Se a grande distanza dalla Terra vi fossero altri esseri intelligenti questi occuperebbero altri territori con altre leggi fisiche. Non dobbiamo aspettarci grosse differenze fra le leggi fisiche di questi territori adiacenti (l’universo, infine, gioca il ruolo preponderante) ma piccole diversità non dovranno meravigliarci.

«Le teorie non possono restare funzionanti per sempre. L’universo sta già cambiando; possiamo immaginare regioni in cui la realtà si evolve finché non diverranno necessarie nuove teorie. Fino ad oggi la razza umana non ha prodotto una densità o un ammontare di processi informativi (pensiero, memoria computerizzata, o che altro vuoi) sufficiente a manipolare in modo effettivo lo spazio-tempo. Non abbiamo creato teorie così complete da vederle imporsi all’evoluzione della realtà. Ma tutto ciò è recentemente cambiato in modo notevole.

Ascolta con attenzione GOGARTY.

Bernard si raddrizzò e cercò di concentrarsi maggiormente.

— Se solo potessi presentarti le mie equazioni, le correlazioni fra la meccanica dell’informazione e i quanta elettrodinamici… e se solo tu potessi capire!

— Ti sto ascoltando. Ti stiamo ascoltando, Sean.

Gogarty spalancò gli occhi. — I… noociti? Hanno risposto?

— Hai dato loro poco a cui rispondere. Vai avanti, professore.

— Finora l’unità più capace di raccogliere processi informativi sul nostro pianeta è stata il cervello umano… oltre forse a quello dei cetacei, ma senza tuttavia la capacità di stimolare processi di modifica. Quattro, cinque miliardi di esseri umani che pensano ogni giorno. Effetti scarsi. Minimi tremiti nello spazio-tempo, neppure misurabili. Il nostro potenziale d’osservazione (il nostro potere di formulare teorie complesse) non è abbastanza intenso da portare a quel tipo di effetti che ho scoperto col mio lavoro. Non esisteva niente del genere nel Sistema Solare, forse neppure nell’intera galassia!

— Sta divagando troppo, professor Gogarty — intervenne Paulsen-Fuchs. L’altro gli gettò uno sguardo irritato, poi si volse a Bernard con aria supplichevole.

Lui parla di cose interessanti.

— Non mettergli fretta, Paul. Sta arrivando al punto.

— Grazie. Ti sono molto grato, Michael. Ciò che voglio dire è che ora abbiamo le condizioni necessarie per realizzare gli effetti che ho descritto nei miei articoli. Non solo quattro o cinque miliardi di individui pensanti, Michael, bensì triliardi… forse miliardi di triliardi. Per la maggior parte in Nord America. Minuscoli, molto fitti, che focalizzano la loro attenzione su tutti gli aspetti di ciò che li circonda, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Osservano tutto nel loro ambiente, e teorizzano su quello che non possono osservare. L’osservare e il formulare teorie possono fissare la forma degli eventi, della realtà, in varie e significative maniere. Non c’è nulla, Michael, che non sia informazione. Tutte le particelle, tutta l’energia, lo spazio e il tempo stessi in ultima analisi non sono che informazioni. La natura e l’identità intima dell’universo possono essere alterate, Michael, proprio in questo momento. Dai noociti.

— Sì — disse Bernard. — Ti ascolto.

Qualcosa di non formulato… un’evidenza…

— Due giorni fa — disse Gogarty con più vivacità, il volto arrossato dall’eccitazione — l’Unione Sovietica ha lanciato un attacco nucleare su larga scala contro il Nord America. Ma a differenza di quello su Panama, nessuna delle loro testate nucleari ha funzionato.

Bernard fissò Paulsen-Fuchs dapprima con stupore, poi risentito. Nessuno gli aveva detto una parola di quel fatto.

— I sovietici non sono dei costruttori di ICBM così incapaci, Michael. Avrebbe dovuto esserci un olocausto. Non c’è stato. Ora, io ho compilato parecchi grafici di quell’attacco, basandomi sulle osservazioni di cui disponiamo. Una fonte molto importante è stato un velivolo da ricognizione, che portava a bordo scienziati e giornalisti in un volo sull’America del Nord, collegato via satellite con l’Europa. Al momento dell’attacco il velivolo si trovava molto all’interno del territorio statunitense. Evidentemente è precipitato, ma non in seguito all’attacco stesso. Nessuno può essere certo sulla causa del disastro, ma il modo in cui i dati telemetrici e le comunicazioni si sono interrotti… i tempi, la successione degli eventi, tutto quadra con la mia teoria. Inoltre in varie parti del globo si sono verificati effetti peculiari. Silenzi radio, interruzioni nell’energia elettrica, fenomeni meteorologici. E anche intorno all’orbita geosincrona: due satelliti separati da 12.000 km di distanza hanno cessato di funzionare. Ho messo dati e coordinate di questi incidenti nel nostro computer, ed esso mi ha fornito questo profilo di campo quadrimensionale. — Tolse dalla sua cartella una grossa foto stampata da un computer.

Bernard strinse le palpebre per vederla meglio. La sua capacità visiva si acutizzò d’improvviso. Riuscì a distinguere perfino la grana della carta. — Sembra l’incubo di un sollevatore di pesi — commentò.

— Sì, un toroide un po’ contorto — fu d’accordo Gogarty. — Questa è la sola figura che abbia un senso alla luce delle informazioni inserite. E nessuno può dare un senso a questa figura… a parte me. Temo che non mi renderà molto popolare nell’ambiente scientifico, perché se ho ragione, e credo di averla, ci troviamo di fronte a un guaio ancora più grosso di quel che credevamo, Michael… o magari più piccolo, dipende da quale genere di guaio tu avevi previsto.

Bernard poteva sentire l’intensità con cui quel diagramma veniva assorbito in lui. I noociti avevano tralasciato il costante contatto con la sua mente già da alcuni secondi.

— Tu stai dando ai miei piccoli colleghi molto su cui riflettere, Sean.

— Già. E le loro reazioni?

Bernard chiuse gli occhi.

Dopo una ventina di secondi li riaprì e scosse il capo. — Non una parola — disse. — Mi spiace, Sean.

— Be’, non mi ero aspettato molto.

Paulsen-Fuchs diede uno sguardo all’orologio. — Non c’è altro, Dr. Gogarty?

— No. Solo un’ultima cosa. Michael, l’epidemia non si spanderà oltre il Nord America. O meglio, non oltre un cerchio di settemila chilometri di diametro se i noociti stanno lavorando su quell’area del globo.

— Perché no?

— A causa di ciò che ho detto. Ce ne sono già troppi di loro. Se si espandessero su un raggio maggiore creerebbero qualcosa di molto singolare: una porzione di spazio-tempo troppo intensamente osservata. Il territorio non avrebbe possibilità di evolversi. Troppi brillanti teorici, se mi spiego. Si verificherebbe una sorta di congelamento, un crollo nei livelli quantici. Una singolarità. Un buco nero di pensieri. Il tempo ne verrebbe gravemente distorto e gli effetti potrebbero distruggere la Terra. Sospetto che abbiano limitato la loro crescita proprio perché l’hanno capito. — Gogarty si asciugò la fronte con un fazzoletto e sospirò.

— Come hanno potuto impedire l’esplosione delle testate nucleari? — domandò Bernard.

— Direi che hanno trovato il modo di creare sacche di osservazione molto potenti. Hanno usato triliardi di osservatori per stabilire una piccola sacca temporanea di spazio-tempo alterato. Una sacca in cui le leggi fisiche sono abbastanza diverse da non consentire la detonazione di bombe atomiche. La sacca non sarà durata a lungo (il resto dell’universo era in violento disaccordo con essa) ma a sufficienza per prevenire l’olocausto.

— C’è un’altra questione cruciale — continuò poi. — I tuoi noociti sono in comunicazione col Nord America?

Bernard ascoltò ma non ebbe risposta. — Non lo so.

— Loro possono essere in comunicazione, lo sai, senza bisogno di radio o altri mezzi a noi familiari. Se riescono a controllare gli effetti sulla complessità locale da loro stessi creata, possono originare sottili distorsioni nel continuum temporale. E temo che non abbiamo strumenti abbastanza sensibili da captare segnali di questo genere.

Paulsen-Fuchs si alzò e si toccò l’orologio con fare significativo.

— Paul — disse Bernard. — È per questo che mi censurate le notizie? Perché non sono stato informato dell’attacco nucleare sovietico?

Paulsen-Fuchs non rispose. — C’è altro che tu possa fare per Mr. Gogarty? — chiese.

— Non in questo momento. Io…

— Allora ti lasciamo alle tue meditazioni.

— Aspetta un secondo, Paul. Che diavolo sta succedendo? È chiaro che a Mr. Gogarty piacerebbe dedicarmi altro del suo tempo, e lo stesso vale per me. Perché tutte queste limitazioni?

Gogarty spostava gli occhi dall’uno all’altro, visibilmente imbarazzato.

— La sicurezza, Michael — disse Paulsen-Fuchs. — Sono pignoli, lo sai.

La reazione di Bernard fu una risata improvvisa, secca come un latrato. — Lieto d’averti incontrato, professor Gogarty — disse.

— Anch’io — annuì Gogarty. Il microfono della camera d’osservazione fu spento e i due uomini uscirono. Bernard spostò la tenda del cesso e orinò. Il colore del liquido era d’un rosso porporino.

Non sei tu che li dirigi? Sono loro a comandare te?

— Se non l’aveste ancora capito, io sono un semplice mortale. Che succede alla mia orina? È purpurea.

Fenoli e chetoni vengono scaricati. Noi dobbiamo TRASCORRERE PIÙ TEMPO a studiare la vostra situazione gerarchica.

— Io sono un pesce piccolo — disse lui ad alta voce. — Più piccolo ancora, adesso.

XXXV

Il fuoco scoppiettava gagliardamente, proiettando le tre alte ombre nere sulle storiche e antiche costruzioni di Fort Tejon. In piedi e con le spalle alla fiamma, la leggera gonna che le svolazzava attorno nella fredda brezza serotina, April Ulam si strinse le braccia al petto. Jerry depose il ramo con cui aveva attizzato i ceppi e si volse al fratello. — Allora cos’è che abbiamo visto?

— L’inferno — dichiarò fermamente John.

— Abbiamo visto Los Angeles, signori — disse April dal buio.

— Io non ho riconosciuto niente - sbottò John. — Non era neanche come Livermore, o i campi delle fattorie. Voglio dire…

— Non c’era niente di reale là — terminò Jerry per lui. — Solo un gran… roteare.

April si avvicinò e sedette su un ciocco aggiustandosi la veste sulle ginocchia. — Penso che ciascuno di noi dovrebbe dire ciò che ha visto, descrivendolo meglio che può. Comincerò io, se volete.

Jerry scosse le spalle. John continuò a fissare nel fuoco.

— Credo d’avere riconosciuto la forma della San Fernando Valley. Sono dieci anni dall’ultima volta che ho visitato Los Angeles, ma non ho scordato quelle colline, e c’erano anche Burbank e Glendale… solo che non ricordo bene com’erano a quel tempo. C’era molto smog e faceva caldo, al contrario di oggi.

— Lo smog c’è sempre — la corresse Jerry. — Ma non sembra lo stesso.

— Smog porpora. — John scosse il capo con una risatina.

— Ora, se siamo d’accordo d’avere visto la valle…

— Sì — borbottò Jerry. — Forse era quella.

— Allora c’era qualcosa nella valle, tutto sparso attorno.

— Ma non solido. Non fatto di materia solida — disse sottovoce John.

— Credo anch’io — annuì April. — Energia, allora?

— Sembravano chiazze sparpagliate, come un quadro di Jackson Pollack — disse Jerry.

— O uno di Picasso — aggiunse John.

— Sono d’accordo, signori, con una piccola riserva: a me sembrava molto di più un Max Ernst.

— Non so niente di lui — si accigliò Jerry.

— Qualcosa roteava là in mezzo. Un tornado.

April assentì. — Già. Ma che genere di tornado?

John si sfregò gli occhi con le dita. — Più largo alla base, con spunzoni di tutte le specie che ne schizzavano fuori… come fulmini, ma senza luce. Come ombre di fulmini.

— Che toccavano — disse John — e poi sparivano.

— Un tornado ballerino, magari — suggerì April.

— Sì — dissero i gemelli.

— Io ho visto file di dischi che ondeggiavano dentro e fuori, sotto il tornado — continuò lei. — E voi no?

I due scossero la testa all’unisono.

— E sulle colline luci in movimento, come lucciole che si affollassero verso il cielo. — Negli occhi le brillò ancora uno sguardo esaltato, mentre li abbassava sognanti sul fuoco. John unì le mani dietro la nuca e scosse di nuovo il capo.

— Irreale — disse.

— Proprio così. Del tutto irreale. Ma deve avere una connessione con ciò che ha fatto mio figlio.

— Balle! — brontolò John.

— No — disse Jerry. — Io le credo.

— Se ha cominciato a La Jolla, per spargersi poi dappertutto, dove può essere il luogo in cui la cosa è andata più avanti?

— A La Jolla. — Jerry la guardò con aria interrogativa. — Forse è partita dall’UCSD.

April scosse il capo. — No, a La Jolla, dove Vergil abitava e lavorava. Ma è dilagata in fretta su e giù per la costa. Forse fin giù a San Diego, e poi si è riunita tutta quanta e ha fatto di questo luogo il suo centro.

— Fottute balle — ripeté John.

April disse: — Non possiamo andare a La Jolla, non con quella roba a sbarrarci la strada. E io sono venuta qui per cercare mio figlio.

— Lei è pazza, ecco quello che penso — disse John.

— Non ho idea del perché voi due gentiluomini siete stati risparmiati — disse lei. — Ma è chiaro il perché lo sono stata io.

— Perché è sua madre? — ridacchiò Jerry, annuendo come ad approvare la propria deduzione.

— Esattamente — replicò April. — Perciò, gentiluomini, domani oltrepasseremo queste colline, e se volete potrete venire con me. Altrimenti proseguirò anche da sola e andrò a raggiungere mio figlio.

Jerry tornò serio. — April, questa è una follia. Che farebbe se trovasse qualcosa di veramente pericoloso come un tempesta elettrica o una centrale a energia nucleare sul punto di esplodere?

— Non ci sono centrali a energia nucleare a Los Angeles — disse John. — Ma Jerry ha ragione. È da idioti solo pensare di poter camminare dentro quell’inferno.

— Se mio figlio è li, non mi succederà niente di male — disse April.

Jerry riattizzò rabbiosamente il fuoco. — La porterò fin là — borbottò. — Ma non verrò con lei.

John gettò al fratello un’occhiata dura. — Vi ha dato di volta il cervello a tutti e due.

— Posso sempre andarci a piedi — stabilì cocciutamente April.

Con le mani sui fianchi e una smorfia risentita sul volto John guardava il fratello e April Ulam che camminavano verso il furgone. La dolciastra nebbia purpurea che saliva dal bacino di Los Angeles fin sui pendii alberati sopra Fort Tejon filtrava la luce del mattino, creando un fantomatico panorama senza ombre.

— Ehi! — gridò John. — Maledizione, ehi! Non lasciatemi qui! — Corse dietro a loro.

Il fulgore seguì la strada deserta fino sulla dorsale delle colline, e i tre spinsero lo sguardo sul maelstrom sottostante. Non sembrava molto diverso nel fulgore del sole.

— È come tutti gli incubi che ho avuto in vita mia, arrotolati su in un blocco unico — disse Jerry, che guidava con attenzione.

— Non è un paragone malvagio — annuì April. — Un tornado di sogni. Forse i sogni di tutti quelli che sono stati presi nel cambiamento.

John poggiò le mani sul cruscotto e guardò giù verso la valle. — C’è ancora un miglio di strada libera — disse. — Poi dovremo fermarci.

Jerry fece un cenno d’assenso. Il veicolo rallentò.

A una velocità inferiore ai dieci km l’ora si avvicinarono a una cortina verticale di nebbia danzante. Era alta dai trenta ai quaranta metri e si estendeva ai due lati della strada, torcendosi attorno a vaghe forme arancione che un tempo potevano essere stati edifici.

— Gesù, Gesù! — sussurrò John.

— Ferma — ordinò April. Jerry arrestò il furgone. La donna fissò John finché lui non si decise ad aprire la portiera e a scostarsi per lasciarla uscire. Jerry spostò in folle la leva del cambio e mise il freno a mano, quindi scese dall’altra parte.

— Voialtri, signori, avete perso quelli che amavate, vero? — domandò April, lisciandosi la gonna spiegazzata. Il maelstrom ruggiva in distanza come un uragano: ruggiva e soffiava con un rumore di pioggia che scrosciasse giù per una grondaia.

John e Jerry accennarono di sì.

— Se il mio Vergil è lì dentro, e io so che c’è, allora devono esserci anche loro. Oppure lì c’è il modo di raggiungerli.

— È la cosa più stupida che abbia mai sentito — disse John. — Mia moglie e mio figlio non possono essere lì.

— Perché no? Sono morti?

John la fissò accigliato.

— Lei sa che non sono morti. E io so che mio figlio non è morto.

— Lei è una strega — la accusò Jerry, quasi con ammirazione.

— Altri l’hanno detto. Anche il padre di Vergil, prima di lasciarmi. Ma voi sapete. Non è così?

John ebbe un tremito. Due lacrime gli scivolarono sulle guance. Jerry fissò la cortina di nebbia con una smorfia.

— Saranno là dentro, John? — chiese al fratello.

— Non lo so. — Lui tirò su col naso e se lo asciugò su una manica.

April s’avviò verso la cortina. — Grazie per l’aiuto, gentiluomini — disse. Mentre penetrava nella nebbia cominciò a distorcersi come un’immagine televisiva fuori sintonia, e poi scomparve.

— Gesù, guarda! — ansimò John, con un brivido.

— Ha ragione lei — mormorò Jerry. — Non lo senti?

— Non lo so! — gemette John. — Cristo, fratello, non lo so!

— Andiamo a cercarli — disse Jerry, prendendolo per mano. Lo incitò con un cenno del capo. John fece resistenza.

Jerry lo spinse avanti.

— E va bene — stabilì John sottovoce. — Insieme.

Fianco a fianco percorsero gli ultimi metri di discesa ed entrarono nella parete di nebbia.

XXXVI

Quando fu all’ottantaduesimo piano le gambe le cedettero di colpo. Con un gemito e una mezza giravolta cadde, battendo la testa sulla ringhera e un ginocchio contro l’orlo di uno scalino, proprio sotto la rotula. La torcia elettrica e la radio le volarono via dalle mani, sul pianerottolo. Il contenitore dell’acqua si spaccò in due, inzuppandola e rotolando via, ed ella non poté fare altro che seguirlo con gli occhi, paralizzata dal dolore. Le parvero ore — ma probabilmente furono solo pochi minuti — prima che trovasse la forza di trascinarsi sul pianerottolo. Lì giacque sulla schiena, con occhi velati dalla sofferenza ma incapace di piangere.

Un bernoccolo sulla fronte, una gamba che non voleva piegarsi più molto bene, poco cibo e niente acqua, spaurita, dolorante, e con altri trenta piani da fare. Poi la torcia elettrica sfarfallò e si spense, lasciandola nel buio più completo. — Merda! — disse. Sua madre aveva detestato quella parola quanto il pronunciare il nome di Dio invano. Poiché non erano stati una famiglia molto religiosa quella veniva giudicata un’infrazione minore, oscena solo quando fatta davanti a chi se ne sarebbe offeso. Ma dire merda era peggio, era un’ammissione di cattive maniere e cattiva educazione, o semplicemente il sintomo che si stava cedendo a emozioni degradanti.

Suzy tentò di alzarsi e cadde di nuovo, stordita dalla fitta di dolore che le partiva dal ginocchio. — Merda, merda, MERDA! — gridò. — Non farmi tanto male! Oh, non farmi male! — Provò a massaggiarsi la rotula ma toccarla era peggio che lasciarla stare.

A tentoni cercò la torcia e la recuperò. Dopo qualche colpetto riuscì a farla accendere, e subito girò il raggio attorno per controllare che il lenzuolo marrone e i filamenti non l’avessero raggiunta. Guardò la porta dell’ottandaduesimo piano e seppe che non avrebbe potuto continuare l’ascesa per un po’, forse per il resto del giorno. Vacillò al battente, s’appoggiò alla maniglia e si volse a cercare la radio. Era finita sul pianerottolo inferiore, dopo avere preso alcuni brutti colpi. Per un momento pensò che tanto valeva lasciarla là; ma per la radio rappresentava ancora qualcosa di speciale. Era il solo oggetto umano che le restava, il solo oggetto che le parlava. Frugando nell’edificio avrebbe sempre potuto trovarne un’altra, ma abbandonarla significava rischiare il silenzio. Tenendo rigida la gamba sofferente scese a riprenderla.

Oltrepassare carponi la pesante porta antincendio risultò tragicamente difficile, e si procurò un’altra escoriazione quando il battente le si chiuse su un braccio; infine, però, giacque sul tappeto del corridoio davanti all’ascensore e sospirò, con gli occhi fissi al rivestimento antiacustico del soffitto. Si girò bocconi, tesa a captare ogni movimento.

Silenzio, immobilità.

Pian piano, cercando di dosare le forze, avanzò nel corridoio e girò un angolo.

Al di là di una porta a vetri c’era un vastissimo locale pieno di tavoli da disegno, le cui gambe smaltate poggiavano su una moquette gialla, e da ciascuno di essi si levavano lampade nere come fenicotteri dal collo regolabile. La porta era tenuta aperta da un cuneo di gomma. Barcollò oltre una scrivania e un divano e si appoggiò al più vicino dei tavoli, gli occhi senza espressione per la stanchezza e il dolore. Sul piano c’erano dei disegni tecnici. Quello era l’ufficio di un architetto, dunque. Si chinò a osservare meglio gli schemi e vide che erano gli interni di un’imbarcazione. Lì aveva lavorato gente che disegnava barche. — E che diavolo me ne importa? — gemette fra sé.

Sedette su un alto sgabello fornito di ruote girevoli. Per mezzo minuto armeggiò con un piede sulla leva che sbloccava le ruote, quindi lo usò per avanzare nella fila di centro sfruttando i bordi dei tavoli per spingersi oltre.

Una larga vetrata separava il locale dei disegnatori da un serie di uffici. Si fermò a scrutarli. La paura l’aveva abbandonata, adesso. Fuggendo se l’era lasciata indietro. Il mattino dopo ci sarebbero state altre paure per lei, rifletté, ma intanto ne avava abbastanza. Ora si limitava a osservare.

I cubicoli degli uffici erano pieni di cose in movimento. Erano così strane che per un poco pensò di non saperle descrivere neppure a se stessa. Su e giù per il vetro si spostavano dei dischi dai piedi artigliati, i cui bordi emanavano luce. In un altro cubicolo c’era qualcosa di fluido e senza forma, come cera liquida, che emetteva pseudopodi e bolle bianche; in un terzo si contorcevano dei cavi neri da cui sprizzavano scintille; nel quarto tutto era ricoperto da una sostanza verde fluorescente. Nell’ultimo ufficio una foresta di bastoncelli simili a zampe di gallina, di altezza diversa, si piegavano e oscillavano come sotto l’impatto di un vento irreale.

— È pazzesco — sussurrò. — Questo non ha nessun significato. E se nulla ha senso, allora non sta succedendo nulla.

Spinse lo sgabello a rotelle lontano dagli uffici, fino alla finestra sul lato opposto. Nel resto dei locali sembrava non esserci niente, neppure vestiti vuoti. Visti da quella distanza i cubicoli oltre la vetrata le parvero un acquario di creature esotiche.

Forse lì era al sicuro. Solitamente quello che stava dentro un acquario non ne usciva fuori. Cercò di convincersi che nulla la minacciava, e tuttavia neppure questo le importava più. Per il momento non c’era nessun altro posto in cui potesse andare.

Il ginocchio le si gonfiava, aderendo ai jeans stretti. Pensò che avrebbe potuto tagliare la stoffa, ma poi stabilì che era più saggio levarseli. Con un mugolio scese dallo sgabello e si appoggiò a uno scaffale. In equilibrio su una gamba si slacciò i jeans e contorcendosi un poco li sfilò, togliendone via il ginocchio gonfio con cautela.

Non aveva un brutto aspetto, a parte il lieve gonfiore e una chiazza violacea sotto la rotula. Se lo tastò e le vennero le lacrime agli occhi, non tanto per il dolore quanto per la situazione in cui si trovava. Lì non restava più niente per Suzy McKenzie. Il suo vecchio mondo se n’era andato finché di esso non erano rimasti che nudi edifici, e senza la gente essi erano soltanto scheletri. E presto anche la ragazza di nome Suzy McKenzie se ne sarebbe andata, senza lasciare di sé neanche il ricordo della sua ombra.

Si volse alla finestra che, sopra i bassi scaffali allineati contro la parete, si apriva verso nord.

C’era una nuova Manhattan là fuori, una città-tenda i cui pali erano grattacieli, una città di cubi giocattolo su cui era steso un lenzuolo aderente. Baluginava di un caldo color giallo-miele nel tramonto. Nuova New York, piena di vestiti afflosciati al suolo.

Suzy McKenzie si accovacciò sulla moquette, arrotolò i jeans sotto il ginocchio per tenerlo sollevato e si coprì il volto con le braccia. — Quando mi sveglierò — disse a se stessa, — io sarò Wonder Woman, forte e intelligente. E saprò cosa sta succedendo.

Nel profondo della sua mente, tuttavia, capiva che si sarebbe risvegliata trovandosi abbastanza normale, e che il mondo sarebbe stato sempre il solito.

— Non è una bella prospettiva — mormorò.

Nell’oscurità lunghi filamenti strisciarono avanti sulla moquette, penetrarono negli uffici-cubicolo oltre la vetrata e spensero le bizzarre attività creative dentro di essi.

XXXVII

— Io non appartengo a nessuno. Non sono ciò che ero una volta. Non ho passato. Sono stato liberato da ogni catena e non ho alcun posto dove andare, salvo quello in cui loro vogliono portarmi.

«Ero separato fisicamente dal mondo esterno, e ora lo sono anche mentalmente.

«Il mio lavoro qui è finito.

«Io sto aspettando.

«Sto aspettando.

Davvero tu VUOI viaggiare fra noi, essere fra noi?

— Sì.

Fissa gli occhi sul verde e sull’azzurro e sul rosso del VDT. In quel momento le immagini perdono ogni significato per lui, come se fosse un bambino appena nato. Poi lo schermo, il tavolo che lo sorregge, la tenda della doccia e i muri della camera di contenimento vengono sostituiti da un nulla argenteo.

Michael Bernard sta attraversando un interfaccia.

Egli è codificato.

Non è più conscio delle sensazioni di chi possiede un corpo. Non più movimenti automatici della muscolatura involontaria, non più brontolio di fluidi nell’addome, non più pulsare di sangue e battiti cardicaci. Non più senso dell’equilibrio, tensioni o rilassamenti. È come lasciare una città per entrare di colpo nel cuore di una caverna silenziosa.

Dapprima pensare a se stesso è un crearsi d’immagini granulose e discontinue. Se una cosa simile può essere, lui visualizza se stesso alla base chimica dell’universo, dove tutti gli atomi e le molecole si combinano e si separano scambiandosi rumori silenziosi come guizzanti pesci abissali. È sospeso dentro complesse attività senza suono, incapace di valutare la situazione e incerto su quale sia la sua identità attuale. Parte delle sue facoltà sono momentaneamente escluse. Ma d’un tratto… un sussulto! Lui può analizzare, valutare. I pensieri tornano a folate come foglie spinte dal vento in un prato. Un altro sussulto! Ora è un pigro flusso di gelatina che circola e cola in una tazza fredda.

Il viaggio di Bernard non è ancora neppure all’inizio. Si trova sempre nell’interfaccia, non grande e non piccolo. C’è una parte di lui che continua a giacere nel suo cervello-universo, che continua a inviare i pensieri lungo le cellule invece che dentro le cellule.

La sospensione rotea in un vortice d’incoscienza, i suoi pensieri vengono spinti come un filo nella cruna di un minuscolo ago

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La piccola esplosione che lo proietta oltre l’interfaccia lascia improvvisamente il posto all’ordine e a un senso di semplicità. Non c’è luce, però esiste il suono. Le cellule pulsano, si separano, si contraggono sotto la spinta del fluido. Lui è nel suo stesso sangue. Può tastare e udire le cellule che stanno costruendo il suo nuovo essere, e quelle che non sono direttamente parte di lui. Può udire il fruscio dei microtuboli che si diramano nel suo citoplasma. E ciò che di più notevole riesce a sentire — il sottofondo di ogni sensazione — è il citoplasma stesso.

Questa è infatti la base del suo essere, l’elettrica e fluente sensazione di vita pura. È conscio dell’affilato equilibrio fra l’animazione e la gelatina morta, che affonda le radici nell’ordine, nella gerarchla, nell’interazione. Cooperazione. Lui è un individuo e nello stesso tempo ognuno dei suoi compagni di squadra, gli altri gruppi di centinaia di cellule a monte e a valle del flusso. I compagni più a valle sono come distanti, come chimicamente isolati, quasi fossero nelle profondità di un pozzo; i compagni più a monte sono ricchi e intensi.

Non può decifrare la meccanica dei suoi pensieri più di quanto non lo poteva nel suo cervello-universo. I pensieri emergono dalle reazioni chimiche, dagli interscambi con i compagni di gruppo e dai processi interni alle cellule. Unirsi è pensare, l’interazione è il linguaggio.

Le sensazioni lungo le membrane delle sue cellule sono intense. È lì che lui riceve, avverte la pressione chimico-elettrica dei messaggi molecolari dall’esterno. Contatta un °frammento di dati° sotto forma di un plasmide, lo ingloba per estrarne informazioni, lo assorbe nel suo corpo e duplica quelle parti di lui che saranno necessarie ad altri suoi compagni. Adesso i plasmidi arrivano rapidamente, e intanto che li ingloba e ne assorbe le molecole, come libri da aggiungere a una biblioteca, sente che a lui ritornano pezzi e frammenti di Michael Bernard.

L’immenso Bernard è contenuto in un gruppo di un centinaio di cellule. Ora può rendersi conto che al livello dei noociti c’è davvero un essere umano: lui stesso.

Benvenuto.

— Grazie.

Individua i compagni del gruppo dalle differenze nel sapore, e sono sapori di ogni genere, ricchi e dolci. Il senso di cameratismo è sopraffacente. Lui ama il suo gruppo (come potrebbe amare qualcos’altro?). Ne è parte integrale, tanto amato quanto necessario.

Bruscamente avverte il sapore della parete d’un capillare. Lui è inserito in una squadra di ricerche, e veicola informazioni provenienti da esso fabbricando pacchetti di acidi nucleici. Assorbire, ristrutturare, veicolare, assorbire…

Estrudersi. Passare all’esterno.

Questa è l’istruzione che gli viene data. Lascia il capillare e penetra nel tessuto.

Lasciare un frammento di plasmide nel flusso di dati.

Si è spinto fra le cellule del capillare — cellule connettive, non noociti — e si ferma nella parete. Ora attende l’arrivo di dati sotto forma di strutture proteiche, ormoni e ferormoni, catene di acidi nucleici, o forse dati in forma di cellule °costruite°, virus o batteri addomesticati. Ha bisogno non solo di nutrimento base, facilmente ottenibile dal siero sanguigno, ma del rifornimento di enzimi che gli consentono di assorbire e analizzare i dati, di pensare. Gli enzimi sono forniti da batteri che li fabbricano e li distribuiscono.

Il sangue è un’autostrada, una sinfonia d’informazioni e di istruzioni. È una delizia analizzare e modificare quel ricco brodo. Le informazioni hanno il loro sapore e ciascuna è un pensiero vivente, capace di modificarsi nel sangue a meno che non venga costruita con cura, sfrondata dei sovrappiù e ben compattata. Le parole non potrebbero comunicare ciò che lui sta facendo. Il suo intero essere vive nelle chiacchiere che assorbe analizzando e processando.

E mentre pensa attraverso i suoi sottili processi mentali — molecole che pensano alle molecole, registrando se stesse — sente arrivare la vertiginosa spirale delle rivelazioni in termini che fino a quel momento non esistevano dentro di lui. È come ricevere la parola di Dio diretta a un albero, e portarla giù a quell’albero, e vederlo fiorire arrossendo di confusa emozione.

Tu sei il potere, il potere buono, il più ricco di tutti i sapori… il supremo messaggio dall’alto.

I suoi compagni lo avvicinano, si raggruppano intorno alle sue appendici nel sangue, si affollano. Lui è come un novizio in un monastero, improvvisamente ispirato dal respiro di Dio. I monaci si radunano, pregano per avere un tocco da lui, un segno di redenzione e uno scopo. È intossicante. Li ama perché sono la sua squadra; loro fanno perfino più che amarlo soltanto, poiché lui è la Sorgente.

Il gruppo di comando sa che lui, lui stesso, è parte di una gerarchla più vasta, ma quest’informazione non lo sminuisce né lo abbassa di livello ai loro occhi. I gruppi comuni Io considerano con timore reverenziale.

Tu sei il flusso della vita. Tu hai la chiave che °apre° e °chiude°, la chiave della pulsazione e del silenzio.

— Più avanti — dice lui. — Conducetemi più avanti e mostratemi la vostra vita.

XXXVIII

— Suzy. Svegliati.

Gli occhi di Suzy si aprirono pian piano. Davanti a lei erano in piedi Kenneth e Howard. La ragazza sbatté le palpebre e girò lo sguardo sulle pareti azzurre della sua camera da letto. Sentì il suo cuscino sotto la nuca. — Kenny? — sussurrò.

— Mamma ti aspetta.

— Howard!

— Alzati, su, Fiorellino. — Era così che Kenneth la chiamava sempre. Scostò la coperta, poi se la tirò di nuovo addosso: aveva ancora la blusa, ma dalla vita in giù era nuda. A parte gli stivaletti.

— Devo vestirmi — disse.

Howard le porse i jeans. — Fai presto. — I due uscirono dalla camera da letto e chiusero la porta. Lei mise fuori le gambe e infilò i piedi nei pantaloni, poi si alzò e li tirò su chiudendo la lampo e il bottone. Il ginocchio non le faceva più male. Il gonfiore era sparito, e tutto quanto sembrava bello e a posto. Aveva anche un buon sapore in bocca. Cercò attorno la torcia elettrica e la radio. Erano sul pavimento ai piedi del letto. Le raccolse, aprì la porta e uscì in corridoio. — Kenny?

Howard la prese dolcemente per un braccio conducendola verso la porta della camera da letto della madre. Era chiusa. Kenneth girò la maniglia, spinse il battente e i tre entrarono nell’ascensore. Howard premette il pulsante per il ristorante e i vestiboli dell’ultimo piano.

— Lo sapevo — disse lei, ripiegandosi su se stessa. — Sto sognando. — I suoi fratelli la guardarono, sorrisero e scossero il capo.

— No, non stai sognando — disse Kenneth. — Siamo tornati.

Silenziosamente l’ascensore li portò su per i venticinque piani che restavano.

— È uno scherzo — mormorò lei, sentendo le lacrime scivolarle calde giù per le guance. — Questo è crudele.

— D’accordo, la parte che riguardava la camera da letto, la casa… consideralo un sogno. C’era lì altra roba che probabilmente non ti avrebbe fatto piacere vedere. Ma noi siamo qui. Siamo di nuovo con te.

— Voi siete morti — disse lei. — Anche Mamma.

— Siamo diversi — disse Howard. — Ma non morti.

— Ah! E cosa siete allora, zombies? Dio ci protegga!

— Loro non ci hanno uccisi — spiegò Kenneth. — Ci hanno solo… smantellati. Come tutti gli altri.

— Be’, quasi tutti gli altri. — Howard indicò lei, e i due giovanotti sorrisero.

— Tu non hai avuto fortuna, sei stata lasciata da parte — disse Kenneth.

Adesso la ragazza aveva paura. La porta dell’ascensore si aprì, e uscirono in una sala piena di eleganti specchi. Le luci elettriche si riflettevano in un’infinità di superfici. Le luci erano accese. L’ascensore funzionava. Era chiaro che stava sognando, oppure era definitivamente diventata pazza.

— Qualcuno è morto, però — disse Kenneth con gravità, prendendola per mano. — Incidenti, errori.

— Questa è solo una parte di ciò che sappiamo, adesso — disse Howard.

Oltrepassarono il corridoio di specchi, un nido di cristalli ornamentali tagliato in due, un monumentale frammento di quarzo rosa e un alto nodulo di malachite. Sulla porta del ristorante nessuno si fece loro incontro. — Mamma è dentro — disse Howard. — Se hai fame c’è una quantità di roba da mangiare qui, puoi starne certa.

— C’è la corrente elettrica — disse lei.

— Il generatore d’emergenza, nei sotterranei. Ha funzionato per un po’ dopo che la centrale si è fermata, ma poi è finito il carburante. Capisci? Così ne abbiamo trovato dell’altro. Loro ci hanno detto come funziona e lo abbiamo riacceso prima di venire a cercarti — disse Howard.

— Sì. E dato che per loro era difficile ricostruire molta gente lo hanno fatto soltanto con Mamma e noi. Non ci sono gli inservienti del grattacielo, né gli altri. Abbiamo fatto noi tutto il lavoro. Tu hai dormito per un bel po’, sai.

— Due settimane.

— Ecco perché il tuo ginocchio è guarito.

— Quello, e…

— Ssssh! — lo zittì Kenneth, mettendo una mano su un braccio al fratello. — Non tutto in una volta. — Suzy spostò lo sguardo dall’uno all’altro, mentre la conducevano nel ristorante.

Era tardo pomeriggio. La città, chiaramente visibile dalle larghe finestre panoramiche del locale, non era più ricoperta dallo strato biancastro e marroncino.

La ragazza non riuscì a riconoscere nessun punto di riferimento. In precedenza aveva almeno potuto discernere gli edifici dalla forma, le strade dalla posizione, e i contorni dei quartieri a lei noti.

Il luogo non era più lo stesso.

Forme nere e grigie, sconcertante biancore di marmi, edifici piramidali, immensi poliedri dai molti lati alcuni dei quali traslucidi come vetro o ghiaccio. Lastroni alti centinaia di metri erano in fila come pezzi del domino lungo quella che una volta era stata West Street, da Battery Park fino a Riverside Park. Tutti gli stabili e i grattacieli di Manhattan erano stati smontati a pezzi, rimescolati, quindi costruiti in altro modo e ridipinti.

Ma le strutture non le sembravano più di cemento e acciaio. Non aveva idea di cosa fossero fatte.

Erano vive.

Sua madre era seduta a un lungo tavolo ricoperto di cibarie. C’erano insalate di diverso genere intorno a un grosso prosciutto parzialmente affettato, vassoi di olive e antipasti sulla destra, dessert e paste sulla sinistra. La donna sorrise e si alzò, girando intorno al tavolo col suo passo elastico da ex giocatrice di tennis, e le tese le braccia. Indossava una gonna costosa di sartoria, un’elegante camicetta a maniche lunghe guarnita di pizzi e ricami, e appariva assolutamente terrificante.

— Suzy — le disse. — Non guardarmi con quell’aria sconvolta, via. Siamo venuti a farti visita.

La ragazza abbracciò sua madre, sentì il suo corpo di solida carne e smise di pensare che tutto fosse un sogno. Era realtà. I suoi fratelli non l’avevano prelevata davvero da casa loro (una cosa simile non sarebbe stata reale… o sì?) ma l’avevano portata lì in ascensore, e lì lei era davanti a sua madre, calda e piena d’amore e desiderosa di nutrire bene la sua bambina.

E oltre le spalle di sua madre, fuori dalla finestra, c’era la città cambiata. Quella non poteva essere un’allucinazione. O poteva?

— Che sta succedendo, Mamma? — domandò, asciugandosi le lacrime e facendo un passo indietro. Guardò Howard e Kenneth.

— L’ultima volta che ti ho vista eravamo in cucina — le ricordò sua madre. — Non mi andava molto di parlare in quel momento. Mi stavano accadendo un sacco di cose.

— Eri malata — balbettò Suzy.

— Sì… e no. Vieni a sederti. Devi avere appetito, eh?

— Se ho dormito per due settimane dovrei essere morta… morta di fame — disse lei.

— Ancora non ci crede — sogghignò Howard.

— Taci tu. — La donna gli accennò di scostarsi. — Neppure voi due ci credereste, al suo posto, no?

Loro ammisero che probabilmente non ci avrebbero creduto.

— Ho fame, però — confessò Suzy. Kenneth le scostò una sedia e la fece accomodare a un tavolo, coperto da un’immacolata tovaglia e con posate d’argento.

— Può darsi che ti abbiamo fatta svegliare in modo troppo fantasioso — sospirò Howard. — Troppo simile a un sogno.

— Sì — annuì Suzy. D’improvviso si sentiva euforica, felice, e non le importava più di sapere cos’era reale. — Voi pagliacci avete esagerato.

Sua madre le riempì un piatto con prosciutto e insalata, e lei indicò con un dito anche la purea di patate e il sugo di carne.

— Tutta roba che fa ingrassare — commentò Kenneth.

— Tsk! — Suzy scrollò le spalle. Infilò con la forchetta una fetta di prosciutto e lo masticò. Reale. Mordicchiò la forchetta. Reale. — Voi sapete cos’è successo?

— Non tutto — disse sua madre, sedendo accanto a lei.

— Noi potremmo essere molto più intelligenti adesso, se volessimo — disse Howard. Per un momento Suzy si sentì ferita; si stava riferendo a lei? Howard s’era sempre vergognato dei propri risultati scolastici; era un lavoratore volonteroso, ma non certo brillante. Tuttavia era sempre stato più intelligente della sua sorellina un po’ tarda.

— Non abbiamo neppure più bisogno dei nostri corpi — disse Kenneth.

— Piano, piano — li ammonì la madre. — È una cosa molto complicata, tesoro.

— Noi siamo i dinosauri, adesso — disse Howard, allungando una mano per prendere una fetta di prosciutto. La esaminò con una smorfia e la rimise nel vassoio.

— Quando eravamo ammalati… — cominciò sua madre.

Suzy depose la forchetta e nel masticare si accigliò, ascoltando non le parole della donna ma qualcos’altro.

Curato te

Rallegrato te

Necessario

— Oh, mio Dio! — disse sottovoce, con la bocca ancora piena di prosciutto. Deglutì il boccone e li guardò. Poi alzò una mano. Sul dorso c’erano alcune linee bianche che si estendevano al polso e all’avambraccio formando lievi disegni sotto la pelle.

— Non aver paura, Suzy — disse sua madre. — Ti prego, non aver paura. Loro ti hanno lasciata stare perché non avrebbero potuto entrare nel tuo corpo senza ucciderti. Tu hai una chimica insolita, cara. E così anche pochi altri. Questo non è più un problema. Ma la scelta è tua, tesoro. Solo, ascolta quello che ti diciamo noi… e loro. Adesso si sono evoluti molto di più, bambina. Sono più capaci di quando entrarono dentro di noi.

— Sono ammalata anch’io adesso, è così? — gemette lei.

— Loro sono così tanti — disse Howard, indicando il panorama esterno — che potresti contare ogni granello di sabbia sulla Terra, e tutte le stelle del cielo, e ancora non raggiungeresti il loro numero.

— Ora ascolta — intervenne Kenneth accostandosi a lei. — Tu hai sempre creduto a quello che io ti dicevo, vero, Fiorellino?

Lei annuì con la docilità di una bambina, forzandosi alla calma.

— Loro non vogliono uccidere né fare del male. Hanno bisogno di noi. Siamo una piccola parte di loro, ma hanno bisogno di noi.

— Sì? — mormorò lei, con voce fievole.

— Loro ci amano — disse sua madre. — Dicono di essere nati da noi, e ci amano come… come tu ami la tua culla, quella nel sottoscala.

— Come noi amiamo Mamma — disse Kenneth. Howard annuì con energia.

— E adesso ti lasciano la scelta.

— Quale scelta? — chiese Suzy. — Sono dentro di me!

— La scelta se continuare a essere quella che sei, o se unirti a noi.

— Ma voi siete di nuovo come me, ora.

Kenneth s’inginocchiò al suo fianco. — A noi piacerebbe mostrarti com’è e come sono loro.

— Ti hanno fatto il lavaggio del cervello — disse lei. — Io voglio rimanere viva!

— Siamo perfino più vivi di prima, con loro — disse sua madre. — Tesoro, non ci hanno fatto il lavaggio del cervello. Ci siamo convinti da soli. All’inizio siamo passati attraverso una faccenda abbastanza spiacevole, però adesso questo non è più necessario. Loro non distruggono niente. Possono prendere ogni cosa dentro di sé, come informazioni, solo che sono più che informazioni…

— Sì, perché tu puoi pensare te stessa dentro di loro, ed essere là, proprio come potresti…

— Tornare qua — terminò Howard.

— Non ho ancora capito cosa volete dire. Loro vogliono che gli regali il mio corpo? Stanno cominciando a cambiarmi, come hanno fatto con voi e con tutta la città?

— Quando sei con loro non hai più bisogno del tuo corpo — disse sua madre. Suzy la fissò inorridita. — Suzy, bambina, noi siamo stati là. E lo sappiamo.

— Siete come una banda di drogati — sussurrò lei. — Mi avete sempre messo in guardia contro i drogati, e tutta la gente che poteva approfittarsi di me. E adesso siete voi che volete lavarmi il cervello. Mi fate mangiare, e cercate di essere gentili e buoni, e io non so neppure se siete davvero mia madre e i miei fratelli.

— Puoi rimanere quella che sei, se questo è ciò che vuoi — disse Kenneth. — Soltanto, loro pensano che tu abbia il diritto di sapere. Se non desideri essere sola e spaventata c’è un’alternativa.

— Ma mi lasceranno il mio corpo? — mormorò lei, fissandosi la mano.

— Se questo è quel che desideri — annuì sua madre.

— Io voglio essere viva, non un fantasma.

— È la tua decisione? — chiese Kenneth.

— Sì — stabilì lei con fermezza.

— E vuoi anche che noi ce ne andiamo?

Lei sentì le lacrime salirle agli occhi e strinse una mano a sua madre. — Sono così confusa — gemette. — Voi non mi raccontereste una bugia così brutta, vero? Voi siete davvero Mamma e Kenny e Howard?

Loro annuirono. — Soltanto migliori — aggiunse Howard.

— Ascolta, sorellina, io non ero il ragazzo più intelligente della città, no? Bravo e buono, forse, ma qualche volta anche duro come una zucca. Ma quando loro sono venuti dentro di me…

— Chi sono loro?

— Sono nati da noi — disse Kenneth. — Sono come le nostre cellule, non come una malattia.

— Sono cellule? — Lei ripensò alle bollicine (aveva scordato come si chiamassero) che aveva visto al microscopio, a scuola. Questo la spaventò ancora di più.

Howard annuì. — E intelligenti, anche. Quando entrarono in me, io mi sentii forte… nella mente. Potevo pensare e ricordare un sacco di cose, perfino cose che non mi erano successe mai. Era come se parlassi al telefono con miliardi di persone intelligenti, tutti amici miei, e che collaboravano tutti…

— La maggior parte — lo corresse Kenneth.

— Be’, sì, qualche volta hanno delle discussioni, e anche noi le abbiamo. Però nessuno odia qualcun altro, perché siamo tutti duplicati migliaia, anzi miliardi di volte. Sai, come fotocopiati. Per tutto il continente. Così se io, mettiamo, morissi qui, adesso, ci sarebbero migliaia di altri sintonizzati con me, pronti per diventare me, e dunque non sarei affatto morto. Avrei soltanto perso questo particolare me. Così io potrei sintonizzarmi su qualcun altro, e potrei essere chiunque, perciò morire diventa impossibile.

Suzy aveva smesso di mangiare. Adesso smise anche di tocchettare il cibo con la forchetta e la depose. — Questo è troppo difficile per me, ecco — disse. — Voglio sapere perché non mi sono ammalata anch’io.

— Lascia che stavolta a risponderti siano loro — disse sua madre. — Tu ascoltali e basta.

Lei chiuse gli occhi.

Gente diversa

Alcuni come te

Morte/disastro/fine

Messe da parte, conservate

Come riserve/parchi

Queste persone/tu

Per imparare.

Nella sua mente non si formavano soltanto delle parole. Esse erano accompagnate da una nitida e viva serie di viaggi attraverso grandi distanze, mentali e fisiche, in cui entravano in gioco tutti i suoi sensi. Si rese conto della differenza fra l’intelligenza delle cellule e la sua, delle diverse esperienze che si stavano integrando; sfiorò la forma e i pensieri della gente assorbita nella memoria delle cellule; riuscì perfino a sentire i ricordi parzialmente recuperati di coloro che erano morti prima di venire assorbiti. Non aveva mai visto/udito/toccato niente di così complesso.

Suzy riaprì gli occhi. Già in quel momento non era più la stessa. Qualcosa in lei era stato oltrepassato: la parte di sé che l’aveva resa tarda di mente. Senza rendersene conto aveva fatto un passo oltre una soglia mentale che s’era aperta, irrevocabilmente.

— Hai visto com’è? — domandò Howard.

— Dovrò pensarci sopra — disse lei. Spinse indietro la sedia e si alzò. — Dite loro di lasciarmi stare, e di non farmi ammalare.

— Gliel’hai già detto tu stessa — rispose sua madre.

— Ho solo bisogno di tempo — disse Suzy.

— Tesoro, se vuoi potrai avere l’eternità.

XXXIX

Bernard fluttua nel suo stesso sangue, senza sapere chi sta comunicando con lui. La comunicazione gli arriva sulla corrente arteriosa tramite flagellati, protozoi riadattati capaci di alta velocità nel siero. Le sue risposte partono con lo stesso metodo, o vengono semplicemente inserite nel flusso sanguigno.

Ogni cosa è informazione, oppure mancanza d’informazione.

— Quanti me ci sono?

Il numero muta di continuo. In questo momento forse un milione.

— Lì incontrerò? Mi integrerò con loro?

Nessun gruppo ha la capacità di assorbire le esperienze di tutti i gruppi consimili. Questo dev’essere riservato ai gruppi di comando. Non tutte le informazioni sono ugualmente utili in un dato momento.

— Ma qualche informazione non va perduta?

C’è sempre perdita d’informazioni. Questo è il tormento. Nessuna struttura totale di gruppo va mai perduta. Esistono sempre i duplicati.

— Dove sto andando?

In ultima analisi, sulla °musica del sangue°. Tu sei il gruppo scelto per reintegrarsi in BERNARD.

— Io sono Bernard.

Ci sono molti BERNARD.

Forse milioni d’altri che pensano ciò che lui pensa in quell’istante, che si muovono attraverso il sangue e i tessuti, pian piano assorbiti nella gerarchia dei noociti. Un milione di versioni mutevoli che non saranno reintegrate mai più.

Tu incontrerai i gruppi di comando. Sperimenterai il PENSIERO UNIVERSO.

— È troppo per me. Ho ancora paura.

PAURA è impossibile senza le risposte ormonali del BERNARD in scala macroscopica. Hai veramente PAURA?

Lui cerca in sé i sintomi della paura e non li trova.

— No, ma dovrei averla.

Tu hai espresso interesse per la gerarchia. Regola i tuoi processi su °°°°°°°°°°°°

Il messaggio, incanalato nella biologia del gruppo di noociti, è incomprensibile per la sua mente umana, ma il gruppo lo capisce e si prepara a ricevere pacchetti di dati specifici.

Mentre entrano i dati — fini catene elicoidali di RNA e compatti grovigli di proteine — sente le sue cellule assorbirli e incorporarli. Non c’è modo di sapere quanto tempo gli occorra, ma ha l’impressione di capire all’istante le esperienze delle cellule che corrono via nel capillare. Si nutre delle esperienze-memorie di cui si sono appena liberate.

Quelle in numero di gran lunga maggiore non sono noociti maturi, ma normali cellule somatiche di poco alterate per prevenire interferenze con l’attività dei noociti stessi, o cellule di servizio con funzioni limitate alle semplici costruzioni biologiche. Alcune di queste sono messaggeri dei gruppi di comando, altre trasportano esperienze e memorie in forma di frammenti polimerizzati da una località all’altra. Molte adempiono a nuove funzioni corporali, impossibili per le cellule somatiche non modificate.

Ancora più in basso nella scala sociale vi sono i batteri domestici, progettati per compiere una funzione o due. Alcuni di tali batteri (non c’è modo di classificarli o paragonarli con quelli a cui la scienza ha dato un nome) sono vere e proprie colture che fluttuano nel sangue con le molecole necessarie ai noociti.

E al fondo della scala, ma non per questo indegni d’importanza, ci sono virus fagociti modificati. Qualche tipo di virus funge da trasporto ad alta velocità per le informazioni cruciali, o da rimorchio per batteri flagellati e linfociti particolari, altri tipi vagano liberamente nel sangue, circondando le cellule più grosse come nubi di pulviscolo. Se le cellule somatiche, o quelle di servizio, o taluni noociti — ribelli o malfunzionanti — abbandonano il loro posto nella gerarchia, i virus li attaccano iniettando in loro un RNA di carattere distruttivo. Le cellule così colpite esplodono in breve, liberando una quantità di virus dello stesso genere, e i detriti vengono spazzati via sia dai noociti sia da plasmoidi — divoratori di rifiuti.

Ogni genere di cellule preesistenti nel suo corpo — amiche o nemiche — è stato studiato e utilizzato dai noociti.

Spostati e segui la traccia del gruppo di comando. Sarai intervistato.

Bernard sente il suo gruppo indietreggiare nel capillare. Le pareti si stringono forzandolo ad allungarsi in una linea sottile, e le sue comunicazioni intercellulari si riducono fino a dargli quello che per i noociti è l’equivalente della soffocazione. Poi oltrepassa la parete e si trova immerso nel fluido interstiziale. La traccia è molto nitida. Può assaggiare la presenza di noociti maturi, in gran numero.

Improvvisamente gli sovviene che lui, di fatto, è ancora vicino al suo cervello, forse sempre dentro il suo cervello, e che sta per incontrare uno dei ricercatori responsabili della sua discesa dal mondo macroscopico.

Passa attraverso una folla di cellule-serventi, flagellati che trasportano informazioni, noociti in attesa di istruzioni.

— Sto per essere condotto alla presenza del Grande Lunare — dice a se stesso. Il pensiero e la risatina mentale che lo accompagna sono quasi subito trasformati in dati chimici, estrusi verso le cellule-serventi, recuperati e portati al gruppo di comando. Ancora più rapidamente gli arriva una risposta.

BERNARD ci paragona a un MOSTRO.

— Niente affatto. Sono io il mostro, qui. O questo, oppure è la situazione a essere mostruosa.

Siamo lontani dal capire le sottigliezze del tuo pensiero. Hai trovato informativa la tua °discesa°?

— A questo punto, molto informativa. Ammetto di sentirmi molto umile qui.

Non come un supremo gruppo di comando?

— No. Io non sono un dio.

Noi non comprendiamo DIO.

Il gruppo di comando è assai più numeroso di un normale gruppo di noociti. Bernard calcola che ne facciano parte almeno diecimila cellule, e che abbia una capacità intellettuale grande in proporzione. Ha l’impressione d’essere mentalmente un nanerottolo, anche se è difficile formulare simili paragoni nel regno dei noociti.

— Avete accesso ai ricordi di H.G. Wells?

Una pausa, poi: Sì. Sono abbastanza vividi per non essere pure esperienze di memorie riflesse.

— Sì. Direi che provengono dai suoi libri, codificazioni di esperienze irreali.

Ci è familiare il concetto di °fantascienza°.

— Mi sento come Cavour nel Primo Uomo Sulla Luna. Mentre parla col Grande Lunare.

Il paragone può essere appropriato, ma noi non lo comprendiamo. Noi siamo molti diversi, BERNARD, troppo diversi da ciò che suggerisce il tuo paragone con un’esperienza irreale.

— Sì, ma come Cavour io ho migliaia di domande. Forse non desiderate rispondere a nessuna di esse.

Impedire ai tuoi compagni UMANI del mondo macroscopico di sapere ciò che possiamo fare, e di tentare di fermarci.

Il messaggio è poco chiaro quel tanto che basta a mostrare a Bernard che il gruppo di comando è ancora incapace di comprendere per intero la realtà del mondo macroscopico.

— Siete in contatto con i noociti del Nord America?

Siamo consapevoli che ci sono altri, una concentrazione molto più °potente°, in circostanze molto più favorevoli.

— E…

Nessuna risposta.

Poi: Sei consapevole che il tuo °spazio chiuso° è in pericolo?

— No. Che specie di pericolo? Vi riferite al laboratorio?

°Il laboratorio° è circondato da tuoi compagni in °relazione gerarchica incerta°.

— Non capisco.

Loro desiderano distruggere °il laboratorio° e probabilmente tutti noi.

— Come lo sapete?

Noi possiamo ricevere TRASMISSIONI DI FREQUENZE RADIO in parecchie LINGUE °codificate°. Tu puoi impedire quel tentativo? Sei in una posizione di INFLUENZA gerarchica?

Bernard s’interroga su quella richiesta.

Noi abbiamo registrazioni delle TRASMISSIONI.

— Fatemele ascoltare.

Può assaporare il passaggio di un flagellato che va a intercettare il messaggero del gruppo di comando e ritorna con un pacchetto di dati. Il gruppo di Bernard assorbe i dati.

Adesso ascolta le trasmissioni memorizzate. Non sono della migliore qualità e per la maggior parte sono in tedesco, lingua che lui traduce male. Ma ne capisce abbastanza da rendersi conto del perché il morale di Paulsen-Fuchs era sceso sempre più in basso.

Le istallazioni della Pharmek sono circondate da un accampamento di manifestanti. Ce ne sono su tutta la campagna fra lì e l’aeroporto; il loro numero ammonta a circa mezzo milione e ogni giorno ne arrivano altri, in automobile, in autobus o a piedi. L’esercito e la polizia non osano disperderli con la forza; l’umore della gente in Germania Ovest e in quasi tutta l’Europa è molto ostile, fra non ho il potere di fermarli.

PERSUASIONE?

Un’altra risatina interiore. — No. Ciò che loro vogliono distruggere sono io. E voi.

Nella tua terra tu sei molto meno influente di quanto lo sei qui.

— Oh, sì, naturalmente.

Per un lungo periodo dal gruppo di comando non giunge nessun messaggio. C’è ancora meno tempo. Adesso ti trasferiremo.

Avverte una lieve diversità nella voce che gli arriva mentre si allontana tra i flagellati. Seguici. Capisce che molte cellule si sono separate dal gruppo di comando. Stanno comunicando con lui e la loro voce gli sembra stranamente familiare, più diretta e accessibile.

— Chi è che mi sta guidando?

La risposta è chimica. Un flagellato gli porta un filamento di molecole-dati, e d’un tratto sa che a guidarlo sono quattro gruppi di linfociti-B primari, le versioni iniziali dei noociti. I linfociti-B primari hanno diritto a un posto in ogni gruppo di comando e sono trattati con grande rispetto; sono i precursori, anche se la loro attività è limitata. Sono primitivi in entrambi i significati della parola: meno sofisticati dei noociti recenti in struttura e funzioni, e gli antenati di tutti.

Tu puoi entrare nel PENSIERO UNIVERSO.

La voce svanisce a tratti come in una telefonata intercontinentale. Disturbata, incompleta.

L’impressione d’essere un gruppo di noociti ebbe bruscamente termine. Adesso Bernard non era più scorporizzato e contratto nel microcosmo delle cellule. I suoi pensieri semplicemente esistevano, e il luogo in cui essi esistevano era dolorosamente bello.

Se quello spazio aveva un’estensione, era illusoria. Le dimensioni sembravano definite da unità di memoria: le informazioni importanti per i suoi pensieri di quel momento erano a portata di mano, mentre altri argomenti erano più lontani. L’impressione generale era quella di una vasta libreria fitta di scaffali, sistemati sfericamente tutti intorno a lui. Condivideva il centro di quella sfera con un’altra presenza.

Umani, forma umana, disse la presenza. Un fiotto d’informazioni si precipitò addosso a Bernard, fornendolo di braccia, gambe, un corpo e un volto. Al suo fianco, seduto su quella che sembrava una sedia a sdraio, c’era un’immagine spettrale di Vergil Ulam. Il giovane gli sorrise senza vera emozione, asetticamente.

— Io sono il tuo Vergil cellulare. Benvenuto nel cerchio interno dei gruppi di comando.

— Tu sei morto — disse Bernard, con quella che gli parve solo un’approssimazione della sua voce.

— Così credo d’avere capito.

— Dove siamo?

— Traducendo rozzamente la catena di dati molecolari dei noociti, direi che siamo in un Universo Pensato. Io lo chiamo una noosfera. Ogni cosa che sperimentiamo qui è generata dal pensiero. Potremmo essere tutto ciò che vogliamo, o apprendere tutto ciò che desideriamo, oppure non pensare a niente. Non saremo limitati dalla mancanza di cognizioni o esperienze; tutto potrà esserci fornito. Trascorro molto del mio tempo in questo luogo quando non servo ai gruppi di comando.

Fra loro prese forma un dodecaedro di granito, dagli spigoli decorati con sbarre d’oro. Per qualche istante rotolò qua e là, poi si accostò alla pallida e traslucida figura di Vergil. Bernard non capì che genere di comunicazione vi fosse. Il dodecaedro svanì.

— Tutti noi qui prendiamo forme individuali, e molti di noi vi aggiungono abbellimenti e dettagli. I noociti non hanno nomi, Mr. Bernard; si identificano con sequenze di aminoacidi scelte fra introni di RNA ribosomatico. Suona complicato, ma in realtà è molto più semplice di un’impronta digitale. Nella noosfera tutti i ricercatori attivi devono avere un chiaro simbolo d’identità.

Bernard cercò di ritrovare in lui tracce del Vergil Ulam che aveva conosciuto e a cui aveva stretto la mano. Non sembravano essercene molte. Perfino la voce mancava dell’accento e delle lievi esitazioni che ricordava. — Non c’è molto di te qui, è così?

Il fantasma di Vergil scosse il capo. — Non tutto di me è stato trasferito al livello dei noociti, prima che le mie cellule ti infettassero. Spero che da qualche altra parte esistano registrazioni di me più complete. Questa è ben poco adeguata. Ci sarà circa un terzo di me, qui. Quello che è qui, comunque, è rispettato e protetto. L’ombra dell’antenato onorevole, la vaga memoria del creatore. — La sua voce a tratti svaniva, saltando o deformando qualche sillaba. L’immagine vibrava. — La speranza è che i noociti si riuniscano con quelli rimasti a casa mia, ritrovando altre parti di me. Non più che frammenti di una vaso ormai rotto.

La sua figura divenne più evanescente. — Ora devo andare. Sta arrivando qualcos’altro. Qui ci saranno sempre parti di me, ma sospetto che sia tu ad avere la precedenza adesso. Stammi bene.

Bernard rimase solo nella noosfera, circondato da opzioni dalle quali ben difficilmente avrebbe saputo come trarre un vantaggio. Allungò una mano verso le informazioni circostanti. Esse parvero precipirarsi su di lui, come onde di luce che balenavano fra lo zenith e il nadir. Eserciti di dati si univano e si ordinavano, e i suoi ricordi crescevano intorno a lui come un castello di carte, ciascuna rappresentata da una linea di luce.

Le linee gli si rovesciarono addosso.

Lui era stato un essere pensante…

— È un giorno come un altro per te, non è così? — Nadia si volse e salì con passo flessuoso sulla scala mobile del tribunale.

— Non il più divertente — disse lui. Si lasciarono trasportare verso il pianterreno.

— Proprio un giorno come un altro, allora. — Lei aveva un lieve profumo di lavanda, di tè, di pulito. Era sempre stata bella ai suoi occhi, e senza dubbio anche agli occhi degli altri: piccola, bruna, snella, non attraeva immediatamente l’attenzione. Ma pochi minuti in una stessa stanza con lei toglievano ogni dubbio: molti uomini avrebbero fatto carte false per trascorrere ore, giorni, mesi con lei.

Ma non anni. Nadia si annoiava in fretta di tutto, anche di Michael Bernard.

— Torna pure ai tuoi affari, certo — disse lei a mezza discesa. — Alle tue interviste. Ma bada a quel che dirai!

Lui non rispose. Annoiata, Nadia diventava pungente e tormentosa.

— Bene. Adesso ti sei liberato di me — disse lei verso il fondo. — E io mi sono liberata di te.

— Io non sarò mai libero da te — disse Bernard. — Tu hai sempre rappresentato qualcosa d’importante per me. — Lei ruotò sui tacchi altissimi e gli presentò la parte posteriore del suo immacolato abito azzurro di sartoria. Lui la afferrò per un braccio non troppo gentilmente, costringendola a voltarsi faccia a faccia. — Tu eri la mia ultima possibilità d’essere normale. Non amerò più un’altra donna come ho amato te. Bruciavi. Ne amerò altre, ma senza più compromettermi con loro. Non sarò più così ingenuo. — Scesero dalla scala mobile,

— Stai parlando a vanvera, Michael — disse Nadia, stringendo le labbra. — Lasciami andare.

— All’inferno, ti lascio andare! — sibilò lui. — Hai avuto un milione e mezzo di dollari. Dammi qualcosa in cambio.

— Vai a farti fottere! — disse lei.

— Non ti piace fare scene in pubblico, no?

— Stammi lontano!

— Fredda, dignitosa. Eppure potrei costringerti a darmi qualcosa in pagamento, proprio adesso, per quello che mi hai preso.

— Tu, bastardo!

Lui ebbe un tremito e la schiaffeggiò. — Questo per avermi tolto ogni ingenuità. Per tre anni: il primo, meraviglioso… l’ultimo, una regale miseria.

— Io ti ammazzo! — ansimò lei. — Nessuno…

Lui le girò un polpaccio dietro le gambe e la spinse. Nadia cadde a sedere con uno strillo. A gambe spalancate, annaspando sugli scalini dietro di lei, lo fissò rabbiosamente. — Tu, sporco…

— Bruto — terminò lui. — Fredda e razionale brutalità. Non molto diversa da quello che hai fatto subire a me. Ma tu non usavi la forza fisica. Ti divertivi a provocarla.

— Taci — Nadia alzò una mano, e lui la aiutò a rimettersi dignitosamente in piedi.

— Scusami — le disse. In quei tre anni trascorsi insieme non l’aveva mai colpita una sola volta. Sentì una stretta al cuore.

— Scusami un corno. Sei tutto quello che ho sempre detto, tu, bastardo. Tu, miserabile bambinetto!

— Scusami — ripeté lui. La folla di gente che c’era nell’atrio li osservava. Sguardi accigliati, mormoni di disapprovazione. Grazie a Dio non c’erano giornalisti.

— Torna a giocare con i tuoi giocattoli — ringhiò lei. — I tuoi scalpelli, le tue infermiere, i tuoi pazienti. Vai a rovinare la vita a loro, e stai alla larga da me!

Un ricordo più antico.

— Papà. — Era in piedi accanto al letto, a disagio per quell’inversione dei ruoli poiché lì non era un medico ma un visitatore. La stanza odorava di disinfettante e di quello che doveva occultare il disinfettante, acqua di rose o qualcosa di ugualmente dolciastro. L’effetto era da camera mortuaria. Sbatté le palpebre e strinse una mano di suo padre.

Il vecchio (sembrava vecchio, era vecchio, come già svuotato della vita) aprì debolmente gli occhi. Aveva la cornea gialla, occhiaie gonfie, e la pelle color mostarda. Quello che se lo stava portando via un pezzo dopo l’altro era un cancro al fegato. Non aveva richiesto nessun trattamento straordinario, e Bernard aveva portato i suoi avvocati a fare quattro chiacchiere con la direzione dell’ospedale, tanto per assicurarsi che i desideri di suo padre non venissero ignorati (Vuoi che tuo padre muoia? Vuoi assicurarti che muoia più rapidamente? No, si capisce. Vorresti che vivesse per sempre? Sì, oh, sì! Ma questo è impossibile, no?).

Ogni due ore gli veniva dato un antidolorifico potente, una moderna variazione del cocktail di Brompton che era stato il più usato quando Bernard cominciava il suo internato.

— Papà, sono Michael.

— Sì. Ho la testa ancora chiara. Ti riconosco.

— Ursula e Gerald ti salutano.

— Saluta Gerald. Saluta Ursula.

— Come ti senti? (Come vuoi che si senta uno che sta morendo, idiota.)

— Mi sento un rottame adesso, Mike.

— Già. Be’…

— Ora devo parlare.

— Di cosa, papà?

— Tua madre. Perché non è qui?

— Mamma è morta, papà.

— Sì. Questo lo so. La mia mente è chiara. Solo che… non mi sto lamentando, bada… è solo che fa male. — Prese la mano di Bernard e la strinse più forte che poté… una stretta debole. — Qual è la prognosi, figliolo?

— Questo lo sai, papà.

— Non puoi trapiantarmi il cervello?

Bernard sorrise. — Non ancora. Ci stiamo lavorando su.

— Ho paura che non farete in tempo.

— Probabilmente non si farà in tempo.

— Tu e Ursula… andate bene?

— Ci stiamo accordando senza bisogno del tribunale, papà.

— E Gerald come l’ha presa?

— Male. È molto giù.

— Una volta volevo divorziare da tua madre.

Bernard lo fissò, accigliandosi. — Ah!

— Lei aveva una relazione. Ero inferocito. Ho imparato molto, anche. E non ho divorziato da lei.

Bernard non aveva saputo niente di quella faccenda.

— Sai, anche con Ursula…

— È tutto finito, papà. Entrambi abbiamo una relazione, e la mia è una cosa sempre più seria.

— Non si può possedere una donna, Mike. Sono meravigliose compagne se non vuoi possederle.

— Lo so.

— Davvero? Sì, forse sì. Pensai, quando scopersi dell’amante di tua madre, pensai che avrei voluto morire. Faceva male, quasi quanto questa cosa qui. Credevo che lei fosse di mia proprietà.

Bernard desiderò che la conversazione avesse preso un’altra direzione. — A Gerald non importa perdere un anno di scuola.

— A me importava. Io la stavo condividendo con un altro. Anche se una donna ha solo te, la stai condividendo con qualcosa. E per lei è lo stesso con te. Tutto quello che riguarda la fedeltà è un’impostura, una maschera. Mike. Conta il risultato che ottieni. Quello che fai, quanto abilmente lo fai, quanto sei bravo a mascherarti.

— Sì, papà.

— Dico…

— Che cosa? — chiese Bernard, riprendendogli la mano.

— Siamo stati insieme trent’anni dopo quella storia.

— Io non ne ho mai saputo niente.

— Non avevi bisogno di sapere. Io ero l’unico che aveva bisogno di saperlo, di accettarlo. E sto pensando ancora ad altre cose, Mike. Ricordi il bungalow? C’è un pacco di fogli in soffitta, sotto il lettino.

Il bungalow nel Maine era stato venduto dieci anni prima.

— Stavo scrivendo delle cose — continuò l’uomo dopo avere deglutito a fatica e dolorosamente. Ebbe una smorfia e gli sfuggì un gemito. — Cose di quando ero un medico.

Bernard sapeva di quei fogli. Li aveva trovati e letti durante il suo internato. Adesso erano in uno schedario del suo ufficio di Atlanta.

— Li ho io, papà.

— Bene. Li hai letti?

— Sì. — E sono stati importanti per me, padre. Mi hanno aiutato a capire ciò che volevo fare in neurologia, la direzione che volevo prendere… diglielo! Diglielo!

— Bene. Io l’ho sempre saputo questo di te, Mike.

— Che cosa?

— Quanto ci volevi bene. Solo che non sei espansivo, vero? Non lo sei mai stato.

— Ti voglio bene. Volevo bene alla mamma.

— Lei lo sapeva. Non era infelice quando è morta. Bene. — Ebbe di nuovo una smorfia. — Adesso devo dormire. Sei sicuro di non potermi trovare un altro corpo, giovane e forte?

Bernard annuì. Diglielo.

— I tuoi scritti sono stati molto importanti per me, papà.

Non lo aveva più chiamato papà da quando aveva tredici anni, solo padre. Ma il vecchio (vecchio) non lo sentì. S’era addormentato. Bernard raccolse il soprabito e la valigetta e uscì, passando dalla stanza delle infermiere per domandare — contro ogni sua abitudine — per quando si prevedeva la prossima iniezione di antidolorifico.

Suo padre era morto alle tre del mattino successivo, nel sonno e da solo.

E più indietro…

Olivia Ferguson, come lui snella, come lui elegante, come lui diciottenne, un nome che ben dipingeva il suo aspetto, capelli neri compressi contro il paggiatesta della Corvette, si volse a fissarlo con una luce divertita nei grandi occhi verdi. Lui la guardò e le restituì il sorriso, e quella era certo la sera più inebriante del mondo, e il mondo era meraviglioso: per la terza volta stava portando fuori una ragazza. Anche se fra i due l’unica vergine era lui… cosa, tuttavia, che in quell’occasione non aveva però la minima importanza. L’aveva avvicinata sotto la torre campanaria del campus della Berkeley U.C. vedendola ferma a esaminare uno degli orsi di bronzo, e quando le aveva chiesto un appuntamento lei l’aveva scrutato con genuina simpatia.

— Ho già un ragazzo — era stata la risposta. — Voglio dire, non potrebbe essere niente di…

Deluso, ma sempre preparato a essere galante, lui aveva sospirato: — Be’, in questo caso sarà soltanto una serata fuori. Due nella città. Amici. — Praticamente non la conosceva, era con lei in classe al corso d’inglese. La più bella ragazza della classe: alta e flessuosa, riservata ma non di modi scostanti. Olivia aveva sorriso e annuito. — Okay.

E adesso lui assaporava l’amicizia, libero dagli obblighi del corteggiamento; la prima volta che si sentiva su un piede di parità con una donna. Il suo fidanzato, gli spiegò lei, era in Marina, distaccato al Cantiere Navale di Brooklyn. La famiglia abitava a Staten Island, nella stessa casa dove un tempo Herman Melville aveva trascorso un’estate.

Il vento le agitava i capelli senza scompigliarli… miracolosi, splendidi capelli che (in teoria) sarebbe stato delizioso carezzare facendoseli scorrere fra le dita. Avevano chiacchierato sin dal momento in cui lui l’aveva prelevata, all’appartamento che Olivia divideva con altre due ragazze accanto al vecchio e candido Clairemont Hotel. Poi avevano varcato il Golden Gate per andare a cena a Marin, in un piccolo ristorante conosciuto per le specialità di mare, il Klamshak, e s’erano attardati a parlare: la scuola, i loro progetti, e quello che significava sposarsi al giorno d’oggi (lui non lo sapeva, e non s’era preoccupato di fingere un atteggiamento sofisticato). S’erano trovati d’accordo sul fatto che la cucina era buona e l’arredamento non troppo originale: reti e attrezzi da pesca alle pareti, conchiglie di plastica, pesci imbalsamati, la prua di una barca e l’immancabile ruota di timone. Neppure per un momento s’era sentito goffo, o giovane, o comunque inesperto.

Mentre guidava in senso inverso sul ponte s’era trovato a pensare: In altre circostanze sicuramente ci innamoreremmo a vicenda. E scommetto che dopo pochi anni ci sposeremmo. È stupenda… e quello che farò è di non fare assolutamente niente. A quel pensiero s’era sentito triste, e romantico in modo meraviglioso.

Sapeva che se avesse insistito in quella direzione probabilmente Olivia sarebbe venuta a casa sua, e avrebbero fatto l’amore.

Ma anche detestando a morte il pensiero d’essere ancora vergine non se la sentiva di insistere con lei. Non l’avrebbe neppure velatamente suggerito. La cosa era troppo perfetta.

Rimasero seduti nella Corvette, posteggiata dietro il vecchio edificio dove lei alloggiava, e discussero di Kennedy, ridendo delle loro pause durante la crisi dei missili cubani; poi lui le strinse una mano e si guardarono in silenzio.

— Sai — le disse, — ci sono momenti che… — Tacque.

— Ti ringrazio — annuì lei. — Sapevo che sarebbe stato simpatico uscire con te. Molti altri, al tuo posto…

— Già. Be’, io sono fatto così. — Sogghignò. — Innocuo.

— Oh, no! Non innocuo in quel senso. Per niente.

Quello era il giro di boa. Adesso la cosa poteva dirottare in un senso o nell’altro. Lui lasciò cadere gli occhi su quel corpo flessuoso dall’incarnato un po’ scuro e seppe che era qualcosa di perfetto. Seppe che lei avrebbe accettato di venire a casa sua.

— Sei un romantico, non è vero? — chiese Olivia.

— Suppongo di sì.

— Anch’io. I romantici sono le persone più sciocche del mondo.

Lui sentì una vampata di rossore al volto e al collo. — Io amo le donne — mormorò. — Amo il loro modo di muoversi, di parlare. Le trovo incantevoli. — Si stava aprendo adesso, e più tardi se ne sarebbe pentito, ma ciò che provava era troppo autentico e insopprimibile, specialmente dopo una serata come quella. — Credo che molti uomini riescano a vedere una donna in qualche modo sacra. Non su un piedistallo o cose di questo genere. Ma solo troppo bella per esprimersi a parole. Essere amati da una donna e… be’, pensano che sia incredibile.

Olivia girò lo sguardo sul parabrezza e un lieve sorriso le aleggiò sul volto. Poi abbassò gli occhi sulla sua borsetta e si lisciò la lunga gonna azzurra con le mani. — Succede — disse.

— Già, certo — annuì lui. Ma non fra noi.

— Grazie — disse ancora Olivia. Lui le strinse una mano e le sfiorò una guancia con una carezza. Lei mosse il viso contro le sue dita come una gattinà e aprì la portiera dell’auto. — Ci vediamo in classe.

Non si erano neppure baciati.

— Cosa mi è accaduto da quei giorni? Tre mogli (la terza solo perché assomigliava a Olivia) e questo estraniarmi, questo ritirarmi in me stesso. Ho perduto molte, troppe illusioni.

Ci sono opzioni.

— Non capisco.

Cosa desideri rivivere?

— Se questo significa tornare al passato non vedo come sia possibile.

Tutto è possibile qui, nell’Universo Pensato. Simulazioni. Ricostruzioni dalla tua memoria.

— Potrei vivere un’altra vita?

Quando ci sarà tempo.

— Con la vera Olivia? Lei… dov’era, dov’è lei?

Questo non è noto.

— Allora lasciamo perdere. I sogni non m’interessano.

Ci sono altri ricordi in te.

— Sì…

Ma dove s’erano formati? Da dove venivano?

Il 17 novembre dell’anno 1943 Randall Bernard, ventiquattrenne, s’era unito in matrimonio con Tiffany Marnier in una chiesetta di Kansas City. Lei indossava un abito di seta bianca, guarnito di ricami in argento e merletti, fatto dalle mani di sua madre, niente strasciso, e i fiori erano rose rosse come il sangue. Avevano…

Avevano bevuto a un calice di vino, spezzato il pane, e s’erano scambiati la promessa. E il ministro (un teosofista che al termine degli Anni Quaranta si sarebbe convertito alla filosofia Vedanta) li aveva dichiarati uguali agli occhi della Divinità, e ora uniti nell’amore e nel rispetto reciproco.

Il ricordo era ingiallito come una vecchia fotografia e scarso di particolari. Ma era lì, una cosa anteriore alla sua nascita, una cosa che lui poteva vedere. E poté vedere la loro notte nuziale, meravigliato di quel rapido sguardo sull’atto da cui lui era stato creato, e di quanto poco fossero cambiate le cose fra un uomo e una donna, stupito della passione e del piacere di sua madre e dei modi esperti e precisi, scientifici, di suo padre che perfino a letto continuava a essere un medico…

E poi suo padre era andato in guerra, arruolato come ufficiale medico in Europa, e al seguito della Terza Armata di Patton aveva marciato nelle Ardenne e attraversato il Reno presso Coblenza — 65 miglia in tre giorni — e ora suo figlio rivedeva cose e fatti che non poteva materialmente avere visto mai. E vedeva perfino cose che neppure suo padre poteva avere visto.

Un soldato in mutande che barcollava nella penombra d’un corridoio in un bordello di Parigi; non suo padre, né qualcuno che lui conosceva…

Scura come un’ombra, ma precisa nei contorni, una donna che cullava un bambino stagliata nella luce arancione di una finestra dai vetri giallastri…

Un uomo che pescava con i cormorani in riva a un fiume, nel grigiore dell’alba…

Un bambino alla finestra di un granaio, intento a guardare il cortile sottostante dove alcuni uomini stavano macellando un grosso manzo nero dai bianchi occhi spalancati…

Uomini e donne che si toglievano lunghi abiti candidi, gettandosi poi a nuoto in un fiume fangoso orlato da spunzoni di roccia rossa…

Un uomo in piedi su un’altura, con un corno da segnalazione in mano, che spiava un branco di antilopi al pascolo su una pianura erbosa…

Una donna che sgravava in un oscuro luogo sotterraneo, illuminato da torce, sorvegliata da un circolo di facce sporche e ansiose…

Due vecchi che litigavano per il possesso di alcuni idoli scolpiti nell’argilla, in mezzo a un circolo disegnato sulla sabbia…

— Io non ricordo queste cose. Loro non sono me, io non ricordo queste cose. Loro non sono me, io non ho fatto quelle esperienze…

Si strappò via da quel flusso d’informazioni. Alzò entrambe le mani al baluginante cerchio di luci che roteavano su di lui, così calde e attraenti. Da dove venivano? Ne sfiorò alcune, e nel gruppo d’un centinaio di cellule che componevano il suo corpo sentì la risposta.

Non tutti i ricordi provengono dalla vita di un individuo.

— Da dove, allora?

I ricordi sono immagazzinati nei neuroni interattivi, trattenuti in forma di cariche potenziali, poi scaricati in forma chimica nella cellula, poi ridotti a livello molecolare. Infine depositati negli introni di ogni singola cellula.

Le immagini che balenavano in lui erano quasi dolorose nella loro completezza e intensità.

Nei batteri simbiotici e nei virus (prodotti naturalmente in tutti gli organismi animali, e diversi per ogni specie) è impiantata la memoria molecolare trascritta negli introni. Essi abbandonano un individuo e passano in un altro individuo, lo infettano, trasferiscono la memoria alle sue cellule somatiche. Quasi ogni memoria resta depositata in forma chimica, e poche tornano alla memoria-attiva.

— Attraverso le generazioni?

Attraverso i millenni.

— Gli introni non sono sequenze di scarto…

No. Sono depositi di memorie altamente concentrate.

Vergil Ulam dunque non aveva creato dal niente le sue mutazioni nelle cellule. S’era imbattuto in una funzione naturale: il trasferimento della memoria razziale. Aveva operato su un sistema già esistente.

Non m’importa! Basta con le rivelazioni. Basta con le visioni interiori. Ne ho avuto abbastanza. Cosa mi sta succedendo? Cosa sto diventando? A che serve una rivelazione quando ne usufruisce un pazzo?

Si ritrovò di nuovo nello sferoide di luci dell’Universo Pensato. Girò lo sguardo su quelle immagini, su quelle sorgenti simboliche di dati d’ogni genere, poi sui circoli che roteavano su di lui. Adesso balenavano d’un verde intenso.

Tu sei SCONFORTATO. Toccali.

Sollevò le mani e li sfiorò ancora.

Con un sussulto fu strappato via attraverso l’interfaccia e tornò a reintegrarsi nel Bernard del mondo macroscopico, su per il tunnel della dissociazione e di colpo fuori, nella calda penombra del laboratorio. Era notte… o almeno, il suo periodo di sonno.

Si distese all’indietro sul lettuccio, quasi incapace di muoversi.

Non possiamo mantenere più a lungo la tua forma corporea.

— Cosa?

Presto sarai riportato di nuovo nel nostro livello, entro due giorni. Per allora tutto il tuo lavoro nel mondo macroscopico dovrà essere terminato.

— No…

Non abbiamo scelta. Ci siamo trattenuti fin troppo. Dobbiamo completare la trasformazione.

— No! Io non sono pronto! Questo è troppo! — Accorgendosi che stava gridando si portò i pugni alla bocca.

Sedette sul bordo del letto. Il suo volto, grottescamente striato da creste bianche, grondava di sudore.

XL

— Stai per andartene di nuovo? Mi lasciate sola? — Suzy afferrò Kenneth per un polso. Davanti all’ascensore lui si fermò. La porta si aprì.

— È duro il fatto d’essere di nuovo umani, lo sai? — le disse. — È la solitudine. Perciò dobbiamo tornare indietro, sì.

— Solitudine? E non pensi a ciò che proverò io? Tornerete a essere morti!

— Non morti, Fiorellino. Lo sai.

— Sarà esattamente lo stesso per me.

— Potresti unirti a noi.

Suzy fu scossa da un tremito. — Kenny, ho paura.

— Guarda, loro ti hanno lasciata proprio come hai chiesto, e ti lasceranno stare. Ma in quanto a ciò che potrai fare qui, non lo so. La città non è più fatta per la gente. Verrai nutrita e potrai vivere comodamente, ma… Suzy, tutto sta cambiando. La città subirà un altro grosso mutamento. Tu ci sarai proprio in mezzo… ma loro non ti faranno alcun male. Ti gireranno attorno, come tu fossi un parco nazionale.

— Venite con me, Kenny. Tu, Howard e la Mamma. Torneremo a casa…

— Brooklyn non esiste più.

— Gesù! Sei come un fantasma o… non so ancora. Non posso neppure parlare razionalmente con te.

Kenneth le indicò l’ascensore. — Fiorellino…

— Smettila di chiamarmi così, maledizione! Io sono tua sorella, disgraziato! E tu te ne vai, mi lasci sola qui a…

— Questa è stata la tua scelta, Suzy — disse Kenneth con calma.

— Volete fare di me una zombie.

— Tu sai che non siamo zombies, Suzy. Hai sentito cosa sono loro e cosa possono fare per te.

— Ma io non sarò più me stessa!

— Smettila di gridare. Tutti noi cambiamo.

— Non a questo modo!

Kenneth la fissò addolorato. — Oggi sei diversa da quando eri una bambinetta. Hai mai avuto paura di crescere, forse?

Lei si accigliò. — Sono ancora una bambinetta. Sono tarda di mente. Questo è quel che dicevano tutti.

— Hai mai avuto paura al pensiero che non saresti rimasta sempre una bambina? Questa è la differenza. Tutti gli altri sono imprigionati nei loro corpi di esseri-bambini. Noi no. Anche tu potresti crescere.

— No — disse Suzy. Volse le spalle all’ascensore. — Torno a parlare con Mamma. — Kenneth la afferrò per un braccio.

— Loro non sono più là — disse. — Costa davvero fatica, sai, essere ricostruiti a questo modo.

Suzy si liberò dalla sua mano, poi corse nell’ascensore e si appoggiò con le spalle alla parete. — Scenderai giù con me? — ansimò.

— No — rispose Kenneth. — Ora torno indietro. Noi ti amiamo sempre, Fiorellino. Veglieremo su di te. Hai più madri e fratelli e amici di quanti non ne abbia mai avuto. Forse ci lascerai tornare con te qualche volta.

— Vuoi dire dentro di me, come loro?

Kenneth annuì. — Noi saremo sempre intorno a te. Ma non ricostruiremo i nostri corpi per te.

— Voglio scendere, adesso — disse lei.

— Scendi, allora — disse Kenneth. La porta dell’ascensore cominciò a chiudersi. — Arrivederci, Suzy. Abbi cura di te.

— Kenny… KENNETH! — Ma l’ascensore era già in moto e il suo grido si spense sui battenti serrati. In piedi al centro della cabina si passò le mani fra i lunghi e scompigliati capelli biondi, e attese.

La porta si riaprì.

Il grande atrio era un reticolato di archi e strutture grigie dall’apparenza solida, sui quali poggiava la mole del grattacielo. Immaginò — ricordando ciò che le avevano mostrato — che il ristorante e il pozzo dell’ascensore fossero tutto quel che restava del grattacielo originale, lasciato intatto solo per lei.

Dove andrò?

Avanzò su un lucido pavimento grigio e rosso, non moquette, non cemento, bensì qualcosa che cedeva impercettibilmente come il sughero. Un lenzuolo bianco e marroncino, l’ultimo pezzo che vedeva attorno di quella sostanza particolare, scivolò sulla porta dell’ascensore e la sigillò con un sibilante fruscio.

Si avviò sotto l’intreccio di arcate, aggirando protuberanze cilindriche rosse e grigie, e lasciando la penobra dell’edificio in via di trasformazione uscì nella luce diurna filtrata dalle nuvole.

La Torre Nord era rimasta sola. L’altra torre era stata smantellata. Tutto ciò che restava del World Trade Center era una larga spirale tubolare, liscia e grigia in certi punti, rugosa e nera in altri, con ricami simili a spine che sporgevano attraverso il rivestimento esterno.

Fra la piazza, ora trasformata in una strana foresta di minuscoli alberi a forma di ventaglio, e la riva del fiume non c’era nulla che superasse l’altezza di cinque metri.

S’incamminò fra i ventagli che ondeggiavano dolcemente sul loro breve tronco rosso e raggiunse il fiume. L’acqua era una solida gelatina grigioverde, senza onde, liscia e lucida come uno strato di vetro. Al di là sorgevano le piramidi e le sfere irregolari di Jersey City, simili a una strana collezione di giocattoli educativi per bambini, e il loro riflesso nel fiume solidificato era nitidissimo, perfetto.

Il vento sospirava piacevolmente. Avrebbe dovuto essere freddo, o almeno fresco e umido, ma l’aria era calda. La ragazza si sentiva dolere il petto per lo sforzo di non piangere. — Mamma — disse in un gemito. — Io voglio soltanto essere ciò che sono. Niente di più. Niente di meno. — Niente di più? Suzy, questa è una bugia, pensò.

Rimase a lungo immobile sulla riva del fiume, poi si volse e cominciò a camminare a caso attraverso l’isola di Manhattan.

XLI

A Bernard, il ridicolo ambiente in cui aveva vissuto per tante settimane appariva la più insignificante fra le due realtà.

Non lavorava molto, adesso. Se ne stava disteso sul letto, con la tastiera del terminale sotto un braccio, e aspettava e rifletteva. Sapeva che all’esterno la tensione stava crescendo. Lui ne era il centro.

Paulsen-Fuchs non aveva alcun modo d’impedire che quei due milioni di persone arrivassero fin lì, facendo a pezzi lui e il laboratorio. (Gli abitanti del villaggio con le torce. E lui era sia il dottor Frankenstein sia il mostro. Ignoranti e terrorizzati contadini che facevano la volontà di Dio.)

Nel sangue e nella carne lui portava frammenti di Vergil I. Ulam, di suo padre e di sua madre, di gente che non aveva mai conosciuto, morta forse da migliaia d’anni. E aveva dentro anche milioni di duplicati di se stesso, che fluttuavano immersi nel mondo dei noociti scoprendone le leggi: le leggi di un universo celate in una cellula, quelle vecchie e quelle nuove, e quelle ancora solo potenziali.

E tuttavia… dov’era la polizza d’assicurazione, la garanzia che non lo avrebbero ingannato? Cosa l’aspettava se avevano congiurato mostrandogli dei falsi sogni per renderlo remissivo, drogandolo per facilitare la metamorfosi? E se le loro spiegazioni non fossero state che un modo per indorargli la pillola? Non aveva nessuna prova che i noociti mentissero… ma com’era possibile dire se creature così aliene mentivano, o sapere se capivano il concetto stesso di menzogna?

(Olivia. Due mesi dopo il loro unico appuntamento aveva saputo che lei aveva rotto col fidanzato. L’ultimo giorno di scuola s’erano scambiati un sorriso… e ciascuno se n’era andato per la sua strada. Lui era stato… cosa? Timido? Incapace? Troppo romantico, troppo innamorato quell’unica petrarchesca e deliziosa sera? Lei dov’era… nella biomassa del Nord America?)

E anche se accettava ciò che gli avevano detto, certamente non gli era stato detto tutto. Restavano migliaia di domande, alcune sciocche, molte importanti. Lui restava sempre, dopotutto, un individuo (lo era ancora?) a cui era stata presentata un’esperienza virtualmente ignota.

I gruppi di comando — i ricercatori — nessuno adesso gli dava risposta.

Nel Nord America… cos’era successo a tutta la gente malvagia i cui ricordi venivano preservati dai noociti? Certamente erano stati tolti via da quel mondo in cui avevano compiuto le loro malvagità, meglio che se fossero in prigione… ben più che tolti di mezzo. Ma essere malvagio significava cattivi pensieri, significava essere una cellula cancerogena nella società, una presenza imprevedibile e pericolosa, e lui non stava pensando solo ai maniaci omicidi. Stava pensando ai politicanti troppo avidi o ciechi per sapere quel che stavano facendo, ai colletti-bianchi capaci di rovinare con un gesto migliaia di piccoli risparmiatori, alle madri e ai padri troppo idioti per capire che non si deve picchiare a morte un figlio. Cos’era successo a quella gente e ai milioni di altri malvagi inseriti, rimescolati in quella nuova società?

Erano sempre identici a prima, duplicati in un milione di copie, o i noociti avevano esercitato su di loro una piccola sentenza? Erano stati pacificamente dirottati entro nuove personalità, ricostruiti… o eliminati?

E se i noociti si prendevano la libertà di manovrare l’immissione di questi individui, forse isolandoli, forse immobilizzandoli in qualche modo, forse penetrando i loro processi mentali con l’impatto di una gran massa di pensieri positivi per correggere le loro inclinazioni…

Chi poteva dire se non avrebbero modificato anche altri, gente con problemi minori, gente con tutti i complessi dei piccoli emarginati, con i loro difetti terreni… da cui nessun mortale si salva. I difetti di chi è un essere umano, di chi vive in un universo duro, un universo differente da quello abitato da noociti. Se loro correggevano, decidevano, alteravano, chi poteva stabilire la loro competenza? Chi poteva anche soltanto approvare la loro capacità di manovrare l’essenza stessa della personalità e dell’anima umana?

Cosa se ne facevano i noociti della gente che non aveva potuto sopportare il cambiamento, che era impazzita… o che, come avevano accettato, era morta prima dell’assimilazione lasciando memorie parziali come i frammenti di Vergil nel corpo di Bernard? Tutti nel mazzo?

C’era una politica, un’interazione sociale nella noosfera? Gli umani godevano dello stesso diritto di voto dei noociti? Ovviamente gli esseri umani erano diventati noociti… ma i veri e originali noociti avevano più o meno potere di loro?

Avrebbe potuto esserci un conflitto, una rivoluzione?

O ci sarebbe stata un’immensa pace… la pace della tomba, causata dalla sparizione della volontà di resistere? La libera volontà non doveva essere cosa importante per una rigida gerarchia. La noosfera era un sistema gerarchico senza il dissenso e la critica?

Questo lui non lo credeva.

Ma poteva esserne certo?

Rispettavano e amavano davvero gli esseri umani, come creatori e maestri, o si limitavano a risucchiarli, a rimasticarli, digerendo le informazioni a loro utili e gettando tutto il resto nell’entropia, dimenticato, disorganizzato, morto?

— Bernard — si disse, — quella che senti ora è la paura del Grande Cambiamento? La via del tutto diversa (sublime o infernale) contrapposta al difficile, e spesso infernale, status quo?

Dubitava che Vergil avesse mai riflettuto su quei particolari. Poteva essergli mancato il tempo, e tuttavia anche dandogliene a sufficienza Vergil non era tipo da soffermarsi su pensieri simili. Brillante nel creare, tardo nel considerare le conseguenze.

Non era questa una verità applicabile a qualsiasi creatore?

Chi mutava il corso degli eventi non conduceva, in ultima analisi, la gente — forse molta gente — alla morte, al dolore, al tormento?

Lo sventurato Prometeo che aveva portato il fuoco ai suoi compagni.

Nobel.

Einstein. Il povero Einstein e la sua lettera a Roosevelt. Parafrasandola: Io ho liberato i demoni dell’inferno, e ora lei deve firmare un patto col Diavolo, o lo farà qualcun altro. Qualcuno ancora più perfido.

La Curie con i suoi esperimenti sul radium; fino a che punto era responsabile per la morte di Slotin, quattro decenni dopo?

Il lavoro di Pasteur — o di Salk, o altri — aveva mai salvato la vita a un uomo o a una donna destinati a divenire malvagi, a scatenare massacri? Indubbiamente sì.

E le loro vittime non avrebbero avuto il diritto di pensare: Pasteur, quel bastardo!

Indubbiamente sì.

E se ognuno si fosse tormentato con quei pensieri, con quegli interrogativi, quanti genitori avrebbero ceduto all’impulso di uccidere i loro figli nella culla?

Il vecchio cliché: la madre di Hitler che abortiva.

C’era di che confondersi.

Bernard si agitò sul letto, fra il sonno e l’incubo, scivolando più spesso oltre il bordo dell’incubo ma a tratti emergendone sull’onda di una specie di estasi.

Niente sarebbe più stato lo stesso.

Bene! Meraviglioso! Infine non era già tutto marcio e inquinato?

No, forse no. Non fino a quel momento.

— Oh, Signore! — disse. — Eccomi costretto a pregare. Sono stanco e incapace di formulare giudizi. Io non credo in Te, non nella forma in cui ti hanno descritto, ma devo pregare perché ho paura, una paura maledetta.

Di cosa avevano causato la nascita?

Bernard riaprì gli occhi sulle sue braccia e sulle mani, umide di sudore e coperte di venature bianche.

È tutto così disgustoso, pensò.

XLII

Il cibo apparve alla sommità d’un grigio cilindro spugnoso, alto circa un metro, sul fondo di una rientranza semicircolare fra alte pareti.

Suzy abbassò lo sguardo sul contenuto del vassoio, tastò quello che con ogni evidenza era pollo arrostro e ritrasse lentamente il dito. L’arrosto era caldo, la tazza di caffè fumava, e l’insieme appariva del tutto normale. Non una volta s’era vista servire qualcosa che fosse di suo gusto, e non una volta era stato troppo, o troppo poco.

La stavano tenendo d’occhio da vicino, rintracciandola ovunque per ogni sua necessità. La curavano come un animale in uno zoo, o almeno questa era l’impressione che ne ricavava.

S’inginocchiò e cominciò a mangiare. Quand’ebbe finito sedette sul cilindro, bevve l’ultimo sorso di caffè e si tirò su il colletto. L’aria si andava rinfrescando. Aveva lasciato la giacca più pesante al World Trade Center (o quel che la Torre Nord era diventata) e nelle ultime due settimane non ne aveva sentito alcun bisogno. La temperatura era stata sempre confortevole, anche di notte.

Le cose stavano cambiando e questo la metteva a disagio… o la eccitava. Non sapeva decidere fra le due sensazioni.

A dire la verità, in tutto quel tempo Suzy McKenzie s’era annoiata molto. Non aveva mai avuto troppa immaginazione, e le distese della ricostruita Manhattan per cui aveva passeggiato non l’avevano fatta spasimare per l’interesse. L’enorme canale-tubatura che dal fiume pompava liquido verde nell’interno dell’isola, i ventagli dalle movenze lente e gli alberi-elica, le file di piastre argentee simili a specchi stradali che ricoprivano centinaia di acri di superficie irregolare: non una di queste cose aveva attratto la sua attenzione per più di pochi minuti. Loro non tenevano alcun contatto con lei. Non riusciva neppure a cominciare a capire quali fossero i loro scopi.

Sapeva che ciò che la circondava avrebbe dovuto essere affascinante, però non era umano: di conseguenza non le importava molto.

A lei interessava la gente, quel che pensava e faceva, chi era, cosa provava per lei e quali sentimenti destava in lei.

— Ti odio — disse al cilindro, rimettendo il vassoio e la tazza sulla sua superficie. Il cilindro ingoiò gli oggetti e si appiattì sparendo alla vista. — Odio tutti voi! — gridò alle pareti della rientranza. Si strinse le braccia al petto per riscaldarsi, poi raccolse la torcia e la radio. Presto si sarebbe fatto buio, lei avrebbe cercato un posto per dormire e forse avrebbe ascoltato la radio per qualche minuto. Le batterie si stavano scaricando, benché le avesse usate con economia. Uscì dalla rientranza e girò gli occhi sul boschetto degli alberi-ventaglio che crescevano sulle gradinate di un monticello marrone e rossastro.

Sulla cima di esso campeggiava un poliedro nero a molte sfaccettature, da ognuna delle quali sporgeva un ago argenteo lungo un braccio. Ce n’erano molti identici per tutta l’isola. Ormai non li notava neppure. Per girare intorno a quel monticello impiegò una decina di minuti. Si addentrò in una valletta vuota lunga quanto un campo di calcio, delimitata da tubature grosse quanto la sua vita e dalle curve dolci. I tubi sparivano in un’infossatura all’estremità nord. La ragazza aveva già dormito più volte in quelle piccole fosse, e quando ne ebbe raggiunta una vi s’inginocchiò accanto. Poggiò le mani sul fondo: era abbastanza caldo. Avrebbe potuto trascorrere la notte lì, sotto i tubi, e stare comoda a sufficienza.

A ovest il cielo era soffuso d’un brillante colore porpora. Di solito il tramonto spandeva veli arancone e rossi nell’aria; l’orizzonte non era mai stato così elettrico.

Accese la radio e si distese con un orecchio appoggiato all’altoparlante. Aveva sempre tenuto basso il volume con l’idea di risparmiare le batterie, benché sospettasse che l’espediente non servisse a nulla. La stazione inglese sulle onde corte, come al solito chiara, si fece udire subito. Regolò la sintonia e scivolò più all’interno sotto i tubi.

— … manifestanti che nella Germania Occidentale hanno circondato gli impianti della Pharmek dov’è ospitato Michael Bernard, sospetto portatore del morbo venuto dagli Stati Uniti. Mentre l’epidemia non si è ancora sparsa da nessuna parte, eccetto il Nord America, la tensione continua a crescere. Da oltre le frontiere chiuse della Russia… — Il segnale svanì e lei tornò a sintonizzare.

— … carestia in Romania e in Ungheria, già da tre settimane, e purtroppo si prevede che nulla possa ormai…

— … la signora Thelma Rittenbaum, nota psicologa di Battersea, afferma di sognare ogni notte che Cristo è risorto nel Nord America, dove risveglierà i morti per formare un esercito che marcerà sul resto del mondo. — Qui fu mandata in onda una voce femminile, registrata male, che in tono esagitato pronunciò qualche frase inintellegibile.

Il resto delle notizie riguardava l’Europa e l’Inghilterra. Ed era la parte che Suzy preferiva, poiché ogni tanto riusciva a darle l’impressione che il mondo fosse ancora normale, o almeno sulla via del ritorno alla normalità. Per la sua patria non c’era niente da fare: già da settimane aveva rinunciato a ogni speranza. Ma l’altra gente, al di là dell’oceano, riusciva a vivere la sua vita. Pensare a questo la risollevava.

Non che qualcuno, da qualche parte, sapesse della sua esistenza o gli importasse di lei.

Spense la radio e si rannicchiò al calduccio, ascoltando il fruscio del liquido che scorreva nelle tubature e i profondi, bassi gemiti metallici che provenivano da qualche luogo lontano da lei.

S’addormentò prima che il buio s’infittisse, mentre le strisce di cielo sopra le tubature si riempivano di stelle. E quando, nel bel mezzo di un sogno in cui stava acquistando vestiti in un negozio, le accadde di svegliarsi…

Qualcosa era drappeggiato su di lei. Lo tastò, insonnolita: stoffa soffice e calda come lana. Annaspò in cerca della torcia e la accese, girando il raggio di luce sul tessuto che aveva addosso. Si trattava di una morbida coperta, azzurra con sottili strisce verdoline: i suoi colori preferiti. Le braccia, senza quella protezione, le si erano intirizzite. Troppo stordita dal sonno per stare a porsi domande si tirò la coperta fino al mento e scivolò di nuovo nel mare dei sogni. Stavolta era una ragazzina e giocava in strada con gli amici d’infanzia, bambine e bambini ormai cresciuti, alcuni dei quali erano poi andati ad abitare altrove.

D’un tratto, l’uno dopo l’altro, gli edifici del quartiere vennero abbattuti. I bambini guardarono smarriti gli uomini con i bulldozer che facevano a pezzi le case dai mattoni rossi. Lei si volse a osservare la reazione dei suoi amichetti e vide che erano diventati adulti, vecchi, e indietreggiavano lanciandole richiami, invitandola a seguirli. Lei cominciava a piangere. Le sue scarpe erano incollate all’asfalto e non riusciva a fare un solo passo. Poi tutte le case vennero rase al suolo, il quartiere fu un ammasso di macerie dalle quali si levavano spunzoni e travature, fra cui la tazza di un cesso che penzolava da una tubatura all’altezza di quello che era stato un primo piano.

— Le cose stanno di nuovo cambiando, Suzy. — Le sue scarpe furono libere e lei si volse. Davanti a lei c’era Cary, imbarazzante nella sua nudità.

— Gesù! Non hai freddo? — chiese lei. — No… non lo sentiresti. Sei soltanto un fantasma.

— Be’, suppongo di sì — sorrise Cary. — Comunque volevamo avvertirti. Capisci? Tutto sta per cambiare ancora, e desideriamo farti sapere che puoi sempre scegliere.

— Non sto sognando, adesso, vero?

— No. — Lui scosse il capo. — Noi siamo nella coperta. Potrai parlarci quando vorrai, giorno e notte, se ne hai voglia.

— La coperta… tutti voi? Mamma, Kenny e Howard?

— E anche moltissimi altri. Tuo padre, se ti va di parlare con lui. È un regalo — le spiegò. — Una specie di regalo d’addio. Noi qui siamo tutti volontari, ma ci sono innumerevoli duplicati di me e degli altri, dei quali abbiamo molto bisogno.

— Dici cose prive di senso, Cary.

— Capirai. Tu sei una ragazza forte, Suzy.

Lo sfondo del sogno cominciò a farsi nebuloso. Stavano entrambi in piedi in una penombra arancione, col cielo che in distanza splendeva di giallo come se ci fossero fuochi all’orizzonte. Cary volse lo sguardo sui dintorni e annuì. — È tutto artistico. Ci sono moltissimi artisti e scienziati, tanto che mi sento sperduto fra essi. Ma potrei diventare uno di loro se volessi. Ci hanno dato tempo. Noi veniamo onorati, Suzy. Loro sanno che li abbiamo creati, e ci trattano veramente bene. Sai, laggiù… — Accennò verso il buio dietro di lui, — potremmo vivere insieme. C’è un posto dove tutti loro pensano. È come la vita reale, il mondo reale. Può essere com’era una volta, o com’è adesso. Può essere come tu vuoi.

— Io non mi unirò a voi, Cary.

— No. Non credo che tu voglia. Io non avevo proprio nessuna scelta quando mi unii a loro, ma non mi lamento. Così come sono adesso non mi piacerebbe più stare a Brooklyn Heights.

— Anche tu sei uno zombie.

— Sono un fantasma. — Le sorrise. — Comunque una parte di me starà con te, se vorrai parlarmi. E un’altra parte se ne andrà quando loro faranno il cambiamento.

— Tutto tornerà com’era una volta?

Lui scosse il capo. — Non sarà mai più lo stesso. E… guarda, io queste cose non le capisco bene, ma non manca molto a un altro cambiamento. Niente sarà mai più uguale a prima.

Suzy lo fissò negli occhi. — Sei venuto così nudo per tentarmi?

Cary abbassò lo sguardo su se stesso. — Non ci avevo neanche pensato — disse. — Questo ti dimostra quanto sto diventando indifferente a certe cose. Non vuoi cambiare idea?

Lei scosse il capo con fermezza. — Io sono l’unica che non si è ammalata — disse.

— Be’, non proprio l’unica. Ce ne sono altri venti o venticinque. Ci prendiamo cura di loro meglio che possiamo.

Lei avrebbe preferito essere l’unica. — Molto gentili! — esclamò, sarcastica.

— Comunque tienti la coperta. Quando ci sarà il cambiamento avvolgitela attorno, è stoffa vera. Lasceremo qui un sacco di roba da mangiare.

— Bene.

— Suppongo che tu stia per svegliarti, adesso. Tolgo il disturbo. Potrai anche vederci quando sarai sveglia. Per un po’.

Suzy annuì.

— Non gettarla via — la avvertì lui. — Altrimenti rischieresti di restare ferita.

— Non la getterò.

— Bene. — Lui allungò una mano e le sfiorò col palmo le braccia incrociate.

Lei aprì gli occhi. L’alba spandeva pallide foschie arancione oltre le tubature. La superficie della fossetta era fredda, come quella dei tubi.

Suzy si strinse addosso la coperta e attese.

XLIII

In piedi nella camera d’osservazione, con le mani poggiate sul tavolo, Paulsen-Fuchs teneva gli occhi bassi. Non sopportava più di guardare ciò che giaceva sul lettino del laboratorio sterile.

Bernard aveva perduto le sue sembianze umane quel mattino presto. La telecamera aveva registrato la trasformazione. Adesso al suo posto c’era un’informe massa di sostanza marrone, parti della quale ricadevano ai lati fin sul pavimento. La massa era percorsa da continui movimenti, talvolta da brevi e violenti fremiti.

Prima di perdere l’ultima possibilità di muoversi Bernard aveva preso la tastiera del terminale, poggiandola sul lettuccio. Il cavo sporgeva ora su un fianco della massa, e la tastiera doveva essere da qualche parte sotto o dentro di essa.

E Bernard, benché non potesse parlare, stava ancora facendone uso per comunicare. Sul monitor del laboratorio scorreva un rapido flusso di parole, le registrazioni dell’uomo inerenti alla sua trasformazione.

Molto di ciò che la tastiera trasmetteva allo schermo era virtualmente inintellegibile. Forse Bernard era ormai lui stesso qualcosa di simile a un noocita.

Quella trasformazione, comunque, non rendeva per nulla più facile la decisione di Paulsen-Fuchs. I manifestanti — e il Governo, che non aveva osato opporsi a loro d’autorità — avevano preteso che Bernard fosse ucciso e il laboratorio accuratamente sterilizzato.

Erano ormai oltre due milioni là fuori, e se la loro richiesta non fosse stata accolta avrebbero potuto distruggere la Pharmek fino all’ultimo mattone. L’esercito aveva dichiarato che non intendeva proteggere le istallazioni; la polizia s’era lavata le mani da ogni responsabilità adducendo diverse scuse. Non c’era niente che Paulsen-Fuchs potesse fare per fermarli; nello stabilimento erano rimasti soltanto cinquanta impiegati, poiché tutti gli altri erano stati evacuati per la loro sicurezza.

Non di rado lui stesso aveva considerato l’idea di andarsene, semplicemente, trasferendosi nella sua villa in Spagna per isolarsi da tutto. Per dimenticare quel che era successo, per non pensare più a ciò che il suo amico Michael Bernard aveva portato con sé in Germania.

Ma Heinz Paulsen-Fuchs era sulla breccia da troppo tempo per volersi ritirare a quel modo. Quand’era un ragazzotto aveva visto i russi entrare a Berlino. S’era spogliato delle vestigia del suo poco entusiastico passato nazista, cercando di restare il più possibile nell’anonimato, ma non aveva permesso alla vita di schiacciarlo. E durante gli anni dell’occupazione aveva lavorato in tre posti diversi. Era rimasto a Berlino fino al 1955, quando con altri due colleghi aveva messo in piedi la Pharmek. La compagnia aveva quasi subito fatto bancarotta, nel panico seguito al Talidomide; ma lui non aveva gettato la spugna.

No, lui non avrebbe voltato le spalle a quell’ultima responsabilità. Toccava a lui dunque premere l’interruttore che avrebbe fatto saturare il laboratorio di gas sterilizzanti. E avrebbe istruito di persona gli uomini che sarebbero entrati a terminare l’opera di distruzione. Quella era una sconfitta ma almeno lui l’avrebbe affrontata sul posto, non rintanato in Spagna.

Non aveva idea di quel che avrebbero fatto i manifestanti una volta morto Bernard. Lentamente usci dalla camera d’osservazione, passò nel laboratorio e sedette davanti a un monitor su cui scorreva ancora il messaggio in registrazione.

Istruì il computer per rimandarglielo dall’inizio. Poteva leggere abbastanza in fretta da seguirlo, ma voleva rivedere ciò che l’amico aveva già scritto per capire meglio il senso dell’insieme.

Finale del diario elettronico di Bernard. Inizio ore 08.35.

Gogarty: Se ne andranno entro poche settimane.

Sì, comunicano fra loro. Parenti minori. Frammenti dell’epidemia di cui non sappiamo nulla - Europa, Asia, Australia - gente senza sintomi. Occhi e orecchi, radunandosi, imparando, mietendo l’irrilevante raccolto delle nostre vite e della nostra storia. Meravigliose spie.

Paul: memoria razziale. Stessi meccanismi biologici. Ci sono molte vite in ognuno di noi: nel sangue, nei tessuti.

Confini dello spazio-tempo locale. Sono in troppi. Gogarty: devono attraversare… non possono farci niente. Devono avvantaggiarsi. Noi (tu) naturalmente non possiamo, e forse non vogliamo, farci niente.

La grande impresa sono loro.

Loro amano. Loro collaborano. Sono disciplinati ma liberi; conoscono la morte ma sono immortali.

Ora mi conoscono, in lungo e in largo. Tutti i miei pensieri e i miei impulsi. Io sono un soggetto della loro arte, della loro meravigliosa fantascienza vivente. Mi hanno duplicato un milione di volte. Chi dei tanti me scrive questo? Non lo so. L’originale non esiste più.

Posso viaggiare in un milione di direzioni, vivere un milione di vite (e non solo nella Musica del Sangue, ma in un universo di Pensiero Immaginazione e Fantasia!) e poi riunire i miei doppioni, tenere conferenze con loro e ripartire ancora. Narcisismo oltre ogni orgoglio, comunanza molto superiore al semplice vivere insieme. (E lei: loro l’hanno trovata!)

Ognuno di loro può avere mille, diecimila, un milione di controparti a seconda della loro qualifica e funzione. Nessuno ha bisogno di morire, ma col tempo tutto o quasi tutto cambierà. E a un certo momento la maggior parte di questi me non avrà più somiglianza col presente me, perché siamo soggetti a cambiare. Le nostre menti lavorano sulle infinite varietà della vita.

Paul, vorrei che tu potessi unirti a noi.

(Interruzione nel testo. Dalle 08.47 alle 10.23)

Non più usando i pulsanti. Dentro la tastiera, dentro l’elettronica.

So che tu devi distruggere.

Aspetta. Aspetta fino 11,30. Dai questo tempo a vecchio amico.

Io non piace vecchio me stesso, Paul. Rinuncio a lui, a maggior parte di lui. Rivissute e riplasmate intere sezioni di miei 52 anni. Uno può diventare santo qui, o esplorare moltitudini di peccati. Quale santo può non conoscere il peccato?

(Interruzione nel testo. Dalle 10,35 alle 11,05)

Gogarty.

CGATCATTAG… (UCAGCUGCGAUCGAA)… Nome adesso.

Gogarty. Stupefacente Gogarty! Fin troppo acuto, fin troppo capace di teorizzare, fin troppo vivo. Loro sanno il Nord America. Giù nell’infinitamente piccolo hanno spiato in N.A. Dicendocelo, preparandoci. Andiamo tutti insieme. Paura mortale meravigliosamente spaventato la più bella paura, Paul, non sentita nelle budella ma stupita nei pensieri, mai niente di simile. Paura della libertà oltre le costrizioni adesso, e mi sembra già meravigliosamente libero. A tanta libertà noi dobbiamo cambiare per adattarci. Irriconoscibili.

Paul 11,30 tempo basta così.

11,30 11,30 11,30

Un tale flusso di sensazioni per il vecchio, bacio d’affetto all’uomo uovo, alla madre, studente alla scuola…

Divagazioni. Qualcun altro ha preso lo scrivere.

Incontrando i me stesso. Gruppi di comando coordinano. Festeggiamenti. Così tanti, così ricchi d’emozioni! Tre di me occupati a scrivere, già molto diversi. Amici di ritorno dalle vacanze. Ubriaco di esperienze libertà conoscenza…

Olivia, che aspetta…

E Paul questo è lago incantato noociti, non sobborghi come in N.A.

Riassumo. Sta arrivando. Gli anni nuovi!

NOVA

(Termine del testo. Ore 11,26 e 39 sec.)

Heinz Paulsen-Fuchs lesse le ultime parole sul VDT e inarcò le sopracciglia. Con le mani sui braccioli della poltroncina si volse a controllare l’orologio del laboratorio.

Le 11,26 e 46 secondi.

Gettò un’occhiata alla dottoressa Schatz e si alzò. — Apra la porta — le disse. Lei allungò una mano all’interruttore e fece aprire la porta che dava nella camera d’osservazione.

— No — disse l’uomo. — Quella del laboratorio.

Lei esitò.

Le 11,26 e 52 secondi.

Paulsen-Fuchs corse alla consolle, la fece spostare senza cerimonie e premette in rapida successione tre interruttori. Sull’ultimo il dito gli scivolò e ripeté la sequenza.

Le 11,27 e 56 secondi.

I tre portelli di sicurezza cominciarono a scivolare pesantemente di lato.

— Herr Paulsen-Fuchs…

Lui s’infilò nell’apertura appena fu larga un piede, oltrepassò il freddo interstizio dove c’era stato il vuoto e quello ad alta pressione, da cui sfuggiva l’aria, entrando nel laboratorio isolato.

Le 11,29 e 32 secondi.

Il piccolo locale era pieno di fuoco. Per un attimo Paulsen-Fuchs pensò che la Dr. Schatz avesse azionato qualche misterioso sterilizzatore d’emergenza scatenando la morte nel laboratorio.

Ma la donna non aveva fatto niente.

Le 11,29 e 56 secondi.

Le fiamme dileguarono e scomparvero, lasciando un odore d’ozono e un’immagine di forma lenticolare che balenò nell’aria un istante.

Il lettuccio era vuoto.

Le 11,30.

XLIV

Suzy avvertì un senso di nausea e depose il piatto. — È adesso? — chiese all’aria che aveva attorno. Si strinse più forte nella coperta. — Kenny, Howard, è adesso? Cary?

Si trovava al centro di una liscia arena circolare, di fronte al cilindro grigio che le forniva il cibo. Il sole si stava muovendo in circoli irregolari e l’atmosfera sembrava pervasa da tremiti. La notte prima Cary le aveva parlato di quel che sarebbe accaduto, dicendole quel tanto che lei poteva comprendere. — Cary? Mamma?

La coperta s’irrigidì.

— Non andatevene! — gridò. L’aria si fece ancora più calda e il cielo parve screpolarsi come vernice vecchia. Le nuvole s’allungarono in filamenti untuosi e si levò il vento, soffiando fra il monticello coperto di pilastri su un lato dell’arena e il poliedro spinoso sull’altro. Le lunghe spine del poliedro lampeggiarono di luce azzurra e fremettero. Poi il poliedro stesso si sezionò in cunei triangolari; fra essi sgorgò un liquido bagliore rosso come lava fusa.

— È questo, non è vero? — chiese lei, piangendo. Nei suoi sogni dell’ultima settimana aveva visto tanto, e tanto era stato il tempo che aveva trascorso con loro, che s’era infine confusa al punto da non capire cosa fosse reale e cosa irreale. — Rispondetemi!

La coperta prese vita attorno a lei e le risalì sulla testa sagomandosi a cappuccio. Il copricapo le si affrancò sotto il mento, le ricoprì la faccia con una compatta visiera trasparente. Poi crebbe sulle sue dita e formò guanti, le scese lungo le gambe fino ai piedi e la avvolse in una tuta aderente ma larga abbastanza da consentirle ampia libertà di movimenti.

L’aria odorava dolcemente di frutta, fiori e misteriose vernici. Poi profumò di pane appena sfornato. Il cappuccio le aderì con forza alle guance e spaurita lei cercò di strapparlo via con le dita. Cadde e rotolò al suolo, agitandosi e scalciando contro quell’indumento finché una voce negli orecchi non le ordinò di fermarsi. Al’ora giacque supina in mezzo all’arena, fissando il cielo attraverso la visiera trasparente e un velo di lacrime.

Stai tranquilla. Non muoverti. Era la voce di sua madre, gentile ma ferma. Tu sei sempre stata una bambina molto testarda, disse la voce, e hai rifiutato tutto quello che ti abbiamo offerto. Be’, io avrei fatto lo stesso. Ora te lo chiederò un’altra volta, e decidi in fretta. Desideri venire con noi?

— Morirò se non vengo? — ansimò debolmente lei.

No. Ma resterai sola. Nessuno di noi sarà più qui.

— Vi stanno portando via?

Cary te ne ha parlato. Lo ascoltavi, Fiorellino? Questo era Kenneth. Lei si sforzò di strapparsi il cappuccio dalla testa.

— Non lasciatemi sola.

Allora vieni con noi.

— No! Non posso!

Il tempo stringe, Fiorellino. È la tua ultima possibilità.

Il cielo era di un caldo giallo arancio, elettrico, e le nuvole si stavano torcendo in trecce sfilacciate. — Mamma, sarà pericoloso? Avrò paura?

Non sarà pericoloso. Vieni con noi, Suzy.

Aveva la bocca paralizzata, ma qualcosa nella sua mente spezzò la morsa del panico che la bloccava. — No! — pensò.

Le voci tacquero. Per un po’ di tempo tutto ciò che i suoi occhi videro fu un folle intrecciarsi di linee rosse e verdi, poi la testa cominciò a dolerle e le parve d’essere sul punto di vomitare.

In alto l’atmosfera scintillava. Sotto di lei il suolo dell’arena si scosse, la superficie impazzì irretendosi di spaccature.

E in un istante di vertigine lei fu in due posti allo stesso tempo. Era con loro… loro l’avevano portata via, e anche in quel momento parlava con sua madre e con i suoi fratelli, con Cary e con le sue amiche…

Ed era nell’arena in disfacimento, circondata dalle rovine spezzate del monticello cosparso di pilastri e del poliedro spinoso. Le strutture crollavano in briciole, come castelli di sabbia ormai secchi che si sgretolassero al sole.

Poi quella sensazione cessò. La nausea allo stomaco scomparve. Il cielo era azzurro, benché qua e là certi suoi frammenti ferissero ancora lo sguardo.

L’indumento protettivo cadde a pezzi dalle sue membra e divenne polvere, indistinguibile dalla polvere dell’arena.

La ragazza si alzò in piedi e se la spazzolò via di dosso.

L’isola di Manhattan era piatta e livellata come la superficie di una patata fritta. A sud si stava radunando una nuvolaglia grigia e pesante. Lei si guardò attorno. Dove c’era stato il cilindro del cibo ora giacevano al suolo dozzine di cartoni, disordinatamente riempiti di scatolette. Sopra il cartone più vicino era deposto un apriscatole.

— Hanno pensato a tutto — mormorò Suzy McKenzie. Pochi minuti dopo cominciò a cadere una fitta pioggia.

TELOFASE

FEBBRAIO, L’ANNO SUCCESSIVO

XLV

Camusfearna, Galles

Le nevicate e i rigori invernali avevano colpito duramente l’Inghilterra. Quella notte nuvole nere e vellutate oscuravano le stelle da Anglesey a Margate, e da esse fiocchi di luce soffusa verde azzurrino cadevano sulla terra e sul mare. Quando toccavano l’acqua i fiocchi si spegnevano all’istante. Sulla terra invece si ammucchiavano in morbidi mantelli luminescenti, che crepitavano come carbonella sotto le suole delle scarpe.

Da mesi ormai contro quel freddo ogni sistema di riscaldamento, elettrico o a carbone, s’era dimostrato poco efficace. I bruciatori a metano avevano conosciuto popolarità per il solo motivo che non c’era niente di meglio, ma anch’essi erano piuttosto rari perché le maccb ne che li fabbricavano s’erano rivelate altrettanto poco efficienti.

Le antiquate stufe a carbone e i fornelli a legna erano stati resuscitati. L’Inghilterra e l’Europa stavano lentamente e silenziosamente scivolando verso un passato ancor più oscuro e primitivo. Protestare era inutile: le forze all’opera erano soverchianti quanto insondabili.

Moltissime abitazioni, in città e in campagna, non disponendo d’impianti abbastanza primitivi semplicemente restavano al freddo. Con sorpresa delle autorità, tuttavia, il numero dei morti e dei malati continuava a diminuire.

Non c’erano state splosioni di malattie epidemiche. Nessuno riusciva a capirne il perché.

La produzione di vino, birra e liquori industriali era cessata. I forni avevano radicalmente cambiato faccia, dedicandosi alla cottura di pane non lievitato e alla pasta. I microscopici organismi della terra e dell’acqua erano cambiati col clima, imprevedibili quanto il mutamento che influiva sulle macchine e sull’elettricità.

Nell’Europa dell’Est e in Asia si moriva di fame, il che aveva rimesso in auge (o confermato) il concetto della Volontà di Dio. Le più vaste cornucopie del mondo non erano ormai raggiungibili e non producevano niente.

La guerra non era più una soluzione possibile. La radio, gli autocarri e le automobili, gli aeroplani, i missili e le bombe non erano oggetti sul cui funzionamento si potesse contare. Alcune nazioni del Medio Oriente esportavano ancora prodotti agricoli, ma senza molto entusiasmo. Anche lì il tempo era cambiato, e per molte settimane la neve aveva sepolto Damasco, Beirut e Gerusalemme.

Chiamarlo un inverno di gelo universale era dunque come mettere in quelle parole tutto ciò che era andato male e continuava ad andare male, non soltanto il tempo.

La Citroen di Paulsen-Fuchs sputacchiava fumo arrecando sull’impervia stradicciola asfaltata, con le catene che crepitavano nella neve. Con attenzione l’uomo premette l’acceleratore lungo la lieve salita, cercando di prevenire slittamenti che l’avrebbero mandato fuori strada. Sul sedile accando a lui c’era un cesto da picnic, occupato da una pila di libri gialli e da alcuni giornali arrotolati intorno a una bottiglia.

Pochi macchinari funzionavano ancora in modo accettabile. La Pharmek era stata chiusa per sei mesi a causa di gravi problemi di manutenzione. All’inizio le industrie avevano assunto molta manodopera per rimpiazzare le macchine, ma ben presto era stato chiaro che senza queste ultime nessuna fabbrica poteva essere tenuta in piedi.

Si fermò al palo segnaletico di un incrocio e abbassò il vetro per leggere meglio le indicazioni. Una tavoletta dipinta a mano diceva: CAMUSFEARNA — 2 Km.

Tutto il Galles sembrava ricoperto di alghe marine fosforescenti. Dal cielo nero scendevano galassie di fiocchi scintillanti, ciascuno carico di una misteriosa energia luminosa. Tirò su il vetro e fissò quelli che cadevano sul parabrezza: lampeggiavano lievemente quando il tergicristallo li riuniva spazzandoli da parte.

I fari della vettura erano spenti benché fosse notte. A consentirgli la visuale era l’immenso lucore della distesa nevosa. Ma dall’impianto di riscaldamento provenivano orridi gorgoglii, e l’uomo si affrettò a ripartire.

Quindici minuti dopo svoltò a destra in una stretta viuzza ghiaiosa, non troppo innevata, e scese verso l’abitato di Camusfearna. Era composto da appena quattro edifici e da un piccolo porticciolo, in quel momento del tutto chiuso nella morsa del ghiaccio. Le case con le loro luci giallastre erano chiaramente visibili attraverso la neve, ma l’oceano al di là di esse era nero e vuoto come il cielo.

L’ultima casa sul lato nord, aveva detto Gogarty. Paulsen-Fuchs prese la curva troppo larga, sobbalzò sul terriccio fra i cespugli congelati e per riguadagnare la strada fu costretto a far lavorare la marcia indietro.

Non s’era mai gettato in un’impresa così rischiosa da trent’anni a quella parte. Il motore della Citroen ansimò, gemette e si fermò del tutto a soli dieci metri dal piccolo garage malridotto. Una nuvola di vapore si alzò incontro ai baluginanti fiocchi di neve.

L’abitazione di Gogarty era un vecchissimo cottage intonacato di bianco, ad un piano e squadrato come un mattone, con un tetto in piatte lastre di ardesia. Costruito in tavole di legno e lamiera ondulata il garage sembrava appoggiarsi all’edificio per maggiore sicurezza. In quel momento fu aperto dall’interno, e la luce gialla che veniva dalla casa si aggiunse all’universale verde-azzurro della neve. Paulsen-Fuchs tolse la bottiglia dal cesto, se la ficcò in una tasca del soprabito e uscì dalla vettura, lasciandosi dietro una serie d’impronte che baluginavano più intensamente.

— Santo cielo! — esclamò Gogarty, andandogli incontro. — Non mi aspettavo che ti mettessi in viaggio con questo tempo.

— Già — ammise Paulsen-Fuchs. — Le follie di un vecchio sciocco annoiato, no?

— Vieni dentro. Ho un caminetto… grazie a Dio almeno il legno brucia ancora! E tè caldo, caffè e cos’altro vuoi.

— Whisky irlandese! — dichiarò Paulsen-Fuchs battendo le mani guantate.

— Be’ — sospirò Gogarty conducendolo in casa, — Qui siamo nel Galles, e il whisky scarseggia ovunque. Mi addolora non poterti accontentare.

— Ho portato il mio. — Paulsen-Fuchs si tolse di tasca la bottiglia di Glenlivet. — Un nettare ormai raro e costoso.

La fiamma crepitava e scoppiettava piacevolmente nel camino di pietra, incrementando l’incerta luce elettrica. L’interno del cottage era pieno di scrivanie — tre nel solo soggiorno — e di scaffali per libri. C’erano poi un computer alimentato a batterie (Da tre mesi non funziona — disse Gogarty) un mobile di vetro colmo di conchiglie e di pesci in bottiglia, un vecchio divano di velluto rosa, una macchina per scrivere Olympia non elettrica (in quel momento un oggetto prezioso) e un tavolo da disegno ricoperto di cianografie srotolate. Le pareti erano decorate con stampe floreali ottocentesche.

Gogarty tolse la teiera dal fuoco e riempì due tazze. Paulsen-Fuchs sedette in un seggiolone tarlato, accettò una delle tazze (era birra bollente) e la sorseggiò di gusto. Due gatti, un tigrato ispido e dalle sfumature arancio e un persiano nero dal muso rincagnato, attraversarono la stanza per fermarsi di fronte al focolare, fissandolo con occhi pigramente insospettiti.

— Più tardi ci faremo un whisky insieme — lo avvertì Gogarty, sedendo su un panchetto davanti a lui. — Ma ora credo che dovresti dare un’occhiata a una cosa.

— Ai nostri fantasmi? — chiese lui, divertito dalla sua espressione.

Gogarty annuì con serietà frugandosi nella tasca interna della giacca. Ne tolse un foglio ripiegato, di una carta bianchissima, e lo porse all’ospite. — È anche per te. Intestato a noi due. Ma è arrivato due giorni fa nella mia cassetta… malgrado che il postino non passi da una settimana. Qui siamo fuori mano. Le lettere per te le imposto sempre a Pwllheli.

Paulsen-Fuchs spiegò il foglio. La carta era insolita, spessa come pelle e d’un biancore abbagliante. Su una delle facce c’erano alcune righe manoscritte in inchiostro nero. Le lesse e poi sollevò su Gogarty uno sguardo stupito.

— E adesso leggi di nuovo — disse Gogarty.

Il messaggio era abbastanza breve perché potesse ricordarlo quasi parola per parola. Tuttavia, la seconda volta che l’uomo lo lesse era cambiato.

Cari Sean e Paul,

Al saggio basta un avvertimento. State pronti.

Per ora piccoli cambiamenti, quello grosso è in arrivo.

MOLTO grosso. Gogarty può immaginarselo. Lui ha l’intuito. La teoria. Altri verranno avvisati. Passate parola.

Bernard

— Ogni volta è diverso. Talora molto elaborato, talatra molto conciso. Ho preso nota esatta del contenuto tutte le volte che l’ho letto. — Gogarty tese la mano e schioccò le dita. Paulsen-Fuchs gli restituì la lettera.

— Non è carta — affermò Gogarty. Ne immerse un angolo nella tazza di birra. Il foglio non la assorbì, e una volta rimosso non sgocciolò minimamente. Lo afferrò con entrambe le mani e con un gesto energico lo strappò in due. Sebbene lo strappo fosse stato completo, la lettera rimase d’un solo pezzo, e in una sola mano, svanendo dalle dita dell’altra in modo del tutto incomprensibile. — Vuoi leggerla ancora?

Paulsen-Fuchs scosse il capo. — Dunque non è reale — disse.

— Oh, è reale abbastanza da essere qui ogni volta che voglio esaminarla. Solo che non è più la stessa, il che mi porta a credere che non sia fatta di materia solida.

— Non sarà una burla?

Gogarty rise. — No, direi di no.

— Bernard non è morto.

L’altro annuì. — Proprio così. Bernard è andato con i suoi noociti, e sono propenso a credere che questi siano nello stesso luogo dei noociti del Nord America. Sempre che luogo sia la parola adatta.

— E dove sarebbe? In un’altra dimensione?

Gogarty scosse vigorosamente il capo. — Bontà divina, no. Proprio qui. Proprio dove tutto è cominciato. Noi viviamo nella scala macroscopica, naturalmente, perciò quando investighiamo sul nostro universo tendiamo a guardare in fuori, verso le stelle. Ma i noociti… loro vivono nella scala microscopica. Hanno difficoltà perfino a concepire le stelle. Così guardano verso l’interno. Per loro le scoperte giacciono nell’infinitamente piccolo. E se possiamo presumere che i noociti nordamericani hanno rapidamente creato una civiltà avanzata (cosa che appare ovvia) allora possiamo supporre che abbiano trovato un metodo per investigare nell’infinitamente piccolo.

— Più piccolo del loro mondo di cellule.

— Certo. Al punto che il minore fra quei componenti è come una galassia rispetto a noi.

— Stai parlando di dimensioni quantiche, a livello della particella d’energia? — Paulsen-Fuchs sapeva poco di quell’argomento, ma non era del tutto ignorante.

Gogarty annuì. — Ora, si dà il caso che l’infinitamente piccolo sia il mio campo. È per questo che nei primi tempi fui consultato sui noociti. La maggior parte del mio lavoro concerne grandezze tipo 10 elevato a meno 30 x 30 centimetri. La lunghezza Planck-Wheeler. E penso che dovremmo guardare nella submicroscala per scoprire dove siano andati i noociti e perché.

— Sentiamo: perché? — domandò Paulsen-Fuchs.

Gogarty allungò una mano per prendere un fascicolo di fogli scritti a mano e pieni di equazioni. — Le informazioni possono essere immagazzinate in modo ancor più compatto che nella memoria delle cellule. Le si possono fissare nella struttura dello spazio-tempo. Cos’altro è la materia, infine, se non un’onda stabile d’informazioni fissa nel vuoto? I noociti senza dubbio l’hanno scoperto e ci hanno lavorato sopra… Hai sentito di Los Angeles?

— No. Cos’è successo?

— Ancora prima che i noociti se ne andassero, Los Angeles e tutta la costa a sud fino a Tijuana erano scomparse. O piuttosto, diventate qualcos’altro. Un grosso esperimento, forse. Una prova dello spettacolo che andrà in scena prossimamente.

Paulsen-Fuchs annuì con l’aria di chi non ha capito veramente, e si appoggiò allo schienale con la tazza in mano. — È stato difficile arrivare fin qui — mormorò. — Più di quel che mi ero aspettato.

— Le leggi fisiche sono cambiate — annuì Gogarty.

— Questa sembra essere l’opinione generale. Ma perché? E in che modo?

— Mi sembri stanco — disse Gogarty. — Questa notte riposa, goditi il calduccio, leggi e rileggi la lettera se ne hai voglia, e non farti venire il mal di testa con altri pensieri.

Paulsen-Fuchs accennò di sì e chiuse gli occhi, rilassandosi sulla sedia. — D’accordo — mormorò. — È stata più dura di quel che pensavo.

All’alba la nevicata cessò. La luce del giorno restituì al manto che copriva i campi un modesto biancore. Le pesanti nuvole erano evaporate in fiocchi grigi e innocui che il vento dell’ovest spazzava via. Paulsen-Fuchs fu svegliato dall’aroma dei toast e del caffè caldo. Si alzò a mezzo su un gomito e passò una mano fra i capelli scompigliati. Il divano aveva mantenuto le sue promesse ed ora si sentiva riposato, anche se sporco e appiccicoso per il viaggio.

— Che ne dici di una doccia calda? — propose Gogarty.

— Magnifico.

— La stanza della doccia è un po’ fredda, ma tu infila queste pantofole, immaginati in un comodo igloo e tutto ti sembrerà più roseo.

Sentendosi alquanto più pulito, e comunque molto più sveglio (la stanza della doccia era peggio che un igloo) Paulsen-Fuchs sedette a fare colazione. — La tua ospitalità è sublime — disse, masticando i toast abbondantemente cosparsi di marmellata e formaggio cremoso. — Sprofondo di vergogna per il modo in cui ti abbiamo trattato in Germania.

Gogarty gli concesse l’assoluzione con un gesto d’indifferenza. — Non pensarci più. Cosa dappoco, infine.

— Che dice la lettera questa mattina?

— Leggi tu stesso.

Paulsen-Fuchs riaprì l’incredibile foglio candido e con un dito seguì la nitida linea di scrittura manuale.

Cari Sean e Paul,

Sean ha le risposte. Estensioni della teoria, osservazione troppo intensa. Buco Nero dei pensieri. Come ha detto lui. Se la teoria è adeguata, l’universo si conforma. Non ha altra scelta. Troppa teoria, troppo poca flessibilità. Più ancora in arrivo. Grossi cambiamenti.

Bernard

— Notevole — commentò Paulsen-Fuchs. — È lo stesso foglio di qualunque-cosa-sia?

— Per quel che posso dire, esattamente lo stesso.

— Che cosa vuole comunicarci, stavolta?

— Penso che intenda confermare i miei lavori, benché non si stia esprimendo con molta chiarezza. Cioè, se tu hai letto lo stesso messaggio che ho letto io. Per sicurezza dovresti prendere nota del testo, così potrò controllare.

Paulsen-Fuchs buttò giù il messaggio su un foglio di quaderno e lo porse a Gogarty.

Il fisico annuì. — Molto più esplicito, questa volta. — Depose il quaderno e versò all’amico dell’altro caffè. — Molto evocativo. Sembra confermare ciò che dissi l’anno scorso: che l’universo non ha fondamenta, e che quando viene fuori una buona ipotesi, una che spieghi certi eventi con più logica, le fondamenta si ristrutturano per adeguarsi ed ecco che una nuova teoria è nata.

— Allora non esiste una realtà definitiva?

— Evidentemente no. Le cattive ipotesi, quelle che non spiegano bene ciò che accade al nostro livello, vengono scartate dall’universo. Quelle buone, più potenti, vengono incorporate.

— Una cosa simile dovrebbe confondere qualsiasi teorico.

Gogarty annuì. — Ma lascia che ti spieghi cos’è successo al nostro pianeta.

— Oh?

— L’universo non resta sempre ciò che è. Una teoria può determinare la realtà, finché funziona; dopo di che l’universo deve effettuare qualche cambiamento.

— Il carretto delle mele deve rovesciarsi per non lasciarci compiacere di noi stessi?

— Proprio così. Ma non si può osservare un mutamento di realtà. Essa deve cambiare a un livello non sottoposto a osservazione. Perciò, quando i nostri noociti osservavano tutto quanto fino al livello più infimo possibile l’universo non possedeva la flessibilità, la capacità di riplasmare se stesso. Si è creata una specie di tensione. Loro capivano di non poter più autoregolarsi nel mondo macroscopico, così… be’, non sono molto sicuro di quel che hanno fatto. Ma quando sono partiti la tensione s’è rilassata all’improvviso provocando un rimbalzo. Adesso ogni cosa è fuori posto. Il cambiamento è stato troppo brusco, e c’è stato un terremoto nelle leggi fisiche. Il risultato: un universo incoerente con se stesso, almeno nelle nostre immediate vicinanze. Abbiamo neve ardente, macchine inaffidabili, e un leggero caos generale. E dico leggero perché… — Scosse le spalle. — Temo che lo sconquasso vero debba ancora venire.

— Cosa te lo fa pensare?

— Il fatto che abbiano cercato di salvare il più gran numero possibile di noi, per qualcosa che verrà dopo.

— Il Grande Cambiamento?

— Sì.

Paulsen-Fuchs fissò Gogarty negli occhi, poi scosse il capo. — Io sono troppo vecchio — disse. — Sai, vedere l’Inghilterra così mi ha ricordato la guerra. È così che l’Inghilterra doveva essere durante… quello che voi chiamate il Blitz di Hitler. Ed è così che la Germania era diventata alla fine della guerra.

— Sotto assedio — disse Gogarty.

— Sì, ma noi esseri umani abbiamo un equilibrio chimico molto delicato. Credi che i noociti stiano cercando di tenere basso l’indice di mortalità?

Gogarty scosse ancora le spalle e prese la lettera. — L’avrò letta migliaia di volte nella speranza di trovare una risposta a questa domanda. Niente. Neppure un accenno. — Sospirò. — Posso solo azzardare ipotesi.

Paulsen-Fuchs finì il suo toast. — L’altra notte ho fatto un sogno molto nitido — disse. — Ho sognato che mi veniva chiesto quante strette di mano avevo avuto da qualcuno che viveva nel Nord America. Credi che questo abbia un significato?

— Non ignorare alcuna ipotesi — disse Gogarty. — Questo è il mio motto.

— Cosa dice la lettera adesso? Leggila un po’.

Gogarty riaprì il foglio e prese accuratamente nota del messaggio. — Più o meno lo stesso — disse. — Aspetta… c’è una parola in più: grandi cambiamenti presto.

Uscirono a fare una passeggiata per godersi il sole che appariva e spariva, con gli stivali che facevano scricchiolare la neve e la comprimevano in ghiaccio. L’aria era rigida, ma spirava appena una lieve brezza. — C’è qualche speranza che tutto rimbalzi di nuovo indietro, tornando alla normalità? — domandò Paulsen-Fuchs.

Gogarty si strinse nelle spalle. — Direi di sì, se fossimo alle prese con quelle che erano le leggi di natura. Ma le affermazioni di Bernard non sono molto incoraggianti, vero?

— Io sono un ignorante — disse Gogarty esalando una nuvoletta di vapore. — Com’è rilassante poterlo dire. Ignorante. Sono sottoposto alle forze naturali come quell’albero. — Indicò un vecchio pino contorto su un’altura oltre la spiaggia. — La carta dell’attesa è l’unica che può giocare.

— Allora non mi hai invitato qui per vedere se possiamo trovare una qualche soluzione.

— No. Naturalmente no. — Gogarty sperimentò con un piede la resistenza di una lastra di ghiaccio. La spaccò, ma sotto non c’era acqua. — Solo… mi sembrava che Bernard ci volesse qui, o perlomeno insieme.

— Sono venuto qui sperando in qualche risposta.

— Spiacente.

— No, questo non è del tutto vero. Sono venuto perché non ho più un posto in Germania. Né da altre parti. Sono un dirigente senza un’industria, senza un lavoro. Sono libero per la prima volta in molti anni, libero di rischiare.

— E la tua famiglia?

— Come Bernard, mi sono lasciato alle spalle diverse famiglie in qualche decennio. Tu ne hai una?

— Sì — disse Gogarty. — Erano nel Vermont l’anno scorso, in visita ai genitori di mia moglie.

— Mi dispiace — mormorò Paulsen-Fuchs.

Quando tornarono in casa, per farsi una tazza di caffè caldo e mettere un pesce fresco sulla graticola, la lettera di Bernard diceva:

Cari Gogarty e Paul,

Ultimo messaggio. Pazienza. Quante volte ti ha stretto la mano qualcuno che ora è andato via? Una stretta di mano. Niente è perduto. Questo è l’ultimo giorno.

Bernard

Entrambi la lessero. Gogarty la ripiegò e la mise al sicuro in un cassetto. Un’ora dopo, spinto da un impulso simile a una premonizione, Paulsen-Fuchs riaprì il cassetto per dare un’altra occhiata alla lettera.

Non c’era più.

XLVI

Londra

Suzy si appoggiò al davanzale della finestra e aspirò una lunga boccata d’aria fredda. Non aveva mai visto nulla di così bello, neppure il bagliore dell’East River quando aveva attraversato il ponte di Brooklyn. Lo sfolgorio della neve era uniforme, la ipnotizzava come un surreale presagio che annunciasse la fine d’un mondo diventato pazzo. Era più che sicura di questo. Nei nove mesi che aveva trascorso a Londra, in quel piccolo appartamento messole a disposizione dall’ambasciata americana, aveva visto la città rallentare fino a un tremante e spasmodico arresto. Si era isolata in casa, limitandosi a sbirciare dalla finestra, e aveva contato sempre meno auto e carri, sempre meno gente in strada perfino quando la neve luminosa era scarsa, e poi…

Meno gente per strada, s’era detta, significava più gente in casa. Un’addetta dell’ambasciata americana veniva a farle visita una volta alla settimana. Si chiamava Laurie, era decisamente graziosa, e talvolta portava con sé Yves, il suo fidanzato, che malgrado il nome francese era americano di nascita.

Laurie veniva sempre portandole borse piene di roba da mangiare, libri per ragazzi e riviste, portando notizie… quelle poche che c’erano. Laurie diceva che le onde elettromagnetiche stavano diventando sempre più imprevedibili. Questo significava che nessuno ormai faceva molto uso della radio. Suzy aveva ancora la sua, benché non funzionasse dal giorno in cui le era caduta proprio mentre saliva sull’elicottero. Si era rotta e non produceva neppure scariche e fruscii, ma era una delle pochissime cose che sentiva sue.

Si scostò dalla finestra e chiuse gli occhi. Ricordare tutto ciò che era accaduto la faceva soffrire. Il senso di perdita, la solitudine, il vuoto che s’era sentita salire dentro in quella Manhattan piatta e desolata. Soltanto due settimane più tardi era atterrato l’elicottero, per condurla al grosso idrovolante ammarato al largo della costa…

Poi era stata trasportata attraverso l’oceano in Inghilterra, e le avevano trovato un appartamentino — ammobiliato — a Londra, un posto intimo e piacevole dove per la maggior parte del tempo si sentiva a suo agio. E Laurie veniva a portarle tutto ciò di cui aveva bisogno.

Ma quel giorno non s’era vista, e col buio non era mai venuta. La neve era molto spessa e molto luminosa. Incantevole.

Stranamente Suzy non si sentiva affatto sola.

Chiuse la finestra per tenere fuori l’aria fredda. Poi si fermò davanti all’alto specchio dello sportello del guardaroba e osservò lo scintillio dei fiocchi di neve che presi nei suoi capelli cominciavano a fondersi. Questa vista la fece sorridere.

Aprì l’armadio e guardò nella penombra dentro di esso. Il termosifone gorgogliava, proprio come quello di casa sua. — Salve — disse ai vestiti appesi alle poche grucce. Tirò fuori l’abito lungo che aveva indossato alla festa da ballo all’ambasciata sei mesi prima. Era di un bellissimo verde smeraldo e le stava meravigliosamente.

Da allora non l’aveva più messo, e questa era una vergogna.

Stando vicina al termosifone si tolse quello che indossava, quindi aprì la lampo sul dietro dell’altro e lo infilò, lisciandosi la parte bassa sulle ginocchia. La gonna si corresse.

Non l’avrebbero presentata alla regina senza un abito di quel genere, le aveva sussurrato Laurie. Questo le era parso sensato.

Si tirò su le spalline e fece scivolare i seni nelle coppette della scollatura. Poi tirò su la lampo fin dove ci riusciva e tornò allo specchio, tenendo ferma la testa ma girando il corpo da una parte e dall’altra, e sorrise a se stessa. Nei primi mesi era stata molto popolare all’ambasciata. Tutti la trovavano attraente. Ma il traffico s’era fatto sempre più problematico, l’ambasciata era lontana, e pian piano avevano smesso di cercarla.

Incapace di staccare gli occhi dalla bella ragazza che la fissava dallo specchio, Suzy pensò che non le sarebbe importato di morire in quel momento.

Fuori era tutto stupendo. Anche il gelo aveva una sua bellezza. Era un freddo diverso da quello di New York, e non perché quello era un freddo inglese. Il freddo, immaginava lei, aveva un sapore diverso in ogni posto.

Se fosse morta sarebbe risalita su lungo quella nevicata ardente, su fin dentro le nuvole scure che dormivano nel cielo. Avrebbe potuto volare in cerca della Mamma e di Kenny e di Howard. Molto probabilmente loro non erano lassù in quelle nuvole, ma lei sapeva che non erano morti…

Suzy si accigliò. Se non erano morti allora lei come avrebbe potuto trovarli morendo? Era così stupida! Odiava essere stupida. Lo aveva sempre odiato.

E tuttavia… Mamma le aveva detto tante volte che lei era una persona meravigliosa, e che faceva sempre del suo meglio (anche se c’era sempre qualcosa di meglio cui aspirare). Suzy era cresciuta volendo bene a se stessa, volendo bene agli altri, e non voleva diventare qualcun altro o qualcos’altro solo per…

Non voleva cambiare solo per essere migliore. Anche se c’era sempre qualcosa di meglio cui si doveva aspirare.

Tutto era molto confuso. Ogni cosa stava cambiando. Morire l’avrebbe fatta cambiare. Se questo non le importava, allora…

La neve stava emettendo un suono, all’esterno. Tese gli orecchi verso la finestra e udì un piacevole ronzio simile a quello delle api su un prato in fiore. Un suono caldo per un panorama freddo.

— Quant’è strano — disse. — Sì, quant’è strano, quant’è strano. — Cominciò a canticchiare quelle parole ma la canzone era sciocca e non diceva quel che lei provava, perché ora si sentiva. …

Consenziente.

Forse non era la neve a emettere quel suono, ma il vento. Ripulì un vetro della finestra dalla patina d’umidità condensata e indietreggiò fino al letto per spegnere la luce e vederci meglio. Se la neve svolazzava da una parte e dall’altra, allora era il vento a produrre quel suono. Non sembrava per nulla un rumore di vento.

Consenziente e sola.

Dov’era Laurie? Dov’erano tutti. In casa, a guardare la neve che cadeva, proprio come lei. Ma Laurie probabilmente aveva Yves con sé. Non era bello essere sola nella…

d’improvviso deglutì, gli occhi pieni di lacrime

sì, era questo, poteva sentirlo

… l’ultima notte del mondo.

— Povera me! — gemette. Allargò la gonna e sedette davanti al tavolino. Si asciugò gli occhi. Quel suono le aveva dato il colpo di grazia. Stava soltanto diventando pazza. Stupida, come sempre.

Non spaventata, però.

Consenziente.

Lo sportello del guardaroba scricchiolò e lei si volse a guardarlo, quasi aspettandosi di vedere Narnia dietro i vestiti. (L’appartamento le era piaciuto fin dal primo momento proprio per quell’armadio.)

Nel guardaroba stava nevicando. Fiocchi di luce svolazzavano fra i suoi abiti. La ragazza ebbe un brivido e si alzò lentamente, stiracchiò la gonna e un passo dopo l’altro s’avvicinò all’armadio. Una luminosità rosa-confetto permeava tutto l’interno, il legno sul retro, i vestiti, perfino le grucce.

Chiuse lo sportello e si trovò a fissare stordita la sua immagine nello specchio. Al di là del cristallo vide se stessa circondata da un’aureola di punti luminosi, come bollicine in un bicchiere di ginger ale.

Suzy si protese in avanti. La faccia nello specchio non era esattamente la sua. Si sfiorò le labbra, poi girò la mano e i suoi polpastrelli incontrarono quelli — freddi e vitrei — dell’immagine.

La sensazione di freddo-vitreo scomparve. I suoi polpastrelli percepirono calore.

Suzy indietreggiò finché la sedia le urtò contro le gambe.

L’immagine fece un passo avanti e uscì dallo specchio, sorridendole.

Non era proprio lei stessa. Era anche sua madre. Sua nonna. E forse la sua bisnonna, o la bis-bis. Per la maggior parte Suzy, ma anche loro. Tutte in una persona. E le stavano sorridendo.

Suzy si portò le mani dietro la schiena per tirare la lampo fino in cima. L’immagine le tese le braccia diventando per un attimo sua madre, e la ragazza corse avanti immergendole il volto contro una spalla, contro la verde spallina di velluto dell’abito da sera. Non pianse.

— Non tornare nel guardaroba! — gemette con voce soffocata.

L’immagine — più Suzy, adesso — scosse il capo e la prese per mano. Fu allora che la ragazza ricordò. Quando la città trasformata era scomparsa del tutto, lasciandola in mezzo all’arena, dopo che aveva rifiutato per l’ultima volta di andare con Cary e tutti gli altri, s’era sentita sdoppiata.

Loro l’avevano replicata. Fotocopiata.

Portandosi la copia con loro proprio a quello scopo.

E adesso l’avevano rimandata indietro a incontrare la Suzy originale. La copia era cambiata, e cambiava meravigliosamente. Era una Suzy, era una madre di Suzy, era tutte le altre individualmente, ma insieme.

L’immagine condusse la ragazza fino alla parete della camera opposta alla finestra. Salirono in piedi sul letto e si sorrisero l’una in faccia all’altra.

Pronta? chiese silenziosamente l’immagine.

Suzy si volse e da sopra una spalla gettò uno sguardo alla neve ronzante, poi sentì la calda presa delle dita rafforzarsi sulle sue. Quante strette di mano da qualcuno che viene dall’America? Be’, no, non era proprio una stretta di mano.

— Ci andremo piano piano, là dove stiamo andando? — domandò.

No, fu la risposta dell’immagine, ora interamente Suzy. Gliela poté leggere negli occhi. Cary aveva ragione. Loro rafforzavano la gente.

— Bene. Sono stanca morta di andare piano.

L’immagine le fece sollevare la mano, e insieme strapparono via una striscia di carta da parati. Fu facile. Dietro di essa il muro s’era aperto e la carta si ripiegò all’infuori.

C’era la neve al di là del muro, ma non uguale alla neve oltre i vetri della finestra. Questa era una neve molto, molto più bella.

Dovevano esserci milioni di fiocchi per ogni anima viva. E danzavano tutti insieme.

— Non usciamo dal guardaroba? — volle sapere Suzy.

Il guardaroba non va dove andremo noi, disse l’immagine. Insieme piegarono un po’ le gambe, si prepararono, si tesero…

E balzarono via dal letto, fuori, attraverso l’apertura nel muro.

L’edificio intero tremò, come se un’enorme porta fosse stata sbattuta. Nella notte i fiocchi di neve ardente danzavano la loro danza Browniana. Più in alto le nuvole divennero trasparenti e Suzy s’accorse di poter guardare in tutte le direzioni contemporaneamente. Era un affascinante e spaventoso modo di vedere.

La nevicata cessò poco prima dell’alba. La terra fu un manto immobile mentre l’emisfero di tenebra passava oltre.

Il giorno spuntò con irreale stranezza, stendendo un lungo bagliore di luce grigia-arancio sull’oceano senza onde e sulla terra immobile. Dal sole offuscato si dilatarono anelli concentrici di luce.

Suzy guardò le lunghe strade estese verso l’infinito. (Era così piccola e tuttavia poteva vedere ovunque, vedere cose immense!)

I pianeti interni proiettarono lunghissime ombre nella foschia che avvolgeva lo spazio. I pianeti esterni fremettero nelle loro orbite e poi fiorirono in un caleidoscopico splendore, espandendo fredde braccia di luce per accogliere come figli prodighi le loro lune.

Per il tempo di un lungo e tremante sospiro la Terra fu unita a quel maelstrom. E quando giunse il momento, le città, i paesi, i villaggi — le case e le baracche e le tende — erano vuote come bozzoli abbandonati.

La noosfera spiegò liberamente le sue ali. E dove esse sfioravano il firmamento le stelle danzavano e festeggiavano, trasformandosi in aurei fiocchi di neve ardente.

INTERFASE

UNIVERSO PENSATO

Michael Bernard, diciannovenne o forse non proprio, sedeva a un tavolo del Klamshak di fronte a Olivia. Sopra di loro penzolavano le curve di una rete da pescatore, aragoste di plastica e galleggianti di sughero, in un insieme non molto originale.

Lei aveva appena terminato di raccontargli come aveva rotto col suo fidanzato.

Lui abbassò gli occhi sul tavolo, conscio che adesso fra loro c’era un’atmosfera molto diversa. Gli ostacoli erano stati eliminati.

— Un’ottima cena — disse Olivia. Poggiò le mani ai lati del piatto in cui restavano solo i gusci delle ostriche e le code dei gamberi. — Grazie. Sono stata davvero felice quando mi hai telefonato.

— Mi sentivo un po’ sciocco — disse Bernard. — L’ultima volta mi sono comportato proprio come un sempliciotto.

— No. Sei stato molto galante.

— Galante. Mmh! — Rise.

— Ora va tutto bene, credimi. Nei primi momenti è stato uno shock, ma…

— Immagino cos’hai provato.

— Voglio dire, quando me l’ha detto. Ho pensato che comunque avevo la scuola e potevo distrarmi con le solite cose. Come se rompere un fidanzamento fosse una cosa da niente. Mi ha fatto male soltanto quando mi ha lasciato. E poi ho pensato a te.

— Credi che mi darai un’altra possibilità?

Olivia sorrise. — Soltanto se riuscirai a farmi sentire felice come adesso.

Niente è perduto. Niente è dimenticato.

Era nel sangue e nella carne,

E ora è per sempre.

NOTE E RINGRAZIAMENTI

La mia sincera riconoscenza ad Andrew Edward Dizon, Ph. D., a John Graves, Ph. D., al Dr. Richard Dutton di Monte Wetzel e al Dr. Percy Russel per avermi dato accesso ai loro laboratori, il loro aiuto e il loro tempo prezioso. Per i dettagli ambientali ringrazio anche Marian McLean del World Trade Center, Herbert Quelle del Consolato tedesco a Los Angeles, e inoltre Ellen Datlow, Melissa Singer e Andy Porter.

Alcuni anni fa John F. Carr e David Brin mi suggerirono che il racconto originale avrebbe potuto diventare un romanzo. Stanley Schmidt, nelle mansioni di direttore di Analog, mi consigliò di sviluppare l’idea su cui si basa la trama e vedere se poteva essere qualcosa di più che una fantasia. Beth Meacham ha espresso il suo entusiasmo editoriale per il progetto del romanzo, e fornito l’indispensabile aiuto e incoraggiamento.

Mentre arrivavo a San Diego per una conferenza sull’Ibridazione e sulle Ricerche Eugenetiche ho notato la Volvo sportiva rossa di Vergil I. Ulam nel parcheggio dell’albergo. Al momento è un giovane studente del primo anno in cerca di un impiego part-time.

FINE