Lois McMaster Bujold

L'eroe dei Vor

A John

PARTE PRIMA

– Ha un visitatore, Tenente Vorkosigan – annunciò il soldato, con una sfumatura di panico che gli trapelava dal volto, poi si trasse indietro per lasciar passare l'uomo che aveva accompagnato nella camera di ospedale, e Miles lo intravide allontanarsi in fretta prima ancora che la porta si fosse richiusa alle spalle del visitatore.

Il naso camuso, gli occhi luminosi e un volto aperto e mite conferivano all'uomo una falsa aria di giovinezza che contrastava con il grigiore che gli segnava alle tempie i capelli castani. Di corporatura snella e vestito con abiti civili, nonostante la reazione del soldato alla sua vicinanza il visitatore non emanava un'aura minacciosa… anzi, quasi non emanava nessun'aura: i suoi esordi come agente segreto avevano infatti dato a Simon Illyan, Capo della Sicurezza Imperiale di Barrayar la radicata abitudine di non dare nell'occhio.

– Salve, capo – disse Miles.

– Hai un aspetto orribile – replicò Illyan, con un cortese cenno del capo. – Non prenderti il disturbo di eseguire il saluto.

Miles scoppiò in una secca risata, che gli causò dolore. Sembrava che tutto il suo corpo gli dolesse, con la sola eccezione delle braccia che, fasciate e immobilizzate dalle scapole alla punta delle dita, erano ancora intorpidite a causa dell'effetto dei paralizzatori chirurgici. Contorcendosi, cercò di cambiare posizione e di scivolare più in basso nel vano tentativo di sentirsi più comodo.

– Com'è andata l'operazione per il rimpiazzo delle ossa? – chiese Illyan.

– Più o meno come mi aspettavo in base all'esperienza fatta quando mi hanno operato alle gambe. La parte peggiore è stata quando hanno dovuto aprire il braccio destro per estrarne tutti i frammenti di osso… un lavoro lungo e noioso. Con il sinistro hanno fatto molto più in fretta, perché i pezzi erano più grossi. Adesso me ne dovrò restare qui per un po' in attesa che i medici verifichino se i trapianti di midollo hanno attecchito sulla matrice sintetica, e credo che per qualche tempo sarò un po' anemico.

– Spero che non prenderai l'abitudine di tornare da ogni missione steso su una barella.

– Questa è soltanto la seconda volta che è successo, e comunque prima o poi non mi resteranno più ossa da sostituire… entro i trent'anni potrei ritrovarmi con tutte le ossa artificiali – ribatté Miles, riflettendo con espressione cupa su quella eventualità.

Se avessero sostituito con parti artificiali oltre la metà de! suo corpo avrebbe potuto finire per essere dichiarato legalmente morto? O magari un giorno sarebbe entrato in una fabbrica di parti artificiali gridando «mamma!»? Forse però erano i sedativi a scombussolargli i pensieri…

– E cosa mi dici della tua missione? – domandò ancora Illyan, in tono deciso.

Dunque quella non era una visita dovuta all'interessamento personale, ammesso che Illyan fosse capace di una cosa del genere.

– Ha il mio rapporto – replicò Miles. con cautela.

– Come al solito, il tuo rapporto è un capolavoro di perifrasi e di minimizzazioni – dichiarò Illyan, all'apparenza per nulla irritato al riguardo.

– Ecco… chiunque potrebbe leggerlo. Non si può mai sapere.

– Non direi proprio «chiunque» – lo corresse Illyan, – ma lasciamo correre.

– Allora qual è il problema?

– Denaro. Le spese specifiche e controllabili.

Forse era a causa dei medicinali di cui era imbottito, ma Miles non riusciva a dare un senso a quella conversazione.

– Non è contento del mio lavoro? – chiese, in tono piuttosto lamentoso.

– A parte le ferite che hai riportato, i risultati della tua ultima missione sono stati soddisfacenti al massimo… – cominciò Illyan.

– È dannatamente meglio che lo siano – borbottò Miles, cupo.

– … e le tue… diciamo così, avventure sulla Terra sono ancora coperte da un segreto assoluto. Ne discuteremo in seguito.

– Prima dovrò fare rapporto ad un paio di autorità più elevate – avvertì Miles, in tono urgente.

– Lo capisco – convenne Illyan, accantonando la cosa con un cenno. – No, queste accuse risalgono alla questione Dagoola e a prima ancora.

– Accuse? – ripeté Miles, stupito.

– Dal canto mio – affermò Illyan, fissandolo con espressione pensosa, – considero ciò che l'imperatore spende per mantenere i tuoi collegamenti con i Liberi Mercenari Dendarii un prezzo accettabile dal punto di vista della sicurezza interna. Se dovessi essere assegnato in permanenza qui nella capitale, per esempio al Quartier Generale Imperiale, diventeresti in continuazione un dannato polo magnetico che attirerebbe complotti, non soltanto da parte di persone a caccia di favori o di cariche ma anche da parte di chiunque cercasse di arrivare a tuo padre attraverso te. Come sta succedendo adesso.

Miles socchiuse le palpebre, quasi concentrare lo sguardo gli permettesse di concentrare anche i suoi pensieri.

– Ah? – fece.

– In breve, ci sono certe persone della Contabilita Imperiale che stanno passando al microscopio i rapporti che hai fornito in merito alle operazioni segrete della tua flotta mercenaria, e a quelle persone piacerebbe conoscere maggiori dettagli riguardo a dove siano finite grosse somme di contanti. Più di una volta le tue ricevute relative alle sostituzioni di apparecchiature sono state esorbitanti, anche dal mio punto di vista, e quella gente sarebbe felice di dimostrare che si tratta di ripetute azioni di peculato. In questo momento una corte marziale che ti accusasse di esserti riempito le tasche a spese dell'imperatore sarebbe estremamente imbarazzante per tuo padre e per l'intera coalizione centrista.

– Le cose sono arrivate a questo punto? – esclamò Miles, stupefatto.

– Non ancora, ed ho la ferma intenzione di bloccare la manovra prima che riesca a decollare, ma per farlo mi servono maggiori dettagli. Quindi, per non procedere alla cieca, come a volte mi è capitato nelle tue imprese più intricate… anche se tu lo hai dimenticato, io ricordo ancora di quando ho trascorso un mese nella mia prigione a causa tua… – Illyan lasciò la frase in sospeso con un'espressione rovente nello sguardo.

– Ma allora si è trattato di un complotto contro mio padre – protestò Miles.

– E adesso sta succedendo la stessa cosa, se non ho sbagliato nell'interpretare i segnali che mi sono giunti. Il loro uomo nella Contabilità è però il Conte Vorvolk, un individuo dalla fedeltà deprimente che per di più gode del favore personale dell'imperatore. Vorvolk è intoccabile ma manipolabile, temo, ed è stato messo in movimento. Gli hanno fatto credere di dover svolgere un ruolo da cane da guardia e quanto più lo faremo girare a vuoto tanto più diventerà tenace: sia che si sbagli o meno, sarà necessario manovrarlo con la massima cautela.

– Che si sbagli o meno…? – sussurrò Miles, e di colpo comprese fino in fondo perché Illyan avesse scelto proprio quel momento per venirlo a trovare. No, non si era proprio trattato di ansia per un subordinato rimasto ferito: l'intento di Illyan era stato quello di interrogarlo subito dopo l'operazione, quando lui era ancora debole, stordito dai medicinali, forse confuso… – Perché non si limita a sottopormi al penta-rapido e a farla finita? – ringhiò.

– Perché sono stato informato della tua sfortunata idiosincrasia per il siero della verità – spiegò Illyan, senza scomporsi.

– Potrebbe provare a torcermi un braccio – ribatté Miles, sentendosi in bocca il sapore della bile.

– Ci ho pensato – ammise Illyan, con espressione cupa e in tono secco, – ma poi ho deciso di lasciare che fossero i medici a farlo al mio posto.

– Simon, lo sa che a volte riesce ad essere un dannato figlio di buona donna?

– Sì – confermò Illyan, tranquillo e spietato, continuando ad aspettare e a osservarlo. – Attualmente, tuo padre non si può permettere uno scandalo all'interno del suo governo, non durante questa lotta di appropriamento, quindi bisogna soffocare il complotto… vere o false che siano le accuse mosse a tuo carico. Ciò che stiamo dicendo in questa stanza rimarrà… dovrà rimanere… fra te e me, ma io devo sapere.

– Mi sta offrendo l'amnistia? – ritorse Miles, in tono sommesso e minaccioso, sentendo il cuore che cominciava ad accelerare i suoi battiti.

– Se necessario – confermò Illyan assolutamente piatto.

Miles era nell'impossibilità di serrare i pugni, ancora privi di sensibilità, ma contrasse le dita dei piedi e si trovò a faticare a respirare a causa delle pulsanti ondate d'ira che lo pervadevano, mentre la stanza sembrava ondeggiare davanti ai suoi occhi.

– Razza… di dannato… bastardo! Osi definirmi un ladro… – esplose infine, cominciando ad agitarsi nel letto e a respingere scalciando le coltri che improvvisamente lo soffocavano, mentre i monitor medici prendevano a lanciare i loro allarmi. – Come se potessi rubare a Barrayar, come se potessi rubare ai nostri morti…

Ignorando le braccia, pesi inerti che gli pendevano dalle spalle e che si agitavano vanamente, si issò in piedi con un violento sforzo dei muscoli addominali… subito le vertigini lo assalirono e si accasciò in avanti prossimo a svenire, senza poter usare le mani per frenare la caduta.

Con uno scatto, Illyan lo afferrò e lo sostenne prima che crollasse a faccia in avanti sul tappeto.

– Cosa diavolo pensi di fare, ragazzo? – esclamò, ma lo stesso Miles non ne aveva la minima idea.

– Cosa sta facendo al mio paziente! – gridò in quel momento un medico militare, irrompendo nella stanza pallido in volto. – Quell'uomo ha appena subito una grave operazione!

Se il dottore era spaventato e furente, il soldato che lo aveva seguito nella stanza era soltanto spaventato e cercò di trattenerlo sebbene fosse un suo superiore.

– Signore – sibilò, tirandolo per un braccio, – quello è il Capo della Sicurezza Illyan!

– So chi è, ma non m'importerebbe neppure se fosse il fantasma dell'Imperatore Dorca: non intendo permettergli di svolgere i suoi… affari qui – dichiarò il dottore, fissando Illyan con espressione indignata. – I suoi interrogatori, o quello che sono, dovranno avere luogo nel suo dannato quartier generale, perché non intendo permettere che nel mio ospedale succedano cose del genere. Questo paziente non è ancora stato dimesso!

Illyan parve dapprima sconcertato e poi indignato.

– Io non stavo…

Per un momento Miles prese in considerazione l'eventualità di serrarsi ad arte alcune terminazioni nervose del corpo e di mettersi ad urlare, ma scartò l'idea per il semplice fatto che per ora non era in grado di serrare assolutamente niente.

– Le apparenze possono essere così ingannevoli – mormorò invece all'orecchio di Illyan, abbandonandosi al sostegno delle sue braccia con un sorriso cattivo sulle labbra contratte. Il corpo gli tremava tutto per lo sforzo sostenuto e il sudore freddo che gli imperlava la fronte non era una finzione.

Illyan lo fissò con espressione accigliata ma lo riadagiò sul letto con estrema cautela.

– È tutto a posto – annaspò Miles, rivolto al dottore. – È tutto a posto. Mi sono soltanto… soltanto… – Alterato non sembrava un termine adeguato a descrivere ciò che aveva provato, perché per un istante gli era parso che gli avessero fatto saltare il cervello. – Non importa – concluse, sentendosi orribilmente confuso al pensiero che Illyan dubitasse della sua integrità.

Illyan, che lui conosceva da tutta la vita, della cui fiducia aveva implicitamente supposto di godere, altrimenti perché gli avrebbe assegnato missioni così indipendenti e in luoghi tanto lontani?… Era stato così orgoglioso di tutta quella fiducia concessa ad un ufficiale ancora tanto giovane, della poca supervisione effettuata sulle sue operazioni segrete… possibile che tutta la sua carriera non fosse stata un servizio di cui l'Impero aveva disperatamente bisogno ma soltanto uno stratagemma per tenere lontano un cucciolo Vor pericolosamente goffo? Soldati giocattolo… no, questo non aveva senso. Peculato! Una parola orribile che lasciava una macchia sul suo onore e sulla sua intelligenza… come se lui non avesse saputo da dove e a che prezzo arrivavano i fondi imperiali!

L'ira si trasformò in un cupo senso di depressione, perché si sentiva veramente ferito e oltraggiato. Possibile che Illyan… Illyan!… avesse creduto davvero, anche per un solo, ipotetico momento…

Sì, era possibile, altrimenti non sarebbe venuto lì: se non avesse sinceramente temuto che le accuse potessero risultare vere non lo avrebbe fatto. Con suo sgomento, Miles scoprì che stava piangendo in silenzio… dannazione a quei medicinali!

Intanto Illyan lo stava scrutando con notevole inquietudine.

– In un modo o nell'altro, Miles, domani dovrò giustificare le tue spese… che sono le spese del mio dipartimento.

– Preferirei essere sottoposto a corte marziale.

– Tornerò più tardi – decise Illyan, serrando le labbra, – quando avrai avuto la possibilità di dormire. Forse allora sarai più coerente.

Il dottore si prese quindi cura di lui, iniettandogli altri dannati medicinali, e se ne andò. Con l'animo pesante come il piombo Miles girò il volto verso la parete, non per dormire ma per ricordare.

PARTE SECONDA

– Ti senti meglio? – chiese Illyan, cauto.

– Un po' – replicò Miles, soppesando le parole, e attese. Oh, sì, adesso poteva battere Illyan in quel gioco.

Il capo della sicurezza avvicinò una sedia al letto e si sedette accanto a lui, fissandolo con le labbra contratte in una smorfia.

– Le mie… scuse, Lord Vorkosigan, per aver dubitato della tua parola.

– Me le deve – convenne Miles.

– Sì. Tuttavia… – proseguì Illyan, con l'espressione accigliata e lo sguardo perso in lontananza, – mi chiedo, Miles, se tu ti sia mai reso conto fino a che punto, come figlio di tuo padre, tu debba non soltanto essere onesto ma anche apparire tale.

– Come figlio di mio padre… no – ribatté Miles, secco.

– Forse no – convenne Illyan, sbuffando involontariamente. – Comunque sia – proseguì, tamburellando con le dita, – il Conte Vorvolk ha notato due discrepanze nei rapporti da te presentati riguardo alle operazioni segrete dei tuoi mercenari: un assurdo eccesso di costi in quella che avrebbe dovuto essere la cosa più semplice, un prelevamento di persona. Mi rendo conto che la faccenda di Dagoola ti è esplosa fra le mani, ma cosa puoi dirmi di quella prima volta?

– Quale prima volta?

– Stanno rianalizzando il prelevamento che hai fatto dal Gruppo Jackson, e la loro teoria è che essendo riuscito con successo a nascondere il peculato in quell'occasione avresti poi ritentato su scala più ampia a Dagoola.

– Ma è successo quasi due anni fa! – protestò Miles.

– Stanno andando in profondità e stanno frugando con attenzione – confermò Illyan. – Se appena è possibile, ti vogliono inchiodare pubblicamente, ed io sto cercando di confiscare loro il martello. Dannazione – aggiunse in tono irritato, – non mi guardare in quel modo… non c'è nulla di personale in questo. Se tu fossi figlio di chiunque altro la questione non sarebbe stata neppure sollevata… lo sai tu, lo so io e lo sanno anche loro. La revisione delle omissioni finanziarie da parte di un noiosissimo Vor non è la mia idea di divertimento, e la sola speranza che ho è quella di farlo stancare al punto di indurlo a desistere. Quindi cedi e dimmi tutto.

– Come sempre, signore, sono a sua disposizione – sospirò Miles. – Cosa vuole sapere?

– Spiegami il perché del conto relativo alle apparecchiature per il prelevamento sul Gruppo Jackson.

– Credevo di aver dettagliato tutto nel rapporto che ho fornito all'epoca – obiettò Miles, cercando di ricordare.

– Dettagliato, sì… spiegato no.

– Abbiamo lasciato la metà di un carico di armi di classe superiore sui moli di attracco della Stazione Fell… se non lo avessimo fatto lei avrebbe potuto trovarsi con uno scienziato, una nave e un subordinato in meno.

– Davvero? – commentò Illyan, premendosi le dita contro le tempie e appoggiandosi allo schienale della sedia. – Perché?

– Ah… è una storia lunga e complicata – replicò Miles, sorridendo suo malgrado nel ricordarla. – Tutto questo potrà rimanere fra lei e me?

– D'accordo – assentì Illyan, annuendo.

Il labirinto

Nel contemplare l'immagine del globo che spiccava luminoso sullo schermo visore Miles incrociò le braccia e soffocò un brivido: il pianeta del Gruppo Jackson, luccicante, ricco, corrotto…

I Jacksoniani sostenevano che la loro corruzione era interamente importata e che se la galassia fosse stata disposta a pagare per la virtù quello che pagava per il vizio loro avrebbero trasformato il pianeta in un centro di pellegrinaggio. Dal suo punto di vista Miles riteneva che quel ragionamento somigliasse ad una discussione intesa a stabilire se fossero più marci i vermi o la carne putrescente di cui si nutrono. Tuttavia, se il Gruppo Jackson non fosse esistito la galassia avrebbe probabilmente dovuto inventarlo, e per quanto si mostrassero inorriditi i pianeti vicini non gli avrebbero permesso di esistere se in segreto non lo avessero considerato un'utile interfaccia con la loro sottoeconomia.

In ogni caso, il pianeta possedeva una certa vitalità, anche se non era vivace come lo era stato un paio di secoli prima, quando era la base di un gruppo di dirottatori; adesso le sue bande di criminali e di tagliagole si erano trasformate in senili sindacati monopolistici che per struttura e stabilità somigliavano addirittura a piccoli governi e formavano una sorta di aristocrazia. Era un deterioramento prevedibile e Miles si chiese per quanto tempo ancora le principali Case sarebbero riuscite a tenere a bada l'avanzare della marea dell'integrità.

La Casa Dyne, specializzata in riciclaggio… lavate il vostro denaro sul Gruppo Jackson; la Casa Fell, che commerciava in armi senza fare domande imbarazzanti; la Casa Bharaputra, che si occupava di genetica illegale; la peggiore, la Casa Ryoval, il cui motto era «Sogni Fatti di Carne», di certo la più grande organizzazione di mezzani… Miles usò la parola con assoluta precisione… della storia; e la Casa Hargraves, la barriera galattica, il cui campo era la mediazione nei riscatti… la Casa incassava i crediti e in cambio il più delle volte faceva riavere gli ostaggi illesi tramite i suoi buoni uffici. E poi c'erano una dozzina di sindacati più piccoli, legati fra loro da svariate e mutevoli alleanze.

Perfino noi vi troviamo utili, pensò Miles, premendo un pulsante e facendo scomparire l'immagine dallo schermo. Con le labbra arricciate in un'espressione di disgusto richiamò l'inventario per un ultimo controllo della lista degli acquisti da fare, mentre un sottile cambiamento nelle vibrazioni della nave lo avvertiva che essa stava modificando l'orbita per adeguarla a quella del pianeta… l'incrociatore veloce Ariel avrebbe attraccato entro un'ora alla Stazione Fell.

La consolle stava emettendo il complesso disco di dati relativi all'ordinativo di armi quando il cicalino della porta della cabina trillò, seguito dal suono di una voce da contralto che scaturì dal comunicatore.

– Ammiraglio Naismith?

– Avanti – rispose Miles, riponendo il disco e appoggiandosi allo schienale della sedia.

– Attraccheremo entro trenta minuti circa – avvertì il Capitano Thorne, entrando con un amichevole cenno di saluto.

– Grazie, Bel.

Bel Thorne, il comandante dell'Ariel, era un ermafrodita betano, un uomo/donna che era il risultato di un esperimento genetico effettuato secoli prima… un esperimento che a parere di Miles era altrettanto bizzarro quanto ciò che secondo le voci correnti i chirurghi privi di etica della Casa Ryoval erano disposti a fare per denaro.

L'ermafroditismo, che era stato il folle risultato ultimo di un tentativo marginale di egalitarismo betano, non aveva attecchito e i discendenti degli originali idealisti costituivano adesso una minoranza sull'ipertollerante Colonia Beta… con l'eccezione di pochi girovaghi come Bel. Thorne era un ufficiale mercenario coscienzioso, fedele e aggressivo, e Miles lo/la trovava simpatico/a… esprimersi per definirlo/a era difficile, perché i Betani usavano abbondantemente il pronome neutro. Tuttavia…

Da dove si trovava, Miles poteva avvertire il profumo floreale di Bel, segno che quel giorno l'ermafrodita stava enfatizzando il lato femminile della sua personalità, come aveva fatto in maniera sempre maggiore durante tutti i cinque giorni di viaggio. In genere, Bel sceglieva di presentarsi come un maschio di aspetto un po' ambiguo dai morbidi capelli corti e castani, con i lineamenti glabri e cesellati controbilanciati dalla divisa militare dendarii grigia e bianca, da un comportamento assertivo e da un umorismo pungente… e Miles era estremamente preoccupato dai cambiamenti che Bel manifestava in sua presenza. Girandosi verso lo schermo olovisore del computer, Miles richiamò nuovamente l'immagine del pianeta a cui si stavano avvicinando. Da quella distanza il Gruppo Jackson appariva decisamente innocuo con le sue montagne piuttosto fredde… l'equatore era la sola zona popolata e aveva un clima soltanto temperato… cinto sullo schermo da uno schematico merletto di tracce colorate emesse dai satelliti, dalle stazioni di trasferimento orbitanti e dai vettori di avvicinamento autorizzato.

– Sei mai stato qui prima d'ora, Bel? – domandò.

– Una volta, quando ero tenente nella flotta dell'Ammiraglio Oser – rispose il mercenario. – Da allora la Casa Fell ha cambiato barone, ma le loro armi godono ancora di una buona reputazione, a patto che si sappia cosa comprare. Tieniti alla larga dalle vendite di granate neutroniche.

– Hah! Sono fatte per chi ha braccia robuste per lanciarle. Non temere, le granate non sono sulla lista – replicò Miles, porgendogli il dischetto.

Bel si avvicinò e si protese sullo schienale della sua sedia per prenderlo.

– Mentre aspettiamo che i seguaci del barone stivino il carico devo concedere licenze di sbarco? E tu che intenzioni hai? Una volta vicino agli attracchi c'era un ostello con tutte le comodità: piscina, sauna, cibo ottimo… potrei prenotare una stanza per due – concluse, abbassando la voce.

– Pensavo di concedere soltanto licenze di una giornata – affermò Miles, schiarendosi la gola.

– Io sono anche una donna – sottolineò Bel, in tono sommesso.

– Fra le altre cose.

– Sei decisamente monosessuale senza speranza, Miles.

– Mi dispiace. – Con imbarazzo, Miles batté un colpetto sulla mano che chissà come aveva finito per posarsi sulla sua spalla.

– Dispiace a molti – sospirò Bel, raddrizzandosi.

Miles sospirò a sua volta, pensando che forse avrebbe dovuto esprimere il proprio rifiuto in termini più netti… era all'incirca la settima volta che si trovava costretto ad affrontare quell'argomento con Bel, al punto che ormai era diventato quasi un rituale, quasi… ma non del tutto… uno scherzo. Bisognava riconoscere che il Betano era ottimista oppure ottuso ad oltranza… oppure, aggiunse onestamente Miles, animato da sentimenti genuini. Sapeva che se si fosse girato avrebbe sorpreso negli occhi dell'ermafrodita un'espressione di solitudine a cui non era mai concesso di affiorare sulle labbra, ed evitò di voltarsi.

Del resto, rifletté con una certa contrizione, come poteva giudicare proprio lui, il cui corpo era fonte di ben poche gioie? Come poteva Bel… eretto, sano e di altezza normale anche se con un apparato genitale insolito… trovare qualcosa di attraente in un individuo basso, con le gambe sintetiche e un po' pazzo come lui? Abbassò quindi lo sguardo sull'uniforme bianca e grigia che aveva indosso, l'uniforme che si era conquistato.

Se non puoi essere alto due metri cerca di essere due volte furbo, era il suo motto, ma finora la ragione non era riuscita a fornirgli una soluzione al problema costituito da Thorne.

– Hai mai pensato di tornare sulla Colonia Beta per cercare un compagno della tua razza? – gli chiese, in tono serio.

– Troppo noiosi – replicò Thorne, scrollando le spalle. – È per questo che me ne sono andato. Tutto è così sicuro, così ristretto…

– Bada, è un posto perfetto per allevare i bambini – commentò Miles, con le labbra increspate da un sorriso.

– Sembri un Betano quasi perfetto, sai? – sorrise a sua volta Thorne. – Quasi. Hai l'accento, conosci le nostre battute…

– In cosa ho ancora dei difetti? – chiese Miles, irrigidendosi appena.

– Nei riflessi – spiegò Thorne, sfiorandogli una guancia con un gesto che gli strappò un piccolo sussulto.

– Ah.

– Non ti tradirò.

– Lo so.

– Però potrei limare quegli ultimi particolari… – suggerì Thorne, protendendosi ancora in avanti.

– Lascia perdere – replicò Miles, arrossendo leggermente. – Abbiamo una missione da compiere.

– Un inventario – commentò Thorne, in tono sprezzante.

– Quello non è la missione – spiegò Miles, – è la nostra copertura.

– Hah! – esclamò Thorne, raddrizzandosi. – Finalmente.

– Finalmente?

– Non ci voleva un genio per capirlo. Siamo venuti per presentare un ordine di acquisto, ma invece di prendere la nave con la massima capacità di carico abbiamo preso l'Ariel… la nave più rapida della flotta. Inoltre non c'è lavoro di routine più noioso di un inventario, ma invece di mandare un quartiermastro competente, che sarebbe bastato, tu hai insistito per sovrintendere di persona alla cosa.

– Voglio contattare il nuovo Barone Fell – affermò Miles, in tono pacato. – La Casa Fell è la maggiore fornitrice di armi al di qua della Colonia Beta ed è molto meno schizzinosa in merito ai suoi clienti. Se mi piacerà la qualità di questa prima fornitura potremmo diventare clienti regolari.

– Un quarto delle armi dei Fell sono fabbricate su Beta e contraffatte – sottolineò Thorne. – Di nuovo… ha!

– E già che siamo qui – proseguì Miles, – un certo uomo di mezz'età si presenterà a bordo e si arruolerà nei Mercenari Dendarii come tecnico medico. A quel punto tutti i permessi di licenza saranno annullati, finiremo di caricare la merce il più in fretta possibile e ce ne andremo.

– Un prelevamento – sorrise Thorne, soddisfatto. – Ottimo. Devo supporre che ci paghino bene?

– Benissimo, a patto che la persona in questione arrivi a destinazione viva. Si dà il caso che quell'uomo sia un genetista, il principale ricercatore genetico dei laboratori della Casa Bharaputra, a cui è stato offerto asilo da un governo planetario capace di proteggerlo dalle lunghe mani del Barone Luigi Bharaputra… ci aspettiamo che il suo quasi ex-datore di lavoro sarà estremamente infuriato da questa partenza senza il consueto preavviso di un mese, e noi siamo pagati perché consegnamo la persona in questione ai suoi nuovi padroni ancora viva e senza che tutti i suoi… segreti del mestiere le siano stati estorti.

«Dal momento che con ogni probabilità il Barone Luigi Bharaputra potrebbe senza difficoltà comprare e rivendere l'intera Flotta dei Liberi Mercenari Dendarii con le sue riserve di spiccioli, anch'io preferirei evitare i suoi uomini, quindi ci presenteremo come innocenti babbei… tutto quello che abbiamo fatto è stato assumere un tecnico medico, e noi stessi mostreremo di essere infuriati quando lui diserterà non appena saremo arrivati al punto d'incontro con la flotta, nelle vicinanze di Escobar.

– Mi sembra un buon piano – commentò Thorne. – Semplice.

– Spero che lo sia – sospirò Miles. Dopo tutto, perché escludere a priori che per una volta ogni cosa andasse come progettato?

Gli uffici di vendita e di esposizione delle letali mercanzie della Casa Fell erano situati non troppo lontano dai moli di attracco e la maggior parte dei piccoli clienti della Casa non penetrava mai più di così nella Stazione Fell. Tuttavia non appena Miles e Thorne presentarono il loro ordine, lungo quanto bastava per richiedere una verifica della loro carta di credito, un individuo ossequioso che portava l'uniforme di seta verde della Casa Fell li avvicinò e mise nella mano dell'Ammiraglio Naismith un invito a partecipare ad un ricevimento negli alloggi privati del barone stesso.

Quattro ore più tardi, dopo aver consegnato il cubo-lasciapassare al maggiordomo che controllava l'ingresso sigillato del settore privato della stazione, Miles diede un'ultima occhiata a se stesso e a Thorne per vedere l'effetto che avrebbero avuto. L'uniforme di gala dendarii era formata da una giacca di velluto grigio bordato di bianco con bottoni d'argento sulle spalle, calzoni dello stesso materiale con il profilo laterale e stivali di pelle scamosciata sintetica grigia… il tutto forse un po' affettato, ma del resto non era stato Miles a disegnare quel modello, l'aveva soltanto ereditato e doveva ora portarlo.

L'interfaccia di collegamento al settore privato era estremamente interessante e Miles ne approfittò per osservarla mentre il maggiordomo esaminava entrambi con i sensori alla ricerca di eventuali armi nascoste: i sistemi di supporto vitale… e in effetti tutti i sistemi… davano l'impressione di funzionare indipendentemente da quelli del resto della stazione e l'intera area era non soltanto sigillabile ma anche distaccabile dal resto, al punto che non poteva essere definita tanto una stazione quanto una nave, completa di motori e di armamenti che Miles era certo essere situati da qualche parte… anche se sapeva che cercarli senza una scorta e senza autorizzazione avrebbe potuto risultare letale.

– L'Ammiraglio Miles Naismith, comandante della Flotta dei Liberi Mercenari Dendarii – annunciò il maggiordomo nel comunicatore da polso, mentre li invitava a passare, – e il Capitano Bel Thorne, comandante dell'incrociatore veloce Ariel, della Flotta dei Liberi Mercenari Dendarii.

Osservandolo, Miles si chiese chi stesse ricevendo quelle informazioni.

La camera di ricevimento era ampia e arredata con grazia con scale fluttuanti e iridescenti e diversi livelli che creavano intimità senza distruggere l'illusione di ampiezza; ogni uscita (Miles ne contò sei) aveva nelle sue immediate vicinanze una grossa guardia vestita di verde che cercava di apparire un servitore e non ci riusciva molto bene, e un'intera parete era formata da una vertiginosa finestra trasparente che si affacciava sugli affollati moli di attracco della Stazione Fell e sulla curva del Gruppo Jackson che al di là di essa divideva in due l'orizzonte punteggiato di stelle. Numerose donne che indossavano sari di verde seta frusciante si muovevano fra gli ospiti offrendo da mangiare e da bere.

Dopo aver lanciato un'occhiata agli altri ospiti, Miles decise che il velluto grigio costituiva una scelta davvero moderata di vestiario, al punto che lui e Bel avrebbero potuto benissimo confondersi con la tappezzeria a confronto dello svariato assortimento di abiti tagliati secondo l'ultima moda planetaria sfoggiati dallo sparuto gruppo degli altri clienti privilegiati. Questi erano però guardinghi e divisi in piccole delegazioni che restavano separate e non si mescolavano le une alle altre: a quanto pareva i guerriglieri non parlavano con i mercenari, i contrabbandieri non familiarizzavano con i rivoluzionari e i Santi Gnostici, naturalmente, parlavano soltanto con l'Unico vero Dio e forse con il Barone Fell.

– Davvero una bella festa – commentò Bel. – Mi ricorda uno spettacolo di animali a cui sono stato una volta, che aveva un'atmosfera simile a questa. Il momento più interessante è stato quando la lucertola periata taucetana di qualcuno si è liberata ed ha mangiato il miglior attore canino dello spettacolo.

– Zitto – sorrise Miles, parlando senza farsi notare. – Questi sono affari.

Una donna vestita con un sari verde s'inchinò in silenzio davanti a loro e offrì un vassoio; in risposta a quel gesto Thorne inarcò un sopracciglio in direzione di Miles, come per chiedergli se potevano rischiare.

– Perché no? – mormorò lui. – Alla lunga pagheremo anche per questo e del resto dubito che il barone avveleni i suoi clienti, perché è una cosa che rovina gli affari… e gli affari sono ciò che domina qui, un capitalismo permissivista portato all'estremo limite.

Scelta una tartina rosa che aveva la forma di un loto, vi abbinò una misteriosa bevanda dall'aspetto nebuloso e Thorne lo imitò. La tartina risultò essere purtroppo fatta di pesce crudo che strideva sui denti, ma Miles la ingoiò lo stesso, non potendo fare altrimenti; la bevanda si rivelò altamente alcoolica e dopo un piccolo sorso per cancellare il sapore della tartina Miles l'abbandonò con rincrescimento sulla prima superficie piana che riuscì a trovare, perché il suo corpo minuto rifiutava di assimilare a dovere l'alcool e lui non aveva nessun desiderio di incontrare il Barone Fell in stato semicomatoso oppure in preda ad un'ilarità irrefrenabile. Più fortunato da un punto di vista metabolico Thorne continuò invece a tenere in mano il bicchiere.

In quel momento una musica davvero straordinaria cominciò a scaturire da un punto imprecisato. Si trattava di un vasto assortimento di ricche e complesse armonie e Miles non riuscì ad identificare lo strumento… anzi, gli strumenti che la producevano. Lui e Thorne si scambiarono un'occhiata e di comune accordo si spostarono nella direzione da cui proveniva il suono, aggirando una scala a spirale fino a trovare, sullo sfondo della panoplia formata dalla stazione, dal pianeta e dalle stelle, il celato musicista. Nel guardarlo Miles sgranò involontariamente gli occhi, pensando che questa volta i chirurghi della Casa Ryoval si erano spinti davvero troppo oltre.

Piccole scintille colorate e decorative definivano i contorni del campo sferico di una grande bolla al cui interno la gravità era nulla e nella quale fluttuava una donna, le cui quattro braccia color avorio spiccavano sullo sfondo degli abiti di seta verde mentre lei suonava. La donna indossava un'ampia giacca simile ad un kimono fermata in vita da una cintura e abbinata ad un paio di pantaloncini corti dai quali la seconda coppia di braccia emergeva là dove ci sarebbero dovute essere le gambe; i capelli erano corti, morbidi e neri come l'ebano, gli occhi erano chiusi e il volto roseo aveva la stessa serenità di quello di un angelo, elevata, remota e terrificante.

Lo strano strumento che la donna suonava era fisso nell'aria davanti a lei, una piatta e lucida struttura di legno in cui era inserito in alto e in basso uno stupefacente assortimento di fili tesi e lucenti, con la cassa acustica nel centro; la donna colpiva quei cavi con martelletti rivestiti di feltro che muoveva con rapidità incredibile su entrambi i lati, le mani superiori che agivano in contrappunto rispetto a quelle inferiori fino a produrre una cascata di musica.

– Buon Dio, è una quaddie – esclamò Thorne.

– Una cosa?

– Una quaddie, ed è molto lontana da casa.

– Non… non è un prodotto locale?

– Assolutamente no.

– Penso di esserne sollevato. Allora da dove diavolo viene?

– Circa duecento anni fa… più o meno nell'epoca in cui sono stati inventati gli ermafroditi – spiegò Thorne, mentre sul volto gli affiorava per un istante un'espressione stranamente asciutta, – c'è stata quest'ondata di esperimenti genetici sugli umani, condotta sulla scia dello sviluppo del pratico replicatore uterino. Subito dopo è stata varata in tutta fretta una legge che poneva delle restrizioni, ma nel frattempo qualcuno aveva già pensato a creare una razza di individui che potessero vivere in assenza di gravità… poi si è scoperto come produrre la gravità artificiale e i quaddie non hanno più avuto ragione di esistere. Di conseguenza sono fuggiti… e i loro discendenti sono andati a finire in un luogo sperduto, molto al di là della Terra rispetto a noi del Nesso. Corre voce che si tengano molto isolati ed è davvero insolito vederne uno al di qua della Terra. Ora però ascoltiamo – concluse, perdendosi nella musica con le labbra socchiuse.

Insolito quanto trovare un ermafrodita betano in una flotta mercenaria, pensò Miles, ma la musica della donna meritava veramente un'attenzione assoluta, anche se ben pochi in quell'accolita di paranoici sembravano rendersene conto, il che era una vergogna. Miles non era un musicista ma perfino lui poteva avvertire l'intensità della passione di quell'esecuzione che andava al di là del talento e sfiorava la genialità, quella di un genio evanescente che intesseva i suoi suoni di tempo e, come il tempo, li faceva recedere al di fuori della vana stretta dell'ascoltatore fino ad affidarli soltanto alla memoria.

Il fluire della musica cedette il posto ad un'eco tormentosa e poi al silenzio, ed allora la musicista aprì gli occhi azzurri mentre il suo viso perdeva la propria espressione eterea e tornava ad essere semplicemente umano, teso e triste.

– Ah – sussurrò Thorne, infilandosi il bicchiere vuoto sotto il braccio e sollevando le mani come per applaudire… ma all'ultimo momento si fermò, esitando a dare nell'occhio in quella camera piena di gente indifferente.

Miles, dal canto suo, era deciso a non farsi notare.

– Forse le puoi parlare – suggerì, come alternativa.

– Tu credi? – chiese Thorne, illuminandosi in viso, poi si mosse in avanti con un certo imbarazzo, chinandosi per posare il bicchiere sul pavimento in modo da poter sollevare e appoggiare le mani alla bolla scintillante – Uh… – cominciò, esibendo un sorriso al tempo stesso affascinato e propiziatorio, ma la voce gli si spense in gola.

Buon Dio, Bel a corto di parole? Non pensavo che avrei mai visto una cosa del genere, pensò Miles.

– Domandale come chiama quello strumento che suona – suggerì ad alta voce, per aiutare il compagno.

La donna a quattro braccia piegò il capo da un lato con espressione incuriosita e fluttuò con grazia oltre lo strumento per librarsi cortesemente davanti a Thorne, dall'altro lato della barriera lucente.

– Sì? – fece.

– Come chiami quello straordinario strumento? – domandò Thorne.

– È un salterio doppio a martelletto, signora… signore… – Nel timore di aver arrecato un'offesa, la donna perse per un momento il suo tono di un servitore che si rivolgeva ad un ospite. – Ufficiale.

– Sono il Capitano Bel Thorne – le venne subito in aiuto Bel, che stava cominciando a ritrovare il consueto disinvolto equilibrio, – al comando dell'incrociatore veloce dendarii Ariel, al tuo servizio. Come hai fatto ad arrivare fin qui?

– Mi sono pagata lavorando il viaggio fino alla Terra. Ero alla ricerca di un impiego e il Barone Fell mi ha assunta – spiegò la donna, scuotendo il capo come per respingere qualsiasi critica sottintesa, anche se Bel non ne aveva avanzate.

– Sei una vera quaddie?

– Hai sentito parlare del mio popolo? – chiese lei, inarcando le sopracciglia scure in un'espressione sorpresa. – La maggior parte delle persone che incontro qui pensa che io sia una stranezza artefatta - aggiunse, con una sfumatura di amarezza sardonica nella voce.

– Essendo un Betano – spiegò Thorne, schiarendosi la gola, – ho studiato la storia dell'iniziale esplosione della genetica con un interesse alquanto personale. Vedi, io sono un ermafrodita betano – aggiunse, schiarendosi nuovamente la gola e attendendo con ansia una reazione.

Dannazione, Bel non aspettava mai le reazioni altrui, si limitava a continuare per la sua strada e a lasciare che accadesse quel che doveva accadere.

Non interferirei in questo per tutto l'oro del mondo, si disse Miles, ritraendosi leggermente e sfregandosi le labbra per nascondere un sorriso che minacciava di affiorarvi alla vista di tutti gli atteggiamenti più mascolini di Thorne che tornavano ad asserirsi interiormente ed esteriormente.

La donna piegò il capo con fare interessato e sollevò una delle mani superiori per poggiarla contro la barriera scintillante, non lontano da quella di Bel.

– Davvero? Allora sei un genetico anche tu.

– Oh, sì. Dimmi, come ti chiami?

– Nicol.

– Nicol… tutto qui? Voglio dire… è un nome adorabile.

– La mia gente non usa cognomi.

– Ah. Senti… cosa fai dopo il ricevimento?

A quel punto purtroppo sopraggiunse un'interferenza.

– Su la testa, Capitano - mormorò Miles.

Immediatamente Thorne ritrovò il controllo e si fece freddo e corretto nel seguire lo sguardo di Miles, mentre la quaddie fluttuava all'indietro della barriera e congiungeva le due coppie di mani, chinando il capo per salutare l'uomo che si stava avvicinando. Perfino Miles accennò a mettersi cortesemente sull'attenti.

Georish Stauber, Barone Fell, era un uomo sorprendentemente vecchio per aver raggiunto così di recente quella posizione, e in carne ed ossa appariva ancora più anziano di quanto fosse parso nelle olografie che Miles aveva avuto modo di vedere durante la riunione informativa che aveva preceduto la missione. Il barone era quasi calvo, con una frangia di capelli bianchi che gli cingeva la testa lucida, ed aveva un aspetto grasso e gioviale che lo faceva sembrare il nonno di qualcuno… ma non quello di Miles, che era stato un uomo dal fisico sottile e rapace anche nella vecchiaia e il cui titolo di conte era stato estremamente reale e non la semplice etichetta di cortesia appiccicata ad un sopravvissuto dei Sindacati. Nel guardare il Barone Fell, Miies ricordò a se stesso che nonostante le guance rubizze e l'aspetto cordiale quell'uomo aveva scalato una montagna di cadaveri per arrivare a conquistare la posizione elevata che ora deteneva.

– Ammiraglio Naismith, Capitano Thorne, benvenuti alla Stazione Fell – tuonò il barone, sorridendo.

Miles gli rivolse un aristocratico inchino, imitato più goffamente da Thorne; nel notare il comportamento dell'amico, Miles si disse che la prossima volta avrebbe dovuto imitare la sua goffaggine, perché era sulla base di quei piccoli dettagli che si creavano… e si distruggevano… le identità fasulle.

– La mia gente si è presa cura delle vostre necessità?

– Sì, grazie – rispose Miles: fino a quel momento il barone si stava comportando come un vero e proprio uomo d'affari.

– Sono lieto di poterla finalmente incontrare – proseguì Fell. – Qui abbiamo sentito parlare parecchio di lei.

– Ma davvero? – replicò Miles, con fare incoraggiante, notando che lo sguardo del barone appariva stranamente avido e pensando che questi era un po' troppo gentile nei confronti di un mercenario da quattro soldi: quello era un atteggiamento eccessivo anche rispetto a ciò che ci si poteva ragionevolmente aspettare nei confronti di un cliente di riguardo. Si costrinse però ad allontanare ogni accenno di cautela dal proprio sorriso e s'ingiunse di avere pazienza: doveva lasciare che la sfida affiorasse, invece di precipitarsi incontro a ciò che ancora non poteva vedere.

– Spero che abbia sentito cose buone sul mio conto.

– Notevoli, direi. La sua ascesa è stata rapida nella stessa misura in cui le sue origini sono misteriose.

Dannazione, che genere di esca era quella? Il barone stava forse sottintendendo che conosceva l'identità effettiva dell'«Ammiraglio Naismith»? In quel caso ci sarebbero potuti essere guai seri e improvvisi, ma… no, la paura si stava mostrando superiore alla sua causa. Doveva aspettare, e dimenticare che una persona come il Tenente Lord Vorkosigan della Sicurezza Imperiale Barrayarana fosse mai esistita… del resto il suo corpo minuto non era abbastanza grande per entrambe le identità. D'altro canto, perché quel grasso squalo stava sorridendo con un modo di fare così ingraziante?

Incerto, Miles si limitò a piegare il capo da un lato con espressione neutra.

– La storia del successo riportato a Vervain dalla vostra flotta è arrivata perfino qui. Un vero peccato, la perdita del vostro precedente comandante.

– La morte dell'Ammiraglio Oser mi ha addolorato – replicò Miles, irrigidendosi.

– Sono cose che succedono, in affari – commentò il barone, scrollando le spalle. – Soltanto uno può comandare.

– Oser sarebbe potuto essere un eccellente subordinato.

– L'orgoglio è una cosa pericolosa – sorrise il barone.

Quindi crede che io abbia «organizzato» la morte di Oser, pensò Miles, tenendo a freno la lingua. Lasciamoglielo credere. Il fatto che in quella sala ci fossero in effetti meno mercenari di quanti sembrava e che adesso tramite Miles i Dendarii fossero diventati una branca del Servizio Imperiale Barrayarano tanto segreta che neppure la maggior parte dei Dendarii stessi ne era a conoscenza era un'informazione di tale importanza che un barone del Sindacato avrebbe dovuto essere stupido per non trovare un modo di trarne profitto. Di conseguenza si limitò a ricambiare in silenzio il sorriso del suo interlocutore.

– Lei mi interessa enormemente – proseguì intanto il barone. – Per esempio, c'è l'enigma dell'età che sembra dimostrare, e della sua precedente carriera militare.

Se non avesse già posato il bicchiere, a questo punto Miles lo avrebbe vuotato in un solo sorso… invece si limitò a serrare convulsamente le mani dietro la schiena. Dannazione, le rughe incise dalla sofferenza non lo invecchiavano a sufficienza, e se il barone era davvero riuscito a vedere al di là dello pseudomercenario il ventitreenne tenente della Sicurezza… eppure, di solito gli riusciva di mantenere la finzione.

– Le voci che ho sentito in merito al trattamento di ringiovanimento betano a cui lei si sarebbe sottoposto sono altrettanto vere? – domandò ancora il barone, abbassando la voce.

Allora era di questo che si trattava… Miles provò un sollievo tanto intenso da essere quasi prossimo a svenire.

– E che interesse potrebbe avere lei per un trattamento del genere, signore? – chiese, balbettando appena. – Credevo che il Gruppo Jackson fosse la dimora dell'effettiva immortalità. Si dice che qui alcuni siano addirittura al loro terzo corpo clonato.

– Ma io non sono uno di essi – confessò il barone, con un certo rincrescimento.

Miles inarcò le sopracciglia in un'espressione di genuina sorpresa, pensando che di certo era impossibile che quell'uomo rifiutasse il procedimento considerandolo un omicidio.

– Qualche sfortunato impedimento medico? – chiese, infondendo voluta compassione nel proprio tono di voce. – Mi rincresce, signore.

– In un certo senso si tratta di questo – replicò il barone, con un sorriso dalla sfumatura tagliente. – L'operazione per il trapianto del cervello già di per sé uccide una certa percentuale di pazienti…

Già, pensò Miles, a cominciare dal 100% dei cloni, il cui cervello viene eliminato per fare posto…

– … ed un'altra percentuale subisce una svariata serie di danni permanenti. Si tratta dei rischi che tutti devono correre per avere quella ricompensa.

– Ma essa è così grande…

– Ci sono però alcuni pazienti, indistinguibili dagli altri, che non muoiono per incidente sul tavolo operatorio, se i loro nemici hanno l'astuzia e i mezzi per organizzare la cosa. Ed io ho molti nemici, Ammiraglio Naismith.

Miles abbozzò un piccolo gesto con una mano, come per dire che non lo avrebbe mai pensato, e continuò a fingere un estremo interesse.

– Attualmente calcolo che le mie probabilità di sopravvivere ad un trapianto del cervello siano leggermente inferiori alla media – proseguì il barone, – e questo spiega il mio interesse per i metodi alternativi.

E fece una pausa piena di aspettativa.

– Oh – commentò Miles, fissandosi le unghie e riflettendo in fretta. – È vero, una volta ho preso parte ad un… esperimento non autorizzato, che è risultato essere prematuro, un passaggio troppo affrettato dagli esperimenti sugli animali ad un tentativo sull'uomo. Non ha avuto successo.

– No? – chiese il barone. – Lei però sembra in buona salute.

– Sì, ci sono alcuni benefici inerenti ai muscoli, al tono della pelle e ai capelli – ammise Miles, scrollando le spalle, – ma le mie ossa sono quelle di un vecchio, e sono fragili. – Il che era vero. - Sono soggetto a violenti attacchi osteoinfiammatori e ci sono giorni in cui non riesco neppure a camminare senza medicazioni. – Vero anche questo, dannazione… un recente e sgradevole sviluppo della sua situazione medica. – Le mie prospettive di sopravvivenza non sono quindi considerate molto buone. Per esempio, se certe persone riuscissero a capire chi è in effetti l'«Ammiraglio Naismith», la mia vita potrebbe durare anche meno di quindici minuti. - Di conseguenza, a meno che lei non sia estremamente amante del dolore e pensi che le piacerebbe essere azzoppato, temo di doverle sconsigliare quella procedura.

– Capisco – affermò il barone, squadrandolo da testa a piedi con la bocca contratta per la delusione.

Bel Thorne, che sapeva benissimo come non esistesse affatto un cosiddetto «trattamento di ringiovanimento betano», stava ascoltando con ben nascosto divertimento, impedendo con abilità ad un sogghigno di affiorargli sulle labbra… benedetto il suo piccolo cuore nero.

– Tuttavia – insistette il barone, – quello scienziato di sua conoscenza potrebbe aver fatto qualche progresso negli anni trascorsi da allora.

– Temo di no, perché è morto di vecchiaia – replicò Miles, allargando le mani con espressione impotente.

– Oh – mormorò il barone, le cui spalle si accasciarono leggermente.

– Ah, eccoti qui, Fell – li interruppe in quel momento una voce nuova, il cui suono indusse il barone a squadrare le spalle e a girarsi.

L'uomo che aveva parlato era vestito con lo stesso stile conservatore di Fell ed era affiancato da un servitore silenzioso che per il suo aspetto non poteva essere altro che una guardia del corpo; il servitore indossava un'uniforme formata da tunica a collo alto di seta rossa e calzoni neri, ed era disarmato. Nella Stazione Fell tutti erano disarmati, un regolamento concernente le armi che era fatto rispettare nella maniera più assoluta che Miles avesse visto, ma del resto i calli che spiccavano sulle mani della magra guardia del corpo suggerivano che quell'uomo non aveva probabilmente bisogno di armi. Il suo sguardo si spostava di continuo e le mani tremavano leggermente, segno di un'attenzione iperconcentrata ottenuta con mezzi artificiali… se glielo avessero ordinato quell'uomo avrebbe potuto colpire con velocità istantanea e con forza moltiplicata dall'adrenalina, ma avrebbe anche smesso di lavorare ancora giovane, metabolicamente rovinato per il resto della sua breve vita.

Anche l'uomo da lui protetto era giovane… e Miles si chiese se fosse il figlio di qualche grande lord. I suoi capelli lunghi, neri e lucidi erano raccolti in un'elaborata treccia, la pelle liscia era di colore olivastro e il volto era dominato da un naso aquilino; nel complesso, l'uomo non poteva avere più dell'età effettiva di Miles, ma si muoveva con la sicurezza di una persona matura.

– Ryoval – replicò il Barone Fell, con un cenno del capo, trattando il suo interlocutore come un proprio pari e non come una persona più giovane. Poi, continuando a recitare il suo ruolo cordiale aggiunse: – Ufficiali, posso presentarvi il Barone Ryoval della Casa Ryoval? Questi sono l'Ammiraglio Naismith e il Capitano Thorne, provenienti da quell'incrociatore veloce di costruzione illirica attraccato ai moli… credo che tu lo abbia notato, Ry.

– Mi dispiace, Georish, ma temo di non avere il tuo occhio per queste cose – ribatté il Barone Ryoval, salutando i due ufficiali con il cenno di chi si mostra per principio cortese con chi gli è inferiore, e in risposta Miles eseguì un goffo inchino.

Allontanando Miles dalla propria sfera di attenzione con una repentinità tale da esser quasi rumorosa, Ryoval indietreggiò con le mani sui fianchi e fissò l'abitante della bolla priva di gravità.

– Il mio agente non ha esagerato nel vantare il suo fascino – commentò.

Fell esibì un sorriso acido. Nicol si era allontanata… si era addirittura ritratta… quando Ryoval si era avvicinato, e adesso fluttuava dietro il suo strumento impegnata ad accordarlo… o almeno fingendo di esserlo, mentre il suo sguardo si spostava di continuo da Ryoval al salterio come se questo potesse creare una sorta di muro magico fra loro.

– Potresti chiederle di suonare… – cominciò Ryoval, ma fu interrotto dal trillare del suo comunicatore da polso. – Scusami, Georish – disse allora, e con aria leggermente annoiata girò loro in parte le spalle per parlare nell'apparecchio. – Sono Ryoval, ed è meglio che sia una cosa importante.

– Sì, mio signore – rispose una voce sottile. – Sono il Direttore Deem, della Vendita e Dimostrazioni. Abbiamo un problema: quella creatura che la Casa Bharaputra ci ha venduto ha appena attaccato selvaggiamente un cliente.

Le labbra da statua greca di Ryoval si arricciarono in un ringhio silenzioso.

– Vi avevo detto di incatenarla con la lega di duralluminio.

– Lo abbiamo fatto, mio signore, e le catene hanno retto… ma la creatura ha staccato gli anelli dalla parete.

– Storditela.

– Lo abbiamo fatto.

– Allora punitela adeguatamente quando si sveglia. Un periodo sufficientemente lungo senza cibo basterà a soffocare la sua aggressività… il suo metabolismo è incredibile.

– E cosa facciamo con il cliente?

– Offritegli tutte le comodità che chiede… a spese della Casa.

– Io… credo che per parecchio tempo non sarà in condizione di apprezzare questo genere di cose. Adesso è nella clinica ed è ancora privo di sensi.

– Ordinate al mio medico personale di occuparsi di questo caso – sibilò Ryoval. – Penserò io al resto quando tornerò a terra, fra circa sei ore. Chiudo. Idioti – ringhiò, dopo aver interrotto di scatto la comunicazione, poi trasse un respiro controllato e si ricordò di colpo delle buone maniere come se avesse richiamato le informazioni ad esse relative da qualche banco di memoria interno. – Georish, ti prego di scusarmi per l'interruzione.

Fell agitò una mano con fare comprensivo, lasciando intendere che gli affari venivano prima di tutto.

– Come stavo dicendo, potresti farle suonare qualcosa? – chiese quindi Ryoval, accennando con la testa in direzione della quaddie.

Fell incrociò le mani dietro la schiena, con un sorriso falsamente benevolo che gli brillava nello sguardo.

– Suonaci qualcosa, Nicol – disse.

La donna assentì e prese posizione, con gli occhi chiusi. Gradualmente, l'espressione di tesa preoccupazione che le spiccava sul volto cedette il posto ad una quiete interiore e lei prese a suonare un tema lento e dolce che dopo le prime note cominciò ad accelerare il proprio ritmo.

– Basta così! – esclamò Ryoval, sollevando una mano. – È esattamente come mi è stata descritta.

Nicol si arrestò con fatica nel bel mezzo di un passaggio e trasse un brusco respiro, chiaramente disturbata dall'impossibilità di poter eseguire il brano fino alla fine… la frustrazione dell'incompletezza artistica. Con gesti violenti infilò i martelletti nelle loro guaine appese ai lati dello strumento e incrociò entrambe le coppie di braccia; notandolo Thorne serrò le labbra e incrociò a sua volta le braccia in un'inconscia reazione al gesto di lei, cosa che indusse Miles a mordersi un labbro con un senso di disagio.

– Il mio agente ha riferito la verità – affermò intanto Ryoval.

– Allora ti avrà forse riferito anche il mio rincrescimento – commentò Fell, in tono asciutto.

– Lo ha fatto, ma lui non era autorizzato ad offrire più di un tetto massimo prestabilito… per una merce tanto unica non si può ricorrere che ad una trattativa diretta.

– Si dà il caso che a me piacciano le sue capacità esattamente dove vengono manifestate – dichiarò Fell. – E alla mia età il piacere è molto più difficile da ottenere del denaro.

– Verissimo. Tuttavia si potrebbero trovare altri piaceri sostitutivi e potrei procurarti qualcosa di davvero speciale e fuori catalogo.

– Mi riferivo alle sue capacità musicali, Ryoval, che sono più che speciali… sono uniche, genuine, non accentuate artificialmente in nessun modo. Capacità che non possono essere duplicate nei tuoi laboratori.

– I miei laboratori possono duplicare qualsiasi cosa – sorrise Ryoval, rispondendo all'implicita sfida.

– Tranne l'originalità, negata dalla definizione stessa di duplicazione.

Ryoval allargò le mani in un cortese gesto di ammissione della validità di quel punto filosofico, e nell'osservarli Miles giunse alla conclusione che Fell non stava traendo piacere tanto dal talento musicale della quaddie quanto dal fatto di possedere qualcosa che il suo rivale desiderava acutamente comprare e che lui non aveva affatto bisogno di vendere. Avere il coltello dalla parte del manico era una cosa che dava una notevole soddisfazione e sembrava che perfino il famoso Ryoval stesse incontrando difficoltà a trovare un modo per rivoltare la situazione… e tuttavia se fosse riuscito a scoprire il prezzo di Fell, quale forza sul Gruppo Jackson avrebbe potuto salvare Nicol? Di colpo Miles si rese conto di sapere quale fosse il prezzo di Fell e si chiese se lo avrebbe capito anche Ryoval.

– Allora discutiamo la vendita di un campione di tessuto – propose questi, arricciando le labbra. – La cosa non la danneggerebbe e tu potresti continuare a godere senza interruzione dei suoi servigi unici nel loro genere.

– Danneggerebbe la sua unicità. La circolazione di doppioni abbassa sempre il valore dell'originale, Ry, e tu lo sai bene – sogghignò il Barone Fell.

– Soltanto dopo un certo tempo – puntualizzò Ryoval. – Il tempo minimo per l'evoluzione di un clone maturo è di almeno dieci anni… ah, ma del resto questo sei tu a saperlo bene.

Interrompendosi, Ryoval arrossì ed accennò un inchino apologetico, rendendosi conto di aver appena commesso un passo falso… e a giudicare dal modo in cui si erano serrate le labbra di Fell pareva che fosse proprio così.

– Effettivamente – convenne freddamente il barone.

– Non può vendere i suoi tessuti! – intervenne con orrore Bel Thorne, che aveva seguito la conversazione. – Lei non ne è proprietario, perché Nicol non è un clone elaborato sul Gruppo Jackson ma una cittadina galattica libera per nascita!

Entrambi i baroni si girarono verso di lui come se fosse stato un pezzo di mobilio che aveva improvvisamente acquisito la parola… soltanto per usarla a sproposito, si disse Miles, sussultando interiormente.

– Può vendere il suo contratto – precisò Ryoval, esibendo una tolleranza appena superficiale, – ed è di questo che stavamo discutendo… in privato.

– Qui sul Gruppo Jackson – insistette Bel, ignorando quel velato avvertimento, – che differenza fa se parlate della vendita di un contratto anziché della vendita di una persona in carne ed ossa?

– Assolutamente nessuna – convenne Ryoval, con un sorrisetto gelido. – Qui il possesso costituisce quasi i nove decimi della legge.

– È assolutamente illegale!

– Illegale, mio caro… ah, lei è un Betano, vero? Questo spiega tutto. Illegale è ciò che il pianeta su cui ci si trova decide di definire tale, riuscendo al tempo stesso a far rispettare tali decisioni… e qui io non vedo nessun poliziotto betano che possa imporre a tutti noi la vostra particolare versione di moralità. Tu ne vedi, Fell?

Fell stava ascoltando con le sopracciglia inarcate, combattuto fra il sentirsi annoiato e divertito.

– Quindi – ritorse Bel, sussultando, – se adesso io estraessi un'arma e le fracassassi il cranio anche questo sarebbe perfettamente legale?

La guardia del corpo s'irrigidì, mentre il suo equilibrio e il suo bilanciamento fluivano in posizione di attacco.

– Lascia perdere, Bel – borbottò Miles, sottovoce. Ryoval stava però cominciando a godere del suo scontro verbale con il Betano.

– Lei non ha armi, ma a parte la legalità i miei dipendenti hanno l'ordine di vendicarmi… la consideri una legge naturale o virtuale – replicò. – In effetti, scoprirebbe che un simile sconsiderato impulso è ritenuto altamente illegale.

Intanto il Barone Fell intercettò lo sguardo di Miles e accennò appena con la testa per fargli capire che era arrivato il momento di intervenire.

– È ora di muoverci, capitano – disse Miles. – Non siamo i soli ospiti del barone.

– Provate il buffet caldo – suggerì affabilmente Fell.

In maniera voluta ed evidente Ryoval si disinteressò del tutto di Bel e si rivolse a Miles.

– Se scenderete a terra, ammiraglio, venite a trovarci… perfino un Betano può trovare il modo di allargare gli orizzonti delle sue esperienze e sono certo che il mio personale potrebbe trovare qualcosa di interessante che rientri nelle vostre disponibilità economiche.

– Non più – rispose Miles. – Il Barone Fell ha già in mano la nostra carta di credito.

– Ah, un vero peccato. Forse al prossimo viaggio, allora – commentò Ryoval, voltando le spalle ad entrambi in modo da chiudere la conversazione.

Thorne non era però disposto a cedere.

– Non si può vendere un cittadino galattico laggiù – insistette, accennando con un gesto secco alla curva del pianeta visibile attraverso la parete trasparente. La quaddie Nicol stava intanto seguendo la scena fluttuando vicino al suo strumento, con il volto privo di espressione ma con gli occhi accesi da un violento bagliore.

Ryoval tornò a girarsi fingendo una sorpresa che era lungi dal provare.

– Chiedo scusa, capitano, ma me ne sono reso conto soltanto adesso… lei è un Betano, quindi deve essere un genuino ermafrodita genetico, il che significa che è a sua volta una notevole rarità. Potrei offrirle un impiego altamente istruttivo con una paga almeno doppia di quella che riceve attualmente… e non le sparerebbero neppure addosso. Le garantisco che sarebbe estremamente popolare, un'attrattiva di gruppo.

Miles si sentì pronto a giurare che fosse possibile vedere ad occhio nudo la pressione di Thorne salire alle stelle a mano a mano che lui afferrava il senso di quanto Ryoval aveva appena detto, e quando l'ermafrodita si scurì in volto, trattenendo il respiro, allungò una mano per afferrargli con forza una spalla, prevenendo un'esplosione.

– No? – fece Ryoval, piegando la testa da un lato – Oh, bene, come vuole. Ma parlando sul serio, sarei davvero disposto a pagare bene per avere nei miei archivi un campione dei suoi tessuti.

Il respiro di Bel eruppe con violenza dai suoi polmoni.

– Per creare dei cloni che diventerebbero… diventerebbero una sorta di schiavi sessuali entro il prossimo secolo! Avrai quei campioni dopo essere passato sul mio cadavere… o a prezzo del tuo… razza di…

Bel era tanto furente che stava balbettando, un fenomeno che Miles non aveva mai riscontrato nei sette anni in cui aveva avuto modo di conoscerlo, neppure durante i combattimenti.

– Così betano – ridacchiò Ryoval.

– Smettila, Ry – ringhiò Fell.

– Oh, d'accordo – sospirò Ryoval, – ma non è facile.

– Non possiamo vincere, Bel – sibilò Miles, – quindi è tempo di ritirarci.

Accanto a Ryoval, la guardia del corpo stava vibrando per la tensione, ma Fell indirizzò a Miles un cenno di approvazione.

– La ringrazio per la sua ospitalità, Barone Fell – disse questi, in tono formale. – Buon giorno, Barone Ryoval.

– Buon giorno, ammiraglio – rispose Ryoval, rinunciando con rincrescimento a quello che era evidentemente stato il maggiore divertimento della giornata. – Per essere un Betano lei sembra una persona cosmopolita, e forse le piacerebbe farci visita qualche volta, senza la compagnia del suo amico moralista.

Una guerra di parole doveva essere vinta con le parole.

– Non credo – mormorò Miles, spremendosi il cervello alla ricerca di un feroce insulto con cui accomiatarsi.

– È un vero peccato – commentò Ryoval. – Abbiamo un numero eseguito da un cane e da un nano che sono certo lei troverebbe affascinante.

Seguì un momento di assoluto silenzio.

– Inceneriscili dall'orbita – suggerì poi Bel, con voce tesa.

Miles però si limitò a sorridere a denti stretti e a congedarsi con un inchino, tenendo saldamente stretta in una mano la manica di Bel. Mentre si allontanavano giunse fino a loro la risata di Ryoval.

Un istante più tardi il maggiordomo di Fell apparve accanto a loro.

– L'uscita è da questa parte, ufficiali. Vi prego di seguirmi – avvertì con un sorriso, e Miles pensò di non essere mai stato buttato fuori da un posto con altrettanta squisita gentilezza.

Una volta rientrati a bordo dell'Ariel, che aveva attraccato ai moli, i due si ritirarono in sala ufficiali, dove Thorne prese a passeggiare nervosamente avanti e indietro mentre Miles sorseggiava una tazza di caffè nero e rovente quanto i suoi pensieri.

– Mi dispiace di aver perso il controllo con quel giovinastro di Ryoval – si scusò infine Bel, in tono brusco.

– Giovinastro un accidente – replicò Miles, inspirando l'aria fra i denti per dare sollievo alla lingua scottata. – Il cervello racchiuso in quel corpo deve avere almeno cento anni, lo dimostra il modo in cui ti ha massacrato verbalmente. No, non potevamo aspettarci di mettere a segno qualche colpo con lui, e ammetto che sarebbe stato bello se tu avessi avuto il buon senso di smetterla di parlare.

Con aria turbata Bel accennò un gesto di scusa, come per ammettere che lui aveva ragione, e continuò a camminare.

– E quella povera ragazza intrappolata nella sua bolla… ho avuto una sola possibilità di parlarle e l'ho rovinata… l'ho distrutta…

– Succede ai migliori fra noi – commentò Miles, pensando che decisamente quella ragazza aveva l'effetto di far emergere la componente maschile di Thorne, e abbassò lo sguardo sulla tazza di caffè con un sorriso che però si mutò subito in un'espressione accigliata… no, meglio non incoraggiare l'interesse di Thorne nei confronti della quaddie. Era chiaro che lei non era soltanto uno dei servitori di Fell, e indipendentemente dal fatto che loro avevano a disposizione una sola nave con un equipaggio di venti persone, Miles avrebbe esitato ad offendere il Barone Fell sul suo territorio anche se avesse potuto usufruire dell'intera flotta dendarii, perché avevano una missione da assolvere. Questo pensiero lo indusse a chiedersi dove fosse andato a finire il dannato passeggero che dovevano prelevare. Perché non li aveva già contattati come prestabilito?

In quel momento l'intercom inserito nella parete trillò e Bel lo raggiunse in un paio di lunghi passi.

– Parla Thorne – disse.

– Qui il Caporale Nout, di stanza al portello di accesso ai moli. C'è… una donna che chiede di vederla.

Thorne e Miles si scambiarono un'occhiata perplessa e sorpresa.

– Come si chiama? – chiese quindi Thorne.

– Dice che il suo nome è Nicol – replicò il caporale, dopo aver scambiato qualche parola con la visitatrice.

– Molto bene – rispose Thorne, con un grugnito di sorpresa, – la faccia scortare nella sala ufficiali.

– Sì, capitano – replicò il caporale, e nel girarsi tardò a disattivare l'intercom quanto bastava perché il suo successivo commento arrivasse fino a Thorne: – … se si resta abbastanza a lungo con questa gente si finisce per vedere di tutto…

Nicol apparve sulla soglia bilanciata su una fluttuante poltrona antigravitazionale, una tazza tubolare dipinta di un azzurro identico a quello dei suoi occhi che si librava nell'aria dando l'impressione di cercare il suo piattino. Nicol la fece passare attraverso la porta con la stessa facilità con cui una donna umana avrebbe fatto ondeggiare i fianchi e la mandò ad arrestarsi davanti al tavolo di Miles, regolandone l'altezza da terra in modo da accostarsi ad esso come una persona normalmente seduta. I comandi erano controllati dalle sue mani inferiori, cosa che le lasciava del tutto liberi gli arti superiori, e il supporto su cui poggiava la parte inferiore del suo corpo doveva essere stato costruito su misura per lei. Miles seguì l'intera manovra con estremo interesse, perché fino a quel momento aveva dubitato che la ragazza potesse vivere all'esterno della bolla priva di gravità e si era aspettato che fuori di essa apparisse molto debole. Nicol però non sembrava debole e fissò Thorne con un'espressione determinata nello sguardo.

– Nicol – la salutò questi, il cui umore appariva notevolmente migliorato, – mi fa davvero piacere vederla di nuovo.

– Capitano Thorne, Ammiraglio Naismith – replicò lei, con un breve cenno del capo, poi lasciò scorrere lo sguardo dall'uno all'altro dei suoi interlocutori, fissandolo infine su Thorne.

Seguendo la scena, Miles ebbe l'impressione di intuire il perché di quella manovra, ma si limitò a sorseggiare il suo caffè attendendo gli sviluppi della situazione.

– Capitano Thorne, lei è un mercenario, vero? – domandò la ragazza.

– Sì…

– E… mi scusi se ho frainteso, ma mi è parso che lei dimostrasse una certa… empatia nei confronti della mia situazione, che comprendesse la difficoltà della mia posizione.

– Ho capito che si trova sospesa sull'orlo di un baratro – ammise Thorne, rivolgendole un piccolo, stupido inchino.

Nicol serrò le labbra e annuì in silenzio.

– È lei che si è messa in questa situazione – interloquì Miles.

– Ed intendo uscirne – ribatté Nicol, sollevando di scatto il mento.

Miles replicò con un silenzioso cenno della mano e tornò a concentrarsi sul caffè mentre Nicol regolava di nuovo la posizione della sua sedia, un gesto nervoso che si concluse più o meno alla stessa altezza da terra a cui aveva avuto inizio.

– Il Barone Fell mi sembra un formidabile protettore – osservò ancora Miles, – e finché sarà lui a comandare dubito che lei abbia qualcosa da temere dall'interesse… carnale che Ryoval ha dimostrato nei suoi confronti.

– Il Barone Fell sta morendo – spiegò Nicol, scuotendo il capo, – o almeno lui ritiene che sia così.

– Lo avevo dedotto anch'io. Perché non si fa approntare un clone?

– Lo ha fatto ed ha preso tutti i necessari accordi con la Casa Bharaputra. Il clone aveva quattordici anni ed era pienamente sviluppato, ma un paio di mesi fa qualcuno lo ha assassinato. Il barone non ha ancora scoperto chi sia stato, anche se ha una piccola lista di indiziati, in cima alla quale spicca il suo fratellastro.

– In questo modo lo hanno intrappolato in un corpo che sta invecchiando. Una manovra tattica davvero affascinante – rifletté Miles. – Mi chiedo cosa farà adesso questo ignoto nemico. Si limiterà ad aspettare?

– Non lo so – ammise Nicol. – Il barone ha fatto avviare un altro clone, ma per ora non è neppure uscito dal replicatore e anche ricorrendo agli acceleratori di crescita dovranno passare anni prima che sia abbastanza maturo perché si possa effettuare il trapianto. E poi… mi sono resa conto che ci sono molti altri modi in cui il barone potrebbe morire prima di allora, a parte il deteriorarsi della sua salute.

– Una situazione instabile – convenne Miles.

– Voglio andarmene. Voglio pagarmi un passaggio per lasciare il pianeta.

– Allora – ribatté Miles, in tono secco, – perché non va a spendere il suo denaro presso gli uffici di una delle tre linee passeggeri galattiche che attraccano qui e non si compra un biglietto?

– È a causa del mio contratto – spiegò Nicol. – Quando l'ho firmato, sulla Terra, non mi sono resa conto di cosa questo avrebbe significato una volta che fossi arrivata sul Gruppo Jackson. Adesso non posso neppure pagare per interromperlo a meno che il barone non decida di lasciarmi andare. E inoltre… in qualche modo sembra che vivere qui mi stia costando sempre di più. Ho effettuato qualche calcolo e mi sono resa conto che la situazione andrà peggiorando ulteriormente prima che il tempo del contratto si esaurisca.

– Quanto tempo? – intervenne Thorne.

– Altri cinque anni.

– Accidenti! – esclamò il Betano, in tono comprensivo.

– Quindi lei vorrebbe che noi l'aiutassimo a… a infrangere un contratto con il Sindacato – riassunse Miles, disegnando piccoli cerchi umidi sul tavolo con il fondo della tazza di caffè. – Suppongo che si aspetti che la contrabbandiamo in segreto fuori di qui.

– Posso pagare, e posso pagare adesso più di quanto sarei in grado di darvi l'anno prossimo. Questo non è stato il colpo grosso che immaginavo di fare quando sono venuta qui: si era parlato anche di registrare una dimostrazione video, ma non è mai stata effettuata e credo che non lo sarà mai. Se voglio pagarmi il viaggio per tornare a casa, dalla mia gente, devo poter raggiungere un pubblico più vasto, e voglio andare via di qui prima di precipitare in quel pozzo gravitazionale – concluse, accennando con un pollice nella direzione in cui si trovava il pianeta intorno a cui stavano orbitando. – Le persone che vengono mandate laggiù non tornano mai indietro.

Fece una pausa, scrutando i suoi interlocutori.

– Avete paura del Barone Fell? – chiese infine.

– No! – esclamò Thorne, mentre Miles rispondeva invece in senso affermativo. I due si scambiarono un'occhiata sardonica e il Betano cedette la parola al suo superiore.

– Siamo inclini ad usare cautela con il Barone Fell – affermò Miles, e Thorne scrollò le spalle in un gesto di assenso.

Accigliandosi, la ragazza manovrò la sedia in modo da accostarsi maggiormente al tavolo ed estrasse dalla giacca di seta verde un fascio di banconote planetarie assortite che posò davanti a Miles.

– Questo potrebbe alimentare il vostro coraggio? – chiese.

Thorne raccolse il fascio di banconote, esaminandolo: si trattava di una cifra che corrispondeva almeno a duemila dollari betani, per lo più banconote di taglio intermedio, anche se una banconota betana da un dollaro era in cima al mucchio, nascondendone l'effettivo ammontare ad uno sguardo casuale.

– Bene – commentò Bel, lanciando un'occhiata a Miles, – cosa ne pensiamo di questo noi mercenari?

Miles si appoggiò pensosamente allo schienale della sedia. Il segreto della sua effettiva identità non era il solo favore su cui Thorne avrebbe potuto far leva se avesse voluto… Miles ricordava ancora quando Bel aveva conquistato per lui un asteroide che ospitava una stazione mineraria e la corazzata Triumph avendo a disposizione soltanto sedici uomini in armatura da combattimento e un grande coraggio.

– Tendo ad incoraggiare il finanziamento creativo da parte dei miei comandanti – replicò infine – Proceda pure alle trattative, capitano.

Con un sorriso, Thorne prelevò il dollaro betano dal fascio di banconote.

– Ha avuto l'idea giusta – disse alla musicista, – ma è la cifra che è sbagliata.

Nicol si portò la mano alla giacca con un gesto incerto poi si arrestò nel vedere che Thorne stava spingendo verso di lei tutto il denaro tranne il dollaro betano.

– Cosa significa? – esclamò.

Thorne raccolse quel singolo dollaro e lo fece schioccare più volte.

– Questa è la cifra giusta… quanto basta per rendere ufficiale il contratto – dichiarò porgendo la mano, che la ragazza strinse dopo un momento di sconcerto. – Affare fatto.

– Bada, eroe – avvertì Miles, agitando un dito ammonitore, – che se non riuscirai a trovare un modo per concludere la cosa in assoluta segretezza incorrerai nel mio veto. Questa è la mia riduzione del prezzo.

– Sì, signore - rispose Thorne.

Parecchie ore più tardi Miles fu svegliato di scatto nella sua cabina a bordo dell'Ariel dall'insistente trillare della consolle di comunicazione. Quali che fossero stati i suoi sogni, essi si dissolsero in un istante, anche se gli rimase la spiacevole sensazione che si fosse trattato di qualcosa di sgradevole… di biologico e di sgradevole.

– Parla Naismith.

– Sono l'ufficiale di servizio alla Navigazione e Comunicazioni, signore. C'è una chiamata per lei che proviene dalla rete di comunicazione commerciale del pianeta. Chi chiama ha detto di riferirle che il suo nome è Vaughn.

Vaughn era il nome in codice prestabilito della persona che dovevano prelevare, che in effetti era il Dottor Canaba. Miles afferrò la giacca dell'uniforme e la infilò sulla maglietta nera d'ordinanza, passandosi invano le mani fra i capelli mentre sedeva davanti alla sua consolle.

– Mi passi la comunicazione – ordinò.

Sullo schermo visore si materializzò il volto di un uomo che mostrava di aver oltrepassato la mezz'età: lineamenti abbronzati di razza indefinibile, corti capelli ondulati che si stavano tingendo di grigio alle tempie e occhi castani accesi da una vivida intelligenza che traspariva anche da tutto l'insieme.

Sì, questo è il mio uomo, pensò Miles con soddisfazione. Adesso si comincia.

Il Dottor Canaba appariva però più che teso… sembrava decisamente angosciato.

– Ammiraglio Naismith?

– Sì. Lei è Vaughn?

Canaba annuì.

– Dove si trova? – chiese ancora Miles.

– Sul pianeta.

– Doveva incontrarsi con noi qui.

– Lo so, ma è successo qualcosa. Ho un problema.

– Che genere di problema? Un momento, il canale è sicuro?

– Su questo pianeta nulla è sicuro – rise amaramente Canaba, – ma non credo che mi stiano controllando. In ogni caso non posso ancora venire su. Mi serve… aiuto.

– Vaughn, non siamo equipaggiati in modo da poterla liberare contro forze superiori… se è stato fatto prigioniero…

– No, non si tratta di questo – replicò Canaba, scuotendo il capo. – Ho… perso qualcosa e mi serve il vostro aiuto per riaverlo.

– Mi era stato dato di capire che lei avrebbe lasciato qui ogni cosa, una perdita di cui sarebbe stato compensato in seguito.

– Non si tratta di un bene personale ma di qualcosa che chi vi ha assunti vuole ad ogni costo. Certi… campioni sono stati rimossi dalle mie mani, e chi vi ha mandati non mi accoglierà senza di essi.

A quanto pareva il Dottor Canaba era convinto che lui fosse un mercenario a cui i servizi di sicurezza barrayarani avevano rivelato soltanto il minimo indispensabile di quelle informazioni tanto segrete. Miles decise che sarebbe stato al gioco.

– Tutto quello che mi è stato chiesto è di trasportare lei e le sue capacità.

– Non le hanno detto tutto.

Eccome se mi hanno detto tutto. Barrayar ti accoglierebbe anche nudo come un verme e ne sarebbe grato, pensò Miles. Cosa stava succedendo?

Canaba rispose alla sua espressione accigliata serrando con durezza le labbra.

– Non me ne andrò senza quei campioni… se dovessi perderli l'affare è da considerarsi annullato e lei potrà dire addio alla sua paga, mercenario.

Accorgendosi che il suo interlocutore non stava scherzando, Miles socchiuse gli occhi con sospetto.

– Tutto questo è un po' misterioso – osservò.

– Mi dispiace – affermò Canaba, scrollando le spalle, – ma devo… S'incontri con me e le dirò il resto, oppure se ne vada. Non m'importa quello che farà, ma ci sono alcune cose che devono essere realizzate, ed… espiate.

Il dottore lasciò la frase in sospeso, in preda all'agitazione.

– Molto bene – decise Miles, traendo un profondo respiro. – Ogni complicazione accentua però i suoi rischi ed anche i miei, quindi è meglio che sia importante.

– Oh, ammiraglio – mormorò tristemente Canaba, – lo è per me. Lo è per me.

La neve cadeva farinosa sul piccolo parco dove Canaba aveva dato loro appuntamento, cosa che avrebbe fornito a Miles qualcosa di nuovo contro cui imprecare se non fosse stato per il fatto che aveva esaurito tutta la sua scorta d'invettive ormai da ore. Nonostante il parka regolamentare dendarii stava ormai tremando quando finalmente Canaba passò accanto al piccolo chiosco malconcio a cui lui e Bel erano seduti; subito entrambi si accodarono al genetista senza dire una sola parola.

I Laboratori Bharaputra si trovavano in una città del pianeta che Miles trovò decisamente preoccupante: l'astroporto per navette era sorvegliato, e così anche i palazzi del Sindacato, gli edifici municipali e le abitazioni residenziali cinte da mura; in mezzo a tutto questo si allargava poi un folle disordine di costruzioni fatiscenti e trascurate che non sembravano essere sorvegliate da nessuno e che erano occupate da gente che si muoveva in maniera furtiva, un insieme che indusse Miles a chiedersi se i due soldati dendarii a cui aveva dato l'incarico di coprire loro le spalle costituissero una protezione sufficiente. Quegli individui furtivi si tennero però alla larga da loro: a quanto pareva capivano cosa significasse la presenza di guardie del corpo… almeno finché era giorno.

Canaba li condusse in uno degli edifici vicini, con gli ascensori che non funzionavano e i corridoi privi di riscaldamento dove una sagoma vestita di scuro e forse femminile si ritrasse nell'ombra al loro passaggio con movimenti che ricordarono sgradevolmente a Miles quelli di un topo; lui e Bel seguirono Canaba su per la scala di sicurezza posta accanto all'ascensore guasto, lungo un altro corridoio e oltre una porta dalla serratura codificata guasta che dava accesso ad una stanza sporca e vuota, rischiarata dalla luce grigiastra che penetrava da una finestra non polarizzata ma intatta. Se non altro adesso erano al riparo dal vento.

– Penso che qui possiamo parlare senza pericolo – affermò allora Canaba, girandosi e sfilandosi i guanti.

– Bel? – chiamò Miles.

Thorne estrasse dal suo parka un assortimento di strumenti anti-sorveglianza e analizzò la stanza, mentre le due guardie si posizionavano una accanto alla finestra e l'altra nel corridoio per tenere sotto controllo il locale.

– Risulta tutto pulito… per ora – dichiarò infine Thorne, quasi riluttante a credere ai dati dei propri strumenti. Con mosse volutamente accentuate girò intorno a Canaba ed esaminò anche lui, mentre il genetista aspettava a testa china, come se fosse consapevole di non meritare di meglio. Quando ebbe concluso il suo esame Bel installò uno schermo acustico.

Miles intanto aveva abbassato il cappuccio e sbottonato il parka per poter raggiungere più facilmente le armi nascoste al suo interno nel caso quella fosse una trappola. Stava incontrando una notevole difficoltà a decifrare l'espressione e le intenzioni di Canaba… quali erano le motivazioni di quell'uomo? Non c'erano dubbi sul fatto che la Casa Bharaputra avesse provveduto al suo benessere… la qualità del cappotto e l'ottimo taglio degli abiti sottostanti lo dimostravano… ed anche se i suoi standard di vita non sarebbero certo peggiorati quando fosse passato al servizio dell'Istituto Imperiale Barrayarano delle Scienze, di certo là non avrebbe avuto tutte le opportunità di cui godeva qui per accumulare una ricchezza sottobanco. Quindi non si trattava di una scelta dettata da interesse, cosa che Miles poteva capire e condividere… ma perché farsi inizialmente assumere in un posto come la Casa Bharaputra se l'avidità non era superiore all'integrità?

– Lei mi lascia perplesso, Dottor Canaba – affermò in tono leggero. – Perché questo cambiamento a metà della carriera? Conosco molto bene i suoi nuovi datori di lavoro e in tutta franchezza non vedo come potrebbero pagare più della Casa Bharaputra.

Sì, quello era decisamente il modo in cui un vero mercenario avrebbe espresso la cosa.

– Mi hanno offerto protezione dalla Casa Bharaputra, ma se come protezione intendevano lei… - ribatté Canaba, lasciando a mezzo la frase e fissandolo con espressione dubbiosa.

Dannazione, quell'uomo era davvero prossimo a cedere al panico e a fuggire, lasciando Miles a spiegare il perché del fallimento della sua missione al Capo della Sicurezza Imperiale IIlyan in persona.

– Hanno comprato i nostri servigi – replicò, – quindi essi sono a sua disposizione. La vogliono sapere al sicuro e felice, ma non possiamo neppure cominciare a proteggerla se lei si allontana da un piano che era stato studiato per accentuare al massimo la sua sicurezza, inserisce fattori casuali e ci chiede di operare all'oscuro di tutto. Se mi devo assumere la responsabilità dei risultati devo essere informato di ciò che sta succedendo.

– Nessuno le chiede di assumersi questa responsabilità.

– Chiedo scusa, dottore, ma è chi mi paga a chiedermelo.

– Capisco – fece Canaba, passeggiando avanti e indietro dalla finestra a Miles. – Ma farà quello che le domando?

– Farò quello che posso.

– Splendido – sbuffò il genetista, poi scosse stancamente il capo e trasse un respiro deciso. – Dio… non sono venuto qui per il denaro, ci sono venuto perché potevo svolgere ricerche che mi sarebbero state impossibili in qualsiasi altro posto, in quanto qui non sarei stato ostacolato da restrizioni legali retrograde. Sognavo grandi scoperte… ma è diventato un incubo e la libertà si è trasformata in schiavitù. Le cose che volevano che facessi…! Oh, è sempre possibile trovare qualcuno che per denaro sia disposto a tutto, ma si tratta di elementi mediocri. Questi laboratori sono pieni di individui mediocri, perché i migliori non possono essere comprati. Io ho realizzato cose uniche, che la Casa Bharaputra non intende sviluppare soltanto perché il profitto sarebbe troppo scarso, senza pensare a quante persone ne trarrebbero beneficio, e poi non conseguo nessun riconoscimento per il mio lavoro… ogni anno leggo sulle riviste specializzate del mio settore che uomini meno abili di me ottengono onori galattici, e questo soltanto perché io non posso rendere pubbliche le mie scoperte… – Canaba s'interruppe e scosse il capo, aggiungendo: – Di certo vi dovrò sembrare un megalomane.

– Direi che sembra notevolmente frustrato – replicò Miles.

– La frustrazione mi ha svegliato da un lungo sonno – affermò Canaba. Orgoglio ferito… si è trattato soltanto del mio orgoglio ferito, ma è stato proprio questo a farmi riscoprire la vergogna, e il peso che essa ha scaricato su di me mi ha sconvolto. Riesce a capirmi? Del resto, ha importanza che lei capisca o meno? Ah!

A grandi passi Canaba si diresse verso il muro e si arrestò con il volto verso di esso e la schiena rigida.

– Capisco – rispose Miles, grattandosi la testa con aria contrita, – e sarò lieto di trascorrere molte ore affascinanti ad ascoltare le sue spiegazioni… ma sulla mia nave, diretta lontano da qui.

– Mi rendo conto che lei è un uomo pratico, un soldato – commentò Canaba, con un sorriso distorto. – Bene, soltanto Dio sa quanto abbia bisogno di un soldato, adesso.

– La situazione è deteriorata fino a questo punto?

– È… successo all'improvviso. Credevo di avere tutto sotto controllo.

– Continui – sospirò Miles.

– C'erano sette complessi genetici sintetizzati. Uno di essi è una cura per un'oscura malattia enzimatica, e un altro aumenterà di venti volte la produzione di ossigeno delle alghe delle stazioni spaziali. Un altro è arrivato ai Laboratori Bharaputra dall'esterno, portato da un uomo… non abbiamo mai scoperto chi fosse in realtà, ma la morte lo ha seguito e il commando che gli dava la caccia ha ucciso in una sola notte anche parecchi miei colleghi che avevano lavorato al progetto, distruggendo tutti i documenti. Non l'ho mai detto a nessuno, ma prima che accadesse io avevo prelevato senza autorizzazione un campione di tessuto per studiarlo: non ho ancora svelato tutti i suoi misteri ma le posso garantire che si tratta di qualcosa di unico.

Nel rendersi conto di cosa fosse il campione di cui Canaba stava parlando Miles quasi soffocò per la sorpresa e indugiò a riflettere sulla bizzarra catena di circostanze che un anno prima aveva fatto cadere nelle mani dei servizi segreti dendarii un identico campione di tessuto: si trattava del complesso di Terrence See inerente alla telepatia e costituiva la principale ragione per cui la Sua Imperiale Maestà si era messa all'improvviso alla ricerca di un genetista particolarmente abile. Il Dottor Canaba avrebbe avuto una piccola sorpresa al suo arrivo nel nuovo laboratorio barrayarano, ma se il valore degli altri sei campioni era anche lontanamente simile a quello dell'unico a lui noto il Capo della Sicurezza Illyan lo avrebbe scorticato vivo con un coltello smussato qualora se li fosse lasciati scivolare fra le dita. L'attenzione che Miles stava dedicando a Canaba si fece di colpo più intensa… dopo tutto, forse quel viaggio imprevisto non sarebbe risultato insignificante come aveva temuto.

– Complessivamente, quei sette composti rappresentano diecimila ore di tempo di ricerca, soprattutto mio ma anche di altri… il lavoro della mia vita… e fin dall'inizio avevo avuto l'intenzione di portarli con me. Per questo motivo li avevo riposti in un inserto virale, vincolati e latenti, e li avevo inoculati dentro un organismo… vivente – proseguì Canaba, con una sfumatura di esitazione. – Un organismo nel quale ritenevo che nessuno avrebbe mai cercato una cosa del genere.

– Perché non li ha semplicemente riposti nel proprio corpo? – domandò Miles, con irritazione. – Così non avrebbe potuto perderli.

– Io… non ci ho pensato – ammise Canaba, a bocca aperta per la sorpresa. – Una soluzione davvero elegante… perché non ci ho pensato? – Si portò una mano alla fronte, tastandola con perplessità come se stesse cercando dei difetti di funzionamento, poi tornò a serrare le labbra e aggiunse: – In ogni caso non avrebbe fatto differenza, perché avrei comunque avuto bisogno di… – S'interruppe e dopo un momento concluse: – Si tratta dell'organismo… della creatura.

E scivolò in un lungo silenzio.

– Fra tutte le cose che ho fatto – riprese poi, lentamente, – fra tutti i compiti ingrati che mi sono stati imposti in questo orribile posto, interrompendo le mie ricerche, questo è quello che più mi dispiace di aver svolto. È successo alcuni anni fa, e allora ero più giovane, pensavo di avere ancora un futuro da proteggere, e comunque non è stata tutta colpa mia… responsabilità di gruppo, vogliamo chiamarla così? Suddividendola è più facile affermare che è stata colpa di questo o di quello… ma adesso la responsabilità è tutta mia.

Vuoi dire che adesso è mia, pensò cupamente Miles.

– Dottore – disse però ad alta voce, – quanto più tempo trascorreremo qui tanto maggiore sarà il pericolo di compromettere l'intera operazione, quindi la prego di venire al punto.

– Sì… sì. Dunque, parecchi anni fa, i Laboratori della Casa Bharaputra hanno accettato un contratto per creare una… una nuova specie, fatta su ordinazione.

– Credevo che la Casa Ryoval fosse famosa per creare persone, o qualsiasi altra cosa, su ordinazione – interloquì Miles.

– Loro fabbricano schiavi, e sono estremamente specializzati. Inoltre il loro pacchetto clienti è sorprendentemente piccolo. Ci sono molti uomini ricchi e suppongo che ci siano anche molti uomini depravati, ma per essere un cliente della Casa Ryoval bisogna essere entrambe le cose, e la fascia in cui le due categorie si sovrappongono non è ampia come lei potrebbe credere. In ogni caso, il nostro contratto avrebbe dovuto portare ad una produzione su scala massiccia, decisamente al di fuori delle capacità di Ryoval: un certo governo sottoplanetario, posto sotto stretta pressione dai suoi vicini voleva che creassimo a suo beneficio una razza di super-soldati.

– Di nuovo? – commentò Miles. – Credevo che fosse già stato tentato, e più di una volta.

– Noi pensavamo di poterci finalmente riuscire, o almeno la gerarchia bharaputrana era disposta ad accettare il denaro del cliente. Il progetto ha però sofferto di troppi apporti diversi: il cliente, i nostri capi, i genetisti incaricati di elaborarlo, tutti avevano delle idee e premevano per metterle in pratica. Giuro che la cosa era destinata a fallire prima ancora di uscire dalla fase di progettazione astratta.

– Un super-soldato, progettato da un gruppo di ricerca. Dio santo, è una cosa che la mente si rifiuta di contemplare – affermò Miles, affascinato. – E cosa è successo?

– Parecchi di noi hanno avuto l'impressione che i… limiti fisici dell'essere semplicemente umani fossero stati già raggiunti. Per esempio, una volta che un gruppo di muscoli è stato portato ad una condizione di salute perfetta, stimolato con gli ormoni adatti ed esercitato fino ad un certo limite, non c'è altro che si possa fare, quindi ci siamo rivolti alle altre specie per apportare particolari migliorie. Per quanto mi riguarda, io ero affascinato dal metabolismo aerobico ed anaerobico dei muscoli di un cavallo di razza…

– Cosa? – esclamò Thorne, sconvolto.

– C'erano anche altre idee… troppe… e vi giuro che non erano tutte mie.

– Avete mescolato geni umani e animali? – sussurrò Miles.

– E perché non avremmo dovuto? I geni umani sono stati uniti a quelli animali fin dai primordi della genetica, è stata quasi la prima cosa che si è tentata… l'insulina umana ricavata dai batteri e via dicendo. Finora nessuno aveva però osato fare l'operazione opposta ed io ho infranto la barriera, ho decifrato i codici genetici… all'inizio sembrava che tutto procedesse per il meglio ed è stato soltanto quando i primi esemplari hanno raggiunto la pubertà che tutti gli errori che avevamo commesso sono diventati evidenti: quelle creature erano state progettate per essere formidabili, ma sono invece risultate mostruose.

– Mi dica una cosa – chiese Miles, con voce soffocata. – In quel gruppo c'era qualche soldato che avesse esperienza in fatto di combattimenti?

– Suppongo che il cliente avesse a disposizione persone del genere, che hanno fornito i parametri su cui lavorare – replicò Canaba.

– Capisco - interloquì Thorne, con voce sommessa. – Stavano cercando di reinventare la recluta.

Miles gli scoccò un'occhiata rovente per indurlo a tacere, poi batté un colpetto sul proprio cronometro.

– Cerchiamo di evitare le interruzioni, dottore – disse.

Dopo una breve pausa di silenzio Canaba riprese il proprio racconto.

– Abbiamo approntato dieci prototipi, poi il cliente si è… ritirato dagli affari: ha perso la guerra…

– Perché non ne sono sorpreso? – borbottò Miles, sottovoce.

– … e ci ha tagliato i fondi, per cui abbiamo dovuto abbandonare il progetto prima di poter applicare quello che avevamo imparato dai nostri errori. Da allora nove dei dieci prototipi sono morti ed ora ne resta soltanto uno. Lo tenevamo qui nei laboratori a causa di certe difficoltà a… rivenderlo… ed io ho riposto nel suo corpo i miei complessi genetici, che sono ancora là. L'ultima cosa che intendevo fare prima di andarmene era di uccidere quella creatura come atto di misericordia… o di espiazione, se preferisce.

– E poi? – lo pungolò Miles.

– Alcuni giorni fa la creatura è stata improvvisamente venduta alla Casa Ryoval, che pare intendesse farne una nuova attrazione. Il Barone Ryoval colleziona ogni sorta di stranezze per la sua banca dei campioni di tessuti…

Miles e Bel si scambiarono un'occhiata significativa.

– Io non avevo idea che sarebbe stata venduta – stava intanto proseguendo Canaba, – e quando stamattina sono arrivato in laboratorio ho scoperto che era scomparsa. Non credo che Ryoval abbia idea del suo valore effettivo, comunque ora essa si trova nei suoi laboratori.

Miles decise che gli stavano insorgendo le prime avvisaglie del mal di testa, indubbiamente una sinusite dovuta al freddo.

– E cosa vorrebbe che noi soldati facessimo al riguardo? – chiese.

– Che troviate il modo di entrare là dentro, di uccidere la creatura e di recuperare i miei campioni di tessuti. Soltanto allora verrò con voi.

– Cosa dobbiamo prendere… entrambi gli orecchi e la coda? – ribatté Miles, sentendo lo stomaco che gli si contraeva.

– Il muscolo gastrocnemio sinistro – rispose Canaba, scoccandogli un'occhiata gelida. – È là che ho iniettato i miei complessi; i virus in cui li ho immagazzinati non sono virulenti e non possono essere migrati lontano, per cui la maggiore concentrazione dovrebbe essere ancora là.

– Capisco – annuì Miles, massaggiandosi le tempie e gli occhi. – D'accordo, ce ne occuperemo noi. Il contatto personale fra noi è molto pericoloso e preferirei non ripeterlo, quindi ci rivedremo a bordo della mia nave fra quarantotto ore. Avremo qualche problema a riconoscere la sua bestia?

– Non credo. Questo particolare esemplare era alto quasi due metri e mezzo. Io… voglio che sappia che le zanne non sono state una mia idea.

– Capisco…

– La creatura si può muovere molto in fretta, se è ancora in buona salute. C'è qualche modo in cui posso aiutarvi? Ho accesso a scorte di veleni indolori…

– Ha già fatto abbastanza, grazie. Ora lasci ogni cosa nelle mani di noi professionisti, d'accordo?

– Sarebbe meglio se il corpo venisse completamente distrutto. Se potete, fate in modo che non ne rimanga neppure una cellula.

– È per questo che sono stati inventati gli archi al plasma. Adesso però è meglio che vada.

– Sì – convenne Canaba, poi esitò e aggiunse: – Ammiraglio Naismith?

– Forse è meglio che i miei futuri datori di lavoro non vengano mai a sapere di questo: hanno intensi interessi militari e un'informazione del genere potrebbe entusiasmarli a sproposito.

– Oh – fece Miles/Ammiraglio Naismith/Tenente Lord Vorkosigan del Servizio Imperiale Barrayarano. – Non credo che si debba preoccupare di questo.

– Quarantotto ore saranno sufficienti per la vostra incursione? – chiese Canaba, preoccupato. – Si ricordi che se non otterrà i campioni io tornerò immediatamente sul pianeta: non mi lascerò intrappolare sulla sua nave.

– Sarà accontentato… soddisfarla rientra nel mio contratto – promise Miles. – Ora però è meglio che vada.

– Devo fare affidamento su di lei – annuì Canaba, con angoscia repressa, e se ne andò.

Gli altri attesero per qualche minuto nella fredda stanza per dare al genetista il tempo di allontanarsi: l'edificio silenzioso scricchiolava a causa del vento e poco dopo in un corridoio più in alto echeggiò uno strano strillo, seguito da una risata che s'interruppe bruscamente. Finalmente la guardia che aveva seguito Canaba tornò indietro.

– Ha raggiunto il suo veicolo senza incidenti, signore – riferì a Miles.

– Bene – commentò allora Thorne, – immagino che innanzitutto ci dovremo procurare una pianta dei laboratori di Ryoval…

– Non credo – lo interruppe Miles.

– Se dobbiamo organizzare un'incursione…

– Niente incursione. Non intendo rischiare i miei uomini per una cosa tanto idiota. Ho detto a Canaba che avrei ucciso al suo posto la prova del suo peccato, ma non gli ho detto come lo avrei fatto.

La consolle della rete di comunicazione commerciale dell'astroporto del pianeta parve a Miles un posto buono come un'altro per effettuare la sua chiamata. Entrato nella cabina inserì nella macchina la sua carta di credito e digitò la chiamata, mentre Thorne si teneva appena al di fuori dell'angolo di visuale dello schermo e le guardie sorvegliavano l'esterno.

Un momento più tardi sul visore apparve l'immagine di una telefonista dal volto dolce dotato di fossette e con una cresta di pelliccia bianca al posto dei capelli.

– Servizio Clienti della Casa Ryoval. In cosa le posso essere utile, signore?

– Vorrei parlare con il Direttore Deem, del settore Vendita e Dimostrazioni – rispose con disinvoltura Miles, – in merito ad un possibile acquisto per conto della mia organizzazione.

– Chi è che lo desidera, signore?

– L'Ammiraglio Miles Naismith, della Flotta dei Mercenari Liberi Dendarii.

– Un momento, signore.

– Credi davvero che te la venderanno? – borbottò Bel dal suo angolo, mentre sullo schermo il volto della ragazza veniva sostituito da un fluire di luci colorate accompagnate da una musica mielata.

– Ricordi quello che abbiamo involontariamente sentito ieri? – replicò Miles. – Sono pronto a scommettere che è in vendita e a buon prezzo.

Dentro di sé si ammonì di non apparire troppo interessato.

In un tempo notevolmente breve le strisce di colore furono sostituite dal volto di un giovane dalla bellezza incredibile, un albino dagli occhi azzurri che indossava una camicia di seta rossa e che aveva i bei lineamenti deturpati da un grosso livido che gli correva lungo tutto un lato del volto.

– Sono il Direttore Deem. In che cosa le posso essere utile, ammiraglio?

– Mi è giunta voce – replicò Miles, schiarendosi ad arte la voce, – che la Casa Ryoval potrebbe aver acquistato di recente dalla Casa Bharaputra un articolo che ha per me un certo interesse professionale. Pare si tratti del prototipo di una sorta di nuovo combattente perfezionato. Lei ne sa qualcosa?

La mano di Deem scivolò verso il livido, tastandolo con cautela prima di allontanarsi con un gesto nervoso.

– In effetti, signore, noi abbiamo un articolo del genere.

– È in vendita?

– Oh, s… voglio dire, credo che sia già stato preso qualche accordo, ma è possibile che lei sia ancora in tempo ad avanzare la sua offerta.

– Potrei avere modo di esaminare l'articolo in questione?

– Ma certo – assentì subito Deem, celando a stento la propria impazienza. – Quando?

In quel momento ci fu una scarica di statica e l'immagine sullo schermo si scisse in due: il volto di Deem rimpicciolì improvvisamente e si trasse di lato, mentre il resto dello schermo veniva occupato da un'altra faccia fin troppo familiare, la cui vista strappò a Bel un sibilo a denti stretti.

– Prenderò io questa chiamata, Deem – disse il barone Ryoval.

– Sì, mio signore – rispose Deem, sgranando gli occhi per la sorpresa, e subito troncò il canale mentre l'immagine di Ryoval ingrandiva ulteriormente fino ad occupare tutto lo spazio disponibile.

– Dunque, Betano – sorrise Ryoval, – a quanto pare sembra che in fin dei conti io abbia davvero qualcosa che lei vuole.

– Può darsi – replicò Miles, in tono neutro, scrollando le spalle, – se rientra nelle mie possibilità di pagamento.

– Credevo che avesse dato a Fell tutto il suo denaro.

– Un buon comandante ha sempre delle riserve nascoste – ribatté Miles, allargando le mani. – Tuttavia, il valore effettivo dell'articolo in questione non è ancora stato determinato… anzi, non è ancora stata determinata neppure la sua esistenza.

– Oh, esiste, su questo non ci sono dubbi, ed è… impressionante. Aggiungerlo alla mia collezione è stato un piacere unico e detesterei dovervi rinunciare, ma per lei – affermò il barone, accentuando ancora di più il proprio sorriso, – potrei studiare un particolare taglio del prezzo.

E ridacchiò per qualche scherzo personale il cui senso sfuggì a Miles.

È più probabile che stia pensando ad un particolare taglio della mia gola, pensò questi fra sé, senza replicare.

– Voglio proporle un semplice scambio – proseguì Ryoval. – Carne in cambio di carne.

– Forse sta sopravvalutando il mio interesse, barone.

– Non lo credo – replicò Ryoval, con un bagliore negli occhi.

Sa che se non fosse stata una cosa particolarmente importante non gli avrei rivolto la parola neppure attraverso il sistema di comunicazione. D'accordo, stiamo al gioco, rifletté Miles.

– Allora mi faccia la sua proposta – rispose ad alta voce.

– Baratterò il mostro domestico dei Bharaputra… ah, ammiraglio, dovrebbe vederlo!… in cambio di tre campioni di tessuti che, se sarà abile, non le costeranno nulla. Uno del suo ermafrodita betano – enumerò Ryoval, contando sulle dita, – uno proveniente da lei stesso e il terzo appartenente alla musicista quaddie del Barone Fell.

Nell'angolo, Bel Thorne stava dando l'impressione di essere impegnato a contrastare una crisi di apoplessia, fortunatamente in silenzio.

– Il terzo campione potrebbe risultare molto difficile da ottenere – obiettò Miles, cercando di guadagnare tempo per riflettere.

– Meno difficile per lei che per me – ribatté Ryoval. – I miei agenti sono conosciuti da Fell e adesso le mie proposte lo hanno messo in guardia, per cui lei rappresenta per me un'opportunità unica di passare sotto la sua guardia. Sono certo che con un'adeguata motivazione non avrà problemi a farlo, mercenario.

– Con un'adeguata motivazione sono ben poche le cose che mi creano problemi, barone – replicò Miles, quasi a casaccio.

– Bene, allora aspetterò sue notizie entro… diciamo ventiquattr'ore, tempo allo scadere del quale la mia offerta verrà ritirata. Buona giornata, ammiraglio.

Ryoval annuì allegramente con il capo e lo schermo si spense.

– Benissimo – commentò allora Miles.

– Benissimo cosa? – domandò Thorne, con sospetto. – Non starai prendendo in seria considerazione quell'immonda proposta, vero?

– Ma per quale motivo potrà mai volere anche i miei campioni di tessuto? – si chiese Miles.

– Senza dubbio per il suo numero del nano e del cane – commentò Thorne, con cattiveria.

– Temo che rimarrebbe notevolmente deluso nel vedere il mio clone risultare alto un metro e ottanta – osservò Miles, schiarendosi la gola. – Immagino che accontentarlo non farebbe del male a nessuno, perché così ci limiteremmo a prendere dei piccoli campioni di tessuti, mentre nell'incursione metteremmo a repentaglio delle vite.

– Non è vero – dichiarò Bel, appoggiandosi alla parete con le braccia incrociate, – perché dovrai combattere per ottenere il mio campione e il suo.

Miles si limitò a sorridere.

– Allora? – insistette Thorne.

– Allora cerchiamo di procurarci una mappa del covo di Ryoval. Sembra che dovremo andare a caccia.

Il nucleo principale del Complesso Biologico della Casa Ryoval non era una vera e propria fortezza ma soltanto un gruppo di edifici protetti… edifici protetti dannatamente bene. In piedi sul tetto dell'aerocarro, Miles era intento a studiarne la disposizione con l'ausilio di un cannocchiale notturno, ignorando le gocce di nebbia che gli inumidivano i capelli e cercavano dei varchi nella sua giacca nello stesso modo in cui lui ne stava cercando nelle misure di sicurezza di Ryoval.

Il complesso bianco spiccava nitido sullo sfondo scuro del boscoso pendio montano, e i giardini che si allargavano dinanzi ad esso avevano un aspetto irreale nell'abbraccio della nebbia rischiarata intensamente dai riflettori di sorveglianza. Senza dubbio, gli ingressi di servizio laterali apparivano l'alternativa più promettente.

Annuendo lentamente fra sé, Miles scese dall'aerocarro a noleggio all'apparenza in panne parcheggiato sulla piccola strada montana che dominava dall'alto il complesso di Ryoval, e si spostò dietro il veicolo per mettersi al riparo dal vento tagliente.

– D'accordo, gente, ascoltate – disse, e la sua squadra gli si raccolse intorno mentre lui attivava la mappa olografica.

Le luci del display andarono a rischiarare in volto i presenti… l'alto Guardiamarina Murka, il comandante in seconda di Thorne, e due massicci soldati semplici; il Sergente Laureen Anderson era invece alla guida dell'aerocarro con l'incarico di fornire alla squadra il supporto esterno insieme al soldato Sandy Hereld e allo stesso Capitano Thorne. Queste disposizioni erano dovute ad un radicato pregiudizio barrayarano che Miles sperava di riuscire a nascondere bene e che lo induceva ad essere riluttante a portare un elemento femminile all'interno del complesso di Ryoval… una riluttanza che si faceva doppia nel caso di Bel Thorne e che non era per nulla attenuata dalla consapevolezza che se soltanto un decimo delle bizzarre voci che aveva sentito era autentico il sesso di ciascuno non avrebbe avuto particolare rilievo nelle avventure che sarebbero seguite ad un'eventuale cattura. In ogni caso, Laureen sosteneva di essere in grado di pilotare qualsiasi veicolo fabbricato dall'uomo attraverso la cruna di un ago… sebbene Miles sospettasse che lei non avesse mai fatto nulla di tanto domestico come usare un ago in tutta la sua vita… e non avrebbe quindi protestato contro l'incarico affidatole.

– Il nostro principale problema rimane il fatto che ancora non sappiamo con esattezza in quale parte del complesso viene tenuta la creatura della Casa Bharaputra, quindi per prima cosa supereremo la recinzione e i cortili esterni, penetrando nell'edificio principale qui e qui. – Nel parlare Miles toccò un pulsante della consolle di controllo e una linea di luce rossa indicò il percorso progettato. – A quel punto sequestreremo senza chiasso un dipendente e gli inietteremo il penta-rapido… da quel momento la nostra diventerà una corsa contro il tempo, in quanto dovremo supporre che la scomparsa della nostra vittima verrà ben presto notata.

«La parola d'ordine è discrezione. Non siamo venuti qui per uccidere nessuno e non siamo in guerra con i dipendenti di Ryoval, quindi usate i paralizzatoti e tenete pronti gli archi al plasma e gli altri giocattoli per quando avremo trovato la creatura, che dovremo eliminare in fretta e senza far rumore, in modo che io possa prelevare il mio campione, – proseguì, portando una mano alla giacca, sotto la quale si trovava il contenitore speciale che avrebbe tenuto in vita i tessuti prelevati finché non fossero tornati sull'Ariel. - Fatto questo ce ne andremo il più in fretta possibile. Se però qualcosa dovesse andare storto prima che io sia riuscito a tagliare quel prezioso pezzo di carne, non cercheremo di aprirci un varco combattendo perché non ne vale la pena: qui hanno un modo decisamente sommario di condannare i colpevoli di omicidio e non c'è bisogno che qualcuno di noi finisca sotto forma di parti di ricambio nella banca di campioni di tessuti di Ryoval. Di conseguenza aspetteremo che il Capitano Thorne organizzi il nostro riscatto e tenteremo in un altro modo. In caso di emergenza, abbiamo sempre un paio di metodi per convincere Ryoval.

– In caso di emergenza estrema – borbottò Bel.

– Se invece qualcosa andrà storto dopo che avrò ultimato la mia missione di macellaio applicheremo le solite vecchie regole di combattimento, perché a quel punto il campione sarà un bene insostituibile e dovremo tornare ad ogni costo dal Capitano Thorne con esso. Laureen, ha ben presente il luogo in cui dovrà avvenire l'eventuale recupero d'emergenza?

– Sì, signore – rispose la donna, indicando un punto sul display del video.

– Avete capito bene tutti quanti? Niente domande? Suggerimenti? Osservazioni dell'ultimo minuto? Allora, Capitano Thorne, effettuiamo un controllo dei comunicatori.

I comunicatori da polso risultarono tutti in perfette condizioni; ultimato il controllo il Guardiamarina Murka si issò sulle spalle lo zaino con le armi mentre Miles riponeva con attenzione in una tasca il cubo con la mappa che era costato loro una cifra esorbitante, versata appena poche ore prima ad una certa ditta di costruzioni dall'etica alquanto flessibile. Poi i quattro membri del commando si allontanarono guardinghi dal carro e scomparvero nell'oscurità intrisa di foschia.

I quattro si avviarono attraverso i boschi, camminando a fatica sullo strato di foglie marce ghiacciate che scivolavano sotto i piedi ed esponevano il fango sottostante; Murka individuò un occhio spia prima che li potesse inquadrare e lo accecò con una breve scarica di statica per il tempo che il gruppo impiegò ad oltrepassarlo, poi il guardiamarina e i due massicci soldati non ebbero difficoltà a spingere al di là del muro Miles… che cercò di non pensare all'antico gioco di lanciare in aria i nani che si praticava un tempo nei pub. Il cortile interno era spoglio e utilitario: aree di scarico, grosse porte sprangate, ripostigli per la raccolta dei rifiuti e qualche veicolo parcheggiato.

Un rumore di passi li indusse a ripararsi tutti in uno dei ripostigli per i rifiuti: una guardia vestita di rosso li oltrepassò lentamente munita di un sensore a infrarossi, che i quattro ingannarono accoccolandosi e nascondendo il volto all'interno dei loro mantelli impenetrabili a quel tipo di raggi, in modo da assomigliare ad altrettanti sacchi di rifiuti. Passato il pericolo si avviarono senza far rumore lungo le aree di scarico delle merci.

Dovevano cercare le condutture, che erano risultate essere l'unica chiave di accesso al complesso di Ryoval… condutture per il riscaldamento, per l'accesso ai cavi ottici di potenza, per il sistema di comunicazione; si trattava di passaggi stretti e del tutto impraticabili per un individuo massiccio ma non per Miles, che si liberò del poncho e lo consegnò ad un soldato perché lo piegasse e lo riponesse nel proprio zaino.

Una volta libero dell'ingombrante indumento, Miles si mise in equilibrio sulle spalle di Murka e si aprì un varco di accesso alla prima conduttura; rimossa la griglia di ventilazione inserita in alto nella parete al di sopra delle porte dell'area di carico, la porse in silenzio ai compagni ed effettuò un rapido esame sensorio per essere certo di non avere compagnia, infilandosi quindi nel condotto. Esso risultò stretto perfino per lui ma riuscì a percorrerlo e di lì a poco si calò con precauzione sul pavimento di cemento dalla parte opposta; trovati i comandi della porta mise in corto l'allarme e sollevò di un metro il battente, riabbassandolo poi più silenziosamente che poteva non appena i suoi compagni furono passati. Fino a quel momento tutto bene.

Osservando sempre il silenzio più assoluto i quattro raggiunsero il riparo offerto dal lato opposto dell'atrio di accesso appena prima che un uomo in tuta rossa lo attraversasse spingendo davanti a sé un carrello elettrico carico di robot per le pulizie. Murka toccò la manica di Miles e gli scoccò un'occhiata interrogativa, ma Miles scosse il capo, indicandogli che non era ancora arrivato il momento giusto. Sembrava infatti assai improbabile che quell'addetto alla manutenzione potesse saperne di più di un tecnico che lavorava nei laboratori interni in merito a dove veniva tenuta la loro preda, e non avevano il tempo di cospargere quel posto di corpi privi di sensi seguendo false piste.

Ben presto trovarono il passaggio che, proprio come aveva promesso il cubo, portava all'edificio principale, e la porta alla sua estremità risultò chiusa a chiave, cosa che del resto era stata prevista.

Salito di nuovo sulle spalle di Murka, Miles si servì rapidamente delle cesoie per staccare un pannello dal soffitto e s'insinuò nello spazio al di là di esso, strisciando su una fragile intelaiatura che non avrebbe di certo retto un uomo di peso superiore al suo fino a trovare i cavi che alimentavano la serratura della porta. Stava esaminando il problema che essi costituivano ed estraendo i necessari attrezzi dalle tasche della giacca quando la mano di Murka s'insinuò nel condotto e depositò accanto a lui lo zaino delle armi, rimettendo poi a posto il pannello senza far rumore. Immediatamente Miles si gettò prono e accostò un occhio alla fessura nel momento stesso in cui una voce echeggiava tonante nel corridoio.

– Fermi! – ingiunse qualcuno.

Tutta una serie di imprecazioni risuonò urlante nella mente di Miles, che serrò la mascella per impedire che esse gli salissero alle labbra mentre continuava ad osservare i suoi compagni attraverso la fessura. Un istante più tardi, i tre furono circondati da una mezza dozzina di guardie armate che indossavano camicia rossa e calzoni neri.

– Cosa ci fate qui? – ringhiò il sergente che comandava le guardie.

– Oh, dannazione! – esclamò Murka. – Per favore, signore, non dica al mio ufficiale comandante che ci ha sorpresi qui, perché mi degraderebbe di nuovo a soldato semplice!

– Cosa? – borbottò il sergente, pungolando Murka con la propria arma, un letale distruttore neuronico. – In alto le mani! Chi siete?

– Mi chiamo Murka. Tutti e tre siamo giunti alla Stazione Fell su una nave mercenaria, ma il capitano non ha voluto concedere licenze. Ci pensi… siamo arrivati fino al Gruppo Jackson e quel bastardo ci ha negato il permesso di scendere a terra! Quel maledetto puritano non voleva che venissimo da Ryoval.

Nel frattempo le guardie dalla divisa rossa stavano effettuando un rapido esame sensorio e un'altrettanto rapida perquisizione tutt'altro che gentile, che però portò alia scoperta soltanto dei paralizzatori e degli attrezzi per penetrare in aree di sicurezza che Murka aveva indosso.

– Avevo scommesso che saremmo riusciti ad entrare anche se non ci potevamo permettere di passare dalla porta principale – continuò intanto il guardiamarina, contraendo la bocca in una smorfia di grande scoraggiamento. – A quanto pare ho perso.

– Sembra proprio di sì – convenne il sergente, tirandosi indietro.

– Non sono certo attrezzati come una squadra di assassini – osservò uno dei suoi uomini, porgendogli il piccolo assortimento di oggetti che aveva sequestrato.

– Non siamo assassini! – esclamò Murka, ergendosi sulla persona con aria offesa.

– Siete assenti senza permesso, vero? – chiese il sergente, rigirando fra le mani un paralizzatore.

– Non se riusciremo a rientrare prima di mezzanotte – replicò Murka, assumendo un tono supplichevole. – Senta, il mio comandante è un vero bastardo… non crede che ci possa essere un modo per far sì che non venga mai a sapere di questo? – E nel parlare accostò volutamente una mano alla tasca in cui teneva il portafoglio.

– Può darsi – ridacchiò il sergente, squadrandolo da testa a piedi.

Murka, pensò Miles, ascoltando la conversazione con crescente sollievo, se questo funziona giuro che ti darò una promozione…

– Non c'è nessuna speranza di poter prima dare un'occhiata dentro? – domandò Murka, dopo una pausa. – Non mi riferisco alle ragazze, mi basterebbe vedere il posto, per poi poter dire di esserci stato.

– Questo non è un bordello, soldatino! – scattò il sergente.

– Cosa? – gridò Murka, mostrandosi stupito.

– Questo è il laboratorio biologico.

– Oh… – mormorò Murka.

– Razza di idiota, - intervenne uno dei soldati dendarii, afferrando al volo l'imbeccata di Murka, e Miles riversò una silenziosa pioggia di benedizioni sulla sua testa, apprezzando anche il fatto che fino a quel momento nessuno dei tre avesse neppure accennato a guardare verso l'alto.

– Ma quell'uomo in città mi ha detto… – cominciò Murka.

– Quale uomo? – lo interruppe il sergente.

– Quello che ha incassato i miei soldi – spiegò il guardiamarina, strappando una risatina ad un paio delle guardie in tunica rossa.

– Muoviti, soldatino – ingiunse il sergente, pungolando Murka con l'estremità del suo distruttore, – da questa parte. Oggi è il tuo giorno fortunato.

– Vuole dire che potremo dare un'occhiata dentro?

– No – ribatté il sergente, – voglio dire che non vi spezzeremo entrambe le gambe prima di buttarvi fuori. – Fece quindi una pausa e aggiunse, in tono più gentile: – Giù in città troverete un bordello.

Allungando una mano sfilò il portafoglio di Murka dalla tasca, controllò il nome sulla carta di credito e prelevò tutte le banconote contenute in esso, mentre le guardie facevano lo stesso con gli indignati soldati, dividendo fra loro quanto trovavano.

– Nel bordello accettano anche le carte di credito e avete ancora tempo fino a mezzanotte, quindi muovetevi – ingiunse infine il sergente.

La squadra di Miles fu così sospinta, vergognosa ma intatta, lungo il passaggio, e lui attese che tutti si fossero allontanati abbastanza da non poterlo sentire prima di attivare il comunicatore da polso.

– Bel? – chiamò.

– Sì? – giunse l'immediata risposta.

– Abbiamo avuto dei guai. Murka e i soldati sono appena stati prelevati dagli uomini della sicurezza di Ryoval. Credo che quel geniale ragazzo sia riuscito a trarli in inganno e a convincerli a buttarli soltanto fuori dalla porta posteriore, invece di farli a pezzi per ricavarne parti di ricambio. Io li seguirò appena possibile, in modo da riunirci per effettuare un altro tentativo.

Fece quindi una pausa, riflettendo: la missione era stata un fallimento totale e adesso si trovavano in una situazione peggiore di quando avevano cominciato, perché la sicurezza di Ryoval sarebbe rimasta sul chi vive per tutto il resto della lunga notte jacksoniana.

– Vedrò se prima di ritirarmi mi riesce di scoprire almeno dove si trova quella creatura – aggiunse infine nel comunicatore. – Questo dovrebbe migliorare le nostre probabilità di successo al prossimo tentativo.

– Sta' attento – raccomandò Bel, imprecando con sentimento.

– Puoi scommetterci, e tieni gli occhi aperti per recuperare Murka e i ragazzi. Chiudo.

Una volta identificati i cavi giusti fu lavoro di un momento far scivolare di lato la porta, poi fu impegnato in un'interessante numero di acrobazia, spenzolandosi nel vuoto per la punta delle dita e cercando di convincere il pannello a richiudersi prima di lasciarsi cadere dalla minima altezza possibile, badando a non rompersi nessun osso. Per fortuna non ci furono fratture e un momento più tardi oltrepassò la soglia di accesso all'edificio principale, tornando nelle condutture appena gli fu possibile, in quanto i corridoi si erano appena dimostrati troppo pericolosi. Una volta nello stretto passaggio si sdraiò sulla schiena, bilanciando sul ventre il cubo con la mappa olografica per scegliere un percorso nuovo e più sicuro che escludesse quelli che potevano essere usati da soldati alti e massicci. E poi, dove si doveva cercare un mostro? In un armadio?

Fu all'incirca alla terza svolta che nell'avanzare strisciando e trascinandosi dietro lo zaino con le armi si rese improvvisamente conto che il territorio circostante non corrispondeva più a quello indicato dalla mappa… inferno e dannazione, si trattava di cambiamenti inseriti dopo la costruzione del complesso oppure la mappa era stata sottilmente alterata? Comunque non aveva importanza, perché non si era veramente perso e poteva ancora tornare sui suoi passi.

Continuò a strisciare per una trentina di minuti, scoprendo e disattivando due allarmi prima che i loro sensori potessero scoprire lui, mentre il fattore tempo si andava facendo sempre più pressante: presto avrebbe dovuto… Ah, ecco! Sbirciando attraverso una griglia per la ventilazione vide sotto di sé una stanza in penombra piena di schermi olografici e di apparecchiature per le comunicazioni. Sulla mappa il locale era indicato con la voce Piccole Riparazioni, ma quella non sembrava un'officina per le riparazioni… un altro cambiamento da quando Ryoval aveva occupato il complesso? In ogni caso nella stanza c'era un solo uomo che sedeva con le spalle rivolte alla parete in cui si apriva la griglia… un'occasione troppo perfetta per lasciarsela sfuggire.

Respirando silenziosamente e muovendosi con lentezza, estrasse la pistola ad aghi dallo zaino e verificò che fosse caricata con la cartuccia giusta… penta-rapido con l'aggiunta di una sostanza paralizzante, un delizioso cocktail studiato appositamente per quello scopo dai tecnici medici dell'Ariel. Presa la mira attraverso la griglia puntò la sottile canna della pistola con precisione mista a tensione e fece fuoco. Centro pieno… l'uomo si batté un colpo sulla nuca con una mano e subito dopo rimase assolutamente immobile, con il braccio che gli ricadeva inerte lungo il fianco. Miles si concesse un accenno di sorriso, poi tagliò la griglia e si calò nella stanza.

L'uomo, vestito con eleganza con abiti di tipo civile… era forse uno scienziato?… ondeggiava sulla sedia con un sorrisetto sciocco sulle labbra e guardò in direzione di Miles senza traccia di allarme nello sguardo, cominciando al tempo stesso a cadere da un lato.

Sorreggendolo, Miles lo rimise a sedere diritto.

– Avanti, siediti – ordinò. – Così va bene… non puoi certo parlare con la faccia premuta contro il tappeto, giusto?

– Nooo… – convenne l'uomo, annuendo con un sorriso cordiale.

– Sai qualcosa di una creatura genetica, una mostruosità acquistata di recente dalla Casa Bharaputra e portata qui?

– Sì – sorrise l'uomo, sbattendo le palpebre.

Soltanto allora Miles si ricordò che i soggetti sottoposti al penta-rapido tendevano a dare risposte letterali.

– Dove la tengono? – insistette.

– Dabbasso.

– Dove esattamente?

– Nel locale sotto il seminterrato, lo spazio al di sopra delle fondamenta… speravamo che catturasse qualche topo, sai? – ridacchiò l'uomo. – I gatti mangiano i topi? I gatti mangiano i…

Miles controllò il cubo con la mappa. Sì, quella prospettiva appariva buona, almeno in termini di penetrazione e di fuga di una squadra, anche se si trattava pur sempre di una vasta area di ricerca, trasformata in un labirinto dagli elementi strutturali che erano conficcati nel terreno e soprattutto dalle speciali colonne antivibrazioni che salivano fino ai laboratori soprastanti. Nel punto dove il fianco della montagna digradava verso il basso, lo spazio sotto il seminterrato aveva il soffitto alto e correva molto vicino alla superficie, il che forniva un buon punto di penetrazione, mentre lo spazio si riduceva al massimo fino a cedere il posto alla roccia lungo il lato su cui l'edificio poggiava contro la montagna. Spento il cubo, Miles aprì il contenitore dei dardi per trovare qualcosa che lasciasse la sua vittima priva di sensi e impossibile da interrogare per il resto della notte; in quel momento l'uomo agitò una mano annaspando e la manica gli scivolò all'indietro, rivelando così un comunicatore da polso grande e complesso quasi quanto quello dello stesso Miles. Una luce intermittente ammiccava sul comunicatore e nel guardarla Miles avvertì un improvviso senso di disagio. Quella stanza…

– A proposito – chiese d'impulso alla sua vittima, – chi sei?

– Moglia, capo della sicurezza del Complesso Biologico Ryoval – recitò l'uomo con voce allegra. – Al suo servizio, signore.

– Oh, certamente – borbottò Miles, cercando in maniera sempre più frenetica all'interno del contenitore dei dardi. Dannazione!

In quel momento la porta si spalancò con violenza.

– Fermo, amico!

Miles attivò il congegno di allarme e di autodistruzione del suo comunicatore da polso e con un rapido movimento levò di scatto in alto le mani, lanciando al tempo stesso in aria il congegno. Non a caso, Moglia sedeva fra Miles e la porta, impedendo così alle guardie di aprire il fuoco. Il comunicatore si disintegrò nell'aria… adesso gli uomini della sicurezza di Ryoval non avrebbero più avuto modo di rintracciare la squadra appostata all'esterno e Bel avrebbe almeno saputo che qualcosa era andato storto.

Mentre il capo della sicurezza ridacchiava fra sé, momentaneamente affascinato dall'impresa di contare le proprie dita, un sergente in divisa rossa spalleggiato dalla sua squadra entrò a precipizio in quella che ormai era ovvio essere la Sala Operativa della sicurezza e sbatté Miles con la faccia contro il muro, procedendo a perquisirlo con violenta efficienza: entro pochi momenti il sergente lo privò di una quantità di attrezzi incriminanti, della giacca, degli stivali e della cintura, mentre lui si appoggiava al muro tremando per il dolore dovuto a parecchie prese applicate con abilità alle terminazioni nervose e per il repentino cambiamento della sorte a suo svantaggio.

Una volta che ebbe finalmente smaltito gli effetti del penta-rapido, il capo della sicurezza si mostrò tutt'altro che soddisfatto della confessione del sergente quando questi ammise di aver lasciato andare in precedenza quella stessa sera tre uomini in uniforme e mise subito in allarme l'intero turno di guardia, mandando una squadra all'esterno perché cercasse di rintracciare i Dendarii fuggiti. Poi, con il volto atteggiato ad un'espressione apprensiva molto simile a quella sfoggiata dal sergente durante la sua mortificante confessione… ma unita ad un'acida soddisfazione per la cattura di Miles e ad un'aria nauseata dovuta ai postumi della droga… effettuò una chiamata video.

– Mio signore? – esordì, con cautela.

– Cosa succede, Moglia – domandò il Barone Ryoval, il cui volto appariva assonnato e seccato.

– Mi dispiace disturbarla, signore, ma pensavo che volesse essere informato che qui abbiamo appena catturato un intruso. A giudicare dal vestiario e dall'equipaggiamento non si tratta di un comune ladro: è un tipo strano, una specie di nano alto, che si è introdotto attraverso le condutture – spiegò il capo della sicurezza, esibendo il contenitore per i tessuti, gli attrezzi per disattivare gli allarmi e le armi di Miles come prova delle sue affermazioni, mentre il sergente spingeva il prigioniero fino a farlo entrare nel campo di ricezione del video. – Ha fatto un sacco di domande a proposito del mostro dei Bharaputra.

Ryoval accennò a parlare, poi un bagliore gli affiorò nello sguardo e gettò il capo all'indietro, scoppiando in una risata.

– Avrei dovuto immaginarlo. Ruba mentre dovrebbe comprare, ammiraglio? – ridacchiò. – Oh, molto bene, Moglia!

– Conosce questo piccolo mutante, mio signore? – chiese il capo della sicurezza, mostrandosi leggermente meno nervoso.

– Certamente. Si fa chiamare Miles Naismith, è un mercenario e si presenta come ammiraglio… senza dubbio autopromosso. Un ottimo lavoro, Moglia: tienilo in custodia, e domattina verrò là per occuparmi personalmente di lui.

– Tenerlo in custodia come, signore?

– Divertitevi… liberamente – replicò Ryoval, scrollando le spalle.

Quando l'immagine di Ryoval svanì dallo schermo, Miles si trovò ad essere oggetto delle occhiate scrutatrici tanto del sergente quanto del capo della sicurezza, che per dare sfogo ai propri sentimenti gli assestò un pugno al ventre mentre una guardia massiccia lo teneva fermo.

Il malessere di Moglia era però ancora troppo intenso per permettergli di godere davvero di quel divertimento, e il pugno rimase isolato.

– Sei venuto per vedere il soldato giocattolo dei Bharaputra, vero? – annaspò il capo della sicurezza, passandosi una mano sullo stomaco.

– Credo che dovremmo realizzare il suo desiderio – suggerì una guardia, intercettando lo sguardo del suo superiore.

– Sì… – convenne questi, soffocando un rutto e sorridendo come se stesse contemplando una visione meravigliosa.

Un momento più tardi, pregando ad ogni passo che non finissero per spezzargli le braccia, Miles si trovò ad essere sospinto a forza lungo il corridoio e verso gli ascensori dalla stessa guardia di prima, seguito dal sergente e dal capo della sicurezza.

Un ascensore li portò all'ultimo livello dell'edificio, un polveroso seminterrato pieno di apparecchiature scartate e di scorte di ogni genere, da dove il gruppetto raggiunse una botola chiusa inserita nel pavimento, spalancandola e rivelando una scala di metallo che si perdeva nell'oscurità sottostante.

– L'ultima cosa che abbiamo buttato lì dentro è stata un topo – spiegò il sergente in tono cordiale, – e Nove gli ha staccato la testa con un morso. Nove è sempre affamata, perché ha un metabolismo che la fa somigliare ad una fornace.

La guardia costrinse quindi Miles a passare sulla scala e a scendere di circa un metro con il semplice espediente di percuotergli le mani con un manganello finché non si fu spostato abbastanza da mettersi fuori tiro, adocchiando al tempo stesso con diffidenza il tratto di pavimento di pietra appena rischiarato che si scorgeva sotto di lui. Il resto del sotto-seminterrato era un insieme di pilastri e di ombre avvolto in un'oscurità gelida.

– Nove! – chiamò il sergente, la cui voce echeggiò a lungo nel buio. – Nove! La cena! Vieni a prenderla!

Il capo della sicurezza scoppiò a ridere con fare beffardo, poi si serrò il ventre con le mani e gemette sommessamente.

Ricordando che Ryoval aveva detto che si sarebbe occupato personalmente di lui il mattino successivo, Miles si disse che di certo le guardie si erano rese conto che il loro capo aveva inteso alludere ad un prigioniero vivo. Oppure no?

– Queste sono le segrete? – domandò, sputando un po' di sangue e scrutando intorno a sé.

– No, è soltanto una cantina – gli rispose allegramente il sergente delle guardie. – Le segrete sono per i clienti che pagano.

Sempre ridacchiando per la propria battuta, chiuse la botola con un calcio e lo scatto del meccanismo di chiusura fu seguito da un silenzio assoluto.

Il gelo delle sbarre di metallo della scala penetrava perfino attraverso i calzini di Miles, che passò un braccio intorno ad uno scalino e infilò l'altra mano sotto l'ascella per cercare di riscaldarla almeno un poco; i suoi calzoni erano stati svuotati di tutto ciò che contenevano, ad esclusione di un fazzoletto, di una barra nutritiva e delle sue gambe.

Rimase appeso sulla scala per parecchio tempo, perché salire verso l'alto era inutile e scendere appariva decisamente poco invitante; dopo un po' il violento dolore alle terminazioni nervose cominciò ad attenuarsi ma lui continuò a tenersi aggrappato alla scala nonostante il freddo sempre più intenso.

Riflettendo, si disse che le cose sarebbero potute andare anche peggio, e che il sergente e le guardie avrebbero potuto decidere di giocare a Lawrence d'Arabia e i Sei Turchi. Il Commodoro Tung, capo di stato maggiore della flotta dendarii e fanatico di storia militare, aveva preso ultimamente l'abitudine di subissarlo di aneddoti classici… come aveva fatto il Colonnello Lawrence a salvarsi da un'analoga situazione disperata? Ah, sì, aveva recitato la parte dell'idiota e si era fatto buttare fuori nel fango dai suoi catturatori. A quanto pareva Tung doveva aver fatto leggere quel volume anche a Murka.

A mano a mano che la sua vista si abituò ad essa, Miles scoprì che l'oscurità era relativa, perché pannelli vagamente luminescenti inseriti qua e là nel soffitto emettevano un malsano bagliore giallastro, e finalmente si decise a scendere gli ultimi due metri fino a venirsi a trovare sulla solida roccia.

Gli pareva già di leggere le notizie che avrebbero inviato a casa, a Barrayar… Il corpo di un ufficiale imperiale ritrovato nel Palazzo dei Sogni dello Zar della Carne. Causa della morte: sfinimento? Dannazione, questo non era il glorioso sacrificio al servizio dell'imperatore che aveva giurato di compiere in caso di necessità, questo era soltanto imbarazzante… ma forse la creatura della Casa Bharaputra avrebbe divorato ogni prova.

Con quel tetro conforto in mente cominciò a spostarsi zoppicando da un pilastro all'altro, soffermandosi di tanto in tanto per ascoltare e per guardarsi intorno; forse da qualche parte c'era un'altra scala, forse c'era una botola che qualcuno si era dimenticato di bloccare, forse c'era ancora speranza.

E forse c'era qualcosa che si muoveva nell'ombra appena oltre quel pilastro…

Miles sentì il respiro che gli si bloccava e poi riprendeva normalmente quando la traccia di movimento si rivelò per un grosso topo albino delle dimensioni di un armadillo, che nel vederlo si ritrasse e si allontanò rapidamente con gli artigli che ticchettavano sulla roccia. Si trattava soltanto di un ratto da laboratorio… dannatamente grosso ma pur sempre soltanto un ratto.

Poi un'enorme ombra fluttuante emerse dal nulla a velocità incredibile e afferrò il ratto per la coda, mandandolo a sbattere contro un pilastro e fracassandogli la testa con un orribile scricchiolio. Ci fu quindi il bagliore di un'unghia simile ad un artiglio e il bianco corpo peloso fu squarciato dallo sterno alla coda: dita frenetiche strapparono la pelle dal corpo del ratto fra spruzzi di sangue, poi Miles vide zanne aguzze mordere, lacerare e affondare nel corpo dell'animale.

Si trattava di zanne funzionali e non soltanto decorative, inserite in una mascella prognata che terminava in un'ampia bocca dalle lunghe labbra e che ricordava più il muso di un lupo che quello di una scimmia. La bocca era sovrastata da un naso piatto, da zigomi alti e da sporgenti e folte sopracciglia, i capelli erano una massa scura e arruffata, il corpo dinoccolato era un fascio di muscoli tesi alto due metri e mezzo.

Arrampicarsi di nuovo sulla scala non sarebbe servito a nulla perché la creatura avrebbe potuto afferrarlo e fargli fare la fine di quel ratto. E se si fosse alzato levitando lungo un pilastro? Oh, perché non aveva le dita delle mani e dei piedi a ventosa, qualcosa a cui il comitato bioingegneristico chissà come non aveva ancora pensato? E se invece si fosse immobilizzato, fingendosi invisibile? Alla fine Miles scelse quell'ultima soluzione per il semplice motivo che era paralizzato dal terrore.

I grossi piedi, che poggiavano nudi sulla fredda roccia, sfoggiavano anch'essi unghie simili ad artigli, ma a parte i piedi la creatura era vestita di indumenti fatti con la stoffa sterile di colore verde che si usava in laboratorio… una casacca simile ad un chimono trattenuta da una cintura e un paio di larghi calzoni. E poi c'era anche un'altra cosa.

Non lo avevano avvertito che si trattava di una femmina.

La creatura aveva quasi finito di divorare il topo quando sollevò lo sguardo e si accorse della sua presenza: con le mani e la faccia sporche di sangue si fece subito immobile quanto lui.

Con un movimento reso contratto dalla tensione Miles tirò fuori di tasca la barra nutrizionale un po' schiacciata che aveva nei calzoni e l'offrì con la mano protesa.

– Vuoi il dolce? – chiese, con un sorriso isterico.

La creatura abbandonò la carcassa del topo e gli tolse di mano la barra, strappandone la copertura e divorandola in quattro morsi; quando ebbe finito venne avanti e afferrò Miles per un braccio e per il davanti della maglietta nera, sollevandolo all'altezza della propria faccia: i piedi gli dondolavano nel vuoto e le dita munite di artigli gli premevano contro la pelle, l'alito della creatura era esattamente come lo aveva immaginato e gli occhi erano roventi.

– Acqua! – gracchiò la creatura.

Non mi avevano detto neppure che era capace di parlare, pensò Miles.

– Uh… acqua – ripeté, con voce stridula. – Certamente. Ci dovrebbe essere dell'acqua da queste parti… guarda tutti quei tubi che corrono lungo il soffitto. Se mi metti giù… brava ragazza… cercherò di trovare una conduttura dell'acqua o qualcosa del genere.

Lentamente la creatura lo abbassò fino a fargli toccare di nuovo terra con i piedi e lo lasciò andare. Miles indietreggiò piano, tenendo le mani aperte e abbandonate lungo i fianchi e schiarendosi la gola per cercare di trovare un tono di voce sommesso e suadente.

– Proviamo laggiù, dove il soffitto si abbassa, o meglio dove il fondo roccioso si alza… là vicino a quel pannello luminoso, quel sottile tubo di plastica composita… il bianco è di solito il colore usato per l'acqua. Non c'interessano i tubi grigi che indicano le fognature o quelli rossi, che corrispondono ai cavi di fibre ottiche… – Era impossibile stabilire se le sue parole venivano comprese, ma con gli animali il tono aveva un'importanza fondamentale. – Se tu… potessi sollevarmi sulle spalle come il Guardiamarina Murka, potrei tentare di allentare quella giuntura laggiù… – proseguì, mimando con i gesti nel dubbio di non essere riuscito a raggiungere l'eventuale intelligenza che si poteva celare dietro quei terribili occhi.

Le mani insanguinate, grandi almeno il doppio delle sue, lo afferrarono improvvisamente per i fianchi e lo sollevarono verso l'alto. Aggrappatosi al tubo bianco, Miles si spostò in direzione di una giuntura avvitata, sentendo sotto i piedi le spalle robuste della creatura che si spostavano con lui… i muscoli di quelle spalle stavano tremando, non era possibile che il tremito fosse soltanto una sua impressione; la giuntura risultò difficile da allentare al punto che gli sarebbero serviti degli attrezzi, ma non disponendone fece appello a tutte le sue forze, con il rischio di spezzare le fragili ossa delle dita. All'improvviso la giuntura cedette con uno stridio, la guarnizione di plastica scivolò un poco e qualche goccia cominciò a filtrargli fra le dita… un'ultima torsione fu sufficiente a separare del tutto le due metà e l'acqua scaturì in un vivido zampillo arcuato che andò a cadere sulla roccia sottostante.

Quella vista rese la creatura così frenetica che per poco non fece cadere Miles nel deporlo a terra, tanta era la sua premura di mettere la bocca spalancata sotto quel getto, lasciando che l'acqua vi cadesse dentro e le si riversasse sul volto, tossendo e trangugiando quel liquido prezioso con maggiore avidità di quanta ne avesse dimostrata nel divorare il topo. Bevve per un tempo apparentemente interminabile, poi lasciò che l'acqua le scorresse sulle mani, sulla faccia e sulla testa in modo da lavare via il sangue e bevve ancora. Miles cominciava ormai a pensare che non avrebbe più smesso quando infine essa si ritrasse dallo zampillo e spinse lontano dagli occhi i capelli umidi, abbassando lo sguardo su di lui e fissandolo per quello che gli parve un intero minuto.

– Freddo – ruggì poi. Miles sussultò.

– Ah… freddo… hai ragione, ne ho anch'io, ed ho anche i calzini bagnati. Caldo, vuoi del caldo. Dunque, vediamo, potremmo tentare di nuovo da questa parte, dove il soffitto si abbassa… no, non serve, perché il calore si raccoglierebbe tutto in alto…

La creatura lo stava seguendo con la stessa intensità di un gatto che stesse pedinando un… ecco… un topo, mentre lui sì aggirava fra i pilastri fino ad arrivare ad un punto dove il soffitto era tanto basso che si poteva passare soltanto strisciando, in quanto lo spazio disponibile era poco più di un metro. Sì, quella era la conduttura più bassa che avrebbe potuto trovare.

– Se riusciremo ad aprire questo – spiegò, indicando un tubo di plastica il cui diametro era quasi uguale alla circonferenza della sua vita, – otterremo un getto di aria calda, che viene pompata all'interno sotto pressione… ma questa volta non ci sono comode giunture a disposizione – concluse, fissando l'oggetto in questione e cercando di riflettere. Quella plastica composita era estremamente forte.

La creatura gli si accoccolò accanto e provò a tirare, poi si distese sulla schiena e scalciò contro il tubo, girandosi infine verso di lui con aria avvilita.

– Tentiamo così – suggerì allora Miles. Con un certo nervosismo, prese la mano della creatura e la guidò fino al tubo, utilizzando i robusti artigli per tracciare lunghi solchi intorno alla sua circonferenza.

La creatura grattò e grattò, infine si girò verso di lui e lo fissò come per dirgli che la cosa non stava funzionando.

– Adesso prova di nuovo a scalciare e a tirare – consigliò Miles.

La creatura doveva pesare qualcosa come centocinquanta o duecento chili e concentrò tutto quel notevole peso nel suo sforzo successivo: dapprima scalciò, poi passò le braccia intorno al tubo e puntellò i piedi contro il soffitto, inarcandosi e premendo con tutte le sue forze. Finalmente il tubo si spezzò là dove erano stati tracciati i graffi e lei cadde a terra insieme ad esso mentre l'aria calda cominciava a fuoriuscire con un sibilo. La creatura protese entrambe le mani verso il calore, espose ad esso la faccia e giunse quasi ad avvolgersi intorno al tubo, limitandosi poi ad inginocchiarsi in modo da lasciare che l'aria calda le soffiasse sul corpo. Accanto a lei Miles si accoccolò al suolo e si tolse i calzini bagnati, gettandoli sul tubo caldo perché si asciugassero e pensando che quello sarebbe stato il momento buono per fuggire, se soltanto ci fosse stato un luogo dove fuggire e se non fosse stato riluttante a perdere di vista la sua preda… preda? Stava considerando l'incalcolabile valore del polpaccio sinistro di quella creatura quando essa nascose improvvisamente il volto contro le ginocchia.

Non mi avevano avvertito che poteva piangere, pensò, tirando fuori il fazzoletto regolamentare, un arcaico pezzo di stoffa… non aveva mai capito il perché di quello stupido fazzoletto, a meno che non fosse da cercare nel fatto che dove andavano i soldati presto c'era chi piangeva… e glielo porse.

– Prendi, asciugati gli occhi con questo.

Lei lo accettò, si soffiò il grosso naso piatto e accennò a restituirlo.

– Tienilo – la fermò Miles. – Uh… mi chiedo con quale nome siano soliti chiamarti.

– Nove – ringhiò lei. Non era un suono ostile, era soltanto il modo in cui la sua voce tesa scaturiva dalla grande gola. – E com'è che chiamano te?

Buon Dio, una frase completa! Miles era sconcertato.

– Sono l'Ammiraglio Miles Naismith – rispose, sedendosi a gambe incrociate.

– Un soldato? – domandò lei, affascinata. – Un vero ufficiale? Tu? – concluse poi, con una sfumatura di dubbio nella voce, quasi lo stesse vedendo nei dettagli per la prima volta.

– Assolutamente autentico – confermò Miles, schiarendosi la voce, – anche se sto attraversando un momento piuttosto sfortunato.

– Anch'io – commentò la creatura, in tono brusco, tirando su con il naso. – Non so per quanto tempo sono rimasta in questa cantina, ma quella è stata la prima acqua che ho bevuto da quando vi sono giunta.

– Credo che siano passati tre giorni – replicò Miles. – E non ti hanno dato neppure del… ah… del cibo?

– No – confermò lei, accigliandosi… un effetto intensificato dalle zanne e davvero impressionante. – Questo è stato peggio di tutto quello che mi hanno fatto in laboratorio… e quelle mi erano già parse cose sgradevoli.

A ferirti non è ciò che non sai, ma ciò che sai essere diverso da come appare, sosteneva il vecchio detto. Miles guardò il cubo della mappa olografica e poi fissò Nove, immaginando di prendere fra pollice e indice quella missione dal piano strategico elaborato con tanta cura e di gettarla in un'unità per la distruzione dei rifiuti. Il pensiero delle condutture presenti nel soffitto continuava a tormentarlo, ma Nove non sarebbe mai potuta passare da una conduttura…

Mentre lui formulava quel pensiero Nove si allontanò dagli occhi i capelli arruffati e lo fissò con una rinnovata intensità che le accese gli occhi di una strana e chiara tonalità nocciola che contribuì ad accentuare il suo aspetto da lupo.

– Cosa stai esattamente facendo qui? – chiese. – Questo è un altro test?

– No, questa è la vita reale – rispose Miles, contraendo le labbra in un accenno di sorriso. – Io ho… commesso un errore.

– Suppongo di averlo fatto anch'io – commentò lei, abbassando il capo.

Tormentandosi un labbro, Miles la scrutò attraverso le palpebre socchiuse.

– Mi domando che razza di vita tu abbia condotto finora – osservò infine.

– Come tutti i cloni, fino all'età di nove anni ho vissuto presso gente pagata per allevarmi – spiegò lei, interpretando la sua domanda in senso letterale. – Poi ho cominciato a diventare troppo grossa e goffa e a rompere gli oggetti… così mi hanno portata a vivere nel laboratorio, ma la cosa non mi dispiaceva, perché stavo al caldo e avevo mangiare in abbondanza.

– Non ti possono aver semplificata troppo se avevano intenzione di fare di te un soldato – rifletté Miles. – Qual è il tuo quoziente intellettivo?

– Centotrentacinque.

– Capisco… – mormorò Miles, lottando per liberarsi dalla paralisi della sorpresa. – Hai mai ricevuto… qualsiasi forma di addestramento?

– Sono stata sottoposta ad una quantità di test – replicò lei, scrollando le spalle. – Sono andati tutti bene, tranne gli esperimenti di aggressività. Non mi piacciono le scosse elettriche. – Nove si interruppe con aria pensierosa e aggiunse: – E non mi piacciono gli psicologi sperimentali, perché mentono spesso. In ogni caso – concluse, accasciando le spalle, – ho fallito. Abbiamo fallito tutti.

– Come possono sapere che hai fallito se non hai mai ricevuto un addestramento adeguato? – ribatté Miles, in tono sprezzante. – Essere soldati significa adottare il più complesso comportamento acquisito di collaborazione interattiva che sia mai stato inventato… io sto studiando strategia e tattica da anni e tuttavia non so ancora neppure la metà di quello che c'è da imparare. È tutto qui – aggiunse, premendosi una mano contro la testa. Nove gli lanciò un'occhiata penetrante.

– Se è così – replicò, girando le grandi mani munite di artigli e fissandole, – perché mi hanno fatto questo?

Miles esitò a rispondere, sentendosi la gola improvvisamente arida… dunque anche gli ammiragli potevano mentire, a volte perfino a loro stessi.

– Prima d'ora avevi mai pensato a spezzare quella conduttura per l'acqua? – chiese, dopo una pausa colma di disagio.

– Se si rompono le cose si viene puniti, o almeno questo è ciò che succedeva a me. Forse tu non sarai punito, perché sei umano.

– E non hai mai pensato di fuggire, di evadere? È dovere di un soldato, quando viene catturato dal nemico, di sopravvivere, di fuggire e di sabotare, in quest'ordine.

– Il nemico? – ripeté Nove, sollevando lo sguardo verso il peso della Casa Ryoval che incombeva su di loro. – E chi sono i miei amici?

– Ah, sì. Questo è… il punto. – A chi si sarebbe mai potuto rivolgere quel cocktail genetico munito di zanne e di artigli? Miles trasse un profondo respiro, consapevole di quale dovesse essere la sua prossima mossa: dovere, convenienza, sopravvivenza, tutto lo obbligava a farla. – I tuoi amici sono più vicini di quanto tu creda. Perché pensi che io sia venuto qui?

Già, perché?

Nove lo fissò in silenzio con aria perplessa e accigliata.

– Sono venuto per te, perché ho sentito parlare di te – proseguì Miles. – Sto cercando reclute, o almeno lo stavo facendo, ma qualcosa è andato storto e adesso sto fuggendo. Se venissi con me ti potresti però unire ai Mercenari Dendarii, una squadra di prim'ordine che è sempre alla ricerca di uomini… o quel che sono… in gamba. Ho questo sergente maggiore che… che ha bisogno di una recluta come te.

Questo era verissimo. Il Sergente Dyeb era famoso per il suo atteggiamento orribile nei confronti delle donne che facevano il soldato, in quanto era suo parere che fossero tutte troppo deboli, e per questo motivo ogni recluta femminile che sopravviveva al suo addestramento sviluppava in modo abnorme il suo senso dell'aggressività. Miles immaginò il sergente che pendeva a testa in giù sospeso per i piedi da un'altezza di un paio di metri, e controllò la propria immaginazione sfrenata per cercare di concentrarsi sull'attuale crisi. Nove intanto lo stava guardando, all'apparenza per nulla colpita.

– Molto divertente – commentò con freddezza, al punto che per un assurdo momento Miles si chiese se non fosse stata dotata anche del complesso genetico della telepatia… ma no, lei era stata creata antecedentemente alla sua scoperta. – Io però non sono neppure umana… o forse non lo hai notato?

– È umano chi agisce da umano – replicò Miles, scrollando le spalle con un gesto accuratamente controllato, poi si costrinse a protendere una mano fino a sfiorare la guancia umida di lei. – E gli animali non piangono, Nove.

– Gli animali non mentono – ribatté lei, ritraendosi come da una scossa elettrica. – Gli umani invece sì, di continuo.

– Non di continuo – la corresse Miles, sperando che la luce fosse troppo tenue per permettere a Nove di scorgere il suo rossore nonostante l'intensità con cui lo stava scrutando.

– Dimostramelo – lo sfidò lei, con gli occhi d'oro chiaro pervasi all'improvviso di una rovente luce di curiosità.

– Uh… certo. Come?

– Togliti i vestiti.

– … cosa?

– Togliti i vestiti e giaci con me come fanno gli umani, gli uomini e le donne – spiegò la creatura, protendendo una mano a sfiorargli la gola con una lieve pressione degli artigli che lasciarono sulla pelle leggere strisce di gonfiore, mentre Miles emetteva un verso soffocato e sgranava gli occhi: un'altra leggera pressione degli artigli e le strisce di rossore sarebbero diventate rossi zampilli di sangue. Stava per morire…

Poi le labbra di lei si ritrassero nell'emettere un vago gemito di disperazione.

– Sono brutta – affermò in tono lamentoso, passando gli artigli sulla propria guancia fino a lasciarvi altrettanti solchi arrossati. – Troppo brutta… un animale… tu non pensi che io sia umana.

Nel complesso la creatura sembrava caricarsi per arrivare a chissà quale decisione distruttiva.

– No, no, no! – farfugliò Miles, sollevandosi in ginocchio e trattenendole le mani in modo da allontanargliele dal volto. – Non si tratta di questo, è solo che… a proposito, quanti anni hai?

– Sedici.

Sedici anni! Oh, Dio… Miles ricordava ancora i suoi sedici anni, quando era stato ossessionato dal sesso e si era sentito morire dentro ad ogni minuto, perché quella era un'età orribile per trovarsi intrappolato in un corpo distorto, fragile e abnorme. Dio solo sapeva come fosse riuscito allora a sopravvivere all'odio che provava per se stesso… no, ricordava cosa era successo: lui era stato salvato da qualcuno che lo amava.

– Non sei un po' troppo giovane per questo genere di avventure? – tentò, speranzoso.

– Quanti anni avevi tu quando lo hai fatto?

– Quindici – confessò Miles, prima di pensare a mentire, – ma è stato… traumatico, e a lungo andare non ha funzionato affatto.

Nove tornò a sollevare gli artigli verso il proprio volto.

– Non lo fare! – gridò Miles, trattenendola a forza. Quell'atteggiamento gli ricordava in maniera un po' troppo vivida l'episodio del coltello che il Sergente Bothari gli aveva tolto di mano a viva forza… un'opzione a cui adesso non poteva però ricorrere a sua volta. – Ti vuoi calmare? – urlò ancora.

Nove esitò e lui ne approfittò per distrarla.

– C'è anche il fatto che un ufficiale e un gentiluomo non si getta sulla sua dama sul terreno spoglio. Prima ci si siede, ci si mette a proprio agio, si conversa e si beve un po' di vino, suonando della musica. Non ti sei ancora scaldata… avanti, siediti qui dove il calore è maggiore – consigliò, spingendola più vicina alla conduttura infranta e sollevandosi poi sulle ginocchia alle spalle di lei per tentare di massaggiarle il collo e le spalle: i muscoli erano tesi e sembravano rocce sotto i suoi pollici, denunciando la futilità di qualsiasi tentativo da parte sua di cercare di strangolarla.

Non riesco a crederci. Intrappolato nelle cantine di Ryoval insieme ad un lupo mannaro teenager assetato di sesso. Non c'era niente del genere sul manuale di addestramento dell'Accademia Imperiale… pensò, ricordando la propria missione di far arrivare vivi sull'Ariel i tessuti del polpaccio sinistro di lei. Dottor Canaba, se sopravviverò lei ed io dovremo fare una piccola chiacchierata riguardo a tutto questo…

– Pensi che sono troppo alta? – aggiunse intanto Nove, con voce soffocata dal suo dolore e dalla strana forma della bocca.

– Per nulla. – Adesso che aveva ritrovato il controllo Miles riusciva a mentire con maggiore scioltezza. – Adoro le donne alte, lo puoi chiedere a tutti quelli che mi conoscono… e poi molto tempo fa ho fatto la bella scoperta che la differenza d'altezza conta soltanto quando si sta in piedi, mentre costituisce un problema… ah… minore quando si è sdraiati.

Mentre parlava, Miles stava ripassando mentalmente tutto quello che aveva appreso sul conto delle donne andando per tentativi: era una situazione tormentosa… cosa volevano le donne?

Spostandosi in modo da esserle di fronte le prese una mano con atteggiamento serio e lei lo fissò con altrettanta serietà, aspettando… istruzioni. Soltanto a questo punto Miles si rese infine conto di avere di fronte la sua prima vergine, e per parecchi secondi riuscì soltanto a sorriderle, pieno com'era di sorpresa.

– Nove… tu non hai mai fatto nulla del genere prima d'ora, vero?

– Ho visto dei video – rispose lei, aggrondandosi. – Di solito cominciano con i baci, ma… ma forse tu non vuoi baciarmi – concluse, accennando alla propria bocca deforme.

Miles cercò di non pensare al ratto defunto e divorato… dopo tutto Nove era stata lasciata di proposito senza mangiare.

– I video possono essere molto ingannevoli. Alcune ragazze che conosco mi hanno detto che una donna ha bisogno di pratica per imparare come reagisce il proprio corpo, ed ho paura che potrei farti male. – E che per reazione tu finisca per sventrarmi.

– Non ti preoccupare – replicò lei, incontrando il suo sguardo. – Ho una soglia del dolore molto elevata.

Ma io no, pensò Miles.

Tutto questo era pazzesco, lei era pazza, e lo era anche lui… e tuttavia poteva avvertire un senso di fascino per quella proposta salirgli dal ventre fino ad offuscargli il cervello come una nebbia magica. Senza ombra di dubbio, Nove era la donna più alta che lui avrebbe mai avuto occasione d'incontrare… e più di una donna di sua conoscenza lo aveva accusato di essere a caccia di montagne da scalare. Forse avrebbe potuto togliersi la voglia una volta per tutte…

Dannazione, credo proprio che se la caverebbe benissimo. In fin dei conti Nove non era priva di un certo… fascino non era la parola giusta, perché la sua bellezza era da ricercare nella rapida, snella, atletica funzionalità delle sue forme, una volta che ci si era abituati alle sue dimensioni. Da lei emanava una sorta di calore che lui poteva avvertire da dove si trovava… magnetismo animale? sussurrò l'osservatore nascosto in un angolo della sua mente. Potere? Quali che fossero stati i suoi risultati, di certo quell'esperienza sarebbe stata stupefacente.

Gli riaffiorò di colpo nella mente uno degli aforismi preferiti di sua madre: vale la pena di fare bene qualsiasi cosa che sia degna di essere fatta. Sentendosi preda delle vertigini come un ubriaco abbandonò infine il sostegno della logica per lasciarsi andare alle ali dell'ispirazione.

– Benissimo, dottore – si sentì mormorare, in tono un po' folle, – sperimentiamo.

Baciare una donna fornita di zanne fu senza dubbio una sensazione nuova, e ancor più lo fu essere baciato a sua volta… Nove era rapida ad apprendere; poi le braccia di lei lo circondarono estatiche e da quel momento Miles perse in qualche modo il controllo della situazione.

– Nove – chiese però qualche tempo dopo, emergendo per respirare, – hai mai sentito parlare di quel ragno chiamato vedova nera?

– No… cos'è?

– Lascia perdere – rispose lui, in tono distratto.

Fu una cosa alquanto goffa e impacciata ma sincera e alla fine le lacrime che brillarono negli occhi di lei furono di gioia e non di dolore. Nove sembrava enormemente soddisfatta, ma Miles era ormai così sfinito per l'allentarsi della tensione che si addormentò pochi minuti più tardi, appoggiato contro il corpo di lei.

E si svegliò ridendo.

– I tuoi zigomi sono davvero molto eleganti – osservò Miles, seguendo con un dito la linea che essi disegnavano sul volto di lei, e Nove si protese verso il suo tocco, raggomitolandosi in pari misura contro di lui e contro il tubo dell'aria calda. – Sulla mia nave c'è una donna che porta i capelli intrecciati in modo particolare sulla nuca… una pettinatura che a te starebbe benissimo. Forse ti dovrebbe insegnare come realizzarla.

Nove si tirò sulla fronte una ciocca di capelli e la fissò come per cercare di vedere al di là dello sporco groviglio che essa formava, poi sfiorò a sua volta il viso di lui.

– Anche tu sei molto attraente, ammiraglio – commentò.

– Chi? Io? – replicò Miles, passandosi la mano sulla barba vecchia di un giorno, sui lineamenti angolosi e sulle rughe scavate dal dolore. Deve essere abbagliata dal mio supposto grado, pensò.

– Il tuo volto è molto… vivo, e i tuoi occhi vedono davvero quello che stanno guardando.

– Nove… – cominciò lui, schiarendosi la gola, poi s'interruppe, esclamando: – Dannazione, questo non è un nome, è soltanto un numero. Che è successo a Dieci?

– È morto – rispose lei. E forse morirò anch'io, aggiunsero silenziosamente i suoi strani occhi, prima che le palpebre si abbassassero a nasconderli.

– Nove è il solo nome con cui ti hanno sempre chiamata?

– C'è anche un lungo codice numerico inserito nel biocomputer che costituisce la mia designazione.

– Ecco… tutti abbiamo un numero di riconoscimento – replicò Miles, pensando che in effetti lui ne aveva addirittura due, – ma questo è assurdo… non ti posso chiamare Nove, come se fossi un automa. Hai bisogno di un nome vero, un nome adatto a te – decise, piegando le labbra in un lento sorriso e appoggiandosi contro la spalla nuda e calda di lei… il suo corpo era davvero una fornace, il che significava che il suo metabolismo era proprio come gli era stato descritto. – Taura.

– Taura? – ripeté lei, con un accento un po' distorto ma melodioso provocato dalle sue lunghe labbra. – È un nome troppo bello per me.

– Taura – ribadì Miles, con fermezza. – Un nome bello ma forte, pieno di segreti sottintesi, perfetto. Ah, a proposito di segreti… – Era quello il momento giusto per parlarle di ciò che il Dottor Canaba aveva nascosto nel suo polpaccio sinistro, oppure avrebbe ottenuto soltanto di ferirla, come una donna che scoprisse di essere stata corteggiata soltanto per il suo denaro, o un uomo per il suo titolo? Il dubbio lo indusse ad esitare. – Adesso che ci conosciamo meglio, non credi che sarebbe ora di andarcene da questo posto?

– Come? – chiese Taura, fissando la tetra penombra che li circondava.

– Questo è ciò che dobbiamo stabilire, giusto? Ti confesso che la prima cosa che mi viene in mente sono le condutture.

Naturalmente non si riferiva a quella dell'aria calda, perché avrebbe dovuto restare senza mangiare per un mese per poterci entrare e comunque sarebbe arrostito per il calore. Raccolta la maglietta… aveva già rimesso i pantaloni appena si era svegliato perché quel freddo pavimento di pietra assorbiva spietatamente ogni traccia di calore da qualsiasi corpo con cui veniva in contatto… la scrollò e la indossò, alzandosi faticosamente in piedi. Dio, stava già diventando troppo vecchio per questo genere di cose, mentre quella sedicenne mostrava di possedere le energie fisiche di una divinità minore. Dove si era trovato lui quando aveva avuto la sua prima esperienza di sedicenne? Sulla sabbia… certo, era successo sulla sabbia. Miles sussultò ancora al ricordo dell'effetto che essa aveva avuto su alcune sensibili pieghe del corpo e si disse che forse la pietra fredda non era poi così male come alternativa.

Taura si sfilò di sotto la casacca e i pantaloni verdi, si vestì e lo seguì tenendosi accoccolata fino a quando il soffitto non fu abbastanza alto da permetterle di camminare eretta. Insieme passarono più volte al setaccio quella vasta camera sotterranea, scoprendo quattro scale di accesso a delle botole, che però erano tutte bloccate, oltre ad un'uscita per i veicoli che si trovava sul lato verso valle e che era anch'essa chiusa. Un'evasione diretta sarebbe stata la soluzione più semplice, ma se dopo non fosse riuscito a stabilire il contatto con Thorne per raggiungere la città più vicina avrebbero dovuto marciare per ventisette chilometri nella neve, lui dotato soltanto di calzini e Taura a piedi nudi. E se anche ci fossero arrivati non avrebbero poi comunque potuto utilizzare la rete di comunicazione video perché la carta di credito di Miles era ancora chiusa nella Sala Operativa della sicurezza, alcuni piani più sopra, e chiedere la carità nella città di Ryoval non sembrava una buona alternativa. Di conseguenza bisognava scegliere se evadere subito e partirsene più tardi oppure aspettare e cercare di equipaggiarsi adeguatamente, rischiando di essere catturati e di pentirsi subito. Le decisioni tattiche erano sempre un divertimento di questo tipo.

Alla fine optò per le condutture e indicò in alto verso quella più promettente.

– Credi di poterla aprire e issarmi lassù? – chiese a Taura.

Lei osservò la conduttura e annuì lentamente con espressione indecifrabile, poi si protese verso l'alto e si spostò fino a raggiungere una giuntura di metallo tenero, infilando sotto di essa le unghie dure come artigli e strappandola di netto. Per qualche istante esplorò quindi con le dita la fessura così prodotta, appendendosi ad essa come per sollevarsi verso il soffitto, e finalmente la conduttura si aprì sotto l'azione del suo peso.

– Ecco fatto – disse, sollevandolo con facilità come avrebbe fatto con un bambino.

Miles sgusciò nella conduttura, che era particolarmente stretta, anche se era la più ampia che era riuscito ad individuare nel soffitto dello scantinato, e strisciò in avanti sulla schiena, trovandosi costretto ad arrestarsi due volte per sopprimere crisi di riso sfumate di isterismo. La conduttura si piegava verso l'alto, e quando ebbe faticosamente descritto la curva con il proprio corpo scoprì che il percorso si diramava ad Y e che ciascuna diramazione aveva dimensioni che erano la metà di quelle del tratto iniziale. Imprecando, tornò indietro.

Taura lo stava osservando con il volto sollevato verso l'alto con un'angolazione insolita.

– Da quella parte non c'è niente da fare – annaspò Miles, invertendo faticosamente la propria direzione una volta tornato all'apertura e dirigendosi dalla parte opposta; anche quella branca descriveva una curva, ma pochi momenti più tardi incontrò una griglia: una griglia inflessibile, infrangibile e impossibile a tagliarsi a mani nude.

– D'accordo – borbottò, dopo essere rimasto a contemplarla per qualche istante, e tornò di nuovo indietro.

– Questo esclude definitivamente le condutture – riferì a Taura. – Uh… potresti aiutarmi a scendere? Dobbiamo dare ancora un'occhiata in giro.

Taura lo depose al suolo, e dopo che lui ebbe tentato invano di darsi una spolverata lo seguì abbastanza docilmente, anche se la sua espressione faceva supporre che stesse cominciando a perdere la propria fiducia nella sua potenza di ammiraglio; un particolare di una colonna attrasse l'attenzione di Miles, che si avvicinò per osservarla meglio nella tenue luce.

Si trattava di una delle colonne di sostegno antivibrazioni, che misurava due metri di diametro ed era incassata in un pozzo fluido inserito nel letto di roccia; senza dubbio, quella colonna saliva diritta fino ai laboratori per fornire una base ultrastabile a certi progetti per la generazione di cristalli e ad altre procedure. Miles picchiò a titolo di esperimento contro la sua superficie e il rumore che provocò rivelò che l'interno era cavo.

Aveva senso, perché il cemento non galleggiava molto bene. Un solco lungo la parete delineava… un portello di accesso? Miles fece correre le dita intorno ad esso, sondandolo e individuando qualcosa di nascosto; protendendo le braccia trovò un punto identico sul lato opposto e scoprì che i due punti cedevano lentamente sotto l'intensa pressione dei suoi pollici. All'improvviso si sentì uno schiocco seguito da un sibilo e l'intero pannello si staccò in maniera tanto brusca che Miles barcollò e riuscì a stento a impedirsi di lasciarlo cadere nel buco che si era creato. Dopo un momento si girò da un lato e appoggiò per terra il pannello.

– Bene, bene – commentò con un sorriso, poi infilò la testa nel vano che si era creato e guardò in alto e in basso, scorgendo soltanto il buio più assoluto.

Con cautela protese allora un braccio e tastò intorno all'apertura, incontrando una scaletta che saliva dall'umidità sottostante e che serviva per le pulizie e le riparazioni; a quanto pareva l'intera colonna poteva essere riempita di fluido secondo la quantità e la densità necessarie e una volta piena sarebbe stata autosigillata e impossibile ad aprirsi. Esaminò quindi attentamente il lato interno del bordo del portello, appurando che poteva essere aperto da entrambe le parti.

– Andiamo a vedere se più in alto c'è un'altra di queste aperture – decise.

Procedettero con lentezza, cercando a tentoni altri solchi a mano a mano che salivano nell'oscurità mentre Miles cercava di non pensare alla caduta a cui sarebbe andato incontro se gli fosse sfuggita la presa nell'oscurità e traeva al tempo stesso un certo conforto dal respiro profondo di Taura che risuonava sotto di lui. Avevano superato forse tre piani quando le dita gelate e intorpidite di Miles trovarono un'altra scanalatura; per poco essa non gli sfuggì, perché era sul lato opposto della scala rispetto alla prima, e anche quando l'ebbe individuata appurò ben presto che l'ampiezza delle sue braccia non era sufficiente a permettergli di tenersi agganciato intorno alla scala e di premere al tempo stesso i due pulsanti di apertura. Il primo tentativo gli fruttò uno spaventoso scivolone che lo indusse ad aggrapparsi spasmodicamente alla scala fino a quando il cuore non smise di battergli a precipizio.

– Taura? – chiamò con voce rauca. – Prova tu, non appena mi sarò spostato più in alto.

In effetti non rimaneva più molto spazio per salire, perché la colonna terminava circa un metro al di sopra della sua testa.

La notevole ampiezza di braccia di Taura risultò essere esattamente quello che ci voleva… un momento più tardi i pulsanti cedettero sotto la pressione delle sue grandi mani con uno stridio di protesta.

– Che cosa vedi? – sussurrò Miles.

– Una grande stanza buia. Forse è un laboratorio.

– Un'ipotesi sensata. Torna giù e rimetti a posto il pannello che abbiamo rimosso in basso, perché non ha senso rivelare a tutti dove siamo andati.

Mentre Taura eseguiva l'incarico assegnatole, Miles scivolò oltre il portello e nel laboratorio buio; non osava accendere una luce nonostante la stanza fosse priva di finestre, ma i quadranti di alcuni strumenti disposti sui tavoli e lungo le pareti emettevano un bagliore sufficiente perché i suoi occhi ormai abituati al buio gli evitassero almeno di inciampare in qualcosa. Una porta di vetro dava accesso ad un corridoio strettamente controllato da un sistema di monitoraggio elettronico. Premendo il naso contro il pannello di vetro Miles vide una sagoma vestita di rosso passare nel corridoio: c'erano delle guardie… ma cosa sorvegliavano?

In quel momento Taura emerse con difficoltà dal portello di accesso alla colonna e si sedette pesantemente sul pavimento, con la testa fra le mani; preoccupato, Miles le si avvicinò.

– Stai bene? – le chiese.

– No – rispose lei, scuotendo il capo. – Ho fame.

– Cosa? Di già? Quel ratto… er… quella barra nutritiva avrebbe dovuto essere sufficiente per ventiquattr'ore. – Per non parlare dei due o tre chili di carne che Taura si era mangiata come aperitivo.

– Per te, forse – ansimò lei, tremando.

Miles cominciò allora a capire perché Canaba avesse definito il proprio progetto un fallimento. Anche Napoleone sarebbe sbiancato al pensiero di nutrire un esercito di soldati dotati di un simile appetito, e forse quella ragazzina stava ancora crescendo… un pensiero sgomentante.

In fondo al laboratorio c'era un frigorifero, e se lui conosceva bene i tecnici di laboratorio… ah! Fra le provette spiccava un pacchetto contenente mezzo tramezzino e una pera decisamente grossa anche se ammaccata. Quando porse entrambe le cose a Taura lei si mostrò enormemente impressionata, come se le avesse materializzate per magia, e le divorò immediatamente, perdendo quasi subito il suo pallore.

Miles si mise quindi alla ricerca di altro cibo per la sua nuova recluta, ma purtroppo le altre sostanze organiche contenute nel frigorifero erano piccoli piatti di roba gelatinosa in cui crescevano muffe multicolori. A parte il frigorifero comune, però, c'erano anche tre grosse celle frigorifere disposte in fila lungo una parete: dopo aver sbirciato attraverso il pannello di vetro inserito nella porta di una di esse, Miles decise di correre il rischio e premette il pulsante che attivava la luce all'interno della cella. All'interno c'erano file e file di cassetti contrassegnati da etichette e pieni di vassoi di plastica trasparente: campioni congelati… chissà di cosa. Migliaia di campioni, anzi centinaia di migliaia, come Miles calcolò ad un'occhiata più attenta prima di rivolgersi al pannello di controllo luminoso adiacente la cella frigorifera… la temperatura all'interno era quella dell'azoto liquido. Tre celle frigorifere… milioni di… Di colpo si lasciò cadere a sua volta a sedere sul pavimento.

– Taura, sai dove siamo? – sussurrò in tono intenso.

– No, mi dispiace – mormorò lei di rimando, strisciando verso di lui.

– Era una domanda retorica: io so dove ci troviamo.

– Dove?

– Nella stanza del tesoro di Ryoval.

– Cosa?

– Quella – spiegò Miles, accennando con un pollice in direzione delle tre celle frigorifere, – è la collezione di tessuti che il barone ha raccolto nell'arco di cento anni. Mio Dio, il suo valore è quasi incalcolabile: Ryoval si è procurato ciascuno di quei campioni… tutti unici, impossibili da rimpiazzare, prelevati a mutanti o comunque a esseri bizzarri… implorando, comprando, prendendo a prestito o rubando nell'arco degli ultimi tre quarti di secolo. È tutto là, disposto in tante file ordinate, in attesa di essere scongelato, manipolato e inserito nell'organismo di qualche nuovo schiavo. Questo è il cuore di tutta la sua attività di manipolazione biologica degli esseri umani.

Mentre parlava, Miles balzò nuovamente in piedi e si mise a studiare i pannelli di controllo, ridendo silenziosamente con il respiro affannoso e il cuore che gli batteva a precipizio come se stesse per svenire.

– Dannazione. Oh, Dio – mormorò infine, soffermandosi a riflettere. Poteva essere fatto?

Quelle celle frigorifere dovevano avere un sistema di allarme ed erano quanto meno controllate da monitor collegati alla Sala Operativa della sicurezza. Ben presto individuò un grosso congegno che serviva per l'apertura delle porte, ma dal momento che non voleva aprirle evitò di toccarlo; ciò che stava cercando era il pannello di controllo dei sistemi di sicurezza, perché se fosse riuscito a manipolare anche soltanto un sensore… il complesso di celle era strutturato per trasmettere immagini a monitor dislocati in posizioni diverse oppure era congiunto mediante cavo ottico ad un monitor soltanto?

Trovò una piccola luce portatile sui tavoli del laboratorio, che scoprì essere dotati di cassetti e cassetti pieni di attrezzi e di materiale; sotto lo sguardo sconcertato di Taura, prese allora a saettare di qua e di là, effettuando un rapido inventario di ciò che aveva a sua disposizione.

Il monitor delle celle frigorifere era strutturato in modo da trasmettere a più postazioni ed era inaccessibile… ma la domanda era se avrebbe potuto trovare un accesso attraverso il sistema di immissione dei dati. Lavorando più silenziosamente che poteva rimosse una copertura di plastica color fumo e subito il cavo ottico scaturì dall'apertura trasmettendo un continuo flusso di informazioni in merito alle condizioni ambientali all'interno delle celle frigorifere. Il cavo si adattava perfettamente alla semplice presa ricevente inserita nella minacciosa scatola nera che controllava l'allarme della porta… ma nel laboratorio c'era un intero cassetto pieno di cavi ottici assortiti con svariate terminazioni e adattatori a Y. Da quel groviglio di cavi Miles estrasse quello che gli serviva, scartandone parecchi che avevano un'estremità guasta o altri danni. Nel cassetto c'erano tre registratori di dati ottici: due non funzionavano, ma il terzo sì.

Lavorando in fretta, Miles stese un cavo ottico, effettuò uno scambio di prese ed ottenne di mettere in comunicazione una delle celle frigorifere con due scatole di controllo, congiungendo al tempo stesso il cavo liberato con il registratore di dati. Nel corso dell'operazione dovette rassegnarsi a correre il rischio del verificarsi di un segnale luminoso durante lo spostamento, ma del resto se avessero effettuato dei controlli avrebbero riscontrato che tutto era tornato normale. Diede quindi al registratore di dati parecchi minuti per sviluppare un loop ripetitivo continuo, restando per tutto il tempo accoccolato immobile con la lampada spenta, mentre Taura aspettava con la pazienza di un predatore, senza fare rumore.

Finalmente, Miles mise il registratore di dati in comunicazione con tutte e tre le scatole di controllo, con le prese effettive che pendevano staccate. Avrebbe funzionato? I secondi trascorsero senza che suonassero allarmi o si sentisse il tonante sopraggiungere delle furenti guardie di sorveglianza…

– Taura, vieni qui – chiamò Miles.

Lei gli si avvicinò con espressione sconcertata.

– Hai mai incontrato il Barone Ryoval? – le chiese allora Miles.

– Sì, una volta… quando è venuto a comprarmi.

– Lo hai trovato simpatico?

Per tutta risposta Taura lo fissò come se pensasse che fosse impazzito.

– Già, non posso dire che piaccia molto neppure a me – commentò allora Miles. In effetti si era trattenuto a stento dall'ucciderlo, e adesso era grato di quello sforzo di autocontrollo. – Se potessi, ti piacerebbe strappargli i polmoni?

– Mettimi alla prova – ringhiò Taura, serrando i pugni.

– Bene! – approvò Miles, con un allegro sorriso. – Adesso ti impartirò la tua prima lezione di tattica. Vedi quel comando? – domandò, indicando lo strumento in questione. – La temperatura in queste celle frigorifere può essere elevata fino a duecento gradi centigradi per la sterilizzazione a caldo quando vengono pulite. Ora dammi un dito, uno solo, con delicatezza… più delicatezza di così – ordinò, guidandole la mano. – Applica la minima pressione possibile che puoi esercitare sul cursore e tuttavia continua a muoverlo… adesso il prossimo – aggiunse, spingendola verso il pannello successivo, – e l'ultimo.

A quel punto trasse un profondo respiro, incapace di credere a quello che erano riusciti a fare.

– La lezione – concluse, in un sussurro, – è che la cosa importante non è quanta forza applichi, ma dove la applichi.

Soffocò quindi l'impulso di scrivere qualcosa come La Vendetta del Nano con un pennarello indelebile sul davanti delle celle frigorifere, perché quanto più tempo il barone furente avrebbe impiegato a stabilire chi inseguire e tanto meglio sarebbe stato per lui. Di certo ci sarebbero volute parecchie ore per portare quella massa dalla temperatura dell'azoto liquido a quella di una bistecca ben cotta, ma se nessuno fosse entrato nel laboratorio prima dell'inizio del turno di giorno la distruzione sarebbe stata assoluta.

Si decise allora a lanciare un'occhiata all'orologio a muro, rendendosi infine conto di aver trascorso molto tempo in quello scantinato… tempo speso bene, e tuttavia…

– Ora – disse a Taura, che stava ancora fissando i pannelli e la propria mano con un'espressione riflessiva negli occhi dorati, – dobbiamo fuggire di qui. Adesso dobbiamo davvero andare via. – Se non vuoi che la tua prossima lezione di tattica verta su come evitare di far saltare in aria il ponte su cui ci si trova, aggiunse nervosamente fra sé.

Dopo aver esaminato con maggiore attenzione il meccanismo di bloccaggio della porta e ciò che si trovava al di là di essa… fra le altre cose, i monitor a parete erano ad attivazione sonora ed erano anche dotati di laser automatici… Miles quasi tornò a ripristinare la temperatura delle celle frigorifere. I suoi attrezzi elettronici di fabbricazione dendarii ora rinchiusi nella Sala Operativa della sicurezza avrebbero forse potuto disattivare i complessi circuiti della scatola di controllo da lui aperta, ma non poteva accedere a quegli attrezzi senza di essi… un simpatico paradosso. Naturalmente non era sorpreso che Ryoval avesse utilizzato i più sofisticati sistemi di allarme per l'unica porta di quel laboratorio, ma questo rendeva la stanza in cui erano una trappola ancora più mortale dello scantinato.

Munito della lampada portatile, effettuò un'ulteriore perquisizione del laboratorio controllando di nuovo il contenuto dei cassetti. Non trovò nessun modo di accedere ai computer, ma scoprì una grossa cesoia in un cassetto pieno di bulloni e di morse, e quell'attrezzo gli fece venire in mente la griglia della conduttura che in precedenza lo aveva sconfitto: a quanto pareva, il tragitto fino a quel laboratorio era stato soltanto un'illusione di progresso verso la fuga.

– Non c'è nulla di vergognoso in una ritirata strategica verso una posizione migliore – sussurrò a Taura quando lei si ribellò all'idea di entrare di nuovo nella buia colonna di sostegno. – Questa è una strada senza uscita… forse addirittura alla lettera.

Il dubbio che lesse nei suoi occhi dorati ebbe l'effetto di sconvolgerlo stranamente e gli fece sentire il cuore pesante. Ancora non ti fidi di me, vero? Bene, forse coloro che sono stati vittima di grandi tradimenti hanno bisogno di prove altrettanto grandi.

– Resta con me, ragazza – mormorò sottovoce, entrando nel condotto, – e arriveremo da qualche parte.

Taura si limitò a mascherare i propri dubbi abbassando le palpebre ma lo seguì senza più protestare, richiudendo il portello alle loro spalle.

Adesso che disponevano della lampada portatile la discesa risultò meno difficile e sgradevole di quanto lo fosse stata l'ascesa verso l'ignoto; non individuarono comunque altre aperture e ben presto si ritrovarono sul pavimento di pietra da cui erano partiti. Mentre Taura beveva di nuovo, Miles controllò il progresso dell'accumularsi dell'acqua che scaturiva dal tubo rotto: il getto scorreva in un flusso costante sul pavimento in pendenza, ma a causa delle vaste dimensioni della camera sarebbero trascorsi alcuni giorni prima che la polla che si andava lentamente accumulando contro la parete più bassa potesse acquisire qualche importanza strategica.

Ancora una volta Taura lo issò nella conduttura.

– Augurami buona fortuna – le disse, con voce soffocata dallo spazio angusto che lo circondava.

– Addio – rispose lei. Da dove si trovava Miles non poteva vedere l'espressione del suo volto, e di certo la sua voce era priva di qualsiasi intonazione.

– Arrivederci – la corresse con fermezza.

Qualche minuto di vigorose contorsioni fu sufficiente a riportarlo alla griglia, che si apriva su un ambiente pieno di oggetti che faceva parte dello scantinato e che appariva silenzioso e privo di occupanti. Il rumore delle cesoie che tagliavano il metallo della griglia gli parve tanto forte da attirare immediatamente tutto il contingente di sicurezza di Ryoval, ma non apparve nessuno… forse il capo della sicurezza stava dormendo per smaltire gli effetti della droga che gli era stata iniettata. Poi un rumore strisciante che non era stato prodotto da lui risuonò alle sue spalle e lo indusse ad immobilizzarsi e a puntare il raggio della lampada lungo una diramazione della conduttura: il raggio fece brillare due rosse gemme identiche… gli occhi di un grosso ratto. Per un momento Miles prese in considerazione l'idea di stordirlo e di portarlo a Taura ma poi la scartò: non appena fossero arrivati a bordo dell'Ariel le avrebbe fatto preparare un pasto a base di bistecche. Il ratto comunque provvide a mettersi in salvo allontanandosi di scatto.

Finalmente la griglia cedette e Miles sgusciò all'interno del magazzino, chiedendosi che ora fosse e decidendo che doveva essere tardi, molto tardi. La stanza si affacciava su un corridoio, ad una delle cui estremità uno dei portelli di accesso allo scantinato spiccava opaco sul pavimento. A quella vista il cuore di Miles fu pervaso dal primo serio barlume di speranza: una volta che avesse tirato fuori Taura avrebbero dovuto cercare di raggiungere un veicolo…

Come quella del primo portello, la serratura era manuale e di semplice funzionamento, senza sofisticati congegni elettronici da disattivare, ma scattava automaticamente nel richiudersi, quindi Miles ebbe cura di bloccarla prima di scendere la scaletta.

– Taura, dove sei? – sussurrò, puntando di qua e di là la luce della lampada.

Non ci fu una risposta immediata, né la luce fece brillare un paio di occhi dorati in mezzo a quella foresta di pilastri, ma Miles era riluttante a gridare, quindi scese lungo i gradini e si avviò di corsa attraverso lo scantinato, sentendo il freddo della pietra che gli penetrava attraverso i calzini e desiderando di poter riavere i suoi stivali.

Finalmente la trovò, seduta in silenzio alla base di un pilastro, con la testa girata da un lato e appoggiata alle ginocchia. Il suo volto aveva un'aria pensosa e triste… non ci voleva molto a imparare a decifrare le sfumature di espressione di quella creatura dai lineamenti di lupo.

– Tempo di mettersi in marcia, soldato – le disse.

– Sei tornato! – esclamò Taura, sollevando la testa di scatto.

– Cosa pensavi che avrei fatto? Certo che sono tornato. Sei la mia recluta, giusto?

Lei si sfregò la faccia con il dorso di una grossa zampa… mano, si corresse severamente Miles… e si alzò in piedi.

– Suppongo di sì – rispose, con un accenno di sorriso sulla bocca allungata. Se non se ne conosceva il significato, quella era un'espressione davvero allarmante.

– Ho aperto una botola, e adesso dobbiamo cercare di uscire da questo edificio e di tornare al cortile di servizio, dove ho visto parcheggiati parecchi veicoli quando sono entrato qui. Dopo tutto, cos'è un piccolo furto dopo…

Con un sibilo improvviso la porta esterna per l'accesso dei veicoli, che si trovava più in basso alla loro destra, cominciò a sollevarsi verso l'alto. Una folata di aria fredda e secca fendette l'oscurità insieme ad un sottile raggio di gialla luce dell'alba che tinse le ombre di azzurro e costrinse tanto Miles quanto Taura a ripararsi gli occhi dall'inatteso bagliore mentre dalla nebbia luminescente emergevano una mezza dozzina di sagome vestite di rosso con le armi spianate.

La mano di Taura si serrò intorno a quella di Miles, che accennò a gridarle di correre ma si trattenne appena in tempo: non era infatti possibile correre più in fretta del raggio di un distruttore neuronico, arma di cui almeno due di quelle guardie erano fornite. Troppo infuriato anche per imprecare, Miles si lasciò sfuggire fra i denti un respiro sibilante: erano stati così vicini a riuscire…

– Come, Naismith, sei ancora tutto intero? – commentò il capo della sicurezza, venendo avanti con un sorriso sgradevole sulle labbra. – Nove si deve infine essere resa conto che è arrivato il momento di cominciare a collaborare… vero, Nove?

Miles serrò con maggior forza la mano di Taura, nella speranza che lei interpretasse quel gesto come un ordine di aspettare.

– Suppongo di sì – ribatté la ragazza, in tono freddo, sollevando il mento.

– Era ora – approvò Moglia. – Comportati da brava ragazza e quando questa faccenda sarà finita ti riporteremo di sopra e ti daremo la colazione.

Brava, segnalò ancora Miles con la mano, consapevole che adesso Taura stava aspettando le sue imbeccate. Intanto Moglia lo pungolò con il manganello.

– È ora di andare, nano. I tuoi amici ti hanno riscattato, cosa che mi sorprende.

Sorpreso lui stesso, Miles si mosse verso l'uscita, continuando a tirare Taura con sé senza però guardarla e cercando di evitare il più possibile di attirare l'attenzione sulla loro… vicinanza, fintanto che essa permaneva. Non appena ebbero acquisito una sufficiente sincronizzazione le lasciò andare la mano.

Cosa diavolo…? pensò, quando sbucarono all'aperto sotto l'ancora incerta luce dell'alba e salirono una rampa per arrivare ad un cerchio di tarmac ancora lucente di condensa mattutina. Su quel cerchio era raccolto un gruppo davvero particolare.

Bel Thorne e un soldato dendarii armato di paralizzatore si agitavano a disagio… possibile che fossero prigionieri?… mentre vicino a loro una mezza dozzina di uomini armati che sfoggiavano la divisa verde della Casa Fell si tenevano pronti a intervenire e un aerocarro su cui spiccava il logo di Fell era parcheggiato al limitare del cerchio di tarmac. In aggiunta a tutto questo la quaddie Nicol, avvolta in una pelliccia bianca che la riparava dal freddo, si librava sulla sua poltrona antigravitazionale ed era tenuta sotto il tiro di un paralizzatore brandito da un'altra guardia vestita di verde. Una luce grigia e oro gelida quanto i tenui raggi del sole faceva da cornice a tutto questo levandosi al di sopra delle lontane montagne e trapassando la coltre di nubi.

– È quello l'uomo che vuoi? – domandò a Bel Thorne un capitano delle guardie che sfoggiava l'uniforme verde.

– È lui – confermò Thorne, pallido in volto per uno strano miscuglio di sollievo e di tensione. – Ammiraglio, sta bene? – chiese quindi in tono urgente, sgranando gli occhi alla vista dell'alta compagna di Miles. – E cosa diavolo è quello?

– Lei è la nostra nuova recluta da addestrare – replicò con decisione Miles, sapendo che A) Bel avrebbe colto tutti i sottintesi condensati nelle sue parole, e che B) le guardie di Ryoval invece non lo avrebbero fatto.

Bel apparve sconvolto, il che confermò a Miles che era riuscito almeno in parte a fargli pervenire il proprio messaggio, mentre il Capo della Sicurezza Moglia si mostrò sospettoso ma sconcertato; tuttavia era chiaro che Miles costituiva un problema di cui Moglia era impaziente di liberarsi, perché il capo della sicurezza si affrettò ad accantonare il proprio sconcerto per trattare con una persona per lui molto più importante di Bel… il capitano delle guardie di Fell.

– Cosa significa questo? – sibilò allora Miles a Thorne, avvicinandosi più che poteva finché non fu arrestato da una guardia in tunica rossa che puntò il suo distruttore e scosse il capo con fare ammonitore.

Intanto Moglia e il capitano di Fell si stavano scambiando dati elettronici su un pannello per i rapporti, entrambi chini su quelli che evidentemente erano documenti ufficiali.

– Quando ti abbiamo perso, la scorsa notte, ho ceduto al panico – spiegò Bel, abbassando la voce perché soltanto Miles potesse sentirlo. – Un assalto frontale era da escludere, quindi mi sono recato dal Barone Fell per chiedergli aiuto, anche se l'aiuto che ho ottenuto non è stato esattamente quello che mi aspettavo. Fell e Ryoval hanno concluso fra loro un accordo, decidendo di scambiare Nicol con te. Giuro che ho scoperto questo particolare soltanto un'ora fa! – concluse, indirizzando la sua protesta alla quaddie, che lo stava fissando con le labbra serrate e un bagliore nello sguardo.

– Capisco – commentò Miles, poi fece una pausa e aggiunse: – Hai intenzione di rimborsarle il suo dollaro?

– Non avevo idea di cosa ti stava succedendo là dentro – gemette Bel, in tono tormentato. – Ci aspettavamo da un momento all'altro che Ryoval cominciasse a trasmettere un olovideo di oscene e ingegnose torture che avevano te come protagonista. Come dice il Commodoro Tung, quando si è in una situazione di stallo bisogna ricorrere ai sotterfugi.

Miles riconobbe uno degli aforismi di Sun Tzu che Tung amava tanto. Nelle sue giornate peggiori il commodoro aveva l'abitudine di citare le parole di quel generale morto da 4000 anni in lingua cinese originale, mentre quando si sentiva benevolo i suoi ascoltatori ottenevano una traduzione. Guardandosi intorno, effettuò un rapido calcolo degli uomini, delle armi e dell'equipaggiamento, rilevando che la maggior parte delle guardie vestite di verde era dotata di paralizzatore. Tredici contro… tre? Oppure quattro? Lanciò un'occhiata a Nicol e si chiese se non sarebbero stati addirittura cinque. Quando si è in una situazione disperata, consigliava Sun Tzu, si deve combattere. E in che modo la situazione sarebbe mai potuta diventare più disperata di così?

– E cosa hai offerto al Barone Fell in cambio di questo straordinario atto di carità? – chiese infine. – Oppure lo sta facendo per pura bontà d'animo?

Bel gli scoccò un'occhiata esasperata, poi si schiarì la gola prima di rispondere.

– Gli ho promesso che gli avresti rivelato la verità in merito al trattamento di ringiovanimento betano.

– Bel…

– Ho pensato che una volta che ti avessi liberato avremmo escogitato qualcosa insieme -!o interruppe Thorne, scrollando le spalle, – ma giuro che non avrei mai immaginato che avrebbe offerto Nicol a Ryoval.

Giù nella lunga vallata era possibile vedere un punto che si muoveva lungo ii sottile bagliore di una monorotaia: gli ingegneri biologici, i tecnici, i venditori, gli impiegati e i cuochi della mensa sarebbero arrivati presto. Nel sollevare lo sguardo sul grande edificio bianco, Miles cercò d'immaginare la scena che si sarebbe verificata nel laboratorio del terzo piano quando le guardie avrebbero disattivato l'allarme per permettere ai tecnici di iniziare il lavoro, e gii parve di vedere il primo di essi oltrepassare la porta e arricciare il naso, chiedendo in tono lamentoso quale fosse la causa di quell'odore spaventoso.

– Il «tecnico medico Vaughn» si è già presentato a bordo dell'Ariel? – chiese.

– Meno di un'ora fa.

– Già, bene… a quanto pare non avremo bisogno di uccidere il suo grasso vitello, dopo tutto. Farà parte dello scambio – dichiarò Miles, accennando con il capo in direzione di Taura.

– Quella cosa viene con noi? – domandò Bel, abbassando ulteriormente il tono di voce.

– Farai meglio a crederci. Vaughn non ci ha detto tutto… a voler minimizzare. Comunque ti spiegherò ogni cosa più tardi – replicò Miles, mentre i due capi delle guardie concludevano i loro controlli e Moglia si dirigeva verso di lui, roteando spavaldamente il manganello. – Intanto, voglio avvertirti che questa non è una situazione di stallo ma una situazione disperata. Nicol, quanto a te, voglio che sappia che i Dendarii non concedono rimborsi.

Nicol lo fissò con espressione sconcertata mentre Bel sgranò gli occhi nel controllare le probabilità… e dalla sua espressione Miles capì che aveva calcolato che fossero tredici contro tre a loro sfavore.

– Davvero? – si limitò però a rispondere, con voce un po' rauca, mentre un segnale appena percettibile della mano abbandonata lungo il fianco serviva a mettere sul chi vive il soldato che lo accompagnava.

– Sì, è davvero disperata – ripeté Miles, poi trasse un profondo respiro e gridò: – Adesso, Taura! attacca!

Nello stesso momento in cui pronunciava quelle parole si scagliò contro Moglia, non tanto perché si aspettasse di riuscire a sottrargli il manganello quanto per porre il corpo del capo della sicurezza fra il proprio e la canna dei distruttori neuronici branditi dalle guardie.

Il soldato dendarii, che aveva prestato attenzione a tutti i particolari dell'evolversi della situazione, si affrettò ad abbattere uno degli uomini dotati di distruttore con la prima scarica del suo paralizzatore e subito rotolò lontano dal fuoco aperto per reazione dalla seconda guardia. Bel si affrettò a colpire anche quella, balzando poi di lato, mentre due guardie vestite di rosso che stavano puntando il paralizzatore contro di lui venivano bruscamente afferrate per il collo e sollevate da terra; con metodo assai poco scientifico ma con una notevole energia Taura sbatté la testa di uno dei due contro quella dell'altro ed entrambe le guardie si accasciarono sulle mani e sulle ginocchia, annaspando alla cieca per ritrovare le armi che erano loro sfuggite di mano.

Non sapendo con esattezza contro chi fare fuoco gli uomini di Fell esitarono fino a quando Nicol scattò all'improvviso verso l'alto sulla poltrona antigravitazionale per poi ridiscendere sulla testa della sua guardia, la cui attenzione era stata distratta dallo scontro in atto. L'uomo crollò come un bue sotto una mazzata e subito Nicol manovrò lateralmente la poltrona in modo da sottrarsi al fuoco del paralizzatore di un'altra guardia di Fell per risalire subito dopo verso l'alto. Nel frattempo Taura afferrò una guardia dalla divisa rossa e la scagliò contro una vestita di verde, facendo cadere entrambi gli uomini in un groviglio di gambe e di braccia, mentre il soldato dendarii impegnava un corpo a corpo con un'altra guardia in divisa verde per usarla come schermo dal fuoco dei paralizzatori; il capitano del contingente di Fell rifiutò però di lasciarsi bloccare da quella manovra e stordì spietatamente entrambi… una tattica valida considerato che il vantaggio numerico era dalla sua parte.

La mischia era così intensa che i colori delle divise parevano vorticare davanti agli occhi di Miles. Identificando in Taura la maggiore minaccia il capitano degli uomini di Fell la prese di mira, ma in quel momento venne a sua volta abbattuto dal paralizzatore di Bel Thorne, proprio mentre Nicol mandava la sua poltrona a sbattere contro l'ultima guardia in divisa verde ancora in piedi.

– L'aerocarro! – gridò Miles, con voce rauca. – Andate all'aerocarro!

Bel gli scoccò un'occhiata disperata e spiccò la corsa in direzione del mezzo; alle sue spalle, Miles continuò a lottare con l'agilità di un'anguilla fino a quando Moglia gli afferrò una caviglia con una mano ed estrasse con l'altra un coltello affilato e sottile, premendoglielo contro il collo.

– Fermo! – ingiunse il capo della sicurezza di Ryoval. – Così va meglio…

Il profondo silenzio sceso immediatamente sulla scena gli fece capire di aver improvvisamente trasformato un disastro in una vittoria.

– State tutti fermi! – aggiunse.

Bel s'immobilizzò con la mano sulla maniglia dell'aerocarro, poco lontano da un paio di uomini che si contorcevano gemendo sul tarmac.

– Adesso – proseguì Moglia, – allontanatevi da… ouch!

– Lascia cadere il coltello – gli sussurrò all'orecchio Taura, la cui voce era adesso un ringhio sommesso, – se non vuoi che ti squarci la gola a mani nude.

Con uno sforzo Miles si costrinse a spostare lo sguardo di lato nel tentativo di vedere al di là della propria testa immobilizzata, sentendo la lama affilata che gli vibrava contro la pelle.

– Posso ucciderlo prima che tu lo faccia – gracchiò Moglia.

– Il piccolo uomo è mio – ribatté Taura, – sei stato tu stesso a darmelo. Lui è tornato indietro per me. Feriscilo anche soltanto in maniera lieve ed io ti strapperò la testa per poi bere il tuo sangue.

Miles sentì il peso di Moglia che gli si toglieva di dosso quando il capo della sicurezza venne issato in piedi e subito si alzò a sua volta di scatto, barcollando. Taura stava tenendo Moglia per il collo, con gli artigli che affondavano nella carne.

– Desidero ancora strappargli la testa – ringhiò in tono petulante, con il ricordo degli abusi sofferti che le brillava nello sguardo.

– Lascialo andare – annaspò Miles. – Fra poche ore subirà una vendetta più artistica di qualsiasi cosa noi potremmo escogitare… credimi.

Bel tornò indietro di corsa per stordire il capo della sicurezza da una distanza alla quale non avrebbe corso il rischio di colpire con il paralizzatore anche Taura che lo stava tenendo a distanza da sé come se fosse stato un gatto bagnato, poi Miles chiese a Taura di caricarsi in spalla il soldato dendarii privo di sensi mentre lui raggiungeva di corsa le porte posteriori dell'aerocarro e le apriva per Nicol, che spinse la sua poltrona antigravitazionale all'interno del veicolo. Anche gli altri si ammassarono sull'aerocarro e chiusero le porte, poi Bel azionò i comandi e il veicolo saettò nell'aria, nello stesso momento in cui una sirena prendeva ad echeggiare da qualche parte nel complesso biologico di Ryoval.

– Un comunicatore da polso, un comunicatore da polso – balbettò Miles, sottraendo l'oggetto in questione al soldato svenuto. – Bel, dov'è parcheggiata la nostra navetta?

– Siamo scesi in un piccolo astroporto commerciale appena fuori della città di Ryoval, a circa quaranta chilometri da qui.

– È rimasto qualcuno a bordo?

– Anderson e Nout.

– Qual è il numero del loro canale di comunicazione codificato?

– Ventitré.

Miles prese posto sul sedile accanto a quello di Bel e attivò il canale; ci volle una piccola eternità prima che il Sergente Anderson rispondesse… qualcosa come trenta o quaranta secondi durante i quali l'aerocarro continuò a volare alla massima velocità al di sopra delle cime degli alberi e della cresta dell'altura più vicina.

– Laureen, voglio che faccia decollare la navetta, perché abbiamo bisogno di essere prelevati d'emergenza al più presto. Siamo a bordo di un aerocarro della Casa Fell, direzione… – Miles s'interruppe e protese il comunicatore sotto il naso di Bel.

– Verso nord dal Complesso Biologico Ryoval – scandì Bel. – Velocità circa duecentosessanta chilometri all'ora, il che è il massimo di cui questa carcassa è capace.

– Si sintonizzi sul nostro segnale d'emergenza – aggiunse Miles, attivando il segnale del comunicatore, – e non aspetti il permesso di decollo da parte del controllo del traffico astroportuale dell'astroporto di Ryoval, perché non l'otterrà. Chieda a Nout di collegare il mio comunicatore con l'Ariel.

– Fatto, signore – rispose allegramente Anderson.

Ci furono alcune scariche di statica e qualche secondo di angoscioso ritardo, poi si sentì una voce concitata.

– Parla Murka. La scorsa notte credevo che ci sarebbe venuto dietro immediatamente. Sta bene, signore?

– Per il momento. Il «tecnico medico Vaughn» è a bordo?

– Sì, signore.

– D'accordo, non lasciate che se ne vada e garantitegli che ho con me i suoi campioni di tessuti.

– Davvero? Come ha fatto…

– Per ora non ci pensi. Faccia richiamare a bordo tutti i soldati e metta la nave in orbita libera, effettuando i calcoli per prelevare in volo la navetta e avvertendo l'ufficiale pilota di tracciare la rotta per la stazione di balzo di Escobar alla massima accelerazione non appena ci avrete raccolti. Non aspettate nessun permesso di decollo.

– Stiamo ancora stivando il carico…

– Abbandonate tutto ciò che non è ancora a bordo.

– Siamo in guai seri, signore?

– Mortalmente seri, Murka.

– D'accordo, signore. Chiudo.

– Credevo che avremmo dovuto essere silenziosi come topolini, qui sul Gruppo Jackson – si lamentò Bel. – Non stiamo facendo un po' troppo chiasso?

– La situazione è cambiata. Dopo quello che abbiamo fatto la notte scorsa sarà impossibile negoziare con Ryoval per ottenere Nicol, o anche soltanto Taura: laggiù ho sferrato un colpo in nome della verità e della giustizia di cui fra breve potrei aver modo di pentirmi amaramente… ma te ne parlerò più tardi. In ogni caso, vuoi davvero essere nei dintorni quando dovrò spiegare al Barone Fell la verità a proposito del trattamento di ringiovanimento betano?

– Oh – fece Thorne, con un bagliore nello sguardo, concentrandosi sul compito di pilotare. – Sarei pronto a pagare per assistere a questa scena, signore.

– No. Per un ultimo momento, laggiù, abbiamo avuto tutti i pezzi nelle nostre mani, almeno potenzialmente – replicò Miles, analizzando al tempo stesso i semplici comandi dell'aerocarro. – Non riusciremo mai più ad averli tutti insieme nello stesso posto. Si cerca sempre di manovrare fino al limite del possibile, ma il momento culminante richiede l'azione, e se te lo lasci sfuggire gli dèi ti danneranno per sempre. E viceversa. A proposito di azione, hai visto il modo in cui Taura ha eliminato sette di quei tizi? – chiese, ridacchiando al ricordo. – Pensa a cosa riuscirà a fare dopo aver ricevuto l'addestramento di base.

Bel si lanciò un'occhiata piena di disagio al di sopra della spalla, in direzione del retro dell'aerocarro, dove Nicol aveva incastrato la sua poltrona in un angolo e Taura se ne stava accoccolata vicino al corpo del soldato ancora svenuto.

– Ero troppo occupato per tenere il conto – rispose infine.

Lasciato il suo sedile, Miles passò nel retro dell'aerocarro per controllare le condizioni del suo prezioso carico vivente.

– Sei stata grande, Nicol – disse, – hai combattuto come un falco. Può darsi che ti faccia uno sconto su quella tariffa di un dollaro.

Con il respiro ancora affannoso e le guance color avorio tinte di rossore, Nicol sollevò una delle due braccia superiori per allontanare una ciocca di capelli neri dagli occhi scintillanti.

– Avevo paura che rompessero il mio salterio – replicò, accarezzando con una delle mani inferiori il grosso contenitore infilato accanto a lei nella poltrona a forma di tazza. – E poi ho avuto paura che rompessero Bel…

Miles si andò quindi a inginocchiare accanto a Taura, che sedeva contro la parete del furgone con il volto tinto di una sfumatura verdastra.

– Taura cara, stai bene? – le chiese, sollevandole con delicatezza una mano dotata di artigli per controllarle le pulsazioni, che erano violente; Nicol, che aveva piazzato la sua poltrona il più lontano possibile da Taura, osservò con espressione strana quel gesto pieno di tenerezza.

– Ho fame – annaspò Taura.

– Di nuovo? Ma certo, è per via di tutte le energie che hai consumato. Qualcuno ha una barra nutritiva?

Un rapido controllo rivelò che nella tasca dei calzoni del soldato svenuto c'era una barra ancora quasi intera, che Miles sequestrò immediatamente, sorridendo con aria benevola nel vedere il modo in cui Taura la trangugiava.

Niente più topi per te d'ora in poi, giurò fra sé, notando il tentativo di lei di ricambiare a bocca piena il suo sorriso. Non appena arriveremo a bordo dell'Ariel avrai per cena tre bistecche e un paio di torte al cioccolato come dolce.

L'aerocarro sussultò. Avendo ritrovato in parte la propria forma, Taura protese i piedi per tenere l'ammaccata poltrona di Nicol ferma al suo posto e per impedirle di sbattere di qua e di là.

– Grazie – disse la quaddie, guardinga, e Taura rispose con un cenno del capo.

– Abbiamo compagnia – avvertì in quel momento Thorne da sopra la spalla, e Miles si affrettò a tornare nella cabina di guida.

Due aeromobili stavano sopraggiungendo rapide alle loro spalle: la sicurezza di Ryoval, senza dubbio dotata di veicoli più efficienti e veloci di quelli della comune polizia civile. Bel sterzò ancora quando una scarica al plasma saettò loro accanto lasciando vivide scie verdastre impresse sulla retina degli occhi di Miles. I loro inseguitori erano attrezzati in maniera semimilitare ed erano decisamente furibondi.

– Dal momento che questo è uno degli aerocarri di Fell dovremmo avere a disposizione qualcosa con cui rispondere al loro fuoco – osservò Miles, ma davanti a lui non c'era nulla che somigliasse anche vagamente ad un comando per azionare delle armi.

Un sibilo, un urlo di Nicol e l'aerocarro ondeggiò nell'aria, raddrizzandosi subito sotto l'esperta guida di Bel, poi ci furono un rombo e una vibrazione che indussero Miles a guardarsi freneticamente alle spalle… uno degli angoli superiori del retro dell'aerocarro era stato spazzato via e la porta posteriore era saldata da un lato e pendeva libera dal lato opposto. Taura continuava però a puntellare la poltrona di Nicol, che adesso le stava stringendo le caviglie con entrambe le mani superiori.

– Ah – commentò Thorne, – non siamo corazzati.

– Credevano forse che questa sarebbe stata una missione pacifica? – commentò Miles, controllando il cronometro da polso. – Laureen, ha già lasciato l'astroporto?

– Sto arrivando, signore.

– Se non ha mai spinto i motori al massimo ora le si presenta l'occasione d'oro per farlo, perché questa volta nessuno si lamenterà del modo in cui tratta le attrezzature.

– Grazie, signore – rispose allegramente il sergente.

Intanto l'aerocarro stava perdendo quota e velocità.

– Tenetevi forte! – gridò Bel da sopra la spalla, e improvvisamente invertì la propulsione.

I loro inseguitori saettarono oltre ma presero subito quota per cambiare direzione a loro volta; Bel ne approfittò per accelerare nuovamente e dal retro giunse un altro urlo quando quella manovra fece slittare il loro carico vivente in direzione delle ormai assai poco sicure porte posteriori.

In una situazione del genere i paralizzatori manuali di cui erano dotati i Dendarii non erano di nessuna utilità, quindi Miles tornò sul retro dell'aerocarro per cercare uno scomparto per i bagagli, una rastrelliera per le armi, qualsiasi cosa… di certo gli uomini di Fell non facevano affidamento soltanto sulla spaventosa reputazione della loro Casa come forma di protezione.

I sedili imbottiti lungo i due lati dello scomparto di carico su cui presumibilmente si erano seduti gli uomini della squadra di Fell, si sollevavano per rivelare un vano bagagli sotto ciascuno di essi: il primo era vuoto, il secondo conteneva effetti personali… Miles indugiò per una frazione di secondo a contemplare l'eventualità di strangolare un avversario con i pantaloni del pigiama di qualcuno o di occludere le prese d'aria di un'aeromobile con la biancheria intima di qualcun altro… e il terzo era anch'esso vuoto. Il quarto era chiuso a chiave.

L'aerocarro ondeggiò sotto un'altra scarica e parte del tetto venne staccata dal vento di corsa mentre il veicolo precipitava verso il basso. Miles si aggrappò a Taura e sentì lo stomaco che sembrava fluttuargli verso l'alto quando come tutti gli altri si venne a trovare appiattito contro il pavimento dell'aerocarro mentre Bel cercava di frenare. Il veicolo fu scosso da un tremito, sussultò, e tutti i suoi occupanti… Miles, Taura, il soldato svenuto, Nicol sulla sua poltrona… furono scagliati in avanti in un groviglio allorché esso si arrestò davanti ad un cespuglio congelato.

Con il volto rigato di sangue Bel venne a raggiungerli.

– Fuori, Fuori! – urlò.

Miles si protese verso la nuova apertura che si era creata nel tetto ma subito ritrasse la mano di scatto nel venire a contatto con il metallo e la plastica fusi e ancora roventi. Alzandosi in piedi, Taura protese allora la testa fuori del buco, poi tornò ad accoccolarsi e spinse Miles all'esterno, dove lui sgusciò al suolo e si guardò intorno. Si trovavano in una valle disabitata e coperta di vegetazione originaria del pianeta, cinta da rocciose e brulle alture, e le due aeromobili inseguitrici stavano volando verso di loro con andatura più lenta… per catturarli oppure per prendere meglio la mira?

In quel momento la navetta da combattimento dell'Ariel oltrepassò ruggendo il costone e scese nella valle come la mano vendicatrice di Dio: al suo confronto le aeromobili inseguitrici apparivano molto più piccole. Una di esse virò e fuggì, mentre la seconda venne schiantata al suolo non da una scarica al plasma ma da un rapido colpo assestato con un raggio traente. Subito dopo la navetta venne a posarsi accanto all'aerocarro distrutto con un assordante crepitio di cespugli spezzati e la sua rampa di accesso si abbassò e si protese come una sorta di soave e di soddisfatto gesto di saluto.

– Esibizionista – borbottò Miles, poi si passò sulla spalla un braccio dello stordito Thorne e si avviò con gratitudine verso i soccorritori, seguito da Taura che trasportava il soldato svenuto e da Nicol che stava lottando per costringere la malconcia poltrona a librarsi nell'aria per quella breve distanza.

Sottili rumori di protesta emanarono dalla nave tutt'intorno a Miles mentre lui imboccava il corridoio che partiva dal portello d'attracco della navetta, e lo stomaco gli si contrasse a causa della gravità artificiale che non era perfettamente sincronizzata con i motori in sovraccarico. La nave stava già lasciando l'orbita e Miles voleva arrivare il più presto possibile alla Sezione Navigazione e Comunicazioni, anche se finora tutto lasciava supporre che Murka stesse portando avanti ogni cosa con estrema competenza; alle sue spalle Anderson e Nout portarono a bordo il soldato svenuto che stava ora riprendendo i sensi fra sommessi gemiti e lo consegnarono ad un tecnico medico in attesa con una barella antigravitazionale, mentre Thorne… che si era fatto temporaneamente medicare il taglio alla fronte con una plastibenda… avvertiva Nicol di accodarsi al tecnico medico con la sua danneggiata poltrona antigravitazionale e si allontanava subito alla volta della Navigazione e Comunicazioni. Nel girarsi per imitarlo, Miles si venne a trovare faccia a faccia con l'ultimo uomo che avrebbe voluto vedere in quel momento, il Dottor Canaba che lo stava aspettando poco lontano nel corridoio con il volto abbronzato carico di tensione.

– Lei – lo apostrofò Miles, con voce incupita a tal punto dall'ira che il genetista mosse involontariamente un passo indietro. Miles era così furibondo che gli sarebbe piaciuto poter bloccare Canaba contro la parete tenendolo per il collo, ma dal momento che era troppo basso per poterlo fare si accontentò di inchiodarlo invece con uno sguardo, accantonando con rincrescimento l'idea di chiedere al soldato Nout di farlo al suo posto. – Dannato doppiogiochista figlio di buona donna dal sangue gelido… mi ha mandato ad assassinare una ragazza di sedici anni!

– Lei non capisce… – cominciò Canaba, sollevando una mano in un gesto di protesta.

In quel momento Taura oltrepassò il portello della navetta e i suoi occhi dorati si sgranarono in un'espressione di sorpresa inferiore per intensità soltanto a quella dello stesso Canaba.

– Dottor Canaba! Cosa ci fa qui?

– Lei non si muova – ingiunse con durezza Miles, rivolto al genetista, poi controllò la propria ira e si girò verso il pilota della navetta. – Laureen?

– Sì, signore?

Prendendo Taura per mano, Miles la guidò verso il Sergente Anderson.

– Laureen, voglio che prenda con sé la recluta Taura e le procuri un pasto abbondante… tutto quello che riuscirà a mangiare, e intendo alla lettera. Poi le faccia fare un bagno, le trovi un'uniforme e l'aiuti ad orientarsi a bordo.

– Er… sì, signore – rispose il sergente, adocchiando con aria guardinga la sagoma torreggiante di Taura.

– Ha passato dei momenti dannatamente brutti – si sentì obbligato a spiegare Miles, quindi fece una pausa e concluse: – Badi di farci fare bella figura. È importante.

– Sì, signore – ripeté Anderson, impassibile, e si allontanò seguita da Taura, che lanciò da sopra la spalla un'occhiata incerta in direzione di Miles e di Canaba.

Miles si massaggiò il mento ispido per la barba lunga, consapevole della sporcizia che gli macchiava gli abiti e della stanchezza indotta dal timore che gli stava tendendo al massimo i nervi, e infine si girò nuovamente verso lo sconvolto genetista.

– D'accordo, dottore – ringhiò, – mi faccia capire, e si sforzi più che può per riuscirci.

– Non potevo lasciarla nelle mani di Ryoval! – esclamò Canaba, in tono agitato. – Non potevo permettere che diventasse una vittima o ancor peggio un'agente delle… delle sue depravazioni commercializzate…

– Non ha neppure pensato di chiederci di salvarla?

– Ma perché avreste dovuto? – obiettò Canaba, confuso. – Non rientrava nel vostro contratto… e voi siete mercenari…

– Dottore, lei ha vissuto sul Gruppo Jackson per un tempo dannatamente troppo lungo.

– È una cosa che sapevo, all'epoca in cui vomitavo ogni mattina prima di andare a lavorare… ma lei ancora non capisce, ammiraglio – replicò Canaba, ergendosi sulla persona con asciutta dignità e lanciando un'occhiata lungo il corridoio nella direzione in cui si era allontanata Taura. – Non la potevo lasciare nelle mani di Ryoval ma al tempo stesso non la posso portare su Barrayar. Là uccidono i mutanti!

– Ecco… – precisò Miles, indotto suo malgrado ad una pausa di riflessione, – adesso stanno cercando di eliminare quegli antichi pregiudizi, o almeno questo è quanto mi è stato dato di capire. Comunque lei ha ragione: Barrayar non è il posto adatto per Taura.

– Quando lei è arrivato speravo di non essere costretto a chiederle di ucciderla, di riuscire a farlo da solo anche se non era un compito facile, perché ormai la conosco da… troppo tempo. Lasciarla laggiù in quelle condizioni sarebbe però stata la condanna più ignobile…

– Su questo ha ragione, comunque adesso ne siete fuori entrambi. – Sempre che riusciamo a mantenervi tali, aggiunse mentalmente fra sé, frenetico per l'impazienza di raggiungere la Sezione Navigazione e Comunicazioni per scoprire cosa stava succedendo. Ryoval aveva già scatenato il suo inseguimento? E Fell? La stazione spaziale che sorvegliava l'uscita del lontano corridoio di distorsione avrebbe ricevuto l'ordine di bloccare la loro fuga?

– Non volevo abbandonarla – insistette Canaba, – ma non potevo neppure portarla con me.

– Spero proprio di no, visto che è del tutto inadatto a prendersene cura. Ho intenzione di indurla ad unirsi ai Mercenari Dendarii, una cosa che sembrerebbe realizzare il suo destino genetico… a meno che lei non conosca una ragione per cui questo non sia fattibile.

– Taura sta per morire!

Miles rimase per un momento paralizzato da quell'affermazione.

– Lei ed io invece no? – ribatté poi in tono sommesso, e a voce più alta aggiunse: – Perché? E fra quanto?

– Si tratta del suo metabolismo… un altro errore o concatenazione di errori. Non so fra quanto accadrà. Potrebbe vivere ancora un anno oppure due o anche cinque. O perfino dieci.

– O quindici?

– O quindici, sì, anche se è improbabile. Comunque morirà presto.

– E tuttavia lei voleva privarla del poco che le resta da vivere. Perché?

– Per risparmiarle quella fine. La debilitazione finale è rapida ma molto dolorosa, a giudicare da quello che hanno passato gli altri… prototipi. Le femmine erano però più complesse dei maschi e non so con certezza… comunque è una morte orribile, specialmente come schiava di Ryoval.

– Non ricordo di aver ancora incontrato un modo piacevole di morire, e ne ho visti parecchi. Quanto al tempo che ci resta da vivere, potremmo morire tutti entro quindici minuti, e dove andrebbe a finire allora la sua tenera misericordia? – Doveva arrivare alla Navigazione e Comunicazioni. – Dichiaro decaduto da parte sua ogni interesse nei confronti di Taura, dottore. Finché dura, lasciamole godere tutta la vita che potrà.

– Ma lei era un mio progetto… ne devo rispondere io…

– No. Adesso è una donna libera e spetta soltanto a lei rispondere di se stessa.

– E quanto potrà mai essere libera, con quel corpo spinto da un simile metabolismo e con quella faccia? Condurrà la vita di un mostro deriso ed evitato, e sarebbe meglio ucciderla in maniera indolore che vederla soffrire…

– No, non lo è – scandì Miles a denti stretti, con enfasi. Canaba lo fissò, uscendo infine dal circolo chiuso del suo angosciato ragionamento.

Così va bene, dottore, pensò Miles. Scuoti le ragnatele dalla testa e guardami… finalmente.

– Perché dovrebbe… importarle? – chiese il genetista.

– Mi piace, più di quanto mi piaccia lei, potrei aggiungere – ribatté Miles, poi s'interruppe al pensiero che avrebbe dovuto informare Taura dei campioni genetici inseriti nel suo polpaccio sinistro e spiegarle che presto o tardi avrebbero dovuto essere recuperati. Forse però avrebbe potuto fingere che la biopsia fosse una sorta di procedura medica standard per l'accettazione fra i mercenari… no, Taura meritava un'onestà maggiore di questa.

Era profondamente irritato con Canaba per aver inserito questa nota di falsità nei suoi rapporti con Taura, e tuttavia… senza i complessi genetici da recuperare, si sarebbe effettivamente preso la briga di cercare di salvarla, come le sue affermazioni avevano sottinteso? Avrebbe davvero prolungato la missione assegnatagli e messo a repentaglio la sua riuscita per pura bontà d'animo? Fin dove arrivava la devozione al dovere e a che punto veniva sostituita da una pragmatica assenza di pietà? Adesso non lo avrebbe mai saputo. Quei pensieri fecero sbollire la sua ira, che fu rimpiazzata da un senso di sfinimento, il consueto e familiare crollo che seguiva ogni missione… troppo presto, perché la missione era tutt'altro che finita, ricordò severamente a se stesso, traendo un profondo respiro.

– Non la può salvare dall'essere viva, Dottor Canaba, perché è troppo tardi per questo, quindi la lasci andare. La lasci andare.

Sebbene avesse le labbra serrate in un'espressione contrariata, Canaba chinò il capo e allargò le braccia in un gesto di resa.

– Chiamate l'ammiraglio – stava dicendo Thorne quando finalmente Miles raggiunse la Navigazione e Comunicazioni. Al sibilo delle porte che si aprivano tutte le teste si girarono verso di lui e il Betano aggiunse: – Annullate quell'ultimo ordine. Un ottimo tempismo, signore.

– Cosa succede? – domandò Miles, occupando la sedia antistante la postazione di comunicazione indicatagli da Thorne. Poco lontano il Guardiamarina Murka stava tenendo sotto controllo il sistema degli schermi e quello degli armamenti, mentre il loro pilota di Balzo sedeva pronto sotto la strana corona costituita dalla sua cuffia dotata di cannule chimiche e di cavi. L'espressione del Pilota Padget denotava una concentrazione interiorizzata, controllata e meditativa, segno che la sua sfera cosciente era del tutto rivolta all'Ariel e perfino fusa con essa. Padget era un uomo in gamba.

– Il Barone Ryoval attende di poter parlare personalmente con te – spiegò Thorne.

– Mi chiedo se ha già controllato le sue celle frigorifere – commentò Miles, sistemandosi meglio davanti allo schermo visore. – Da quanto tempo lo stiamo facendo aspettare?

– Da meno di un minuto – rispose l'addetto alle comunicazioni.

– Hmm. Allora lasciamolo cuocere ancora un poco. Quali forze sono state lanciate al nostro inseguimento?

– Per ora ancora nessuna – riferì Murka.

Miles inarcò le sopracciglia nel sentire quelle notizie inattese, poi si concesse un momento per ricomporsi, desiderando di aver avuto il tempo di ripulirsi, di radersi e di indossare un'uniforme pulita prima di questo colloquio, cosa che gli avrebbe fornito un leggero vantaggio psicologico. Così come stavano le cose si dovette accontentare di grattarsi il mento irritato dalla barba e di passarsi le mani fra i capelli, contorcendo all'interno dei calzini umidi i piedi che arrivavano a stento al rivestimento del ponte. Abbassata leggermente la sedia della stazione di comunicazione raddrizzò la schiena più che poteva e controllò la respirazione.

– D'accordo – ordinò infine, – passatemi la comunicazione.

Lo sfondo un po' sfocato che circondava il volto apparso sullo schermo aveva un'aria vagamente familiare… certo, la Sala Operativa della sicurezza del Complesso Biologico Ryoval. A quanto pareva il Barone Ryoval era arrivato sul posto di persona, come promesso, e una sola occhiata al suo giovane volto incupito e contorto fu sufficiente a fornire tutte le altre informazioni mancanti. Miles incrociò le braccia ed esibì un sorriso innocente.

– Buon giorno, barone. Cosa posso fare per lei? – chiese.

– Morire, razza di piccolo mutante! – esplose Ryoval. – Non troverai un bunker abbastanza profondo da poterti nascondere, perché metterò una taglia sulla tua testa e ogni cacciatore di taglie della galassia ti si appiccicherà addosso come una seconda pelle… non potrai mangiare né dormire in pace… ti farò…

Sì, il barone aveva senza dubbio visto le sue celle frigorifere, e da poco. L'atteggiamento di soave disprezzo da lui esibito durante il loro primo incontro era del tutto svanito, e tuttavia Miles rimase sconcertato dal contenuto delle sue minacce, perché da esse sembrava che il barone fosse impossibilitato a impedire loro di fuggire dallo spazio jacksoniano. Certo, la Casa Ryoval non possedeva una flotta spaziale, ma perché il barone non noleggiava una corazzata dalla Casa Fell e non li attaccava adesso? Quella era la mossa che Miles si era maggiormente aspettato e che più aveva temuto, e cioè che Ryoval, Fell e forse anche Bharaputra unissero le loro forze contro di lui per impedirgli di portare via le sue prede.

– Si può ancora permettere di assoldare dei cacciatori di taglie, adesso? – chiese in tono pacato. – Credevo che le sue disponibilità si fossero alquanto ridotte, anche se immagino che goda ancora dei servizi dei suoi specialisti in chirurgia.

Con il respiro affannoso, Ryoval si asciugò le gocce di saliva che gli schiumavano agli angoli della bocca.

– È stato il mio caro fratello minore a suggerirti di farmi questo? – ringhiò.

– Chi? – fece Miles, genuinamente sorpreso. C'era dunque ancora un altro giocatore in quella partita…?

– Il Barone Fell.

– Io non… sapevo che foste imparentati – garantì Miles. – Fratello minore?

– Non sai mentire bene – replicò Ryoval. – Ero certo che ci doveva essere lui dietro a tutto questo.

– Dovrà chiederlo a lui personalmente – dichiarò Miles, sparando alla cieca, con la testa che gli girava per lo sforzo di rivedere tutte le sue valutazioni alla luce di questo nuovo dato. Dannazione alla riunione informativa relativa a questa missione, che si era concentrata soltanto sulla Casa Bharaputra. Senza dubbio quei due dovevano essere soltanto fratellastri… ma certo, Nicol non aveva forse detto qualcosa in merito al «fratellastro» di Fell?

– Avrò la tua testa per questo – stava intanto infuriando Ryoval. – Me la farò mandare congelata e chiusa in una scatola, poi la farò sigillare nella plastica e l'appenderò sul mio… anzi no, raddoppierò la ricompensa in denaro per l'uomo che ti porterà qui vivo, così potrai morire lentamente dopo aver subito infinite degradazioni…

Tutto considerato, Miles fu lieto che la distanza fra loro stesse aumentando alla massima velocità.

D'un tratto Ryoval interruppe la sua tirata e contrasse le scure sopracciglia in un'improvvisa espressione di sospetto.

– Oppure è stato Bharaputra ad assumerti? – domandò. – Per cercare di impedirmi di sfondare finalmente il suo monopolio biologico, invece di fondere le nostre attività come promesso?

– Suvvia – ribatté Miles, in tono strascicato, – perché Bharaputra dovrebbe organizzare un complotto contro il capo di un'altra Casa? Ha prove raccolte personalmente che dimostrino che la Casa Bharaputra è solita fare cose del genere? Oppure… chi ha ucciso il clone di suo fratello?

Finalmente tutti i collegamenti stavano andando al loro posto… dèi, a quanto pareva lui e la sua missione erano andati a cadere nel bel mezzo di una lotta di potere di complessità bizantina che durava da chissà quanto tempo. Nicol aveva parlato dei sospetti di Fell, ma aveva anche aggiunto che non era ancora riuscito a scoprire il responsabile dell'assassinio del suo giovane clone.

– Vuole che sia io a indovinare? – aggiunse.

– Lo sai dannatamente bene – scattò Ryoval. – Ma chi di loro ti ha assunto? Fell o Bharaputra? Chi?

A quel punto, Miles si rese conto che Ryoval non sapeva assolutamente nulla dell'effettiva natura della vera missione dendarii contro la Casa Bharaputra, e considerata l'atmosfera che sembrava regnare attualmente fra le varie case, sarebbe potuto passare molto tempo prima che chi le guidava si decidesse a discutere della cosa con gli altri… e quanto più tempo fosse passato tanto meglio sarebbe stato dal suo punto di vista. Lasciò deliberatamente affiorare un sorrisetto che in un primo tempo aveva accennato a soffocare.

– Come, non vuol credere che si sia trattato di un mio personale colpo sferrato contro il commercio degli schiavi genetici? Un atto compiuto in onore della mia signora?

Questo riferimento a Taura non venne neppure colto da Ryoval; il barone si era ormai fissato su un'idea e le sue ramificazioni abbinate all'ira che lo pervadeva costituivano un effettivo blocco che gli impediva di assorbire altri dati. Del resto, non sarebbe stato difficile convincere un uomo che stava cospirando contro i suoi rivali del fatto che quei rivali stavano a loro volta cospirando contro di lui.

– Fell o Bharaputra? – ruggì ancora Ryoval. – Credevi forse di nascondere un furto compiuto per conto dei Bharaputra perpetrando quest'insensata distruzione?

Furto? si chiese Miles, aumentando la propria attenzione. Di certo Ryoval non si stava riferendo a Taura… intendeva forse alludere a qualche campione di tessuti che la Casa Bharaputra si era mostrata intenzionata ad acquistare?

– Non è ovvio? – chiese in tono mielato. – Sabotando i suoi piani per prolungare la propria vita lei ha dato a suo fratello un movente, e inoltre ha preteso troppo dalla Casa Bharaputra, inducendola così a collaborare piazzando il suo super-soldato all'interno dei Laboratori Ryoval, dove io avrei potuto raggiungerlo. Le hanno perfino fatto pagare il privilegio di avere il suo sistema di sicurezza violato, e lei ha fatto proprio il nostro gioco. Il piano principale, naturalmente, era mio – concluse, alitandosi sulle unghie e passandole sulla maglietta nera.

Sollevando lo sguardo sullo schermo attraverso il velo delle ciglia, si accorse che il Barone Ryoval sembrava avere problemi di respirazione mentre troncava la comunicazione con un improvviso e violento colpo della mano.

Canticchiando pensosamente Miles andò finalmente a farsi una doccia.

Era nuovamente nella Sezione Navigazione e Comunicazioni… vestito con un'uniforme pulita, imbottito di saliciclati per i dolori e le ammaccature e con una tazza di caffè nero e bollente in mano come antidoto alla stanchezza… quando arrivò la chiamata successiva.

Lungi dall'inveire come aveva fatto il suo fratellastro, il Barone Fell rimase per un momento seduto in silenzio davanti allo schermo, limitandosi a fissare Miles. Questi si sentì bruciare sotto quell'esame e fu particolarmente felice di aver avuto la possibilità di ripulirsi. Dunque il Barone Fell si era infine accorto della scomparsa della sua quaddie? Oppure Ryoval gli aveva comunicato anche soltanto una parte delle roventi e paranoiche supposizioni da lui alimentate? Dalla Stazione Fell non era però stato ancora lanciato nessun inseguimento… avrebbero dovuto provvedere subito oppure rinunciarvi, altrimenti qualsiasi nave abbastanza veloce da avere un'accelerazione pari a quella dell'Ariel sarebbe risultata troppo leggera per reggere un confronto con i suoi armamenti… a meno che Fell non avesse intenzione di chiedere un favore al consorzio di Case che controllavano la stazione del punto di balzo. Un intero minuto trascorse permeato da quel pesante silenzio e Miles cominciò a sentirsi prossimo ad esplodere in risate incontrollabili. Per fortuna, alla fine Fell si decise a parlare.

– A quanto pare, Ammiraglio Naismith – esordì con voce tonante, – per caso o di proposito lei sta portando via qualcosa che non le appartiene.

Parecchie cose, rifletté Miles, ma se lo aveva capito bene Fell stava facendo riferimento soltanto a Nicol.

– Siamo stati costretti ad andare via molto in fretta – replicò in tono di scusa.

– Così mi hanno detto – assentì Fell, con un cenno ironico del capo. Doveva aver ricevuto un rapporto dal suo sfortunato comandante di squadra. – Lei però si potrebbe ancora risparmiare dei guai. Era stato stabilito un prezzo per l'acquisto della mia musicista, e a me poco importa di doverla cedere a lei oppure a Ryoval, a patto di ottenere il pagamento desiderato.

Il Capitano Thorne, che stava lavorando ai monitor dell'Ariel, sussultò sotto lo sguardo di Miles.

– Deduco che il prezzo a cui allude sia il segreto della tecnica di ringiovanimento betana – commentò questi.

– Esattamente.

– Ah… hum… – borbottò Miles, umettandosi le labbra, e infine concluse: – Non posso, barone.

– Comandante della stazione – ordinò Fell, girando la testa, – pronto a lanciare le navi per l'inseguimento.

– Aspetti! – gridò Miles.

– Intende ripensarci? – chiese Fell, inarcando le sopracciglia. – Bene.

– Non è che io non voglia dirglielo – dichiarò Miles, in tono disperato. – Soltanto, la verità non le sarebbe di nessuna utilità, proprio nessuna. Convengo comunque con lei sul fatto che le spetti una compensazione di qualche tipo, ed ho a disposizione un'altra informazione assai più preziosa che potrei scambiare con lei.

– Davvero? – fece il Barone Fell. Il suo tono di voce era neutro, ma la sua espressione era decisamente cupa.

– Lei sospetta il suo fratellastro Ryoval di aver assassinato il clone che aveva commissionato ma non è riuscito a trovare nessuna prova in proposito, vero?

Fell cominciò a mostrarsi leggermente più interessato.

– Né i miei agenti né quelli della Casa Bharaputra sono riusciti a trovare un collegamento con lui. Ci abbiamo provato.

– La cosa non mi sorprende, considerato che sono stati proprio gli agenti della Casa Bharaputra a commettere l'assassinio – replicò Miles. Del resto, era un'ipotesi plausibile.

– Avrebbero ucciso il loro stesso prodotto? – domandò Fell, scandendo le parole e socchiudendo gli occhi.

– Ritengo che Ryoval abbia stretto un accordo con la Casa Bharaputra per tradirla – proseguì in fretta Miles. – Penso si sia trattato della cessione di qualche campione biologico unico in possesso di Ryoval, perché escludo che una semplice somma di denaro avrebbe indotto la Casa Bharaputra a correre un simile rischio. Ovviamente il patto è stato stipulato ai più alti livelli, ma non so in che modo intendessero dividersi le spoglie della Casa Fell dopo la sua eventuale morte… forse non era prevista nessuna divisione, perché pare che il loro piano prevedesse invece una sorta di unione delle loro attività in modo da creare un grande monopolio delle operazioni biologiche sul Gruppo Jackson. Una sorta di fusione corporativa. – Fece una pausa per lasciare che quelle informazioni venissero assimilate, poi aggiunse: – Posso suggerirle di conservare le sue forze e le sue risorse per impiegarle contro nemici più… intimi e immediati di quanto lo sia io? Inoltre, lei ha ricevuto in pagamento tutta la somma pattuita mentre noi abbiamo potuto prelevare soltanto metà del carico. Vogliamo dire che siamo pari?

Fell lo fissò con occhi roventi per oltre un minuto, il ritratto di un uomo che stava pensando contemporaneamente in tre direzioni diverse… una sensazione che Miles conosceva bene.

– Bloccate le navi inseguitrici – ordinò infine, ringhiando le parole con un angolo della bocca.

Miles riprese a respirare.

– La ringrazio per questa informazione, ammiraglio – disse quindi Fell, in tono freddo, – ma non con eccessivo sentimento. Non vi impedirò di allontanarvi in fretta, ma se lei o una qualsiasi delle sue navi doveste presentarvi ancora nello spazio jacksoniano…

– Oh, barone – rispose Miles, con sentimento, – restare molto, molto lontano da qui sta diventando rapidamente una delle mie massime ambizioni.

– È una persona saggia – brontolò Fell, e accennò a troncare la comunicazione.

– Barone Fell – aggiunse però Miles, d'impulso, inducendolo a interrompere il gesto. – Per sua futura informazione… questo canale è protetto?

– Sì.

– Il vero segreto della tecnica di ringiovanimento betano… è che non ne esiste una. Non si lasci trarre in inganno di nuovo. L'età che dimostro è esattamente quella che ho. Ne deduca quello che vuole.

Fell non disse nulla, ma dopo un momento un gelido accenno di sorriso gli affiorò sulle labbra, prima che chiudesse infine la comunicazione scuotendo il capo.

Nonostante lo sfinimento, per misura precauzionale Miles indugiò in un angolo della Sezione Navigazione e Comunicazioni fino a quando l'addetto alle comunicazioni non riferì che avevano avuto il permesso di transito dal controllo del traffico della Stazione del Punto di Balzo; del resto, Miles era certo che in quel momento le tre Case Fell, Ryoval e Bharaputra fossero troppo occupate a vedersela una con l'altra per preoccuparsi di loro, almeno per un po'. Le informazioni vere e fasulle che aveva sparso fra le parti… a ciascuna secondo le sue esigenze… erano state come un singolo osso gettato a tre cani rabbiosi e affamati, tanto che quasi gli dispiaceva di non poter restare nelle vicinanze per vedere quali sarebbero stati i risultati che questo avrebbe provocato. Quasi.

Alcune ore dopo il Balzo si svegliò nella sua cabina, del tutto vestito ma con gli stivali posati ordinatamente accanto al letto e senza ricordare come fosse arrivato lì. Alla fine suppose che fosse stato Murka ad accompagnarlo, perché se si fosse addormentato lungo il tragitto di certo si sarebbe lasciato addosso gli stivali.

Per prima cosa controllò con l'ufficiale di servizio la situazione e le condizioni dell'Ariel, che risultarono piacevolmente tranquille. Stavano attraversando il sistema di una stella azzurra fra due punti di balzo lungo la rotta per Escobar, una zona di spazio spopolata e vuota di tutto con la sola eccezione di un raro traffico commerciale, e dalla direzione del Gruppo Jackson non si vedeva traccia di inseguitori. Consumò quindi un pasto leggero senza sapere con certezza se si trattasse della colazione, del pranzo o della cena, perché dopo il periodo trascorso a terra i suoi ritmi biologici si erano del tutto alterati rispetto al ciclo di bordo. Quando ebbe finito andò a cercare Thorne e Nicol e li trovò nella Sezione Ingegneria, dove un tecnico stava finendo di eliminare le ultime ammaccature della poltrona antigravitazionale della quaddie.

Nicol, che indossava adesso una tunica bianca e corti calzoncini con ricami rosa, giaceva sdraiata prona su una panca da dove osservava con interesse le riparazioni, e vederla fuori della sua poltrona diede a Miles una strana sensazione, come vedere un granchio fuori del guscio o una foca arenata sulla spiaggia. Esposta ad un'unità di forza gravitazionale la quaddie appariva singolarmente vulnerabile, mentre in assenza di gravità sembrava così a proprio agio che si cessava ben presto di notare la stranezza del suo secondo paio di braccia. Infine Thorne aiutò il tecnico a riposizionare il rivestimento azzurro della poltrona intorno al meccanismo antigravitazionale ormai riparato e lo lasciò a ultimare l'operazione, girandosi verso Miles per salutarlo.

– A quanto pare – commentò questi, sedendosi sulla panca accanto a Nicol, – non dovremmo correre il rischio di inseguimenti da parte del Barone Fell. Per qualche tempo lui e il suo fratellastro saranno occupati a vendicarsi uno dell'altro. A pensarci mi sento felice di essere figlio unico.

– Hmm – commentò lei, in tono pensoso.

– Adesso dovresti essere al sicuro – aggiunse Thorne, in tono incoraggiante.

– Oh… no, non si tratta di questo – replicò Nicol. – Stavo pensando alle mie sorelle: c'è stato un tempo in cui non vedevo l'ora di essere lontana da loro, mentre ora sono impaziente di rivederle.

– Quali sono i tuoi progetti?

– Mi fermerò prima ad Escobar. È un buon nesso di passaggio e di là dovrei essere in grado di pagarmi lavorando il viaggio fino alla Terra, per raggiungere poi Orient IV, da dove sono certa di poter arrivare a casa.

– Allora adesso la tua meta è tornare a casa?

– Da questo lato di Escobar c'è una parte di galassia molto più grande da vedere – sottolineò Thorne. – Non sono certo che i ruolini di servizio dendarii possano essere allargati fino a comprendere anche una musicista di bordo, ma…

Nicol stava però scuotendo il capo.

– Vado a casa – dichiarò con fermezza. – Sono stanca di lottare di continuo contro la forza di gravità e comincio ad avere incubi in cui mi crescono le gambe.

Thorne si lasciò sfuggire un tenue sospiro.

– Fra noi c'è anche una piccola colonia di gente che vive in condizione di gravità – aggiunse Nicol, fissandolo. – Hanno attrezzato il loro asteroide con la gravità artificiale… è proprio come vivere su un pianeta, solo che ci sono meno correnti d'aria.

Miles fu assalito da un leggero senso di allarme… perdere un comandante di astronave la cui fedeltà era stata ampiamente dimostrata…

– Ah – replicò Thorne, in un tono altrettanto pensoso quanto quello della quaddie, – la tua cintura di asteroidi è molto lontana dalla mia casa.

– Allora un giorno tornerai alla Colonia Beta? – domandò Nicol. – Oppure i Mercenari Dendarii sono la tua casa e la tua famiglia?

– Non sono un tipo così appassionato – affermò Thorne. – Resto con loro soprattutto a causa di una incontrollabile curiosità di vedere cosa succederà la prossima volta.

E nel parlare scoccò uno strano sorriso in direzione di Miles.

Aiutò quindi Nicol a risalire sulla sua poltrona azzurra, e dopo un breve controllo dei sistemi lei si librò di nuovo nell'aria, altrettanto mobile quanto i suoi compagni a due gambe… o forse addirittura di più.

– Raggiungeremo l'orbita di Escobar fra tre giorni soltanto – avvertì quindi Thorne, con rincrescimento. – Comunque sono settantadue ore, equivalenti a 4320 minuti. Quante cose riesci a fare in 4320 minuti?

O quanto spesso? pensò Miles. Soprattutto se si tralascia di dormire? Se non si era sbagliato nel riconoscere i segni, il sonno non era certo quello che Thorne aveva in mente… quindi buona fortuna, ad entrambi.

– Nel frattempo – proseguì Thorne, guidando Nicol verso il corridoio, – lascia che ti mostri la mia nave. È di costruzione illirica… un pianeta alquanto lontano dai tuoi asteroidi, se ben ricordo. Il modo in cui l'Ariel è finita nelle mani dei Mercenari Dendarii costituisce una storia notevole… a quell'epoca eravamo conosciuti come i Mercenari Oserani…

Nicol accompagnò le sue parole con qualche mormorio d'incoraggiamento mentre Miles soffocava un sorriso pieno d'invidia e si allontanava nella direzione opposta per andare in cerca del Dottor Canaba ed organizzare le modalità per espletare il suo ultimo, sgradevole dovere.

Quando la porta dell'infermeria scivolò di lato Miles posò con aria riflessiva l'ipospray che stava rigirando fra le mani e fece ruotare la poltrona su cui sedeva nel momento in cui Taura e il Sergente Anderson facevano il loro ingresso.

– Mio Dio - mormorò.

– A rapporto come ordinato, signore – scandì il Sergente Anderson, accennando un saluto.

Taura contrasse una mano, incerta se tentare di imitare il saluto militare oppure no, e nel guardarla Miles sentì affiorargli sulle labbra un involontario sorriso di soddisfazione, perché la trasformazione che la ragazza aveva subito era ancora superiore a quanto aveva immaginato.

Non sapeva come Anderson fosse riuscita a persuadere il computer della fureria ad alterare i suoi normali parametri, ma in qualche modo lo aveva costretto a fornire una divisa dendarii completa della taglia di Taura: una linda giacca grigia e bianca, calzoni grigi e lucidi stivali fino alla caviglia. Adesso il volto e i capelli di Taura erano talmente puliti da rivaleggiare per lucentezza con gli stivali e la capigliatura tirata all'indietro in una strana treccia che le si raccoglieva sulla nuca senza che si riuscisse a vedere dove terminava, aveva inattesi riflessi mogano.

Sebbene il suo aspetto non fosse pasciuto, la ragazza non era comunque più denutrita e i suoi occhi apparivano luminosi e interessati, diversi dai due bagliori dorati semisepolti nelle orbite cavernose che lui aveva visto inizialmente. Anche da quella distanza, inoltre, era evidente che la reidratazione e la possibilità di lavarsi i denti e le zanne avevano eliminato il fetore causato al suo alito dai numerosi giorni trascorsi nello scantinato di Ryoval nutrendosi soltanto di topi crudi. Le grandi mani erano adesso libere dalla sporcizia che le incrostava e… tocco davvero ispirato… le unghie simili ad artigli erano state pulite, appuntite .e coperte con un iridescente smalto perlaceo che s'intonava perfettamente alla divisa grigio-bianca. Di certo lo smalto doveva essere saltato fuori dalla scorta personale di cosmetici del sergente.

– Impressionante, Anderson – commentò infine Miles, in tono ammirato.

– È quello che lei aveva in mente, signore? – s'informò Anderson, con un sorriso orgoglioso.

– Esattamente – confermò Miles, mentre Taura lo fissava con un'espressione che rivelava una soddisfazione pari alla sua. – Che ne pensi del tuo primo balzo in un corridoio di transito? – chiese quindi.

Le lunghe labbra della ragazza ebbero un tremito, come sempre accadeva quando cercava di atteggiarle ad una smorfia riflessiva.

– In un primo tempo mi sono sentita improvvisamente in preda alle vertigini ed ho temuto di sentirmi male, finché il Sergente Anderson non mi ha spiegato di cosa si trattava.

– Niente piccole allucinazioni o effetti di distorsione temporale?

– No, ma non è stato… in ogni caso è passato in fretta.

– Hmm. Non sembra che tu sia uno di quei fortunati… o sfortunati… che vengono esaminati per evidenziare un'eventuale attitudine come piloti di Balzo. A giudicare dalle doti che hai dimostrato ieri mattina sulla piattaforma di atterraggio di Ryoval, la Sezione Tattica detesterebbe di doverti perdere a vantaggio della Navigazione e Comunicazioni. – Miles fece una pausa, poi aggiunse: – Grazie, Laureen. La mia chiamata ha interrotto qualcosa?

– Il controllo dei sistemi di routine sulle navette di atterraggio, prima di disattivarle. Taura stava guardando sopra la mia spalla mentre lavoravo.

– D'accordo, prosegua pure. Le rimanderò Taura quando avremo finito qui.

Anderson, che era manifestamente curiosa, uscì con riluttanza e Miles attese che le porte si fossero richiuse prima di parlare ancora.

– Siediti, Taura. Quindi le tue prime ventiquattr'ore con i Dendarii sono state soddisfacenti?

La ragazza sorrise e si adagiò con cautela su un'altra poltroncina, che scricchiolò.

– Più che soddisfacenti.

– Ah – fece Miles, esitando. – Devi capire che quando arriveremo a Escobar ti resterà sempre aperta la possibilità di andare per la tua strada: non sei obbligata ad unirti a noi ed io potrei provvedere a trovarti una sistemazione iniziale di qualche tipo, laggiù.

– Cosa? – esclamò lei, sgranando gli occhi con sgomento. – No! Voglio dire… mangio troppo?

– Per nulla. Combatti come quattro uomini e possiamo permetterci di darti da mangiare per tre. Però… voglio mettere subito in chiaro alcune cose prima che tu pronunci il tuo giuramento di recluta – replicò Miles, schiarendosi la gola. – Non sono venuto nel Complesso Biologico Ryoval per reclutarti. Ricordi che qualche settimana prima che la Casa Bharaputra ti vendesse a Ryoval, il Dottor Canaba ti ha iniettato qualcosa in una gamba? Con un ago, non con un'hypospray.

– Ah, sì – confermò lei, massaggiandosi distrattamente il polpaccio. – Ha formato una specie di gonfiore.

– E lui ti ha… ti ha detto di cosa si trattava?

– Un'immunizzazione.

Miles rifletté che Taura aveva avuto ragione nell'affermare che gli umani mentivano spesso.

– Ecco, non si è trattato di un'immunizzazione. Canaba ti ha usata come un contenitore vivente per materiale biologico elaborato con l'ingegneria genetica. Vincolato molecolarmente è latente – si affrettò ad aggiungere, nel vedere come lei si era contorta per scrutare la gamba con disagio. – Canaba mi ha garantito che non si può attivare spontaneamente. La mia missione originale era soltanto quella di prelevare il Dottor Canaba, ma lui si è rifiutato di partire senza quei complessi genetici.

– Aveva intenzione di portarmi con lui? – domandò Taura, con eccitata sorpresa. – Allora lo dovrei ringraziare per averti mandato da me!

Miles desiderò che lo facesse, per poter vedere l'espressione del volto di Canaba nell'ascoltarla.

– Sì e no. Per l'esattezza, no – replicò, proseguendo di getto prima di perdere il coraggio. – Non hai nulla di cui ringraziare lui, e neppure me. Canaba intendeva portare con sé soltanto i campioni di tessuti e mi ha mandato a prelevarli.

– Avresti preferito lasciarmi là… è per questo che hai parlato di Escobar… – Taura era ancora sconcertata.

– La tua fortuna – proseguì Miles, – è stata che io abbia perso i miei uomini e che fossi disarmato quando infine ci siamo incontrati. Canaba ha mentito anche a me: per difendersi ha affermato di aver avuto la confusa idea di salvarti da una vita brutale come schiava di Ryoval, ma in effetti mi ha mandato ad ucciderti, Taura. Mi ha mandato ad uccidere un mostro mentre avrebbe dovuto implorarmi di salvare una principessa sotto mentite spoglie. Non sono contento di come ha agito Canaba, e non lo sono neppure di me stesso. Ti ho mentito spudoratamente in quello scantinato, perché pensavo di doverlo fare per poter sopravvivere e vincere.

Il volto di lei appariva confuso e gelido, il bagliore le stava scomparendo dallo sguardo.

– Allora non credevi… non credevi realmente che fossi umana…

– Al contrario. La prova a cui hai scelto di sottopormi è stata eccellente, perché è molto più difficile mentire con il proprio corpo che con le parole: la sincerità da me dimostrata doveva per forza essere reale.

Nel guardarla, avvertì di nuovo una residua sfumatura di folle gioia rimasta da quell'avventura e suppose che l'avrebbe provata sempre… senza dubbio si trattava di un condizionamento maschile.

– Ti piacerebbe che te ne dessi un'altra dimostrazione? – chiese con una certa speranza, poi si morse la lingua e rispose da solo alla propria domanda. – No, è meglio di no, se dovrò essere il tuo comandante, perché abbiamo delle regole che vietano di fraternizzare eccessivamente, intese soprattutto a proteggere gli elementi di rango inferiore dallo sfruttamento da parte dei superiori, anche se è una cosa che può funzionare nei due sensi…

S'interruppe, consapevole che stava facendo una lunga digressione. Nervosamente raccolse di nuovo l'ipospray, vi giocherellò per qualche istante e tornò a posarla.

– In ogni caso – riprese, – il Dottor Canaba mi ha chiesto di mentirti di nuovo: voleva che ti somministrassi a tradimento un'anestesia totale in modo da poter recuperare i suoi campioni con una biopsia… come avrai notato è un vigliacco; adesso è là fuori e sta tremando da testa a piedi per il timore che tu scopra quali erano le sue intenzioni nei tuoi confronti. Per quanto mi riguarda, ritengo che un'anestesia locale con un paralizzatore ad uso medico sìa più che sufficiente, e del resto so che io vorrei essere sveglio e cosciente se lui dovesse lavorare su di me - concluse, assestando con un dito un colpetto sprezzante all'ipospray.

Taura era seduta immobile, con un'espressione indecifrabile sul suo strano volto da lupo, a cui peraltro Miles stava cominciando ad abituarsi.

– Tu vuoi che gli permetta… di fare un taglio nella mia gamba? – chiese infine.

– Sì.

– E poi cosa succederà?

– Niente. Per quanto ti riguarda avrai chiuso con il Dottor Canaba, con il Gruppo Jackson e con tutto il resto… questo te lo prometto, anche se posso capire se ti mostrerai un po' dubbiosa in merito alle mie promesse.

– Avrò chiuso… – sussurrò lei, abbassando il volto, poi si alzò in piedi e squadrò le spalle, aggiungendo: – Allora vediamo di sbrigarci.

Adesso sulla sua lunga bocca non c'era traccia di sorriso.

Come Miles aveva previsto, Canaba fu tutt'altro che contento di trovarsi alle prese con una paziente che non era in stato d'incoscienza, ma del resto a Miles non importava di quanto il genetista potesse essere contrariato, e dopo aver scoccato un'occhiata alla sua espressione gelida Canaba evitò di discutere. Senza dire una parola recuperò i campioni, li ripose con cura in un biocontenitore e fuggì con essi verso la sicurezza e l'intimità della propria cabina non appena poté farlo.

Miles rimase invece seduto con Taura in infermeria fino a quando l'effetto del paralizzatore si fu attenuato abbastanza da permetterle di camminare per la stanza senza barcollare; la ragazza rimase seduta in silenzio per un tempo molto lungo, durante il quale lui scrutò i suoi lineamenti, desiderando immensamente di veder riapparire il bagliore dorato nei suoi occhi.

– La prima volta che ti ho visto – affermò infine lei, in tono sommesso, – è stato come un miracolo, una magia. Ho avuto tutto quello che desideravo… acqua, cibo, calore, vendetta, fuga. Amici… – aggiunse, abbassando lo sguardo sui propri artigli smaltati e sollevandolo poi su di lui, – intimità.

– Che altro desideri, Taura? – le domandò Miles, in tono serio.

– Vorrei essere normale – rispose lei, lentamente.

Questa volta fu Miles a rimanere a lungo in silenzio.

– Non ti posso dare ciò che io stesso non posseggo – replicò infine, e gli parve che quelle parole rimanessero sospese fra loro come massi per la loro inadeguatezza, cosa che lo indusse a cercare di fare di meglio. – No, non desiderare questo. Ho un'idea migliore: desidera di essere te stessa, fino in fondo. Scopri ciò in cui sei più abile, poi coltiva e sviluppa questa tua capacità, imparando al tempo stesso a rappezzare le tue debolezze, perché non c'è tempo per indulgere in esse. Guarda Nicol…

– È così bella – sospirò Taura.

– … oppure guarda il Capitano Thorne e poi dimmi cosa significa «normale» e perché dovrebbe importarti di esserlo. Oppure guarda me, se preferisci. Dovrei uccidermi cercando di sopraffare uomini che pesano il doppio di me in un corpo a corpo, o non è forse meglio che sposti la lotta su un terreno dove la forza fisica è inutile perché lo scontro non diventa mai tanto ravvicinato da permetterne l'impiego? Io non ho tempo da perdere, e non lo hai neppure tu.

– Sai quanto me ne resti? – chiese improvvisamente Taura.

– Ah… tu lo sai? – controbatté cautamente Miles.

– Sono l'ultima superstite del mio gruppo, come potrei non saperlo? – replicò lei, sollevando il mento in un atteggiamento di sfida.

– Allora non desiderare di essere normale – esclamò Miles con passione, – perché otterresti soltanto di sprecare il tuo tempo prezioso con inutile frustrazione. Desidera di essere grande, perché quella è una cosa che avrai almeno la possibilità di ottenere. Desidera di essere grande in ciò che sei, qualsiasi cosa sia. Un grande soldato, un grande sergente, perfino un grande furiere se dovesse essere questa la tua vocazione! O magari una grande musicista come Nicol… pensa come sarebbe orribile se lei sprecasse il suo talento tentando di essere semplicemente normale.

D'un tratto interruppe la sua arringa con un senso d'imbarazzo, pensando che predicare era sempre più facile che mettere in pratica…

– Suppongo che per me sia inutile desiderare di essere bella come il Sergente Anderson – sospirò Taura, osservandosi gli artigli smaltati.

– Sarebbe inutile per te cercare di essere bella come chiunque che non sia tu stessa – replicò Miles. – Sii bella come Taura, perché quella è una cosa che puoi fare e che puoi fare superbamente bene. – Si accorse che le stava stringendo le mani e lasciò scorrere un dito lungo un artiglio iridescente. – Laureen sembra però aver afferrato i principi basilari per essere bella e faresti bene a seguire il suo esempio.

– Ammiraglio – scandì lentamente Taura, senza lasciar andare le sue mani, – sei già il mio comandante a tutti gli effetti? Il Sergente Anderson ha detto qualcosa in merito a dei test di orientamento e d'introduzione e a proposito di un giuramento…

– Sì, sono tutte cose a cui provvederemo una volta che ci saremo ricongiunti con la flotta, ma fino ad allora tecnicamente tu sarai una nostra ospite.

Una certa scintilla stava cominciando a riaffiorare negli occhi dorati della ragazza.

– In questo caso… fino ad allora non infrangeresti nessuna regola dendarii se mi mostrassi di nuovo quanto sono umana, giusto? Soltanto un'altra volta.

Miles pensò che l'impulso che lo stava assalendo doveva essere simile a quello che un tempo spingeva gli uomini a scalare pareti verticali di roccia senza una cintura antigravitazionale o a gettarsi da aerei di vecchio tipo senza nulla che impedisse loro di spappolarsi al suolo tranne un grande pezzo di seta ripiegato, e sentì insorgere dentro di sé lo stesso fascino, la stessa risata che sfidava la morte.

– Lentamente? – replicò, con voce un po' soffocata. – Perché questa volta non lo facciamo nella maniera giusta, concedendoci un po' di conversazione, un sorso di vino e un po' di musica? Senza gli uomini di Ryoval che si aggirano ai piani superiori o la gelida roccia sotto il mio…

Adesso gli occhi di lei erano grandi laghi d'oro fuso.

– Sei stato tu a dire che ti piaceva esercitarti in ciò in cui sei più abile.

Prima di allora Miles non si era mai reso conto di quanto fosse suscettibile all'adulazione da parte delle donne alte, una debolezza da cui avrebbe dovuto guardarsi… in futuro.

Si ritirarono insieme nella sua cabina e si esercitarono assiduamente per una buona metà del viaggio fino ad Escobar.

PARTE TERZA

– Che ne è stato di quella ragazza lupo? – chiese Illyan, dopo una lunga pausa di silenzio.

– Ah, sono lieto di dire che se la sta cavando bene e che è stata da poco promossa sergente. Il medico della mia flotta dendarii le sta somministrando dei medicinali per cercare di rallentare un po' il suo metabolismo, anche se è una cosa alquanto sperimentale.

– Allora riuscirete ad allungare la durata della sua vita?

– Ci piacerebbe saperlo – replicò Miles, scrollando le spalle. – Forse. Comunque lo speriamo.

– Bene – commentò Illyan, cambiando argomento, – ora ci rimane soltanto la questione di Dagoola, riguardo alla quale ti ricordo che il solo rapporto che ho avuto da te prima che intervenissero le altre autorità è stato quello eccessivamente succinto che hai mandato da Mahata Solaris.

– Quello avrebbe dovuto essere soltanto un rapporto preliminare, perché pensavo di riuscire a tornare a fare rapporto prima di così.

– Questo non è un problema… o almeno non lo è per il Conte Vorvolk. Parlami di Dagoola, Miles: sputa fuori ogni cosa e dopo potrai dormire un poco.

– È cominciato tutto in maniera così semplice – iniziò Miles, accigliandosi, – quasi come quel lavoro sul Gruppo Jackson… poi le cose sono andate storte, molto storte…

– Allora inizia dal principio.

– Il principio. D'accordo…

I confini dell'infinito

Com'è possibile che sia morto e sia finito all'inferno senza accorgermi della transizione?

L'opalescente cupola di forza sovrastava un paesaggio surreale e alieno, immobilizzato per un momento agli occhi di Miles dal proprio senso di disorientamento e di sgomento. La cupola descriveva un cerchio perfetto di mezzo chilometro di diametro e lui si trovava appena oltre il suo limitare, là dove la lucente superficie concava penetrava nel suolo di terra battuta e scompariva; con l'immaginazione lui ne seguì l'arco sepolto sotto i suoi piedi fino al punto in cui emergeva di nuovo a completare la sfera. Era come essere intrappolato dentro un guscio d'uovo impossibile a rompersi, il cui interno sembrava una scena di un antico limbo.

Uomini e donne dall'aria avvilita sedevano, stavano in piedi o per lo più giacevano sdraiati, da soli o in gruppetti sparsi in maniera irregolare attraverso l'intera ampiezza della cupola e Miles cercò invano di notare in loro qualche residuo di ordine o di raggruppamenti militari… gli abitanti della cupola sembravano spruzzati qua e là come un liquido sparso al suo interno.

Forse era morto poco prima, al suo ingresso nel campo di prigionia, forse i suoi catturatori lo avevano ucciso con l'inganno, come quegli antichi soldati della Terra che attiravano le loro vittime sotto docce avvelenate, distraendole e blandendo i loro sospetti consegnando a ciascuna un pezzo di sapone, fino a quando la comprensione ultima esplodeva in loro insieme ad una nube soffocante. Forse l'annientamento del suo corpo era stato rapido, al punto che i neuroni non avevano avuto il tempo di trasportare l'informazione fino al cervello… altrimenti, perché mai tanti antichi miti avrebbero concordato nell'affermare che l'inferno era un luogo circolare?

Dagoola IV, Campo di Prigionia di Massima Sicurezza N°3… era dunque questo? Questo piatto spoglio? Miles aveva supposto vagamente di trovare alloggiamenti, guardie che marciavano, un conteggio quotidiano dei prigionieri, gallerie scavate in segreto e comitati di fuga.

Adesso si rese conto che era la cupola a rendere tutto tanto semplice. Infatti che bisogno c'era di alloggiamenti per riparare i prigionieri dagli elementi? Ci pensava già la cupola. E a che sarebbero servite le guardie visto che la cupola era generata dall'esterno e che nulla che si trovasse all'interno poteva aprirvi un varco? Di conseguenza non servivano le guardie e il conteggio quotidiano dei prigionieri, le gallerie erano inutili e i comitati di fuga un'assurdità. Tutto a causa della cupola.

Le uniche strutture visibili erano una specie di grossi funghi di plastica grigia disposti lungo il perimetro della cupola a intervalli di circa cento metri uno dall'altro, intorno ai quali erano focalizzate le uniche tracce di attività. Dopo un momento Miles capì che si trattava di latrine.

Lui e altri tre prigionieri erano entrati nel campo attraverso un portale temporaneo che si era richiuso alle loro spalle prima che il momentaneo rigonfiamento della cupola di forze che conteneva l'accesso si aprisse davanti a loro. Il più vicino abitante della cupola, un uomo che giaceva a qualche metro di distanza su una stuoia per dormire identica a quella che Miles stringeva adesso fra le mani, sollevò il capo per fissare il gruppetto dei nuovi venuti, esibì un acido sorriso e si girò su un fianco in modo da dare loro le spalle. Nessun altro si prese la briga anche soltanto di alzare lo sguardo.

– Dannazione – borbottò uno dei compagni di Miles, stringendosi inconsciamente agli altri due.

Stando a quanto avevano affermato, quei tre avevano fatto parte un tempo della stessa unità, e Miles li aveva conosciuti appena pochi minuti prima, durante la fase finale della procedura d'immissione nel campo, nella quale erano stati consegnati a ciascuno di loro tutti i beni terreni che gli sarebbero serviti per vivere su Dagoola IV.

Tali beni erano costituiti da un solo paio di larghi calzoni grigi, una tunica grigia a maniche corte, una stuoia rettangolare arrotolata, una tazza di plastica… e basta. Soltanto questo e i numeri stampigliati sulla loro pelle. A Miles dava immensamente fastidio il fatto che i loro catturatori avessero scelto di apporre quei numeri nel centro della loro schiena, dove non li potevano vedere, e doveva lottare di continuo contro l'impulso di torcere il collo per cercare di vederli comunque, anche se spesso infilava la mano sotto la casacca per grattare un prurito che era esclusivamente psicosomatico in quanto non era possibile neppure avvertire la presenza dei numeri stampigliati.

D'un tratto nella scena apparve una traccia di movimento, costituita da quattro o cinque uomini che si stavano avvicinando: era forse finalmente arrivato il comitato di benvenuto? Miles aveva un disperato bisogno d'informazioni. Dove poteva trovare ciò che stava cercando, in mezzo a quegli innumerevoli uomini e donne vestiti di grigio? No, non innumerevoli, si corresse con fermezza: qui tutto era numerato.

Quelli erano i resti malconci del 3° e del 4° Battaglione di Rangers Corazzati, gli ingegnosi e tenaci difensori della Stazione di Trasferimento Garson; c'erano anche gli uomini del 2° Battaglione di Winoweh, che era stato catturato quasi intatto, e i superstiti del 14° Commandos, coloro che si erano salvati dopo la caduta della fortezza tecnologica di Nucleo Fallow… per l'esattezza diecimiladuecentoquattordici in tutto, i migliori combattenti del pianeta Marilac. Diecimiladuecentoquindici, adesso, contando anche lui stesso… ma doveva contarsi?

Il comitato di ricevimento si arrestò in una linea irregolare a qualche metro di distanza: i suoi componenti apparivano tutti alti, muscolosi, duri e non particolarmente amichevoli, con occhi spenti e incupiti, pieni di una noia letale che non era attenuata neppure dal loro attuale aspetto calcolatore.

I due gruppi, quello di tre uomini e quello di cinque, si valutarono a vicenda, poi i tre si girarono e cominciarono prudentemente ad allontanarsi. In ritardo Miles si rese conto che non appartenendo a nessuno dei due schieramenti si era venuto così a trovare isolato.

Isolato e fin troppo visibile. L'imbarazzante consapevolezza di sé e del proprio corpo, solitamente tenuta a freno dal semplice fatto che non aveva tempo da sprecare con essa tornò ad assalirlo all'improvviso. Era troppo basso, con un aspetto troppo strano… dopo l'ultima operazione le sue gambe avevano adesso la stessa lunghezza, ma di certo non erano abbastanza lunghe da permettergli di distanziare quei cinque. E poi, dove sarebbe potuto fuggire, in questo posto? Di conseguenza, cancellò la fuga dalle alternative possibili.

La fuga? Era meglio che cercasse di essere serio.

Non funzionerà, comprese tristemente, nel momento stesso in cui si avviava verso i cinque, ma d'altro canto questo era pur sempre più dignitoso che essere inseguito per poi arrivare allo stesso risultato.

Cercò di rendere il proprio sorriso austero anziché stupido ma non ebbe modo di stabilire se era riuscito nell'intento.

– Salve – esordì. – Sapreste dirmi dove posso trovare la Divisione del 14° Commandos del Colonnello Guy Tremont?

Uno dei cinque sbuffò in maniera sardonica e altri due si spostarono alle spalle di Miles.

Uno sbuffo era quasi un'espressione verbale, e comunque era pur sempre un'espressione… un punto di partenza, un appiglio. Di conseguenza Miles focalizzò la propria attenzione su quell'individuo in particolare.

– Dimmi il tuo nome, grado e compagnia di appartenenza, soldato.

– Non ci sono gradi qui, mutante, e neppure compagnie o soldati. Niente.

Miles si lanciò un'occhiata intorno: naturalmente era stato circondato.

– Tu comunque hai degli amici – osservò.

– E tu no – ribatté il suo interlocutore, arrivando quasi a sorridere.

A questo punto Miles si chiese se forse non fosse stato prematuro scartare l'opzione della fuga.

– Non ci conterei se fossi in… uh!

Un calcio ai reni sferratogli alle spalle gli troncò a mezzo la frase… così bruscamente che per poco non si staccò la lingua con un morso… e lo scagliò a terra, facendogli sfuggire di mano la stuoia e la tazza.

Grazie a Dio questa volta si era trattato di un calcio assestato con un piede nudo e non con stivali da combattimento… e secondo le regole della fisica newtoniana adesso il piede del suo aggressore avrebbe dovuto dolere quanto la sua schiena. Ottimo. Splendido. Forse si sarebbero anche ammaccati le nocche nel prenderlo a pugni…

Uno dei membri del gruppo raccolse la sua tazza e la stuoia.

– Vuoi anche i suoi vestiti? – chiese ad un compagno. – Per me sono troppo piccoli.

– No.

– Sì – intervenne l'uomo che aveva parlato per primo. – Prendili lo stesso. Forse potremo usarli per adescare una delle donne.

Miles si sentì sfilare la tunica e i pantaloni, ma era troppo occupato a proteggersi la testa dai calci che piovevano di tanto in tanto… cercando di intercettarli obliquamente con il ventre o la cassa toracica e non con le braccia, le gambe o la mascella… per tentare di lottare per conservare i vestiti. Una costola incrinata era la lesione più grave che si poteva permettere in quel posto, all'inizio della missione, mentre la frattura della mascella sarebbe stata il danno peggiore.

I suoi assalitori desistettero soltanto quando erano ormai ad un passo dallo scoprire con la pratica quanto fossero fragili le sue ossa.

– È così che vanno le cose qui, mutante – dichiarò quello dei cinque che gli aveva parlato in precedenza, con il respiro un po' ansante.

– Sono nato nudo – ansimò Miles, steso nella polvere, – ma questo non mi ha fermato.

– Un dannato galletto sfrontato – commentò l'uomo.

– E lento ad imparare – aggiunse un altro dei cinque.

La seconda battuta fu peggiore della prima e gli fruttò almeno due costole incrinate… la mascella riuscì a stento a salvarsi da una frattura a prezzo di un imprecisato e doloroso danno al polso sinistro, sollevato di scatto a schermarla. Questa volta Miles soffocò l'impulso di salutare i suoi aggressori con un'ultima frecciata e rimase disteso in silenzio nella polvere, desiderando di perdere i sensi.

Restò raggomitolato in preda al dolore per un tempo molto lungo, anche se non avrebbe saputo dire per quanto. L'illuminazione della cupola di forza era uniforme, priva di ombre, immutevole e senza tempo come l'eternità… del resto l'inferno era eterno, giusto? E di certo questo posto aveva troppe dannate somiglianze con l'inferno.

Ed ecco che stava sopraggiungendo un altro demone… Miles sbatté le palpebre per mettere a fuoco la figura che si stava avvicinando, quella di un uomo nudo e ammaccato come lui, talmente emaciato che gli si potevano contare le costole, che s'inginocchiò nella polvere a qualche metro di distanza; il suo volto ossuto era invecchiato prematuramente dalla tensione e non permetteva di stabilire la sua età, che avrebbe potuto essere di quarant'anni come di venticinque.

Gli occhi erano prominenti in maniera innaturale a causa dell'eccessiva magrezza e il bianco sembrava brillare di un bagliore febbrile sullo sfondo della pelle scurita dalla sporcizia che vi si era accumulata. Sporcizia, non accenni di barba, perché ad ogni prigioniero presente nel campo, maschio o femmina che fosse, erano stati tagliati i capelli e le radici erano state trattate in modo da impedire la ricrescita, il che significava che tutti erano perpetuamente rasati e con i capelli in ordine. Anche Miles aveva subito lo stesso procedimento appena poche ore prima, ma chiunque si era occupato di quell'uomo doveva aver avuto premura perché il repressore di crescita aveva mancato un punto della guancia dove adesso una dozzina di peli crescevano come un ciuffo d'erba su un prato tagliato male, e anche se erano ricci era evidente che erano ormai lunghi parecchi centimetri, al punto che pendevano dalla mascella dello sconosciuto. Osservandoli, Miles pensò che se avesse saputo con quale velocità crescevano i peli della barba avrebbe anche potuto calcolare da quanto tempo quel tizio era stato rinchiuso lì.

Un tempo troppo lungo, quali che siano le cifre effettive, si disse con un silenzioso sospiro.

L'uomo teneva in mano la parte inferiore di una tazza di plastica rotta, che spinse con cautela verso di lui con il respiro che sibilava ansante attraverso i denti ingialliti, un affanno dovuto alla fatica fisica, all'eccitazione o forse ad una malattia… no, non ad una malattia, perché tutti qui erano stati ben immunizzati, al punto che la fuga era molto difficile anche attraverso la morte.

Miles rotolò su un fianco e si puntellò con fatica su un gomito, scrutando il suo visitatore attraverso la cortina sempre meno intensa del dolore causatogli dalle varie ammaccature.

L'uomo si ritrasse leggermente ed esibì un sorriso nervoso, accennando con la testa in direzione della tazza.

– Acqua. Farai meglio a bere, perché il fondo è crepato e se aspetti troppo l'acqua cola tutta fuori.

– Grazie – gracchiò Miles. Appena una settimana prima… o in una vita precedente, a seconda di come si contava il passare del tempo… lui aveva avuto la possibilità di scegliere fra una selezione di vini, scartando quelli che non lo soddisfacevano per le loro sfumature di sapore; quel ricordo gli strappò un sorriso che gli provocò una crepa in un labbro. Raccolta la tazza bevve quella che era comunissima acqua, tiepida e intrisa di un leggero sapore di cloro e di zolfo.

Un'ottima corposità, ma il bouquet lascia po' a desiderare…

L'uomo rimase accoccolato in un atteggiamento di studiata cortesia finché lui non ebbe finito di bere, poi si protese in avanti appoggiandosi sulle nocche delle mani con urgenza a stento trattenuta.

– Sei tu l'Uno? – chiese.

– Sono cosa? – fece Miles, sbattendo le palpebre.

– L'Uno. L'altro uno, dovrei dire, considerato che secondo le scritture ce ne dovrebbero essere due.

– Uh… – Miles esitò con cautela, poi domandò: – E cosa dicono esattamente le scritture?

L'uomo, che teneva la mano destra stretta intorno all'ossuto polso sinistro e allo straccio intrecciato in una sorta di corda che portava legato intorno ad esso, chiuse gli occhi e prese a recitare ad alta voce:

– … ma i pellegrini salirono quella collina con facilità, perché avevano questi due uomini a guidarli per la mano; si erano inoltre lasciati alle spalle i loro indumenti, perché anche se erano entrati nel fiume con essi ne uscivano poi senza di essi… – Arrivato a questo punto l'uomo riaprì gli occhi e fissò Miles con espressione speranzosa.

Comincio a capire perché questo tizio sembri essere del tutto isolato… rifletté questi, fra sé.

– Si dà il caso che tu sia l'altro Uno? – azzardò quindi. L'uomo annuì con timidezza.

– Capisco. Hmm…

Raccogliendo con la lingua le ultime gocce d'acqua che aveva sulle labbra Miles si chiese perché gli capitava sempre di attirare i casi da manicomio. Quel tizio poteva avere qualche rotella fuori posto ma costituiva comunque un miglioramento rispetto al gruppo precedente, sempre supponendo che nella sua testa non ci fossero due o tre personalità di tipo omicida nascoste da qualche parte. No, in quel caso l'uomo si sarebbe presentato come i Due Prescelti e non avrebbe cercato un aiuto esterno.

– Come ti chiami? – domandò infine.

– Suegar.

– Suegar… d'accordo. A proposito, io mi chiamo Miles.

– Uh – commentò Suegar, con una smorfia che indicava una sorta di compiaciuta ironia. – Sai che il tuo nome significa «soldato»?

– Sì, me lo hanno detto.

– Ma tu non sei un soldato…

Miles arrossì: qui non c'era nessun sottile e costoso trucco nel taglio degli abiti con cui potesse nascondere a se stesso, se non agli altri, le stranezze del suo corpo.

– Verso la fine hanno cominciato ad accettare di tutto e mi hanno preso come impiegato addetto al reclutamento… non ho avuto modo di sparare neppure un colpo. Senti, Suegar, come fai a sapere di essere l'Uno, o almeno uno dei due Uno? È una cosa che hai sempre saputo?

– Me ne sono reso conto a poco a poco – confessò Suegar, cambiando posizione e mettendosi a sedere a gambe incrociate. – Vedi, io qui sono il solo a possedere le parole – proseguì, accarezzando di nuovo lo straccio intrecciato. – Ho cercato in lungo e in largo per il campo, ma gli altri mi hanno soltanto deriso. È stato una specie di processo di eliminazione… si sono arresi tutti tranne me.

Miles si sollevò a sedere con un leggero sussulto di dolore, consapevole che quelle costole incrinate lo avrebbero fatto soffrire per alcuni giorni, e annuì in direzione del bracciale intrecciato.

– È lì che custodisci le tue scritture? Posso vederle? – domandò, chiedendosi come diavolo avesse fatto Suegar a procurarsi un modulo di plastica o una vera pagina di carta in un posto come quello.

Suegar però si strinse le braccia al petto in un gesto protettivo e scosse il capo.

– Stanno cercando di prendermele da mesi e devo stare attento finché non avrai dimostrato di essere l'Uno – replicò. – Sai, anche il diavolo può citare le scritture.

Già, ed è più o meno quello che io avevo in mente… pensò Miles. Chi poteva infatti sapere quali opportunità fossero racchiuse nelle «scritture» di Suegar? Bene, forse le avrebbe viste in seguito… per ora doveva limitarsi a continuare a stare al gioco.

– Ci sono altri segni? – domandò. – Vedi, io non so se sono l'altro Uno, ma al tempo stesso non sono neppure certo di non esserlo. Dopo tutto, sono appena arrivato.

Di nuovo Suegar scosse il capo.

– Sono soltanto cinque o sei frasi, e bisogna interpolare parecchio.

Ci scommetto, commentò fra sé Miles, astenendosi però dal dirlo ad alta voce.

– Come te le sei procurate? O le hai trovate qui?

– Le ho trovate a Porto Lisma, appena prima di essere catturato – spiegò Suegar. – Era in corso un combattimento di casa in casa e uno dei tacchi dei miei stivali si era allentato, ticchettando ad ogni passo. È strano come un rumore tanto insignificante possa dare sui nervi anche in mezzo al fragore che si stava abbattendo sui miei orecchi. In una casa c'era una libreria chiusa con ante di vetro e contenente veri libri antichi fatti di carta… ho fracassato il vetro con il calcio del mio fucile ed ho strappato una pagina da un volume, piegandola e infilandola nel tacco per bloccarlo e impedire che continuasse a ticchettare. Non ho neppure guardato il titolo del libro e ho scoperto soltanto più tardi che era un testo di scritture… o almeno credo che siano scritture. Dato che dal contenuto sembrano tali devono esserlo.

Suegar si tormentò i peli della barba con un gesto nervoso, arrotolandoli intorno ad un dito.

– Mentre stavamo aspettando di essere immessi nel campo ho sfilato quel pezzo di carta dal tacco, così, tanto per fare qualcosa, e lo avevo in mano quando mi hanno prelevato. La guardia che si è occupata di me lo ha visto ma non me lo ha preso, probabilmente perché ha pensato che fosse soltanto un innocuo pezzo di carta, quindi lo avevo ancora in mano allorché mi hanno scaricato qui. Sai che è il solo foglio scritto che ci sia in tutto il campo? – concluse, con una sfumatura di orgoglio. – Devono essere scritture.

– Ecco… allora abbine cura – consigliò gentilmente Miles. – Se le hai preservate tanto a lungo, è evidente che eri destinato a farlo.

– Già – convenne Suegar, sbattendo le palpebre… aveva forse le lacrime agli occhi? – Qui io sono il solo ad avere uno scopo, vero? Quindi devo essere l'Uno… uno dei due.

– Pare anche a me – assentì Miles, guardandosi intorno nella cupola uniforme. – Senti, come si fa ad orientarsi in questo posto? – chiese poi.

Il campo era decisamente privo di punti di riferimento e gli ricordava più di ogni altra cosa una colonia di pinguini. I pinguini erano però capaci di ritrovare la strada che portava al loro nido roccioso, il che significava che lui avrebbe dovuto cominciare a pensare come un pinguino… o trovare un pinguino che gli desse indicazioni. Questo pensiero lo indusse a studiare più attentamente il suo uccello guida, che aveva assunto un atteggiamento assente e stava disegnando qualcosa nella polvere… cerchi, naturalmente.

– Dov'è la sala mensa? – domandò, alzando il tono di voce. – E dove prendete l'acqua?

– I rubinetti dell'acqua sono sulle pareti esterne delle latrine – spiegò Suegar, – ma funzionano a intervalli, e non c'è una sala mensa… otteniamo soltanto sbarre nutritive. A volte.

– A volte? – ripeté Miles, con rabbia. Sul torace di Suegar era possibile contare il numero esatto delle costole. – Dannazione, i Cetagandani stanno proclamando in lungo e in largo che trattano i loro prigionieri di guerra secondo le regole stabilite dalla Commissione di Giustizia Interstellare… un certo numero di metri quadri per persona, 3000 calorie al giorno, almeno cinquanta grammi di proteine, due litri di acqua potabile… dovreste ricevere ogni giorno almeno due razioni standard ciascuno secondo le norme della Commissione, e invece vi stanno facendo patire la fame.

– Dopo un po' – sospirò Suegar, – ottenere o meno la tua razione smette di avere importanza.

L'animazione destata in lui dal suo interesse per Miles come per un oggetto nuovo e latore di speranza piovuto nel suo mondo stava cominciando ad abbandonarlo: il suo respiro si era fatto più lento, il suo atteggiamento più accasciato, al punto che sembrava prossimo a sdraiarsi in mezzo alla polvere. Nel guardarlo, Miles si chiese se la stuoia per dormire di Suegar avesse subito la stessa sorte della sua, e decise che questo doveva essere probabilmente accaduto molto tempo prima.

– Senti, Suegar… credo che da qualche parte in questo campo ci sia un mio parente, un cugino da parte di mia madre. Potresti aiutarmi a trovarlo?

– Avere qui un parente potrebbe essere un vantaggio per te – convenne Suegar. – Non è bene essere soli, in questo posto.

– Sì, l'ho già scoperto… ma come si fa a trovare qualcuno? Non mi sembrate molto organizzati.

– Oh… ci sono gruppi e gruppi, e dopo un po' ciascuno resta sempre nello stesso posto.

– Mio cugino era con il 14° Commandos. Dove sono?

– Non rimane granché di nessuno dei vecchi gruppi.

– Si tratta del Colonnello Tremont, Guy Tremont.

– Oh, un ufficiale – osservò Suegar, aggrottando la fronte in un'espressione preoccupata. – Questo rende le cose più difficili. Tu non eri un ufficiale, vero? Se lo eri è meglio che eviti di dirlo in giro…

– Ero un impiegato – ripeté Miles.

– … perché qui ci sono gruppi che non hanno simpatia per gli ufficiali. Un impiegato. Allora probabilmente non corri rischi.

– Tu eri un ufficiale, Suegar? – domandò Miles, incuriosito.

Suegar si accigliò e tormentò ancora i peli superstiti della sua barba.

– L'Esercito di Marilac è scomparso. Come ci possono essere ufficiali se non c'è più un esercito? – ribatté.

Per un momento Miles si chiese se non avrebbe fatto più progressi e più in fretta allontanandosi da Suegar e cercando di avviare una conversazione con il prossimo prigioniero in cui si fosse imbattuto. Gruppi e gruppi… e presumibilmente gruppi come quei cinque grossi e cupi compari… alla fine decise di restare con Suegar ancora per un po'. Se non altro, si sentiva meno nudo se non era il solo ad essere in quello stato.

– Potresti accompagnarmi da qualcuno che faceva parte del 14°? – insistette. – Chiunque che possa conoscere Tremont di vista.

– Tu non lo conosci?

– Non ci siamo mai incontrati di persona. Ho visto la sua immagine in alcuni video, ma ho paura che il suo aspetto possa essere cambiato… adesso.

– Già, è probabile – assentì Suegar, toccandosi pensosamente la faccia.

Miles si issò faticosamente in piedi, notando che la temperatura della cupola era un po' troppo fresca per qualcuno privo di vestiti… una corrente d'aria appena percepibile gli faceva rizzare i peli delle braccia. Se avesse potuto riavere un solo capo di vestiario, cosa avrebbe scelto… i pantaloni per decenza oppure la camicia per coprire la schiena storta? Non c'era però tempo per indugiare in simili riflessioni, quindi le accantonò e tese una mano per aiutare Suegar ad alzarsi.

– Andiamo.

– Si riconosce sempre un nuovo venuto dal fatto che ha ancora fretta – commentò Suegar, fissandolo. – Qui si impara a rallentare, anche il cervello rallenta il suo funzionamento…

– Le tue scritture dicono qualcosa al riguardo? – ribatté Miles, con impazienza.

– … e di conseguenza essi salirono lassù con grande agilità e velocità, attraverso le fondamenta della città… – recitò Suegar, aggrottando la fronte e fissando Miles con espressione riflessiva.

Grazie tante, basta così, pensò questi, issando in piedi il suo compagno.

– Andiamo, allora – ripeté.

Non c'era né agilità né velocità, ma almeno stavano facendo qualche progresso. Con passo lento e strascicato Suegar lo guidò attraverso un quarto del campo, passando in mezzo ad alcuni gruppi e descrivendo ampi giri per evitarne altri; da lontano, Miles scorse i cupi compari che sedevano sulla loro collezione di stuoie e modificò la sua valutazione delle dimensioni della loro tribù elevandone il numero di membri da cinque a una quindicina. Dappertutto c'erano uomini che sedevano in gruppetti di due, tre o anche sei elementi, mentre altri sedevano soli e il più lontano possibile da chiunque… una distanza comunque molto ridotta.

Il gruppo più numeroso era costituito interamente da donne, e Miles lo studiò con interesse elettrizzato non appena notò le dimensioni del loro territorio, privo peraltro di qualsiasi delimitazione visibile. Le donne erano almeno qualche centinaio e nessuna di loro era priva di stuoia, anche se alcune ne usavano una in comune; il loro perimetro era pattugliato da squadre di sei elementi che lo descrivevano a passo lento e a quanto pareva il gruppo aveva requisito due latrine per il suo uso esclusivo.

– Parlami delle ragazze, Suegar – chiese al suo compagno, accennando in direzione di quel gruppo.

– Scordatele – ribatté questi, con un sorriso quasi sardonico. – Non socializzano.

– Cosa? Per nulla? Nessuna di loro? Voglio dire, siamo tutti qui, senza altro da fare che tenerci compagnia a vicenda, e ci sarebbe da pensare che almeno qualcuna di loro sia interessata a fraternizzare con l'altro sesso.

Mentre parlava, Miles arrivò però a dedurre da solo il perché di quell'isolamento autoimposto prima che Suegar gli rispondesse, e si chiese quanto le cose potessero diventare sgradevoli in quel posto.

Per tutta risposta Suegar accennò in direzione della volta della cupola.

– Sai che qui siamo tenuti tutti sotto controllo: se lo vogliono, possono vedere ogni nostro gesto, sentire ogni parola… cioè, ammesso che là fuori ci sia ancora qualcuno. Potrebbero essersene andati tutti e aver dimenticato di disattivare la cupola. A volte faccio sogni del genere, sogno di essere chiuso in questa cupola per sempre, poi mi sveglio e mi trovo qui… ci sono momenti in cui non so neppure con certezza se sono sveglio o sto dormendo. Le sole indicazioni che ci sia ancora qualcuno sono il cibo che continua ad arrivare e il fatto che di tanto in tanto… anche se ormai accade sempre più di rado… appare qualcuno nuovo, come te. Però suppongo che il cibo potrebbe essere immesso automaticamente, e che tu potresti essere un sogno…

– Sono ancora là fuori – garantì Miles, cupo.

– Sai – sospirò Suegar, – in un certo senso ne sono quasi lieto.

Tenuti sotto controllo, certo… Miles, che sapeva tutto su quel controllo mediante monitor, lottò per soffocare l'improvviso impulso di agitare una mano e di gridare «ciao, mamma!» Quello di gestire i monitor doveva essere un lavoro monotono per gli idioti addetti ad esso, e lui si augurò che finissero per morire di noia.

– Ma questo cosa c'entra con le ragazze, Suegar? – domandò.

– Ecco, all'inizio tutti erano decisamente inibiti da quello… – spiegò lui, indicando verso l'alto, – ma dopo un po' abbiamo scoperto che loro non interferivano, qualsiasi cosa facessimo. Non interferivano affatto. Ci sono stati alcuni stupri, e da allora le cose si sono… deteriorate…

– Allora devo supporre che l'idea di scatenare una rissa e di aprirsi un varco nella cupola quando i Cetagandani mandassero delle truppe a riportare l'ordine è da scartare in partenza, giusto?

– È una cosa che è stata provata una volta, molto tempo fa… non so quanto – spiegò Suegar, torcendosi ancora la barba. – I Cetagandani non sono obbligati a venire dentro per porre fine ad una rissa, si limitano a ridurre il diametro della cupola, e quella volta lo hanno ridotto a circa duecento metri. Se volessero, nulla potrebbe impedire loro di ridurlo ad un solo metro, con tutti noi ancora dentro. In ogni caso, questo ha posto fine alla rissa. Un'altra cosa che possono fare è ridurre a zero la permeabilità ai gas della cupola e lasciare che finiamo tutti in coma per mancanza di ossigeno. Questo è accaduto due volte.

– Capisco – commentò Miles, sentendo i peli che gli si rizzavano alla base del collo.

In quel momento a circa cento metri di distanza da loro la parete della cupola cominciò a gonfiarsi verso l'interno come un'aneurisma.

– Cosa sta succedendo laggiù? – s'informò Miles, battendo un colpetto sul braccio di Suegar. – Vengono introdotti altri nuovi prigionieri?

– Uh oh – borbottò Suegar, guardandosi intorno. – Qui non siamo in una buona posizione.

E per un momento restò fermo, come incerto se andare avanti o tornare indietro.

Intanto un'onda di movimento si stava diffondendo per il campo, allargandosi a partire dal rigonfiamento a mano a mano che tutti si alzavano in piedi e si giravano verso quel lato della cupola come attratti da una forza magnetica. Piccoli capannelli di uomini si raccolsero qua e là e alcuni velocisti spiccarono la corsa, mentre altri non si alzarono affatto. Lanciando un'occhiata in direzione del gruppo delle donne, Miles vide che una metà di loro stava formando in fretta una sorta di falange.

– Siamo così vicini… dannazione, forse abbiamo una possibilità – disse infine Suegar. – Vieni!

E si avviò verso il rigonfiamento della cupola al passo più rapido di cui era capace, un lento trotto, cosa che costrinse Miles a spiccare a sua volta la corsa, cercando di far sobbalzare le costole il meno possibile; ben presto cominciò però ad avere il respiro affannoso e l'accelerarsi della respirazione aggiunse un dolore intollerabile a quello che già gli attanagliava il torso.

– Cosa stiamo facendo? – cercò di dire a Suegar, ma prima che avesse finito il rigonfiamento si dissolse in un leggero tremolio e lui vide finalmente cosa stavano facendo… vide tutto.

Adesso davanti alla lucente barriera della cupola di forza c'era una pila marrone scuro alta circa un metro, profonda due e larga tre, formata senza ombra di dubbio da barre nutritive, le cosiddette barre RAT indicate convenzionalmente con le iniziali di quelli che avrebbero dovuto essere i loro principali ingredienti. Ciascuna ammontava a millecinquecento calorie e conteneva venticinque grammi di proteine e il cinquanta per cento del fabbisogno umano di vitamine A, B, C e così via… e pur avendo il sapore di un ciottolo ricoperto di zucchero poteva mantenere in vita e in salute una persona a tempo indefinito, a patto che si riuscisse a tollerare di continuare a nutrirsene.

Vogliamo fare una gara, ragazzi, per indovinare quante barre ci sono in quel mucchio? pensò. Nessuna gara, non devo neppure misurare l'altezza del mucchio e dividerla per tre centimetri: devono essere esattamente 10,215. Davvero ingegnoso.

Nel corpo degli Operatori Psicologici Cetagandani ci dovevano essere delle menti davvero notevoli, al punto che Miles si chiese cosa avrebbe dovuto fare se fossero cadute nelle sue mani… arruolarle o sterminarle? Quel breve volo di fantasia fu troncato di netto dalla necessità di restare con i piedi piantati nel mondo della realtà presente, in quanto circa 10.000 persone, tranne coloro che avevano ceduto alla disperazione o erano troppo deboli per muoversi, stavano cercando di piombare contemporaneamente su quei sei metri quadrati di campo.

I primi velocisti raggiunsero il mucchio, afferrarono una bracciata di barre e cercarono di allontanarsi altrettanto in fretta. Alcuni riuscirono ad arrivare fino alla protezione degli amici, divisero con loro il bottino e si ritrassero dal centro di quel maelstrom vivente, ma altri non fecero in tempo a schivare gruppetti di soggetti come i grossi e cupi compari e furono violentemente alleggeriti delle loro prede. La seconda ondata di velocisti, che non riuscì ad allontanarsi in tempo, si venne invece a trovare bloccata contro la parete della cupola dalla sopraggiungente marea di corpi.

Sfortunatamente, Miles e Suegar fecero parte di questa seconda categoria, e ben presto il campo visivo di Miles si ridusse ad una massa sudata, ansante, puzzolente e imprecante di gomiti, di toraci e di schiene.

– Mangia, mangia! – lo incitò Suegar, a bocca piena, mentre venivano separati dall'orda che stava sopraggiungendo.

La barra da lui afferrata fu però strappata dalle mani di Miles prima che questi si fosse raccapezzato abbastanza da seguire il consiglio del compagno, e del resto la sua fame era nulla se paragonata al terrore di restare schiacciato o… peggio ancora… di cadere e di essere calpestato. I suoi stessi piedi si mossero su qualcosa di morbido ma non gli riuscì di spingere con forza sufficiente a dare a quella persona… era un uomo oppure una donna?… la possibilità di rialzarsi.

Con il tempo la ressa si attenuò, permettendo a Miles di trovare il limitare della folla e di uscirne; barcollando si allontanò un poco e si lasciò cadere seduto nella polvere, scosso e tremante, pallido e gelato, con il respiro che gli gracchiava irregolarmente in gola.

Gli ci volle parecchio per ritrovare le forze e il controllo, perché per puro caso quell'esperienza aveva toccato il suo nervo più sensibile, evocato i suoi più cupi timori, minacciato la sua più grande debolezza.

Qui potrei morire senza aver mai visto il volto del nemico, pensò. Non sembrava però che ci fossero ossa rotte, tranne forse nel piede sinistro… non era certo delle sue condizioni, e di sicuro l'elefante che lo aveva calpestato era qualcuno che prelevava ogni volta più della sua giusta razione di barre nutrizionali.

D'accordo, decise infine, ho dedicato fin troppo tempo al riposo. In piedi, soldato. Era arrivato il momento di trovare il Colonnello Tremont.

Guy Tremont, il vero eroe dell'assedio del Nucleo Fallow, il coraggioso che aveva resistito, resistito e ancora resistito anche dopo che il Generale Xian era fuggito e che Baneri era stato ucciso.

Xian aveva giurato di tornare, ma era finito intrappolato nel massacro della Stazione Vassily; il Quartier Generale aveva promesso di mandare provviste, ma il Quartier Generale e il suo astroporto di vitale importanza erano stati presi dai Cetagandani.

Quando questo era accaduto il Colonnello Tremont e i suoi uomini erano però ormai privi del sistema di comunicazione e quindi avevano resistito, attendendo e sperando, fino a quando le loro risorse si erano ridotte a rocce e speranza… le rocce erano oggetti versatili, che potevano essere bolliti per ottenere una zuppa o scagliati contro il nemico. Alla fine, però, il Nucleo Fallow era stato conquistato. Non si era arreso, era stato preso.

Guy Tremont… Miles desiderava moltissimo incontrare Guy Tremont.

Alzatosi in piedi, si guardò intorno e scorse in lontananza una figura da spaventapasseri che camminava lentamente e che era oggetto di una pioggia di zolle di terriccio che un gruppo di persone le stava scagliando contro per indurla ad andarsene. Suegar si fermò fuori della portata di tiro di quei proiettili improvvisati e continuò a indicare lo straccio legato al polso, senza cessare di parlare, ma i tre o quattro uomini che stava arringando gli fecero capire cosa pensavano del suo messaggio girando le spalle e andandosene.

Con un sospiro, Miles si avviò per raggiungerlo.

– Ehi, Suegar! – chiamò, agitando una mano, quando fu più vicino.

– Oh, eccoti qui – rispose Suegar, rischiarandosi in volto e raggiungendolo. – Ti avevo perso. Nessuno mi vuole ascoltare, sai? – aggiunse, pulendosi la fronte dalla terra.

– Già… ecco, la maggior parte di loro ti deve ormai aver sentito parlare almeno una volta, giusto?

– Probabilmente mi avranno sentito venti volte, perché continuo a pensare che potrei aver dimenticato qualcuno, forse proprio l'Uno… l'altro Uno.

– Io sarei felice di ascoltarti, ma prima devo proprio trovare il Colonnello Tremont. Hai detto che conoscevi qualcuno…

– Oh, hai ragione. Da questa parte – assentì Suegar, incamminandosi di nuovo.

– Grazie. Dimmi, ogni chiamata per il rancio è come quella a cui ho appena assistito?

– Più o meno.

– E cosa impedisce a qualche… gruppo… di impadronirsi di quel tratto del perimetro della cupola?

– Le barre non vengono mai depositate due volte nello stesso posto. Il punto viene spostato tutt'intorno al perimetro. In passato si è discusso molto su quale fosse la strategia migliore, e cioè se fosse meglio appostarsi nel centro, in modo da non essere mai a più di mezzo diametro di distanza dalle barre, o vicino al perimetro, al fine di trovarsi in prima fila almeno alcune volte. Ci sono perfino stati alcuni che hanno effettuato un calcolo matematico delle probabilità di successo delle due tattiche.

– Tu quale preferisci?

– Oh, io non ho un punto particolare, mi sposto di qua e di là e mi affido alla sorte. Quella non è comunque la cosa più importante – proseguì, toccando lo straccio legato al polso, – ma è stato bello poter mangiare oggi, qualsiasi giorno sia.

– Oggi è il 2 novembre del '97, Era Comune della Terra.

– Oh, soltanto? – fece Suegar, tirando il ciuffo di barba e ruotando gli occhi nel tentativo di guardarlo. – Credevo di essere rimasto qui più a lungo di così… non sono passati neppure tre anni – aggiunse, in tono di scusa. – Qui dentro è sempre oggi.

– Hmm – fece Miles. – E così le barre nutrizionali sono sempre state consegnate in un solo mucchio, in quel modo.

– Già.

– Dannatamente ingegnoso.

– Già – ripeté Suegar, con un sospiro in cui era nascosta un'ira appena alitata e tradita dalla contrazione delle sue mani.

Dunque quel folle non era poi così ingenuo come voleva apparire…

– Siamo arrivati – aggiunse Suegar, arrestandosi davanti ad un gruppo il cui territorio era determinato da una mezza dozzina di stuoie disposte in un rozzo cerchio. Uno degli uomini sollevò lo sguardo e gli scoccò un'occhiata rovente.

– Vattene, Suegar, non sono dell'umore giusto per sentire un sermone.

– Quello è il colonnello? – sussurrò Miles.

– No, si chiama Oliver. Lo conoscevo… molto tempo fa. Comunque era al Nucleo Fallow e ti potrà portare da Tremont – sussurrò di rimando Suegar, poi spinse Miles avanti e aggiunse: – Questo è Miles, è nuovo e ti vuole parlare.

Detto questo indietreggiò di qualche passo e Miles si rese conto che lo aveva fatto per essergli d'aiuto: a quanto pareva, Suegar era consapevole della propria impopolarità.

Miles procedette quindi a studiare il successivo anello della catena che stava seguendo: Oliver era riuscito a non farsi sottrarre la divisa grigia e la stuoia, e la sua tazza di plastica era intatta, tutte cose che contribuirono a ricordare a Miles la propria nudità. D'altro canto, Oliver non sembrava essere in possesso di oggetti di scorta ottenuti con mezzi illeciti, e la sua somiglianza con i cupi compari si limitava al fisico massiccio, il che era un bene… anche se nelle sue attuali condizioni Miles non aveva più di che preoccuparsi di eventuali furti.

Dal canto suo, Oliver lo fissò inizialmente con freddezza, ma poi parve addolcire il proprio atteggiamento.

– Cosa vuoi? – brontolò.

– Sto cercando il Colonnello Tremont – spiegò Miles, allargando le mani.

– Qui non ci sono colonnelli, ragazzo.

– Era un cugino di mia madre. Nessuno della famiglia… nessuno del mondo esterno… ha più avuto sue notizie dirette o indirette da quando il Nucleo Fallow è caduto. Io… io non provengo da nessuna unità o frammento di unità presente là, e il Colonnello Tremont è il solo di cui sappia qualcosa.

Nel parlare Miles serrò le mani una contro l'altra e cercò di apparire fragile, mentre un dubbio effettivo cominciava a scuoterlo e lo induceva ad aggrottare la fronte.

– È ancora vivo, vero? – insistette.

– Un parente, eh? – fece Oliver, grattandosi un lato del naso con uno spesso dito. – Suppongo che tu abbia il diritto di vederlo, ragazzo, ma non credo che ti servirà a qualcosa, se è a questo che stai pensando.

– Io… a questo punto voglio soltanto sapere - replicò Miles, scuotendo il capo.

– Allora vieni – decise Oliver, alzandosi in piedi con un grugnito e incamminandosi senza neppure guardarsi alle spalle per vedere se Miles lo stava seguendo.

– Mi stai portando da lui? – domandò questi, mentre gli andava dietro zoppicando.

Oliver non rispose finché non ebbero finito il tragitto lungo appena qualche dozzina di metri che si snodava fra le stuoie per dormire; un uomo imprecò, un altro sputò, ma i più li ignorarono.

Una stuoia era posta al limitare del gruppo, quasi abbastanza lontano da apparire isolata, e su di essa una figura raggomitolata su un fianco volgeva loro le spalle. In silenzio, Oliver si arrestò a contemplarla con i grossi pugni sui fianchi.

– È quello il colonnello? – sussurrò Miles, in tono urgente.

– No, ragazzo – rispose Oliver, tormentandosi il labbro inferiore, – è soltanto ciò che resta di lui.

Allarmato, Miles s'inginocchiò, ma ben presto si rese conto che Oliver aveva inteso parlare soltanto in senso figurato e che l'uomo sulla stuoia respirava ancora.

– Colonnello Tremont? Signore? – chiamò, e sentì il cuore che gli mancava di nuovo quando si accorse che respirare era più o meno la sola cosa che Tremont facesse.

Il colonnello giaceva inerte, e sebbene fossero aperti i suoi occhi erano fissi nel vuoto, al punto che il suo sguardo non si spostò neppure in maniera infinitesimale verso Miles; il suo corpo era scarno, ancor più di quello di Suegar, e pur riconoscendo la curva della mascella e la forma dell'orecchio dai video che aveva studiato, Miles comprese di avere davanti soltanto i resti di un volto, paragonabili alle macerie del Nucleo Fallow… ci sarebbe voluta quasi la capacità di analisi di un archeologo per ricollegare le rovine attuali alla realtà passata.

Il colonnello era vestito e la sua tazza era posata accanto alla stuoia, ma la terra intorno ad essa era trasformata in un fango acre e puzzolente, che Miles comprese essere stato formato dall'urina. I gomiti di Tremont erano inoltre segnati da un principio di piaghe da decubito, mentre una macchia umida sulla stoffa grigia dei calzoni all'altezza dei fianchi ossuti indicava la presenza di altre piaghe più terribili e in stato più avanzato.

E tuttavia ci deve essere qualcuno che si sta occupando di lui, pensò Miles, altrimenti avrebbe un aspetto ancora peggiore.

Mentre formulava quel pensiero Oliver gli si inginocchiò accanto, con i piedi nudi immersi nella fanghiglia, e tirò fuori dalla cintura elastica dei propri calzoni un pezzo di barra nutritiva, sbriciolandone un frammento con le grosse dita e spingendolo fra le labbra di Tremont.

– Mangia – sussurrò.

Le labbra quasi si mossero, poi le briciole caddero sulla stuoia; Oliver tentò di nuovo, ma parve avvertire lo sguardo di Miles fisso su di sé e ripose il resto della barra nei pantaloni con un grugnito inintelligibile.

– È… è stato ferito quando il Nucleo Fallow è stato preso? – chiese Miles. – Forse una ferita alla testa?

– Il Nucleo Fallow non è stato preso con la forza, ragazzo – lo corresse Oliver, scuotendo il capo.

– Ma è stato detto che è caduto il 6 ottobre e…

– È caduto il 5 ottobre. Il Nucleo Fallow è stato tradito – dichiarò Oliver, poi gli volse le spalle e si allontanò prima che il suo volto irrigidito potesse rivelare qualsiasi emozione.

Dietro di lui Miles s'inginocchiò nel fango ed esalò un lento respiro.

Dunque era così.

Questa era allora la fine della sua impresa?

Avrebbe voluto passeggiare per riflettere meglio, ma camminare lo faceva ancora soffrire troppo quindi si limitò ad allontanarsi un poco zoppicando e cercando di non invadere accidentalmente il territorio di qualche grosso gruppo; alla fine si sedette e poi si sdraiò nella polvere, incrociando le mani dietro la testa e fissando il bagliore perlaceo della cupola che li sigillava tutti al suo interno come un coperchio. In quella posizione considerò tutte e tre le opzioni che aveva a disposizione, soppesandole con cura… una cosa che non richiese molto tempo.

Pensavo che non credessi più nella divisione fra buoni e cattivi, si rimproverò. Era venuto qui con la convinzione di aver ormai cauterizzato le proprie emozioni a titolo di autoprotezione, ma adesso cominciava a sentire l'imparzialità coltivata con tanta cura che iniziava a dissolversi, cominciava ad odiare quella cupola in maniera veramente intima e personale: esteticamente elegante, in essa la forma era unita alla funzione con la stessa perfezione ritrovabile in un guscio d'uovo… una meraviglia della fisica trasformata in uno strumento di tortura.

Una tortura sottile… Miles ripensò alle regole stabilite dalla Commissione di Giustizia Interstellare per il trattamento dei prigionieri di guerra, regole che lo stesso Cetaganda aveva firmato. Un determinato numero di metri quadrati di spazio per persona… sì, questo era stato di certo fornito nel campo; nessun prigioniero doveva restare isolato per un periodo di tempo superiore alle ventiquattr'ore… qui non si poteva trovare solitudine di sorta tranne che rifugiandosi nella follia; nessun periodo di oscurità di durata maggiore di ventiquattr'ore… regola facile da aggirare, qui i periodi di oscurità non esistevano affatto ed erano sostituiti da un perenne bagliore meridiano; niente percosse… le guardie potevano affermare in tutta sincerità di non aver mai posato una sola mano addosso ai prigionieri, perché si erano limitate a guardare mentre essi si picchiavano a vicenda. Gli stupri, strettamente vietati dalle regole, erano senza dubbio stati gestiti nello stesso modo.

Ed aveva visto cosa i Cetagandani erano capaci di fare con la distribuzione delle due barre a testa al giorno: quella lotta per accaparrarsi il cibo era un tocco particolarmente elegante, si disse, perché nessuno poteva evitare di parteciparvi… nel formulare quella riflessione si massaggiò lo stomaco vuoto e brontolante. Era possibile che il nemico avesse scatenato di proposito le prime lotte inviando un numero di barre inferiore a quello necessario, ma forse non lo aveva fatto… la prima persona che aveva afferrato due barre anziché una ne aveva lasciata un'altra senza cibo, e quella persona la volta successiva ne aveva probabilmente prese due o tre per compensare, creando una rapida reazione a catena. Quella manovra aveva infranto la speranza e l'ordine, aveva messo gruppo contro gruppo e persona contro persona in una lotta continua che si ripeteva due volte al giorno e che ricordava a tutti la loro impotenza e la loro degradazione. Nessuno poteva infatti permettersi di tenersi a lungo fuori della mischia a meno che desiderasse morire di fame.

Niente lavori forzati, continuò ad enumerare… un momento, i lavori forzati avrebbero richiesto l'imposizione dell'ordine. Libero accesso ai servizi del personale medico… i medici delle svariate unità dovevano essere qui da qualche parte; Miles ripassò mentalmente la stesura di quel particolare paragrafo del regolamento… in esso si parlava di personale… non di medicinali ma soltanto di personale medico: medici e tecnici medici a mani vuote, rifletté ritraendo le labbra in un sorriso privo di divertimento.

Un'accurata lista dei prigionieri era stata stilata e debitamente trasmessa come richiesto, ma non c'erano state altre comunicazioni…

Comunicazioni. Questa mancanza di informazioni dal mondo esterno avrebbe potuto farlo impazzire entro breve tempo… era peggio che pregare e parlare con un Dio che non rispondeva mai, e non c'era da meravigliarsi che qui tutti sembrassero toccati da una sorta di schizofrenia solipsistica. I loro dubbi cominciavano a contagiarlo: c'era ancora qualcuno là fuori? La sua voce veniva davvero sentita, le sue parole comprese?

Ci voleva la fede cieca, il balzo intuitivo della fede.

– Questo – scandì con chiarezza, serrando la mano destra come per schiacciare un guscio d'uovo, – richiede un drastico cambiamento dei piani.

E si costrinse ad alzarsi in piedi per andare a cercare Suegar.

Lo trovò non molto lontano, accoccolato nella polvere senza far nulla.

– Oliver ti ha portato da tuo… tuo cugino? – chiese Suegar, sollevando lo sguardo con un breve sorriso.

– Sì, ma sono arrivato troppo tardi: sta morendo.

– Già… temevo che potesse essere così. Mi dispiace.

– Anche a me – rispose Miles, poi si lasciò distrarre per un momento dai suoi scopi a causa di una curiosità di natura pratica. – Suegar, che ne fanno qui dei corpi dei morti?

– Laggiù lungo un fianco della cupola c'è una specie di mucchio di sassi: la cupola li emette e li risucchia di tanto in tanto proprio come fa con il cibo e i nuovi prigionieri. Di solito quando un cadavere si gonfia e comincia a puzzare qualcuno lo trascina laggiù. A volte lo faccio io stesso.

– Suppongo che non ci sia nessuna possibilità di nascondersi in mezzo al mucchio di sassi.

– Vengono inceneriti con un'emissione di microonde prima di essere espulsi.

– Ah, capisco. – Miles trasse un profondo respiro e iniziò la sua manovra: – Suegar, ho avuto l'illuminazione: io sono l'altro Uno.

– Lo avevo immaginato – annuì serenamente Suegar, senza traccia di sorpresa.

Miles si arrestò, sconcertato: possibile che la reazione fosse tutta lì? Si era aspettato qualcosa di più energico, sia che fosse un assenso o un rifiuto.

– L'illuminazione mi è giunta con una visione – riprese poi, seguendo il copione prefissato.

– Davvero? – chiese Suegar, la cui attenzione si accentuò in maniera gratificante, poi aggiunse con invidia: – Io non ho mai avuto una visione, ho dovuto dedurre ogni cosa dal contesto. Com'è? Una specie di trance?

Dannazione, ed io che pensavo che questo tipo parlasse con gli elfi e con gli angeli…

– No – rispose Miles, facendo leggermente marcia indietro, – è come un pensiero, soltanto molto più dominante: ti pervade, ti brucia come un desiderio che non si può soddisfare. Non è come una trance perché ti sospinge verso l'esterno e non dentro te stesso. – A questo punto esitò, sgomento per la consapevolezza che le sue affermazioni erano state più vere di quanto fosse stata sua intenzione.

– Oh, bene – dichiarò Suegar, che appariva ora immensamente incoraggiato. – Per un secondo ho temuto che potessi essere uno di quei tizi che si mettono a parlare con gente che nessun altro può vedere.

Miles guardò involontariamente verso l'alto, poi riportò lo sguardo sul suo interlocutore.

– Dunque – stava proseguendo questi, il cui sguardo appariva ora più a fuoco e più intenso, – le visioni sono fatte così. È una sensazione che ho avuto anch'io.

– E non l'hai riconosciuta? – domandò Miles, in tono blando.

– Non per quello che era… essere scelto in questo modo non è una cosa comoda e ho cercato di sottrarmi ad essa per molto tempo, ma Dio ha il suo modo di trattare con chi tenta di evitare il reclutamento.

– Sei troppo modesto, Suegar: hai creduto nelle scritture ma non in te stesso. Non sai che quando ci viene dato un compito ci viene dato anche il potere per portarlo a termine?

– Sapevo che era un compito per due persone, proprio come affermano le scritture – sospirò Suegar, soddisfatto.

– Giusto, e adesso siamo in due… ma dobbiamo essere di più quindi penso che faremo bene a cominciare con i tuoi amici.

– Non ci vorrà molto tempo – commentò Suegar, in tono asciutto. – Devo dedurre che hai già in mente la seconda mossa da fare?

– A quel punto cominceremo con i tuoi nemici, o con chi conosci appena, cominceremo con il primo dannato prigioniero che attraverserà il nostro cammino. Da dove partiremo non ha importanza, perché alla fine li avremo tutti… tutti, fino all'ultimo. – In quel momento gli tornò in mente una citazione particolarmente adatta alla situazione e si affrettò a declamarla con vigore: – Che coloro che hanno orecchi per sentire ascoltino… li avremo tutti.

E nel proferire quelle parole levò una sentita preghiera dal profondo del cuore.

– D'accordo – proseguì poi, issando Suegar in piedi, – andiamo a predicare ai non convertiti.

– Una volta – rise Suegar, – avevo un comandante che era solito dire «andiamo a prendere a calci qualcuno» con un tono di voce identico al tuo.

– Ci sarà da fare anche questo – convenne Miles, con una smorfia. – Devi capire che non tutti i membri di questa congregazione raggiungeranno volontariamente la fratellanza universale. Comunque lascia a me le operazioni di reclutamento, d'accordo?

– Un impiegato, eh? – fece Suegar, fissandolo da sotto le sopracciglia inarcate e accarezzandosi il ciuffo di barba superstite.

– Esatto.

– Sì, signore.

Cominciarono con Oliver.

– Posso entrare nel tuo ufficio? – chiese Miles, accennando con un gesto.

Oliver si massaggiò il naso con il dorso di una mano e sbuffò.

– Lascia che ti dia un consiglio, ragazzo: qui non riuscirai a farti una posizione come comico, perché ogni possibile battuta è già stata sfruttata fino all'osso, perfino quelle macabre.

– Molto bene – replicò Miles, sedendo a gambe incrociate accanto alla stuoia di Oliver ma non troppo vicino ad essa, mentre Suegar si teneva accoccolato alle sue spalle, pronto a scattare all'indietro se fosse risultato necessario. – Allora verrò subito al dunque. Non mi piace come vengono condotte le cose qui.

Oliver contorse la bocca in una smorfia sardonica ma non fece commenti, perché non ce n'era bisogno.

– Quindi ho intenzione di cambiarle – aggiunse Miles.

– Merda – scandì Oliver, girando il volto dall'altra parte.

– A partire da adesso e da qui.

– Vattene, se non vuoi che ti pesti – aggiunse Oliver, dopo un momento di silenzio.

Suegar accennò ad alzarsi, ma Miles gli segnalò di restare dov'era con un gesto irritato.

– Lui era nei Commandos – sussurrò Suegar, in tono preoccupato, – e ti potrebbe spezzare in due.

– I nove decimi delle persone presenti in questo campo potrebbero farlo, incluse le ragazze – replicò Miles, in tono altrettanto sommesso. – Non è una considerazione d'importanza significativa.

Si protese quindi in avanti e afferrò Oliver per il mento, costringendolo a girare la faccia verso di lui, una tattica pericolosa che indusse Suegar a trattenere il respiro con un sibilo.

– Sergente, c'è una cosa da dire in merito al cinismo, e cioè che è la posizione morale più passiva dell'universo. Estremamente comoda: se non si può fare nulla, allora non si è una sorta di verme se si resta inattivi e si può rimanere sdraiati in pace con la coscienza tranquilla.

Oliver allontanò di scatto la sua mano ma non distolse di nuovo il volto né lo sguardo in cui ora ardeva l'ira.

– È stato Suegar a dirti che ero un sergente? – sibilò.

– No, è scritto sulla tua fronte con lettere di fuoco. Ascoltami, Oliver…

Oliver si sollevò quanto gli era possibile continuando a tenere le nocche puntellate sulla stuoia e Suegar sussultò, senza però darsi alla fuga.

– Ascoltami tu, mutante – ringhiò il commando. – Abbiamo già fatto tutto. Abbiamo effettuato esercitazioni, organizzato giochi, fatto esercizi e docce fredde… tranne per il fatto che qui non ci sono docce fredde. Abbiamo cantato in gruppo e dato spettacoli, lo abbiamo fatto secondo le regole e poi con la forza, scatenando una vera guerra gli uni contro gli altri. Infine siamo passati al peccato, al sesso e al sadismo fino ad essere prossimi a vomitare. Credi davvero di essere il primo riformatore arrivato qui?

– No, Oliver – ribatté Miles, protendendosi verso di lui e incontrando il suo sguardo con il proprio senza restarne bruciato, poi abbassò la voce ad un sussurro e aggiunse: – Ma credo di essere l'ultimo.

Oliver rimase in silenzio per un momento, poi scoppiò a ridere.

– Per Dio, Suegar ha finalmente trovato la sua anima gemella. Due pazzi uniti, proprio come dicono le sue scritture.

Miles indugiò pensosamente, quindi squadrò le spalle nella misura in cui la sua schiena glielo permetteva.

– Leggimi di nuovo le scritture, Suegar – ordinò, – il testo completo.

E chiuse gli occhi, sia per concentrarsi completamente che per dissuadere Oliver da qualsiasi interruzione.

Suegar armeggiò un poco e si schiarì la voce nervosamente.

– 'Per coloro che saranno gli eredi della salvezza' – esordì. – 'E così essi si avviarono verso le porte. Dovete notare che la città si levava su una possente collina, ma i pellegrini salirono quella collina con facilità perché avevano questi due uomini a guidarli per la mano; si erano inoltre lasciati alle spalle gli abiti mortali nel fiume, perché sebbene vi fossero entrati con essi ne erano usciti senza. Pertanto salirono con molta agilità e rapidità, attraverso le fondamenta su cui la città sorgeva più alta delle nuvole. Attraversarono le regioni dell'aria…' S'interrompe qui – concluse in tono di scusa. – È a questo punto che ho strappato la pagina, e non sono certo del significato di quell'ultima frase.

– Probabilmente significa che a quel punto devi improvvisare tu stesso – suggerì Miles, riaprendo gli occhi. Dunque era quella la materia grezza su cui stava edificando… doveva ammettere che quell'ultima frase in particolare lo aveva colpito, generandogli un senso di gelo nello stomaco. Ma non importava, doveva andare avanti. – Ecco, Oliver, è questo che ti sto offrendo, la sola speranza per cui valga la pena di respirare: la salvezza stessa.

– La cosa mi solleva parecchio – sogghignò Oliver.

– «Sollevarvi» è esattamente ciò che intendo fare con tutti voi. Devi capire, Oliver, che io sono un fondamentalista e interpreto le scritture molto alla lettera.

Oliver aprì la bocca per replicare, poi la richiuse con un suono secco: adesso Miles aveva tutta la sua attenzione.

Finalmente stiamo comunicando sospirò fra sé. Abbiamo stabilito il contatto.

– Ci vorrebbe un miracolo per sollevare tutto questo posto – osservò infine Oliver.

– La mia non è la teologia degli eletti e intendo invece predicare alle masse, perfino ai peccatori – dichiarò Miles, che stava cominciando ed entrare nella parte. – Il cielo è per tutti. I miracoli, però, per loro stessa natura devono giungere dall'esterno, non li portiamo in una tasca…

– Tu di certo non lo fai – convenne Oliver, squadrando la sua nudità.

– … possiamo soltanto pregare e prepararci per un mondo migliore. I miracoli giungono però soltanto per chi è preparato ad essi. Tu sei preparato, Oliver? – concluse Miles, con voce vibrante di energia, protendendosi in avanti.

– Mer… – cominciò il commando, poi s'interruppe e, stranamente, guardò verso Suegar come per avere una conferma, chiedendo: – Questo tizio fa sul serio?

– Lui crede di fingere – dichiarò Suegar, in tono blando, – ma non è così. È l'Uno, non ci sono dubbi.

Il senso di gelo tornò ad assalire il ventre di Miles… avere a che fare con Suegar era come tirare di spada in una stanza piena di specchi: anche se reale, il tuo bersaglio non era mai esattamente dove sembrava che fosse.

Oliver trasse un profondo respiro mentre speranza e timore, convinzione e dubbio si mescolavano sul suo volto.

– Come saremo salvati, reverendo? – domandò.

– Ah… chiamami Fratello Miles, credo che sia sufficiente. Dimmi, quanti convertiti mi potresti fornire sulla base della tua sola ed esclusiva autorità?

– Lascia soltanto che vedano quella luce e la seguiranno dovunque – rispose Oliver, che ora appariva estremamente pensoso.

– Bene… bene… senza dubbio la salvezza è per tutti, ma ci potrebbero essere certi temporanei vantaggi pratici nel mantenere una casta sacerdotale. Voglio dire, siano benedetti coloro che non vedono e che tuttavia credono.

– È vero – convenne Oliver, – ma se poi la tua religione mancasse di fornire il promesso miracolo, di certo si avrebbe un sacrificio umano.

– Ah… non ne dubito – assentì Miles, deglutendo a fatica. – Sei un uomo dalla perspicacia acuta.

– Non si tratta di perspicacia ma di una personale garanzia – lo corresse Oliver.

– Sì, certo… ma ora torniamo alla mia domanda: quanti seguaci puoi raccogliere? Adesso sto parlando di corpi, non di anime.

– Forse venti – rispose Oliver, ancora cauto, accigliandosi.

– Fra loro c'è qualcuno che ne può portare degli altri? Potete diramarvi in modo da agganciarne di più?

– Forse.

– Allora nomina quegli uomini tuoi caporali. Credo che a questo punto faremo meglio ad ignorare qualsiasi grado detenuto in precedenza. Lo chiameremo… l'Esercito dei Rinati. Anzi, l'Esercito Riformatore, perché suona meglio e perché saremo tutti riformati: come il bruco nella sua crisalide, il corpo si è disintegrato in una brutta larva verde, ma noi rimodelleremo la sua forma fino ad ottenere la farfalla.

– E quale riforma hai in mente, per l'esattezza? – volle sapere Oliver, sbuffando ancora.

– Soltanto una, credo. Il cibo.

– Sei certo che tutto questo non sia soltanto un imbroglio per procurarti del cibo senza fatica? – chiese Oliver, fissandolo con incredulità.

– Comincio ad avere fame, è vero – ammise Miles, rifiutando di ricorrere a qualsiasi battuta dato che esse non avevano nessun effetto su Oliver, – ma lo stesso vale per molta altra gente, ed entro domani verranno tutti a mangiare dalla nostra mano.

– Quando vuoi che abbia pronti questi venti uomini?

– Entro la prossima distribuzione di cibo – rispose Miles. Bene, era riuscito a sorprenderlo.

– Così presto?

– Oliver, devi capire che la convinzione di avere a disposizione tutto il tempo del mondo è soltanto un'illusione generata di proposito da questo posto e a cui devi resistere.

– Tu hai di certo premura.

– E allora? Hai forse un appuntamento dal dentista? Credo di no. Inoltre io ho una massa che è soltanto la metà della tua, quindi mi devo muovere due volte più in fretta soltanto per mantenere l'accelerazione acquisita. Venti, più chiunque altro riuscirai a raccogliere, entro la prossima distribuzione di cibo.

– E cosa diavolo pensi di riuscire a fare con venti uomini?

– Prenderemo possesso del mucchio di barre.

– Non con venti uomini appena – dichiarò Oliver, contraendo le labbra in un'espressione di disgusto, – e poi è una cosa che è già stata fatta. Ti ho detto che qui dentro abbiamo avuto una vera guerra… sarebbe un massacro.

– Dopo essercene impadroniti, lo divideremo in maniera giusta e onesta, una barra a testa, tutto controllato e verificato. Entro la prossima distribuzione del cibo tutti coloro che finora si sono trovati a corto di razioni verranno a noi e allora saremo nella posizione giusta per fronteggiare i casi più duri.

– Sei pazzo: non puoi farlo, non con venti uomini.

– Ti ho forse detto che ne avremmo avuti soltanto venti? Suegar, l'ho detto?

Suegar, che stava ascoltando in atteggiamento rapito, scosse il capo.

– Bene, io comunque non esporrò il mio collo a meno che tu riesca a esibire rinforzi visibili – affermò Oliver. – Questa faccenda ci potrebbe costare la vita.

– Posso farlo – promise impulsivamente Miles… si doveva pur cominciare a salire da qualche punto, e le sue staffe immaginarie sarebbero andate benissimo. – Entro la distribuzione del cibo ti procurerò 500 effettivi votati tutti alla sacra causa.

– Fallo, ed io percorrerò tutto il perimetro del campo nudo e camminando sulle mani – ribatté Oliver.

– Potrei accettare la scommessa, sergente – sogghignò Miles, alzandosi. – Almeno venti uomini entro la distribuzione del cibo. Andiamo, Suegar.

Oliver li salutò con un cenno irritato mentre si ritiravano in buon ordine; quando si guardò indietro da sopra una spalla, però, Miles vide che il sergente si era alzato in piedi e si stava dirigendo verso un gruppo di stuoie occupate non lontano dal suo, rivolgendo al tempo stesso un gesto di saluto a qualcuno che conosceva.

– Allora, dove troviamo 500 effettivi prima della prossima distribuzione del cibo? – domandò Suegar. – Forse è meglio che ti avverta che Oliver era il soggetto migliore che avevo a disposizione. Il prossimo sarà inevitabilmente un osso più duro da rodere.

– Come? La tua fede vacilla tanto presto? – ribatté Miles.

– Io ho fede… è solo che non vedo, ma forse questa è una benedizione.

– La tua domanda mi sorprende, perché credevo che fosse una cosa ovvia. Gli effettivi li troveremo là – spiegò Miles, indicando il territorio del gruppo delle donne che si estendeva dall'altra parte del campo.

– Oh – esclamò Suegar, arrestandosi di colpo. – Oh oh… io non credo, Miles.

– Sì. Andiamo.

– Non riuscirai ad entrare là dentro a meno di sottoporti ad un'operazione per cambiare sesso.

– Non mi dire che, illuminato da Dio come sei, non hai mai tentato di predicare anche a loro le tue scritture.

– Ci ho provato e sono stato picchiato. Dopo di allora ho tentato altrove.

Miles si arrestò e indugiò a studiare il compagno con le labbra contratte in una smorfia pensosa.

– Non lo hai fatto a causa della sconfitta perché altrimenti non avresti tenuto duro tanto a lungo da incontrare me. No… è stata la vergogna a stroncare la tua abituale pertinacia? Hai qualcosa da dimenticare per quanto concerne le donne?

– Non personalmente – replicò Suegar, scuotendo il capo, – tranne forse un peccato di omissione: semplicemente non ho avuto il cuore di seccarle ulteriormente.

– Tutto questo posto soffre a causa di peccati di omissione – commentò Miles, sollevato che Suegar non fosse risultato essere un violentatore confesso, e lasciò vagare lo sguardo sulla scena circostante, cercando di dedurre il suo svolgersi abituale dagli scarsi indizi forniti dalla posizione, dai raggruppamenti e dalle attività. – Sì, la pressione dei predatori produce un comportamento da branco, e considerato il livello di frammentazione sociale a cui si è giunti qui la pressione dei predatori deve essere davvero elevata per mantenere unito un gruppo di quelle dimensioni. Da quando sono arrivato non ho però assistito a nessun incidente…

– Sono cose che vanno e vengono – spiegò Suegar, – come le fasi della luna o qualcosa del genere.

Già, certo… le fasi della luna. Miles levò in cuor suo una preghiera di ringraziamento a qualsiasi divinità lo stesse ascoltando per il fatto che i Cetagandani sembravano aver impiantato un antiovulante standard in tutte le loro prigioniere insieme alle altre immunizzazioni e benedisse l'ignoto individuo che aveva inserito quella clausola nelle regole della Commissione di Giustizia Intergalattica, costringendo i Cetagandani a ricorrere a forme più sottili di tortura. E tuttavia, il verificarsi di gravidanze e la presenza di neonati e di bambini fra i prigionieri sarebbe stato un altro fattore destabilizzante o non avrebbe invece costituito un elemento stabilizzante più forte di tutti i precedenti vincoli di lealtà che i Cetagandani sembravano aver distrutto con successo?

In ogni caso, da un punto di vista puramente logistico lui fu felice che l'interrogativo fosse soltanto teorico.

– Bene… – mormorò, traendo un profondo respiro e calcandosi sugli occhi un cappello immaginario con un'angolazione aggressiva. – Sono nuovo di qui e quindi per il momento non ho nulla di cui vergognarmi. Che sia chi è senza peccato a lanciare il primo richiamo. Inoltre, in questo genere di trattative ho a mio vantaggio il fatto che è evidente che non costituisco una minaccia.

E s'incamminò con passo deciso.

– Io ti aspetterò qui – gli gridò dietro Suegar, accoccolandosi a terra là dove si trovava.

Miles calcolò la rapidità della sua avanzata in modo tale da intercettare una pattuglia di sei donne che stava marciando lungo il perimetro del campo del gruppo, e si piazzò davanti a loro, togliendosi con un ampio gesto il suo cappello immaginario e tenendolo strategicamente davanti a sé:

– Buongiorno, signore. Permettetemi di scusarmi per il mio com…

La sua frase di esordio fu bruscamente interrotta da una manciata di terra che gli riempì la bocca quando le sue gambe vennero spinte all'indietro e le spalle in avanti dalle quattro donne che si erano disposte intorno a lui e che lo avevano gettato con precisione al suolo. Non era ancora neppure riuscito a sputare la terra di bocca che si sentì sollevare vertiginosamente da mani che gli serravano le braccia e le gambe. Delle voci contarono borbottando fino a tre e lui si trovò a descrivere un breve arco nell'aria, andando ad atterrare in un mucchio scomposto non lontano da Suegar, mentre la pattuglia riprendeva il cammino senza pronunciare una sola parola.

– Vedi cosa intendevo dire? – domandò Suegar.

– Avevi calcolato la traiettoria al centimetro, vero? – annaspò Miles, girandosi verso di lui.

– Più o meno – ammise Suegar. – Immaginavo che ti avrebbero lanciato un po' più lontano del solito a causa della tua taglia.

Lottando ancora per ritrovare il respiro, Miles si sollevò faticosamente a sedere. Dannazione a quelle costole… il dolore che gli procuravano era diventato quasi tollerabile ma adesso avevano ripreso a causargli una lancinante agonia al petto ad ogni respiro. Pochi minuti più tardi riuscì a sollevarsi in piedi e si spolverò… poi, come per un ripensamento, raccolse anche il cappello immaginario, un gesto che gli provocò un accesso di vertigini e che lo costrinse a puntellare per un momento le mani contro le ginocchia.

– D'accordo – borbottò infine, – si torna alla carica.

– Miles…

– È una cosa che deve essere fatta, Suegar, perché non c'è altra scelta. In ogni caso, ora che ho cominciato non posso più smettere, perché a quanto mi hanno detto sono patologicamente persistente: non posso arrendermi.

Suegar aprì la bocca per obiettare, poi preferì soffocare la propria protesta.

– Come vuoi – disse soltanto, risistemandosi per terra a gambe incrociate e accarezzando con un gesto inconscio il bracciale di stoffa intorno al polso sinistro. – Aspetterò che mi chiami.

E parve sprofondare nei ricordi o in una meditazione… o forse si mise semplicemente a sonnecchiare.

Il secondo tentativo di Miles si concluse esattamente come il primo, con la differenza che la traiettoria fu forse un po' più larga e un po' più alta; il terzo tentativo fu uguale ma il volo risultò molto più breve.

– Bene – borbottò fra sé, – si vede che le sto facendo stancare.

Questa volta si mise a camminare tenendosi parallelo al gruppetto ma fuori della sua portata anche se abbastanza vicino da essere sentito.

– Non è necessario che facciate questo un pezzetto per volta – ansimò. – Lasciate che vi faciliti le cose. Ho una malattia teratogena delle ossa ma non sono un mutante: i miei geni sono normali, è soltanto la loro espressione ad essere distorta perché mia madre è rimasta esposta ad un particolare veleno mentre mi aspettava. È una cosa che concerne soltanto me e che non si trasmetterà a qualsiasi figlio io possa avere… ed ho sempre verificato che mi è più facile ottenere degli appuntamenti con le ragazze dopo aver messo in chiaro le cose da questo punto di vista. Comunque, le mie ossa sono fragili, al punto che voi potreste probabilmente spezzare ogni osso presente nel mio corpo. Forse vi starete chiedendo perché vi dico tutto questo e in effetti di solito preferisco non mettere avvisi al riguardo… vi volete fermare per ascoltarmi? Io non costituisco una minaccia… ho forse l'aspetto di una minaccia?… di una sfida, forse, ma non di una minaccia… volete farmi correre intorno a tutto questo campo per venirvi dietro? Rallentate, per l'amore di Dio!…

Se continuavano con quel passo, presto si sarebbe trovato senza fiato e di conseguenza a corto di munizioni verbali, perciò si portò davanti alle sei donne e piantò i piedi per terra con le braccia sui fianchi.

– … quindi se avete intenzione di rompere ogni osso del mio corpo vi prego di provvedere adesso e di farla finita, perché continuerò a tornare qui finché non lo avrete fatto.

Ad un breve cenno di comando del suo capo la pattuglia si fermò di fronte a lui.

– Accontentiamolo – propose una ragazza alta i cui corti capelli rossi dai riflessi di rame ebbero l'effetto di affascinare Miles e di distrarlo mentre cercava di immaginare le ciocche mancanti che dovevano essere cadute al suolo sotto l'azione delle forbici degli inflessibili carcerieri cetagandani. – Io gli romperò il braccio sinistro se tu penserai al destro, Conr.

– Se è questo che ci vuole per indurvi a fermarvi ad ascoltarmi per cinque minuti, così sia – replicò Miles, senza indietreggiare quando la rossa venne avanti e gli afferrò il gomito sinistro in una morsa, cominciando ad applicare pressione.

– Cinque minuti, d'accordo? – ripeté disperatamente, sentendo la pressione che aumentava e lo sguardo della donna che pareva ustionargli il profilo, poi chiuse gli occhi, si umettò le labbra e attese trattenendo il respiro. La pressione arrivò al punto critico, inducendolo a sollevarsi in punta di piedi nel tentativo di attenuarla… poi la donna lo lasciò andare così bruscamente da farlo barcollare.

– Uomini – commentò in tono disgustato. – Devono sempre trasformare tutto in una dannata gara.

– La biologia è una forma di destino – annaspò Miles, riaprendo gli occhi.

– Oppure sei una sorta di pervertito, uno a cui piace essere picchiato dalle donne?

Dio, spero di no, si disse Miles, grato che finora il suo corpo non lo avesse tradito con reazioni non autorizzate, anche se ci era mancato poco; se doveva restare nei paraggi di quella rossa per parecchio tempo era meglio che trovasse un modo per riavere i suoi pantaloni.

– Se dicessi di sì terreste a freno la vostra aggressività, giusto per punirmi? – suggerì.

– No, dannazione.

– Era soltanto un'idea.

– Lascia perdere queste idiozie, Beatrice – intervenne il capo della pattuglia, e al suo secco cenno con la testa la rossa rientrò nelle file. – D'accordo, ometto, hai i tuoi cinque minuti… forse.

– Grazie signora – disse Miles e trasse un profondo respiro, cercando di riordinarsi come meglio poteva senza un'uniforme da assestare. – Per prima cosa permettetemi di scusarmi per aver intruso nella vostra privacy in questo stato, ma praticamente le prime persone che ho incontrato al mìo arrivo nel campo erano i componenti di un gruppo che ama servirsi da solo e che si è servito anche dei miei vestiti, oltre che di altre cose…

– Ho visto la scena – confermò inaspettatamente la rossa, Beatrice. – È stato il gruppo di Pitt.

– Infatti, e grazie – mormorò Miles, togliendosi il cappello immaginario ed eseguendo con esso un profondo inchino.

– Quando fai così offri lo spettacolo del tuo posteriore a chi si trova alle tue spalle – commentò lei, in tono spassionato.

– È il loro panorama – ribatté Miles. – Per quanto mi riguarda, io voglio parlare con il vostro capo… o capi, perché ho un serio piano per migliorare il tono di questo posto e vorrei invitare il vostro gruppo a collaborare alla sua applicazione. Per essere franchi, voi siete la sola grande sacca di civiltà… per non parlare di ordine militare… che esista ancora qui, e mi piacerebbe vedervi espandere i vostri confini.

– Ci vogliono già tutte le risorse di cui disponiamo per impedire che i nostri attuali confini siano sopraffatti, ragazzo – replicò il capo pattuglia. – Niente da fare, quindi vattene.

– E porta via anche le tue eventuali aspirazioni – suggerì Beatrice, – perché qui non troverai nulla.

Sospirando, Miles rigirò fra le mani il cappello immaginario tenendolo per l'ampia tesa, poi lo fece ruotare per un momento su un dito e incontrò lo sguardo della rossa.

– Osserva il mio cappello, il solo indumento che sia riuscito a salvare dall'aggressione dei grossi e cupi compari… del gruppo di Pitt, come tu lo chiami.

– Quei bastardi… ma perché proprio un cappello? Perché non i pantaloni? O un'uniforme da parata, già che ci sei? – commentò lei, in tono sarcastico.

– Un cappello è un oggetto più utile quando si deve comunicare, perché permette di fare ampi gesti – spiegò mimando, – oppure di manifestare sincerità o di indicare imbarazzo – proseguì, portando il cappello all'altezza del cuore e abbassandolo poi sull'inguine. – Ancora, un cappello può indicare rabbia… – continuò, scagliandolo a terra come se volesse conficcarvelo per poi raccoglierlo e pulirlo con cura… – o determinazione… – e se lo piantò in testa con decisione, abbassando la tesa sugli occhi… – oppure serve per fare inchini – concluse, togliendoselo in un nuovo gesto di saluto. – Vedi il cappello?

– Sì… – rispose la rossa, che cominciava a divertirsi.

– E vedi le piume su di esso?

– Sì.

– Descrivile.

– Oh… sono morbide e leggere.

– E quante sono?

– Due, riunite.

– E vedi anche il loro colore?

Beatrice si trasse indietro con imbarazzo, d'un tratto consapevole di quello che stava facendo, e scoccò un'occhiata in tralice alle sue compagne.

– No – dichiarò.

– Quando riuscirai a vedere il colore di quelle penne – dichiaro Miles, in tono sommesso, – riuscirai anche a capire come potete estendere i vostri confini all'infinito.

Beatrice non rispose e assunse un'espressione indecifrabile.

– Forse è meglio che quest'ometto parli con Tris – borbottò però il capo della pattuglia. – Soltanto una volta.

La donna che comandava il campo era senza dubbio stata un tempo un combattente di prima linea e non un tecnico, come la maggior parte delle altre donne del campo, e di certo non si era formata i muscoli che le scorrevano sotto la pelle come cuoio intrecciato standosene seduta davanti ad uno schermo olovisore in qualche postazione sotterranea alla retroguardia… Quella donna aveva maneggiato vere armi che sputavano fuori vera morte e qualche volta aveva avuto dei cedimenti, era andata a sbattere contro i limiti di ciò che poteva essere fatto dalla carne, dalle ossa e dal metallo, ed era stata marchiata da quella pressa deformante. Le illusioni erano state bruciate via dal suo spirito come un'infezione da combattere, lasciando al loro posto una cicatrice cauterizzata, mentre la rabbia ardeva perenne nei suoi occhi come un fuoco in una vena di carbone, profondo e inestinguibile. Al massimo, poteva avere trentacinque o quarant'anni.

Dio, mi sono innamorato, pensò Miles. Il Fratello Miles vuole TE per l'Esercito Riformatore… Subito si affrettò a riportare i propri pensieri sotto controllo, perché quello era il momento determinante… per il meglio o per il peggio… di tutto il suo piano, e le distorsioni verbali, i fraintendimenti voluti, l'esibizione di fascino e le semplici menzogne che sarebbe riuscito a sfoderare non sarebbero bastati al suo scopo, neppure conditi con qualche profondo inchino.

Chi è stato ferito vuole il potere e niente altro, perché pensa che esso gli impedirà di essere ferito ancora. Questa donna non si mostrerà interessata al messaggio di Suegar… non ancora, per lo meno… rifletté, traendo un profondo respiro.

– Signora – esordì, – sono qui per offrirle il comando di questo campo.

La donna lo fissò come se fosse stato qualcosa che avesse scoperto su una parete in un angolo buio delle latrine, e il suo sguardo scrutò la sua nudità da capo a piedi in maniera così tagliente che lui ebbe l'impressione di avvertire i segni di quegli artigli invisibili.

– Che indubbiamente tieni riposto nella tua sacca da viaggio – commentò infine la donna, in un ringhio. – Il comando è una cosa che in questo campo non esiste, mutante, quindi non è tuo perché possa darlo ad altri. Riaccompagnalo un pezzo per volta fuori del nostro perimetro, Beatrice.

Miles schivò la presa della rossa, riservandosi di correggere in seguito quell'errore relativo alla sua natura.

– Il comando di questo campo è mio nel senso che posso crearlo, - asserì. – Ti prego di notare che quello che sto offrendo è potere, non vendetta, perché la vendetta è un lusso troppo costoso, che i comandanti non si possono permettere.

Tris si alzò dalla stuoia fino a raggiungere il massimo della sua altezza, e fu poi costretta a piegare le ginocchia per portare la faccia al livello di quella del suo interlocutore.

– È un vero peccato, ometto, perché eri quasi riuscito ad interessarmi. Io voglio la vendetta, contro ogni uomo di questo campo.

– Allora i Cetagandani hanno conseguito il loro scopo: avete dimenticato quale sia il vostro vero nemico.

– Diciamo piuttosto che io ho scoperto quale sia il mio vero nemico. Vuoi sapere le cose che ci hanno fatto i tuoi amici…

– I Cetagandani – ritorse Miles, abbracciando l'intero campo con un gesto del braccio, – vogliono indurvi a credere che questo è qualcosa che voi vi state facendo a vicenda, in modo che combattiate gli uni contro gli altri e diventiate così le loro marionette. E nel frattempo si divertono a guardarvi di continuo e ad assistere alla vostra umiliazione.

Lo sguardo di Tris si spostò in maniera infinitesimale verso l'alto, il che era un buon segno: il modo in cui quella gente era disposta a guardare in qualsiasi direzione piuttosto che verso l'alto della cupola aveva assunto quasi la forma di una malattia.

– Il potere è migliore della vendetta – insistette Miles, senza sussultare davanti al volto gelido e inespressivo e agli occhi roventi di rabbia della sua interlocutrice. – Il potere è una cosa viva, grazie alla quale ci si può protendere per afferrare il proprio futuro, mentre la vendetta è una cosa morta che si protende dal passato per afferrarci.

– … e tu sei un artista in menzogne che si protende ad afferrare qualsiasi cosa stia andando a fondo – lo interruppe la donna. – Adesso ti ho finalmente inquadrato. Questo è il potere – proseguì la donna, flettendo sotto il naso di Miles i muscoli del braccio robusto, – il solo potere che esista qui dentro. Tu non ce l'hai e stai cercando qualcuno che ti protegga. Però sei venuto a fare spese nel negozio sbagliato.

– No – confutò Miles, e si batté un colpetto sulla fronte, aggiungendo: – Questo è il vero potere: sono io a possedere il negozio in cui viene venduto e con esso posso controllare questi. – Nel parlare batté un colpetto sul pugno serrato della donna, poi continuò: – Gli uomini possono muovere le montagne, ma le idee controllano gli uomini e le menti possono essere raggiunte attraverso i corpi… che altro scopo avrebbe tutto questo se non quello di raggiungere la vostra mente attraverso il vostro corpo? Si tratta però di un potere che scorre nei due sensi e la marea contraria è quella più forte.

«Quando avete permesso ai Cetagandani di ridurre il vostro potere soltanto a questi - insistette, stringendo la mano intorno al bicipite di Tris… fu come stringere una roccia rivestita di velluto e la donna si tese, infuriata da quella libertà… – avete permesso loro di ridurvi alla vostra parte più debole, e adesso stanno vincendo.

– Vincono comunque loro – scattò Tris, liberandosi con una scrollata dalla sua mano, e Miles trasse un respiro di sollievo per il fatto che non avesse deciso di rompergli un braccio per buona misura. – Nulla di ciò che facciamo all'interno di questo cerchio produrrà mai nessun drastico cambiamento: qualsiasi cosa tentiamo saremo sempre prigionieri. Loro ci possono togliere il cibo, o l'aria, o serrare la cupola fino a ridurci in gelatina, e il tempo gioca a loro favore. Se ci scanneremo a vicenda per restaurare l'ordine… supponendo che sia questo ciò che hai in mente… loro dovranno soltanto aspettare che esso si dissolva di nuovo. Siamo sconfitti, siamo prigionieri, non c'è più nessuno là fuori e noi resteremo qui per sempre. È meglio che cominci ad abituarti all'idea.

– È una canzone che ho già sentito in passato – ribatté Miles. – Usa la testa: se avessero intenzione di tenervi qui per sempre, vi avrebbero inceneriti fin dall'inizio e si sarebbero risparmiati le considerevoli spese derivanti dalla gestione di questo campo. No, è la vostra mente che vogliono: siete tutti qui perché eravate i migliori di Marilac, i più duri e forti combattenti, i più pericolosi avversari, quelli a cui chiunque volesse ancora resistere all'occupazione avrebbe guardato come a potenziali capi. Il piano dei Cetagandani è quello di spezzarvi e poi di restituirvi al vostro mondo come piccoli centri d'infezione inoculati in esso, perché consigliate la resa al vostro stesso popolo.

«Quando questo verrà ucciso – proseguì, sfiorando appena la fronte della donna e poi i suoi bicipiti, – allora i Cetagandani non avranno più nulla da temere da questi e voi sarete tutti liberi, su un mondo i cui confini vi intrappoleranno proprio come questa cupola e in maniera altrettanto inesorabile. La guerra non è finita, e voi siete qui perché i Cetagandani stanno ancora aspettando la resa del Nucleo Fallow.

Per un momento pensò che la donna avrebbe potuto assassinarlo, strangolandolo là dove si trovava, perché di certo doveva preferire farlo a pezzi che lasciarsi vedere da lui mentre piangeva.

Poi Tris ritrovò il suo amaro guscio protettivo di tensione con una scrollata del capo e un profondo respiro.

– Se quanto affermi è vero, allora seguirti ci allontanerà maggiormente dalla libertà, invece di portarci più vicini ad essa.

Dannazione, quella donna aveva una mente logica al punto che non aveva bisogno di ricorrere ai suoi muscoli per ucciderlo… le sarebbe bastato applicare la sua logica letale, se lui non avesse trovato un modo per guidarla senza parere. Decise di ricorrere a questo sistema.

– Esiste una sottile differenza fra essere un prigioniero ed essere uno schiavo. Io non confondo nessuna delle due condizioni con l'essere libero e non dovreste farlo neppure voi.

Tris tacque per un lungo momento, fissandolo attraverso le palpebre socchiuse e tormentandosi inconsciamente il labbro inferiore.

– Sei un tipo strano – affermò infine. – Perché hai detto «voi» e non «noi»?

Miles scrollò le spalle con noncuranza mentre riesaminava mentalmente le proprie parole… dannazione, la donna aveva ragione… era andato un po' troppo vicino a tradirsi, ma poteva ancora trasformare un errore in un vantaggio.

– Ti sembro forse un esemplare del fiore delle truppe di Marilac? Io sono un estraneo, intrappolato in un mondo che non sono stato io a creare. Un viaggiatore… un pellegrino di passaggio per caso. Chiedilo a Suegar.

– Quel folle – sbuffò Tris.

Non aveva abboccato all'esca. Sterco di topo, come avrebbe detto Elli… sentiva la mancanza di Elli. Non importava, ci avrebbe riprovato in seguito.

– Non sottovalutare Suegar: ha un messaggio per voi che io ho trovato affascinante.

– L'ho sentito anch'io e l'ho trovato irritante… Allora, cos'è che vuoi ricavare da questo? E non mi rispondere «niente» perché non ti crederei. Francamente, la mia idea è che stia mirando tu stesso ad avere il comando del campo, ed io non sono disposta ad essere il tuo scalino in qualche piano per costruire un impero.

Adesso Tris stava pensando in fretta e in maniera costruttiva, seguendo ragionamenti diversi dalla semplice intenzione di farlo riportare in pezzi ai confini del suo campo, e Miles cominciava dal canto suo a riscaldarsi sull'argomento…

– Io desidero soltanto essere il tuo consigliere spirituale: non voglio il comando, non potrei gestirlo. Mi basta consigliarti.

Nel termine «consigliere» dovette esserci qualcosa che fece scattare antiche associazioni nella mente della donna, perché i suoi occhi si sgranarono di colpo e le sue pupille si dilatarono mentre lei si protendeva in avanti e seguiva con un dito le lievi intaccature presenti sul volto di Miles, accanto al naso… intaccature lasciate da alcuni controlli guida presenti all'interno dell'elmo dell'armatura spaziale. Dopo un momento tornò a raddrizzarsi e sfiorò con due dita quegli stessi segni permanenti che si trovavano sul suo volto.

– Che qualifica hai detto di aver avuto, prima?

– Ero un impiegato dell'ufficio di reclutamento – rispose Miles, impassibile.

– Capisco…

E se ciò che Tris capiva era l'assurdità di qualcuno che sosteneva di essere stato un impiegato delle retrovie pur avendo indossato l'armatura da combattimento abbastanza spesso da portarne le stigmate, allora era fatta. Forse.

La donna tornò a sedersi su un lato della propria stuoia e indicò a Miles di prendere posto di fronte a lei.

– Siediti, cappellano – disse, – e continua a parlare.

Suegar stava effettivamente dormendo, seduto a gambe incrociate e russando un poco, quando Miles finalmente lo raggiunse e lo svegliò con un colpetto sulla spalla.

– Svegliati, Suegar – chiamò. – Siamo a casa.

– Dio, quanto sento la mancanza del caffè – borbottò lui, aprendo gli occhi con un verso sbuffante, poi fissò Miles con incredulità. – Sei ancora tutto d'un pezzo?

– Sì, ma c'è mancato poco che facessi una triste fine. Senti, a proposito di quella faccenda dei vestiti persi nel fiume e via dicendo… adesso che ci siamo trovati dobbiamo per forza continuare a girare nudi? Non credi che la profezia sia stata sufficientemente adempiuta?

– Eh?

– Adesso ci possiamo vestire? – ripeté Miles, con pazienza.

– Ecco… non lo so. Suppongo che se fossimo destinati ad avere degli indumenti essi ci verrebbero dati…

– Là – indicò Miles. – Ce li hanno dati.

Beatrice era ferma a qualche metro di distanza con un atteggiamento che denotava annoiata esasperazione e con un fagotto di stoffa grigia sotto un braccio.

– Voi due svitati volete questa roba oppure no? Io devo tornare indietro.

– Le hai convinte a darti dei vestiti? – sussurrò Suegar, stupefatto.

– A darceli, Suegar, a darceli – lo corresse Miles, poi rivolse un cenno a Beatrice e aggiunse: – Credo che sia tutto a posto.

Lei gli gettò contro il fagotto, sbuffò e si allontanò a grandi passi.

– Grazie – le gridò dietro Miles, scrollando il mucchietto di indumenti che comprendeva due divise complete, una più grande ed una piccola abbastanza perché a Miles fosse sufficiente rimboccare un poco il fondo dei calzoni per evitare di impigliarvisi con i talloni. Gli indumenti erano macchiati, rigidi per antichi strati di sudore e di polvere e probabilmente… rifletté Miles… erano stati tolti a dei cadaveri, ma Suegar li indossò senza esitazione e indugiò a tastarne la stoffa grigia con meraviglia.

– Ci hanno dato dei vestiti, ce li hanno dati - mormorò. – Come ci sei riuscito?

– Ci hanno dato tutto, Suegar. Ora vieni con me, perché dobbiamo andare di nuovo a parlare con Oliver – replicò Miles, trascinando risolutamente con sé il compagno. – Mi chiedo quanto tempo abbiamo in effetti prima della prossima distribuzione del cibo. Di certo ce ne sono due ad ogni ciclo di ventiquattr'ore, ma non mi stupirei se i periodi fossero irregolari al fine di accrescere maggiormente il vostro disorientamento temporale… dopo tutto, i momenti della distribuzione sono il solo orologio che abbiate qui.

Mentre parlava rilevò con la coda dell'occhio una traccia di movimento che risultò essere un uomo che correva. Non si trattava però di una fuga intesa a seminare un gruppo ostile… no, quell'uomo correva da solo, a testa bassa e più in fretta che poteva, con i piedi nudi che percuotevano la terra pressata con un ritmo frenetico; in linea di massima l'uomo stava seguendo il perimetro della cupola, effettuando soltanto una deviazione all'altezza del campo delle donne, e mentre correva piangeva.

– Cosa gli succede? – domandò Miles a Suegar, indicandogli la figura che si avvicinava.

– A volte ti prende così – spiegò lui, scrollando le spalle, – quando non ti riesce più di restare seduto qui dentro. Ho visto un tizio correre in questo modo fino a morire, sempre in tondo…

– Questo – decise Miles, – sta correndo verso di noi.

– E fra un secondo starà già correndo lontano da noi…

– Allora aiutami a bloccarlo.

Miles afferrò l'uomo in basso e Suegar in alto, sedendogli sul petto mentre Miles gli si sedeva sul braccio destro, in modo da dimezzare le sue possibilità di resistenza. Quel soldato doveva essere stato molto giovane quando lo avevano catturato… forse aveva mentito a proposito dell'età al momento dell'arruolamento… perché ancora adesso aveva un volto da ragazzo, devastato dal pianto e dalla sua personale eternità vissuta in quella perla cava; per un po' inspirò con ansiti singhiozzanti ed espirò confuse imprecazioni, poi finì per calmarsi.

– Ti piacciono le feste, ragazzo? – domandò allora Miles, chinandosi verso di lui con un sorriso da lupo sulle labbra.

– Sì… – rispose il prigioniero, girando lo sguardo a destra e a sinistra senza però scorgere traccia di soccorsi.

– E cosa mi dici dei tuoi amici? Anche a loro piacciono le feste?

– Certamente – assentì il ragazzo, forse segretamente scosso dal sospetto di essere caduto nelle mani di qualcuno che era ancora più pazzo di lui. – È meglio che mi lasci libero, mutante, altrimenti ti faranno a pezzi.

– Voglio invitare te e i tuoi amici ad una grossa festa – scandì Miles. – Stanotte terremo questa festa, e sarà un evento storico. Sai dove trovare il Sergente Oliver, ex membro del 14° Commandos?

– Sì… – ammise il loro prigioniero, con una certa cautela.

– Bene. Allora raduna i tuoi amici e presentati a rapporto da lui. Se sei furbo, prenoterai adesso il tuo posto a bordo di questo veicolo, perché se non ci sarai sopra ti verrai a trovare sotto di esso. L'Esercito Riformatore sta per muoversi. Hai capito?

– Ho capito – annaspò il ragazzo, respirando a fatica a causa del pugno che Suegar gli teneva premuto contro il plesso solare per enfatizzare l'importanza del messaggio.

– Informa Oliver che è stato Fratello Miles a mandarti – aggiunse Miles, mentre il ragazzo si allontanava barcollando e guardandosi nervosamente alle spalle. – Qui non hai dove nasconderti, e se non ti farai vedere manderò i Commandos Cosmici a prenderti.

– Credi che verrà? – domandò Suegar, sciogliendosi i muscoli aggranchiti e scrollando gli abiti nuovi.

– Si tratta di combattere o di fuggire, e quello se la caverà bene – sorrise Miles, poi si stiracchiò e tornò al suo originale ordine di priorità. – Da Oliver.

Alla fine si ritrovarono non con venti uomini ma con 200. Oliver ne aveva raccolti quarantasei e il ragazzo intercettato durante la fuga ne portò altri diciotto. Al tempo stesso i segni di ordine e di attività visibili in quella zona del campo attirarono parecchi curiosi, e chi passava nelle vicinanze doveva soltanto chiedere cosa stesse accadendo per essere immediatamente reclutato e promosso caporale sul posto. Poi l'interesse degli spettatori raggiunse un apice febbrile quando il contingente di Oliver marciò fino al limitare del campo delle donne… e fu ammesso al suo interno. Un fattore che procurò loro all'istante altri settantacinque volontari.

– Sai cosa sta succedendo? – domandò Miles ad uno di questi, a mano a mano che li sottoponeva ad una rapida ispezione e li assegnava ad uno dei quattordici gruppi operativi da lui creati.

– No – ammise l'uomo, poi agitò con impazienza un braccio in direzione del centro del gruppo delle donne e aggiunse: – Ma voglio andare dove vanno loro…

Per rispetto nei confronti del crescente nervosismo di Tris per quelle infiltrazioni nei suoi confini, Miles bloccò i reclutamenti a quota duecento e immediatamente trasformò quella cortesia in una carta in sua mano nel dibattito strategico che lui e la donna stavano ancora portando avanti, in quanto Tris voleva dividere le sue forze nel modo consueto… metà per attaccare e metà a protezione del campo e dei suoi confini… mentre Miles era per uno sforzo massimo all'esterno.

– Se vinceremo non avrete più bisogno di guardie – le fece notare.

– E se dovessimo perdere?

– Non possiamo osare di perdere – replicò Miles, abbassando la voce, – perché questa sarà la sola volta in cui avremo la sorpresa dalla nostra parte. Certo, potremo sempre ritirarci, riformare lo schieramento e tentare ancora… per quanto mi riguarda mi sento pronto, anzi vincolato, a continuare a tentare fino a quando non resterò ucciso, ma dopo la prima volta ciò che stiamo cercando di fare diventerà evidente agli occhi di ogni altro gruppo e gli altri avranno il tempo di progettare piani e strategie. Ho una particolare avversione per le posizioni di stallo e preferisco vincere le guerre piuttosto che prolungarle.

Tris sospirò, e per un momento parve prosciugata, stanca, vecchia.

– Io sono stata in guerra per molto tempo, sai? Dopo qualche tempo perfino essere sconfitti può cominciare ad apparire preferibile al prolungare un conflitto.

Miles poté sentire la propria risolutezza venire meno, risucchiata in quello stesso nero vortice di dubbio, ma si riscosse e puntò verso l'alto con un dito, abbassando al tempo stesso la voce ad un sussurro.

– Ma di certo non da quei bastardi.

Tris guardò a sua volta verso l'alto e squadrò le spalle.

– No, non da loro – convenne, poi trasse un profondo respiro e aggiunse: – D'accordo, cappellano, avrai il tuo attacco in forze, ma soltanto una volta…

In quel momento Oliver tornò da un'ispezione a tutti i diversi gruppi operativi e si accoccolò accanto a loro.

– Tutti hanno i loro ordini – annunciò. – Con quanti effettivi Tris intende contribuire a ciascun gruppo?

– Il Comandante Tris – si affrettò a correggerlo Miles, mentre la donna aggrottava minacciosamente la fronte. – Dal momento che dovremo tentare il tutto per tutto avremo con noi ogni effettivo in grado di camminare presente qui.

Oliver effettuò qualche rapido conto nella polvere usando il proprio dito come stilo.

– Significa altri cinquanta elementi circa per ciascun gruppo… dovrebbe bastare. A proposito, che ne dici di formare venti gruppi? Questo accelererà la distribuzione una volta che avremo schierato le linee e potrebbe costituire la differenza fra il successo e la sconfitta.

– No – si affrettò a obiettare Miles, vedendo che Tris stava accennando ad annuire in segno di assenso. – I gruppi dovranno essere quattordici: quattordici gruppi di battaglia per quattordici linee e quattordici pile. Il quattordici è… un numero significativo dal punto di vista teologico – concluse infine, vedendo che lo stavano ancora fissando in maniera dubbiosa.

– Perché? – volle sapere Tris.

– A causa dei quattordici apostoli – recitò Miles, congiungendo le mani in un gesto di fede.

Tris scrollò le spalle e Suegar si grattò la testa, accennando a parlare ma si trattenne quando Miles lo trafisse letteralmente con un'occhiata.

– Huh – commentò Oliver, fissandolo con occhi socchiusi, ma non insistette oltre.

Poi ebbe inizio l'attesa. Ben presto Miles accantonò il suo principale timore, e cioè che i loro catturatori introducessero il mucchio di barre troppo presto, prima che avesse avuto il tempo di approntare i suoi piani, e cominciò invece ad essere tormentato dal suo secondo principale timore… che la distribuzione del cibo avvenisse tanto tardi da fargli perdere il controllo delle sue truppe e da indurre gli uomini a disperdersi in preda alla noia e allo scoraggiamento. Riunirli la prima volta era già stato uno sforzo tale che Miles aveva avuto l'impressione di essere impegnato a trascinare una capra riottosa con una corda fatta d'acqua… mai la natura priva di sostanza di un'Idea gli era parsa così evidente.

– Ci siamo… – avvertì Oliver, battendogli un colpetto sulla spalla e indicando qualcosa con un cenno del capo.

Un punto della cupola posto a circa un terzo del perimetro complessivo rispetto alla loro posizione stava cominciando a gonfiarsi verso l'interno.

Proprio quando le sue truppe erano all'apice della forma: il tempismo era perfetto, troppo perfetto… Dal momento che avevano osservato ogni cosa, di certo i Cetagandani non avrebbero perso l'opportunità di rendere la vita ancora più difficile ai loro prigionieri, quindi dato che non avevano anticipato la distribuzione l'avrebbero senza dubbio ritardata, oppure…

– Aspettate! Aspettate! – urlò Miles, scattando in piedi. – Aspettate il mio ordine!

Il suo gruppo di velocisti esitò, attratto verso la meta tanto attesa, ma Oliver aveva scelto bene i comandanti di ciascun contingente, che non persero il controllo e tennero a freno i loro uomini, guardando verso di lui… dopo tutto, una volta erano stati soldati. Oliver dal canto suo guardò verso Tris, che era affiancata dalla sua luogotenente Beatrice, e la donna fissò Miles con rabbia.

– Che ti prende adesso? Perderemo il nostro vantaggio… – cominciò a protestare, mentre in tutto il campo iniziava la consueta corsa folle in direzione del rigonfiamento.

– Se mi sono sbagliato – gemette Miles, – dopo mi ucciderò io stesso… aspettate, dannazione! Muovetevi al mio ordine. Non riesco a vedere… Suegar, aiutami a salire…

Issatosi sulle spalle sottili del compagno, Miles fissò lo sguardo in direzione del gonfiore: il muro di forza si era dissolto soltanto per metà quando le prime lontane grida di disappunto cominciarono ad arrivare ai suoi orecchi e lui subito si guardò intorno con mosse frenetiche.

Quanti ingranaggi all'interno di altri ingranaggi ci potevano essere? Se i Cetagandani sapevano, e lui sapeva che loro sapevano, e loro sapevano che lui sapeva che loro sapevano, e… si obbligò a troncare quei farfugliamenti interiori nel momento in cui il secondo gonfiore cominciò a formarsi sul lato opposto del campo rispetto al primo.

– Là! – esclamò, sollevando un braccio di scatto con un dito proteso a indicare il punto esatto. – Là! Andate, andate!

Comprendendo finalmente cosa era successo, Tris emise un fischio sommesso e scoccò a Miles un'occhiata piena di sorpreso rispetto prima di voltarsi di scatto e di lanciarsi in corsa insieme al grosso delle loro forze che stava seguendo da presso le squadre di velocisti. Scivolato giù dalle spalle di Suegar, Miles si avviò zoppicando dietro di loro.

Lanciandosi un'occhiata alle spalle, vide la rotolante grigia massa di umanità abbattersi contro la parete opposta della cupola e invertire la propria direzione di corsa. All'improvviso si sentì come un uomo che stesse cercando di correre più in fretta di un'onda di marea e si concesse un piccolo gemito di anticipazione nell'accelerare il passo più che poteva, cercando di non pensare che quella poteva essere un'altra occasione di essere mortalmente in errore.

Ma no… le squadre di velocisti avevano raggiunto il mucchio, che era effettivamente là, e stavano già cominciando a suddividerlo mentre le truppe di sostegno le circondavano con un muro di corpi disponendosi lungo il perimetro della cupola. I Cetagandani si erano sconfitti con la loro stessa astuzia… per questa volta.

Poi l'onda di marea raggiunse Miles e invece che dalle vette proprie di un comandante lui si trovò a contemplare il mondo dalla stessa altezza da cui lo poteva vedere un verme, perché qualcuno lo spinse alle spalle e lo mandò a cadere con la faccia nella polvere. Miles ebbe l'impressione di riconoscere il cupo Pitt nell'uomo che lo stava superando con un balzo ma non ne fu certo… senza dubbio Pitt lo avrebbe calpestato invece di scavalcarlo. Un momento più tardi Suegar lo afferrò per il braccio sinistro e lo sollevò con uno strattone che lo costrinse a soffocare un urlo di dolore… intorno c'erano già fin troppe urla. Più avanti Miles riconobbe il ragazzo che aveva bloccato nella sua folle corsa e che stava adesso regolando i conti con un avversario dall'aspetto duro.

– Dovresti gridare Mettiti in fila! e non Va' all'inferno! - avvertì nell'oltrepassarlo. – I segnali finiscono sempre per essere modificati in un combattimento… sempre – borbottò poi fra sé.

Beatrice gli si materializzò accanto e Miles si aggrappò immediatamente a lei. Beatrice aveva creato intorno a sé uno spazio personale, un perimetro privato che mantenne anche in quel momento sferrando con noncuranza una gomitata alla mascella di qualcuno, gesto che provocò un nauseante rumore di ossa che si rompevano. Osservando la manovra, Miles pensò che se lui avesse provato a fare la stessa cosa avrebbe ottenuto soltanto di fratturarsi il gomito, mentre probabilmente il capezzolo del suo avversario sarebbe rimasto del tutto illeso. Parlando di capezzoli… Miles si trovò faccia a… ecco, non proprio a faccia… con la rossa e fu costretto a reprimere l'impulso di raggomitolarsi contro la stoffa grigia che copriva la casa base, in quanto era certo che una mossa del genere gli avrebbe fruttato la frattura di entrambe le braccia. Invece si limitò a sollevare lo sguardo verso il volto di lei.

– Vieni – disse Beatrice, e lo trascinò attraverso la ressa, mentre il muro umano delle loro truppe si apriva appena dello spazio necessario per lasciarli passare.

Adesso erano vicino al punto di uscita della fila di distribuzione, e il livello di rumore sembrava essere in calo. Per Dio, stava funzionando. I quattordici gruppi di distribuzione erano ancora ammassati un po' troppo vicini fra loro e a ridosso della parete della cupola, un particolare che avrebbe potuto essere perfezionato la volta successiva, e stavano lasciando passare i supplici uno per volta. I sorveglianti mantenevano la linea in rapido movimento e incanalavano quanti erano già stati forniti della loro razione lungo il perimetro della cupola e al di là del muro umano perché si disperdessero nel campo oltre il limitare della ressa. Oliver aveva incaricato i suoi uomini dall'aspetto più duro di sorvegliare a coppie il flusso in uscita e di controllare che nessuno venisse depredato con la forza della sua razione.

Era passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno aveva avuto la possibilità di fare l'eroe, e non pochi di quei poliziotti di nuova nomina stavano svolgendo il loro lavoro con notevole entusiasmo… forse perché esso permetteva loro di sfogare apertamente antichi rancori. Miles riconobbe uno dei grossi e cupi compari che giaceva prono sotto un paio di guardie e che stava apparentemente incassando una dura battuta… e nel ricordare quali fossero i suoi intenti si sforzò di non trovare gradevole la musica di quei grossi pugni che si abbattevano sulla carne.

Miles, Beatrice e Suegar attraversarono quindi la fila dei prigionieri in uscita con la loro preziosa barra nutritiva e tornarono verso i mucchi di distribuzione, poi Miles andò a cercare Oliver e con un leggero sospiro di rincrescimento lo mandò all'uscita perché riportasse l'ordine fra coloro che erano incaricati di mantenerlo.

Tris intanto sembrava avere sotto un ferreo controllo i mucchi di distribuzione e quanti di volta in volta vi accedevano; notando la cosa, Miles si congratulò con sé per aver pensato di incaricare le donne della distribuzione manuale del cibo, perché aveva toccato senza dubbio un tasto di profonda risonanza emotiva, come dimostrava il fatto che non pochi fra i prigionieri mormoravano una timida parola di ringraziamento quando la barra veniva spinta loro in mano, imitati da quanti venivano dietro di loro nella fila.

No, pensò Miles, guardando in alto verso la cupola uniforme e silenziosa, non avete più il monopolio della guerra psicologica, bastardi. Adesso rovesceremo il vostro gioco e spero che vi roderete il fegato…

Un alterco scoppiato vicino ad una delle pile di cibo interruppe le sue riflessioni e lo indusse ad arricciare un labbro in un'espressione di disgusto nel vedere Pitt al centro della lite. Zoppicando si affrettò ad andare a vedere cosa stava succedendo.

A quanto pareva, Pitt aveva ripagato la sua barra non con un ringraziamento ma con un sogghigno e un commento osceno e offensivo; almeno tre fra le donne che lo avevano sentito stavano ora cercando di farlo a pezzi, ma senza successo, perché Pitt era alto e grosso e non aveva inibizioni di sorta nel combattere, come dimostrò il fatto che una delle donne, non molto più alta di Miles, venne scagliata al suolo con violenza e non si rialzò. Nel frattempo lo scorrimento della linea si era bloccato e il flusso ordinato e civile di quanti aspiravano al loro pasto serale era piombato nel caos, cosa che strappò a Miles una sommessa imprecazione.

– Tu, tu, tu e tu – ordinò, battendo un colpetto sulla spalla degli individui in questione. – Afferrate quel tizio e trascinatelo fuori di qui… scortatelo fino al muro della cupola.

I volontari scelti da Miles non si mostrarono particolarmente entusiasti di quell'incarico, ma nel frattempo Tris e Beatrice erano accorse sulla scena e stavano ora conducendo l'attacco contro Pitt in maniera più scientifica, con il risultato che ben presto questi venne afferrato e trascinato lontano dalla fila e oltre lo schieramento che la proteggeva. Dopo essersi accertato che la distribuzione avesse ripreso a scorrere senza intoppi Miles, che era stato intanto raggiunto da Oliver e da Suegar, concentrò la propria attenzione sul violento e sboccato Pitt.

– Ho intenzione di strappare le palle a questo bastardo – stava dicendo Tris. – Io comando…

– Tu sei un comandante militare – la interruppe Miles, – e se quest'uomo è accusato di condotta insubordinata lo dovresti sottoporre a corte marziale.

– È un violentatore e un assassino – replicò la donna, in tono gelido. – La pena capitale è troppo poco per lui… dovrà morire lentamente.

– È un'idea che mi tenta – mormorò Miles a Suegar, traendolo in disparte, – ma l'idea di lasciarlo nelle mani di Tris mi mette a disagio. Secondo te, da cosa dipende?

– Credo che tu abbia ragione – replicò Suegar, fissandolo con rispetto. – Vedi, qui ci sono… ci sono troppi colpevoli.

In quel momento Pitt, che stava ormai schiumando di rabbia, individuò Miles.

– Tu! Piccolo omuncolo leccapiedi… credi che loro ti possano proteggere? – gridò, indicando Tris e Beatrice con un movimento secco del capo. – Non hanno muscoli sufficienti, le abbiamo domate una volta e lo faremo ancora. Non avremmo perso quella dannata guerra se avessimo avuto veri soldati… come i Barrayarani, che non riempiono il loro esercito di femmine e di leccapiedi. Loro hanno sbattuto i Cetagandani fuori del loro pianeta…

– Non so perché – ringhiò Miles, abboccando alla provocazione, – ma dubito che tu sia un esperto delle tecniche di difesa del loro pianeta nella Prima Guerra Cetagandana, altrimenti avresti imparato qualcosa…

– Tris ti ha nominato forse ragazza onoraria, mutante? – lo beffò Pitt. – Non ci vorrebbe molto…

Perché sto qui a scambiare insulti con questo delinquente demente? Si chiese Miles, mentre Pitt continuava a urlare insulti. Non c'è tempo per queste cose, quindi chiudiamo la faccenda.

– A nessuno di voi è ancora venuto in mente che quest'uomo deve di certo essere un agente cetagandano? – chiese, indietreggiando di un passo e incrociando le braccia sul petto.

Perfino Pitt scivolò in un silenzio sconvolto.

– Le prove sono evidenti – proseguì Miles, con decisione, sollevando la voce in modo che tutti potessero sentirlo. – Lui è risultato un elemento di rilievo nel distruggere la vostra disciplina. Per esempio, la sua astuzia ha corrotto gli onesti soldati che gli stavano intorno, li ha messi gli uni contro gli altri. Voi eravate i combattenti migliori di Marilac, e siccome non potevano essere certi del vostro crollo, i Cetagandani hanno piantato un seme malvagio in mezzo a voi, per essere sicuri di riuscire, e la cosa ha funzionato… meravigliosamente bene. Voi non avete mai sospettato…

– Fratello Miles… – mormorò affrettatamente Oliver, parlandogli in un orecchio, – conosco quel tizio e so che non è un agente cetagandano. È soltanto come un sacco di…

– Taci, Oliver – sibilò Miles, a denti stretti, poi riprese la sua arringa usando il tono più forte e scandito di cui era capace. – È ovvio che si tratta di una spia cetagandana, di una talpa. E per tutto questo tempo voi avete creduto che quanto accadeva era qualcosa che vi stavate facendo da soli.

E dove il diavolo non esiste, pensò fra sé, può essere comodo inventarne uno.

Per quanto disgustato dalla propria azione, continuò a sfoggiare un'espressione di giusta indignazione, e nello scrutare i volti che lo stavano fissando notò che parecchi erano pallidi quanto doveva esserlo il suo, anche se il loro pallore aveva una causa diversa. Un sommesso borbottio, in parte sconcertato e in parte minaccioso, stava cominciando a levarsi dai presenti.

– Toglietegli la casacca – ordinò quindi Miles, – e stendetelo al suolo prono. Suegar, dammi la tua tazza.

Sedutosi a cavalcioni dello sventurato Pitt, Miles si servì quindi dello spuntone acuminato che sporgeva lungo il lato spezzato della tazza come della punta di uno stilo e incise a grandi lettere le parole SPIA DI CETA sull'ampia schiena della sua vittima, esercitando una pressione tanto forte e spietata da far uscire il sangue e ignorando il modo in cui Pitt urlava e .si dimenava. Alla fine Miles si rialzò tremante e senza fiato per qualcosa di più della semplice fatica fisica.

– Adesso – ordinò, – dategli la sua barra nutritiva e scortatelo all'uscita.

Tris aprì la bocca per protestare ma la richiuse subito di scatto, fissando con occhi roventi la schiena di Pitt che veniva scortato lontano; il suo sguardo si posò quindi con espressione pensosa sul volto di Miles mentre andava ad affiancarglisi, imitata da Oliver.

– Pensi davvero che sia un cetagandano? – gli chiese a bassa voce.

– È impossibile che lo sia – dichiarò Oliver, secco. – Cosa diavolo significa questa commedia, Fratello Miles?

– Non dubito minimamente che le accuse di Tris in merito agli altri crimini da lui commessi siano vere – spiegò Miles, con voce tesa, – e devi saperlo anche tu. Non lo si poteva però punire per essi senza provocare una divisione nel campo e minare così l'autorità di Tris. In questo modo, invece, Tris e le altre donne hanno avuto la loro vendetta senza tirarsi addosso l'ostilità di metà degli uomini. Così le mani del comandante sono pulite e tuttavia è stata fatta giustizia di un criminale, senza contare che un duro elemento che senza dubbio ci avrebbe tormentati dall'esterno è stato messo in condizione di non nuocere. Inoltre, chiunque altro avesse idee simili alle sue ha ricevuto un avvertimento che non si può permettere di ignorare. È una soluzione che funziona a tutti i livelli.

Mentre lui parlava, il volto di Oliver aveva gradualmente perso ogni espressione.

– Combatti in maniera sporca, Fratello Miles – commentò infine il sergente.

– Non posso permettermi di perdere – ritorse Miles, scoccandogli una cupa occhiata da sotto le sopracciglia aggrottate. – Tu puoi?

– No – ammise Oliver, serrando le labbra.

Tris non avanzò nessun commento.

Miles sovrintese di persona alla distribuzione delle barre nutritive a tutti quei prigionieri che erano tanto deboli, malati o avviliti che non avevano neppure tentato di procurarsene una. Il Colonnello Tremont giaceva ancora sulla sua stuoia, raggomitolato e con lo sguardo fisso nel vuoto. Inginocchiatosi, Oliver chiuse quegli occhi ormai secchi e privi di vita: il Colonnello era morto in un momento imprecisato delle ultime ore.

– Mi dispiace – disse sinceramente Miles. – Mi dispiace di essere arrivato troppo tardi.

– Va bene… – mormorò Oliver. – Va bene…

Si alzò in piedi, mordendosi il labbro inferiore, poi scosse il capo e non aggiunse altro. Miles, Suegar, Tris e Beatrice lo aiutarono a trasportare il corpo, insieme alla stuoia, ai vestiti, alla tazza e a tutto il resto, fino all'ammasso di pietre, e una volta lì Oliver infilò sotto il braccio dei morto la barra nutritiva che aveva tenuto da parte per lui. Dopo che i quattro si furono allontanati nessuno tentò di derubare il cadavere, anche se un altro già rigido che giaceva poco lontano era stato depredato di tutto e giaceva nudo e prono.

Di lì a poco i quattro s'imbatterono nel cadavere di Pitt: la causa della morte era probabilmente lo strangolamento, ma la faccia era stata percossa in maniera tale che era impossibile determinarlo con certezza.

Accoccolatasi accanto al corpo, Tris sollevò lo sguardo su Miles e parve rivalutarlo lentamente.

– Credo che tu avessi ragione in merito al potere, ometto – disse.

– E in merito alla vendetta?

– Credevo che non avrei mai potuto averne abbastanza – sospirò la donna, fissando il cadavere. – Sì… avevi ragione anche in questo.

– Grazie – replicò Miles, urtando il corpo con un piede. – Però non commettere errori… questa è una perdita per la nostra parte.

Poi tirò via Suegar, lasciando che fosse qualcun altro a trascinare il corpo fino alla massa di detriti.

Immediatamente dopo la distribuzione del cibo Miles indisse un consiglio di guerra a cui parteciparono Tris, Beatrice, Suegar e Oliver… coloro che Miles cominciava a considerare i suoi comandanti in seconda… più i capi dei quattordici gruppi in cui le loro forze erano state divise. La riunione ebbe luogo su un tratto di terreno pulito vicino ai confini del campo delle donne, e una volta che ci furono tutti Miles prese a passeggiare avanti e indietro arringandoli con gesti decisi.

– Una nota di merito ai capi dei gruppi per il lavoro eccellente che hanno svolto e al Sergente Oliver per averli scelti. Portando a termine con successo questa manovra vi siete conquistati non soltanto la fedeltà della maggior parte del campo ma anche del tempo. Da questo momento ogni nuova distribuzione del cibo dovrebbe essere più facile e più scorrevole, una esercitazione pratica per la successiva.

«Non mi fraintendete, questa è un'esercitazione militare e noi siamo di nuovo in guerra. Abbiamo già indotto i Cetagandani a infrangere la loro routine calcolata con tanta cura e a fare una contromossa: noi abbiamo agito e loro hanno reagito… per quanto vi possa sembrare strano, il vantaggio offensivo è stato dalla nostra parte.

«Adesso dobbiamo cominciare a pianificare le nostre future strategie, e voglio che voi tutti pensiate a quale sarà la prossima sfida dei Cetagandani. – In realtà voglio che pensiate, e basta. - E ora ho finito con le prediche. Comandante Tris, a te la parola.

A quel punto Miles si costrinse a rimettersi a sedere a gambe incrociate, cedendo il campo al comandante che aveva scelto, che lei lo volesse o meno: dopo tutto, Tris era stata un ufficiale sul campo e non di stato maggiore ed aveva più di lui bisogno di fare pratica.

– Naturalmente – cominciò la donna, schiarendosi la gola, – i Cetagandani potrebbero mandare dentro mucchi ridotti, come hanno già fatto in passato… c'è chi ha suggerito addirittura che sia stato questo l'inizio dell'attuale disordine. – A questo punto fece una pausa e lanciò un'occhiata a Miles, che le rivolse un cenno d'incoraggiamento. – Ciò significa che dovremo cominciare a tenere un conto di quanti vengono a prelevare le razioni e stabilire una serie di rigidi turni delle persone che di volta in volta dovranno dividere la loro razione con chi ne è rimasto privo. Ogni caposquadra dovrà scegliere un quartiermastro e due contabili che verifichino i suoi conti.

– Un altro modo eccellente in cui i Cetagandani potrebbero cercare di gettarci di nuovo nel disordine – non poté trattenersi dall'interloquire Miles, – sarebbe quello di mandarci razioni in eccedenza per vedere come ce la caviamo a suddividere gli extra. Se fossi in te – aggiunse, indirizzando a Tris un blando sorriso, – considererei anche le contromosse in un'eventualità del genere.

– Potrebbero inoltre operare la distribuzione sotto forma di mucchi sparpagliati – riprese la donna, inarcando un sopracciglio nella sua direzione, – in modo da renderci più difficile impadronircene e controllare l'assegnazione delle singole razioni. Ci sono altri sporchi trucchi che riesci a prevedere? – concluse, lanciando un'altra occhiata a Miles.

– Signora – chiamò uno dei capisquadra, sollevando con esitazione una mano, – di certo loro stanno ascoltando tutto. Non è che stiamo suggerendo loro delle idee?

Miles si alzò in piedi per rispondere a quella domanda in maniera diretta e a voce alta.

– È ovvio che stanno ascoltando, e senza dubbio in questo momento abbiamo la loro attenzione assoluta e incondizionata – replicò, accennando alla cupola con un rozzo gesto. – Che ascoltino pure. Ogni mossa che faranno sarà per noi un messaggio dall'esterno, un'ombra che definisce meglio la loro forma, un'informazione sul loro conto che noi assorbiremo.

– Supponi che ci tolgano di nuovo l'aria… in maniera permanente – intervenne un altro caposquadra, con esitazione ancora maggiore del primo.

– In quel caso – ribatté con disinvoltura Miles, – perderanno la posizione di vantaggio rispetto alla Commissione di Giustizia Interstellare che si sono guadagnati a prezzo di tanta fatica. Quella che stanno conducendo di recente è una guerra di propaganda, soprattutto da quando la tensione derivante da come stanno andando le cose in patria impedisce alla nostra parte di provvedere adeguatamente alle sue truppe… e ancor meno ai prigionieri cetagandani. Di conseguenza i Cetagandani, che sostengono pubblicamente di condividere con noi il loro governo imperiale per generosità culturale, affermano che questa è una dimostrazione della superiorità della loro civiltà e delle loro buone maniere…

Alcuni versi beffardi e parecchi fischi espressero adeguatamente l'opinione che i prigionieri avevano in merito a queste affermazioni.

– La percentuale di decessi relativa a questo campo è così elevata che ha attirato l'attenzione della Commissione – proseguì Miles, con un sorriso. – Finora i Cetagandani sono riusciti a coprirsi le spalle nel corso di tre distinte ispezioni della Commissione, ma una mortalità del 100% sarebbe un po' eccessiva per poter essere giustificata.

Un brivido di assenso e di rabbia repressa si diffuse fra i suoi rapiti ascoltatori mentre lui tornava a sedersi.

– Come diavolo ti sei procurato tutte queste informazioni? – sussurrò Oliver, protendendosi verso di lui.

– Sono risultato convincente? – sogghignò Miles. – Bene.

– Non hai inibizioni di nessun genere, vero? – commentò Oliver, traendosi indietro con espressione un po' sconvolta.

– Non in combattimento.

Tris e i capisquadra passarono le successive due ore stabilendo le diverse ipotesi secondo cui si sarebbe potuta articolare la successiva distribuzione del cibo ed elaborando la reazione tattica a ciascuna di esse, poi la riunione si sciolse per permettere ai capisquadra di andare a riferire le informazioni ai loro subordinati, e Oliver fece altrettanto con il suo gruppo di sorveglianti supplementari.

Tris si fermò invece accanto a Miles, che in un momento imprecisato delle precedenti due ore aveva infine ceduto alla pressione della gravità e giaceva adesso disteso nella polvere con lo sguardo un po' vacuo fisso sulla cupola, sbattendo le palpebre nello sforzo di continuare a tenere gli occhi aperti. Non aveva infatti dormito per tutto il giorno e mezzo precedente al momento in cui era entrato nel campo e non sapeva con esattezza quanto tempo fosse trascorso da quando vi aveva messo piede.

– Mi è appena venuto in mente un altro scenario – affermò Tris. – Come ci comporteremo se loro non faranno nulla? Se non reagiranno e non apporteranno cambiamenti?

– Mi sembra la mossa più probabile – replicò Miles, annuendo. – Credo che quel tentativo di trarci in inganno durante la scorsa distribuzione sia stato un errore da parte loro.

– Ma in assenza del nemico, per quanto tempo possiamo andare avanti fingendo di avere un esercito? – insistette lei. – Hai dovuto grattare il fondo per riuscire a metterci insieme, e che accadrà quando questo ultimo impeto di energie si sarà esaurito?

Miles si raggomitolò su un fianco, sentendosi sprofondare in strani pensieri privi di forma coloriti dall'accenno di un sogno erotico riguardante quell'alta e aggressiva rossa, e sbadigliò voluttuosamente.

– Allora pregheremo per avere un miracolo. Ricordami di discutere di miracoli con te… più tardi.

Qualche tempo dopo si svegliò per un istante quando qualcuno gli infilò sotto il corpo una stuoia, e indirizzò a Beatrice un sorriso intimo e assonnato.

– Folle mutante – ringhiò la ragazza, facendolo rotolare rudemente sulla stuoia, – non pensare che sia stata una mia idea.

– Sai, Suegar – borbottò Miles, – credo di piacerle.

E tornò a raggomitolarsi serenamente nell'abbraccio della Beatrice presente nel suo sogno.

Con segreto sgomento di Miles, la sua analisi delle mosse del nemico risultò esatta. I Cetagandani tornarono infatti alla loro originale routine di distribuzione delle barre nutritive, senza reagire ai mutamenti subiti dall'ordine interno dei prigionieri, cosa che Miles non era sicuro di apprezzare. Certo, questo gli avrebbe dato il tempo di perfezionare al massimo il suo schema di distribuzione, ma qualche azione di disturbo da parte di chi controllava la cupola sarebbe servita a dirigere l'attenzione dei prigionieri verso l'esterno, dando di nuovo loro un nemico da combattere e soprattutto infrangendo la noia paralizzante che avviluppava la loro esistenza. A lungo andare, era possibile che la previsione di Tris risultasse esatta.

– Detesto un nemico che non commette errori – borbottò in tono irritato Miles, e concentrò tutti i propri sforzi sugli eventi che poteva controllare.

Trovò un flemmatico prigioniero con il battito cardiaco regolare e gli ordinò di stendersi per terra e di contare le proprie pulsazioni, usando questo metodo per calcolare i tempi di distribuzione e mettendosi poi all'opera per ridurli il più possibile.

– È un esercizio spirituale – annunciò, quando infine arrivò a far distribuire dai capisquadra le barre con un ritmo di 200 per volta, con trenta minuti di distacco fra un gruppo e l'altro, poi trasse Tris in disparte e aggiunse: – In effetti è un cambiamento di ritmo. Se non riusciamo a indurre i Cetagandani a produrre qualche diversivo, allora dobbiamo pensarci da soli.

Al tempo stesso riuscì finalmente ad ottenere un conto esatto di tutti i prigionieri superstiti… durante ogni distribuzione era sempre presente esortando, pressando, spingendo e controllando.

– Se davvero vuoi che facciamo più in fretta – protestò Oliver, – dividiamo le barre in un numero maggiore di mucchi.

– Non bestemmiare – ribatté Miles, e si rimise all'opera per indurre i suoi gruppi a trasportare le barre verso i mucchi di distribuzione disposti a intervalli regolari lungo il perimetro della cupola.

Alla fine della diciannovesima distribuzione dal momento del suo arrivo nel campo, Miles giunse a ritenere che il sistema da lui elaborato fosse finalmente completo e teologicamente perfetto: considerando che due distribuzioni indicassero un arco di ventiquattro ore, si trovava ormai nel campo da nove giorni.

– Sono sfinito – si rese conto, con un gemito, – ed è troppo presto.

– Stai piangendo perché non hai altri mondi da conquistare? – domandò Tris, con un sorriso sarcastico.

Entro la trentaduesima distribuzione il sistema funzionava ormai senza nessun intoppo, ma Miles cominciava, ad avere i nervi logorati.

– Benvenuto alla lunga marcia – commentò Beatrice, in tono secco. – È meglio che cominci ad abituarti, Fratello Miles, perché se quello che dice Tris è vero, è possibile che noi si resti qui ancora più a lungo per causa tua. Un giorno o l'altro dovrò ricordarmi di ringraziarti adeguatamente per questo.

E gli indirizzò un sorriso minaccioso che indusse Miles a ricordarsi prudentemente di un impegno da assolvere dalla parte opposta del campo.

Beatrice però aveva ragione… una consapevolezza che aveva il potere di deprimere Miles. La maggior parte delle persone rinchiuse lì dentro non calcolavano la loro reclusione in giorni e settimane ma in mesi ed anni, e lui stesso avrebbe finito per perdere la ragione in un periodo di tempo che per la maggior parte di loro sarebbe stato un semplice batter d'occhio. Sempre più cupo, si chiese quale forma la sua pazzia avrebbe assunto, se sarebbe diventato un maniaco animato da illusioni di grandezza e convinto di essere per esempio il Conquistatore di Komarr o se invece sarebbe scivolato nella depressione come Tremont, raggomitolandosi su se stesso fino a perdere la propria identità e a diventare una sorta di buco nero umano.

Miracoli. Nel corso di tutta la storia c'erano stati condottieri che si erano sbagliati nel calcolare il momento esatto dell'armageddon e che avevano condotto i loro greggi tosati in cima alla montagna ad aspettare un'apoteosi che non era mai giunta… condottieri la cui esistenza successiva era stata di solito caratterizzata dall'oblio e da problemi di alcoolismo. Lì però non c'era nulla da bere, anche se lui avrebbe voluto all'istante sei dosi doppie di liquore.

All'istante.

Miles prese l'abitudine di percorrere il perimetro della cupola dopo ogni distribuzione, in parte per effettuare… o almeno fingere di effettuare… un'ispezione e in parte per consumare un poco della fastidiosa energia nervosa che stava accumulando e che gli rendeva sempre più difficile dormire. Nel campo c'era stato un periodo di calma dopo che la distribuzione del cibo era stata regolata con successo, come se quell'ordine improvviso fosse stato un cristallo lasciato cadere in una soluzione supersatura, ma negli ultimi giorni il numero delle risse interrotte dai sorveglianti era aumentato e i sorveglianti stessi si erano mostrati più rapidi a passare alla violenza, assumendo un atteggiamento spiacevolmente minaccioso. Fasi della luna… chi poteva correre più veloce della luna?

– Rallenta, Miles – si lamentò Suegar, che gli stava camminando accanto.

– Scusami – rispose Miles, controllando l'andatura ed emergendo dalle proprie riflessioni per guardarsi intorno. La cupola luminosa si levava alla sua sinistra e dava l'impressione di vibrare di un sommesso ronzio appena al di fuori della sua soglia uditiva, mentre alla sua destra regnava la quiete, caratterizzata da gruppi di persone per lo più seduti, e non sembravano esserci grandi cambiamenti da ciò che lui aveva visto il giorno del suo arrivo lì. Forse la tensione era diminuita, forse c'era un maggiore interessamento collettivo nei confronti di chi era ferito o malato… fasi della luna. Scrollandosi di dosso il proprio senso di disagio, si costrinse a sorridere allegramente a Suegar.

– Ultimamente ottieni qualche reazione più positiva ai tuoi sermoni? – gli chiese.

– Ecco… nessuno cerca più di picchiarmi – rispose Suegar, – ma del resto non sto più predicando con molta frequenza, perché sono troppo occupato con le distribuzioni del cibo e con tutto il resto. Inoltre, adesso ci sono i sorveglianti… è difficile dare una valutazione.

– Intendi continuare a predicare?

– Oh, sì – dichiarò Suegar, poi fece una pausa e aggiunse: – Ho visto posti peggiori di questo, sai. Una volta, quando ero poco più che un ragazzo, sono stato in un campo minerario. Avevano scoperto un giacimento di gemme di fuoco, e tanto per cambiare esso non era stato assegnato ad una grossa compagnia o al governo ma era stato diviso in centinaia di piccoli lotti di circa due metri quadrati. C'era gente che scavava con le mani e con le cazzuole… le gemme di fuoco sono delicate e un colpo troppo forte le può mandare in frantumi… lavorando giorno dopo giorno sotto un sole rovente. Molti di quei tizi avevano meno indumenti di quanti ne abbiamo noi adesso, e parecchi mangiavano peggio e con minore regolarità, lavorando fino a spezzarsi la schiena. Inoltre c'erano più incidenti e più malattie che qui. E c'erano anche risse, in abbondanza.

«Quelli erano però uomini che vivevano per il futuro, che compivano incredibili atti di resistenza fisica di loro spontanea volontà, animati dalla speranza e come ossessionati. Erano… ecco, tu me li ricordi parecchio, perché quegli uomini non si sarebbero arresi per nessun motivo. In un anno hanno trasformato una montagna in una voragine, e tutto con le nude mani e con le loro cazzuole. È stata una cosa esaltante, mentre questo posto mi terrorizza – aggiunse, guardandosi intorno e accarezzando lo straccio legato al polso sinistro. – Risucchia il tuo futuro e ti inghiotte… qui è come se la morte fosse soltanto una formalità. È un posto di zombie, una città suicida. Il giorno che smetterò di tentare di predicare, questo posto mi divorerà.

Miles rispose con un distratto borbottio di assenso. Si stavano avvicinando al punto del circuito più distante dal campo delle donne, accanto ai cui confini ora permeabili lui e Suegar tenevano le loro stuoie per dormire.

Due uomini che stavano camminando lungo la cupola nella direzione opposta si unirono ad un secondo paio in tenuta grigia, e nello stesso momento altri tre si alzarono dalle loro stuoie alla destra di Miles, con mosse casuali e noncuranti. Sebbene non potesse esserne certo senza voltare la testa, Miles ebbe inoltre l'impressione di notare un movimento periferico anche alle sue spalle.

I quattro che stavano avanzando verso di loro si fermarono a qualche metro di distanza, cosa che indusse Miles e Suegar ad esitare davanti a quegli uomini vestiti di grigio di taglia svariata ma tutti più grandi di Miles… e chi non lo era? I membri del gruppetto li stavano fissando con espressione accigliata e piena di una tensione che arrivò fino a Miles e che gli fece stridere i nervi quando riconobbe fra i quattro uno dei grossi e cupi compari che aveva visto insieme a Pitt. Non si prese neppure la briga di distogliere lo sguardo da quell'uomo per guardarsi intorno alla ricerca dei sorveglianti, anche perché era certo che uno degli individui che avevano di fronte fosse un sorvegliante.

E la cosa peggiore di tutte era che era colpa sua se ora si trovavano con le spalle al muro… ammesso che si potesse usare una definizione del genere in quel luogo… perché aveva permesso che i suoi movimenti quotidiani assumessero una routine prevedibile. Uno stupido, basilare, imperdonabile errore da principiante.

Il luogotenente di Pitt venne avanti mordicchiandosi il labbro inferiore e fissando Miles con occhi infossati.

Sta cercando di darsi la carica, si rese conto questi. Se il suo unico intento fosse quello di pestarmi fino a ridurmi in poltiglia potrebbe farlo anche dormendo.

Mentre lo fissava, l'uomo giocherellava con una corda fatta di stracci intrecciati con cura, un laccio per strangolare… no, non si trattava di un'altra battuta, questa volta avevano in programma un vero e proprio omicidio premeditato.

– Tu – ringhiò con voce rauca il luogotenente di Pitt, – all'inizio non ero riuscito a inquadrarti, perché non sei uno di noi, non avresti mai potuto esserlo. Mutante… sei stato tu stesso a fornirmi l'indizio giusto: Pitt non era una spia dei Cetagandani, ma tu lo sei!

E scattò in avanti.

Miles schivò, sopraffatto dall'attacco verbale e da un'improvvisa comprensione. Dannazione, aveva saputo fin dall'inizio che ci doveva essere un valido motivo per cui marchiare Pitt in quel modo gli era parso un errore sebbene si trattasse di una soluzione tanto efficiente; il valido motivo era che quella falsa accusa costituiva un'arma a doppio taglio, pericolosa tanto per chi la brandiva quanto per chi la subiva. Era evidente che il luogotenente di Pitt era convinto che la propria accusa fosse vera, e dal momento che era stato lo stesso Miles a dare il via alla caccia alle streghe, c'era una certa giustizia poetica nel fatto che lui ne fosse la prima vittima, ma dove sarebbe finita quella storia? Non c'era da meravigliarsi che i loro catturatori non avessero interferito, ultimamente: i loro silenziosi osservatori cetagandani dovevano in quel momento essere piegati in due dal ridere… un errore accumulato sull'altro, e quella catena di errori sarebbe culminata ora con la sua morte per mano di quei vermi in quella tana di vermi…

Delle mani lo afferrarono e lui si contorse in maniera spasmodica, scalciando, ma riuscì a spezzare soltanto in parte la presa che lo tratteneva; al suo fianco, Suegar si voltò di scatto e prese a colpire con pugni e calci, urlando come un indemoniato. Suegar aveva le braccia lunghe, ma non era abbastanza massiccio, mentre Miles era carente tanto nella lunghezza di braccia quanto nel peso; nonostante il suo fisico sparuto, comunque, Suegar riuscì per un momento a infrangere la presa che l'assalitore aveva stretto intorno a Miles.

Poi il braccio sinistro di Suegar venne afferrato e bloccato mentre lui lo tirava indietro per sferrare un colpo di rovescio, e Miles sussultò in anticipazione del previsto e familiare crepitio soffocato dell'osso che si rompeva… ma l'uomo si limitò invece a strappargli dal polso il bracciale di stracci intrecciati.

– Ehi, Suegar – beffò l'assalitore, saltellando all'indietro, – guarda cos'ho preso!

Suegar girò la testa di scatto, dimenticando di colpo la determinazione con cui fino a quel momento aveva cercato di difendere Miles, e nel vedere l'uomo che tirava fuori il malconcio pezzo di carta dalla sua protezione di stoffa e lo agitava nell'aria si gettò in avanti con un urlo soffocato, venendosi però a trovare bloccato da altri due corpi. L'uomo strappò il foglio di carta in due ed esitò per un momento come se non sapesse come liberarsi dei frammenti… poi sogghignò improvvisamente e s'infilò i due pezzi in bocca, mettendosi a masticare. Suegar urlò.

– Dannazione! – gridò Miles, furioso. – Era me che volevate! Non era necessario fare questo… – E sferrò con tutte le sue forze un pugno contro la faccia sogghignante del suo più vicino assalitore, che era stato temporaneamente distratto dalla reazione di Suegar.

Immediatamente sentì le ossa che gli si rompevano fino al polso: era così dannatamente stanco di quelle ossa, stanco di soffrire ancora, e ancora…

Urlando e singhiozzando, Suegar stava cercando di arrivare all'uomo che era ancora intento a masticare il pezzo di carta, ma adesso il suo attacco aveva perso ogni scientificità e lui si agitava come un ossesso. Miles lo vide cadere al suolo, poi la sua attenzione fu interamente reclamata dalle spire della corda che gli si stava avvolgendo intorno al collo come un'anaconda. Riuscì a infilare una mano fra la corda e il proprio collo, ma si trattava di quella fratturata ed elettriche fitte di dolore gli salirono lungo il braccio e diedero l'impressione di affondargli sotto la pelle all'altezza della spalla. La pressione nella sua testa andò crescendo fino a quando gli parve che stesse per esplodere; macchie color porpora scuro punteggiate di giallo presero ad offuscargli la vista come nembi di tempesta, poi una chiazza di capelli rossi saettò davanti al suo campo visivo sempre più ristretto…

Un momento più tardi Miles si ritrovò steso al suolo, con il sangue che tornava a fluire meravigliosamente nel suo cervello affamato di ossigeno, e per un momento rimase passivo dove si trovava senza curarsi di niente altro: sarebbe stato così bello non doversi rialzare…

Quella dannata cupola, fredda, bianca e uniforme, fu la prima immagine che salutò beffarda lo schiarirsi della sua vista, e per reazione lui si sollevò di scatto in ginocchio, guardandosi intorno con espressione sconvolta: Beatrice, alcuni sorveglianti e qualche commando di Oliver stavano inseguendo gli aspiranti assassini per il campo, il che significava che lui doveva aver perso i sensi soltanto per pochi secondi. Suegar giaceva al suolo ad un paio di metri di distanza.

Miles strisciò fino a raggiungerlo e vide che era raggomitolato su se stesso con le braccia strette intorno allo stomaco: il suo volto era verdastro e madido di sudore gelido, mentre tremiti incontrollati gli correvano lungo il corpo. Era evidente che era in stato di shock, e in questi casi il paziente doveva essere tenuto al caldo e gli doveva essere somministrata della synergina… lì però non c'era synergina. Goffamente, Miles si sfilò la tunica e la stese addosso all'amico.

– Suegar? Stai bene? Beatrice ha messo in fuga quei barbari…

Suegar sollevò lo sguardo e gli rivolse un fugace sorriso che fu però quasi immediatamente riassorbito e soffocato dal dolore.

Qualche tempo dopo Beatrice tornò indietro, arruffata e con il respiro affannoso.

– Voi due svitati – commentò, squadrandoli spassionatamente, – non avete bisogno di una guardia del corpo ma di un dannato custode.

Si lasciò quindi cadere in ginocchio accanto a Miles e fissò per un momento Suegar con le labbra serrate in una sottile linea bianca; quando infine spostò lo sguardo su Miles, i suoi occhi si erano fatti cupi e aggrondati.

Ho cambiato idea, pensò Miles, non cominciare a interessarti a me, Beatrice, non interessarti a nessuno, perché otterrai soltanto di soffrire, ancora, ancora e ancora…

– È meglio che torniate al mio gruppo – suggerì infine la ragazza.

– Non credo che Suegar possa camminare.

Beatrice si procurò qualche robusto volontario e ben presto Suegar venne fatto rotolare su una stuoia e trasportato fino al luogo dove erano ormai soliti dormire in maniera che ricordava sgradevolmente quella in cui il cadavere del Colonnello Tremont era stato portato fino al cumulo di detriti.

– Trovategli un dottore – chiese Miles.

Di lì a poco Beatrice fu di ritorno trascinando per un braccio una donna furente e più anziana di lei.

– Probabilmente ha delle lesioni all'addome – ringhiò la dottoressa. – Se avessi un visore diagnostico potrei dirti con esattezza di che lesioni si tratta… ma tu hai un visore diagnostico? Ha bisogno di synergina e di plasma… tu ne hai? Se avessi una sala operatoria potrei operarlo, rimettere insieme i suoi pezzi e accelerare la sua guarigione con l'elettrostimolante… lo rimetterei in piedi in tre giorni. Tu hai una sala operatoria? Non credo.

«E smettila di guardarmi in quel modo. Credevo di essere una risanatrice e ci è voluto questo posto per farmi capire che non ero altro che un'interfaccia fra la tecnologia e il paziente. Adesso che la tecnologia mi è stata sottratta, io non sono nulla.

– Ma cosa possiamo fare? – chiese Miles.

– Copritelo e tenetelo caldo. Fra qualche giorno migliorerà o morirà, a seconda del tipo di lesioni che ha riportato. Tutto qui.

La donna fece una pausa, incrociando le braccia e contemplando Suegar con rancore, come se le lesioni da lui subite fossero un affronto fatto a lei personalmente… e così era, dal suo punto di vista: un altro carico di dolore e di fallimento che riduceva in polvere quell'orgoglio di medico che lei si era guadagnata con tanta fatica.

– Io credo che morirà – aggiunse infine.

– Lo credo anch'io – replicò Miles.

– Allora perché mi hai fatta cercare? – ritorse la donna, allontanandosi a grandi passi.

Più tardi la dottoressa tornò con un'altra stuoia e un paio di ulteriori indumenti che avvolse intorno a Suegar per isolarlo meglio prima di allontanarsi di nuovo.

Più tardi Tris venne a cercare Miles.

– Abbiamo preso quei tizi che hanno cercato di assassinarti – gli riferì. – Cosa vuoi che ne facciamo?

– Lasciateli andare – rispose stancamente Miles. – Non sono loro il nemico.

– Un accidente se non lo sono!

– Non sono i miei nemici, comunque. Si è trattato soltanto di un caso di errore d'identità: io non sono che un viandante impotente di passaggio da queste parti.

– Svegliati, ometto. Si dà il caso che io non condivida la fede di Oliver nel tuo «miracolo». Tu non sei di passaggio, qui… questa è la tua ultima fermata.

– Comincio a pensare che tu abbia ragione – sospirò Miles, lanciando un'occhiata a Suegar, il cui respiro era troppo rapido e troppo poco profondo. – Ormai è quasi certo che tu abbia ragione. Tuttavia… lasciali andare.

– Perché? – protestò Tris, indignata.

– Perché lo dico io, perché te lo chiedo. Vuoi che implori per loro?

– No! D'accordo! – sbottò la donna, e si allontanò di scatto, passandosi le mani fra i capelli corti e borbottando fra sé.

Trascorse un tempo imprecisato. Suegar giaceva su un fianco senza parlare, anche se di tanto in tanto i suoi occhi si aprivano per guardarsi intorno con sguardo opaco. Miles gli umettò le labbra a intervalli regolari e non si allontanò da lui neppure per la distribuzione del cibo, che giunse e passò senza la sua partecipazione; ad operazione ultimata Beatrice gli passò vicino e lasciò cadere accanto a loro due barre nutritive, fissandoli per un momento con uno sguardo accuratamente improntato a dura disapprovazione prima di allontanarsi di nuovo.

Sorreggendosi con cautela la mano ferita, Miles rimase seduto a gambe incrociate, impegnato a revisionare mentalmente il catalogo di errori che lo aveva portato a quella situazione, a contemplare la sua apparente genialità nel far finire uccisi i suoi amici. Aveva la premonizione che la morte di Suegar sarebbe stata quasi altrettanto sgradevole quanto quella del Sergente Bothari, sei anni prima… e lui conosceva Suegar soltanto da settimane, non da anni. Come aveva sempre saputo a livello razionale, il ripetersi della sofferenza aumentava il timore di soffrire invece di diminuirlo, lo trasformava in un devastante terrore. Non di nuovo, mai di nuovo…

Si distese sulla schiena e fissò la cupola, quel bianco occhio fisso di un dio morto. Aveva altri amici che avrebbero potuto già essere morti in questa folle e megalomaniaca impresa… sarebbe stato tipico dei Cetagandani lasciarlo rinchiuso lì dentro fino a quando il dubbio e il timore non fossero gradualmente cresciuti fino a farlo impazzire.

A farlo impazzire in fretta… l'occhio del dio aveva appena ammiccato.

Miles sbatté a sua volta le palpebre per reazione nervosa, poi sgranò gli occhi e fissò la cupola come se il suo sguardo potesse trapassarla. Aveva realmente ammiccato? Oppure quel tremolio era stato un'allucinazione? Stava davvero perdendo il senno?

La cupola tremolò ancora e Miles balzò in piedi, traendo una rapida successione di profondi respiri.

Poi la cupola scomparve. Per un breve istante la notte planetaria gli si riversò intorno, fatta di nebbia, di pioggia sottile e di un vento freddo e umido. L'aria non filtrata puzzava di uova marce e l'oscurità a cui lui non era abituato era accecante.

– DISTRIBUZIONE DEL CIBO! – urlò, con quanto fiato aveva in gola.

Un istante più tardi quel limbo fu trasformato in caos dal brillante bagliore di una bomba controllata elettronicamente che era esplosa alle spalle di un gruppo di edifici: una luce rossa risplendette lungo il lato inferiore di un'enorme nuvola di detriti che si stava sollevando rapidamente verso l'alto. Una fragorosa serie di simili esplosioni cinse il campo e respinse la notte, assordando tutti gli orecchi privi di protezione al punto che Miles, pur continuando a gridare, non riuscì più a sentire la propria voce mentre il fuoco di risposta che scaturiva dal terreno artigliava le nubi con linee di luce colorata.

Vedendo Tris che gli passava accanto di corsa, con un'espressione stordita nello sguardo, Miles l'afferrò per un braccio con la mano sana e piantò i talloni nel terreno per frenarla fino a poterle urlare le proprie parole nell'orecchio.

– Ci siamo! Organizza i quattordici capisquadra e provvedi perché mettano in fila e in attesa tutt'intorno al perimetro i primi dannati gruppi di 200 uomini, poi trova Oliver, perché dobbiamo far sì che i sorveglianti costringano tutti gli altri ad aspettare con ordine il loro turno. Se le cose si svolgeranno esattamente come nelle esercitazioni presto ce ne andremo tutti. – O almeno lo spero, pensò fra sé. – Se però i prigionieri prenderanno d'assalto le navette come erano soliti fare con il mucchio delle barre nutritive saremo tutti perduti. Hai capito?

– Non ho mai creduto… non pensavo… navette?

– Non devi pensare, è un'esercitazione che abbiamo ripetuto cinquanta volte, quindi ti basterà seguire l'esercitazione per la distribuzione del cibo. L'esercitazione!

– Piccolo subdolo figlio di buona donna! – esclamò Tris allontanandosi con un cenno di assenso che era quasi un saluto militare.

Una serie di scoppi eruppe nel cielo al di sopra del campo come un succedersi ininterrotto di lampi, proiettando sulla scena sottostante un'illuminazione spettrale: adesso il campo di prigionia ribolliva come un formicaio che fosse stato preso a calci, una vera babele di uomini e di donne che correvano di qua e di là in una confusione urlante che non corrispondeva precisamente all'immagine ordinata che Miles aveva in mente… perché, per esempio, i suoi uomini avevano scelto di attaccare di notte e non di giorno? In ogni caso avrebbe interrogato a fondo i suoi ufficiali al riguardo dopo che avesse finito di baciare loro i piedi…

– Beatrice! – esclamò, agitando un braccio. – Comincia a passare parola! Stiamo eseguendo l'esercitazione per la distribuzione del cibo, solo che invece di una barra nutritiva ciascuna persona otterrà un posto su una navetta. Bada che lo capiscano bene e che nessuno si allontani nel buio, perché altrimenti perderà il passaggio, poi torna qui e resta con Suegar, perché non voglio che venga lasciato indietro o calpestato. Sorveglialo, hai capito?

– Non sono un dannato cane. Quali navette?

In quel momento il suono che gli orecchi di Miles stavano aspettando da tempo di sentire, un multiforme sibilo che si faceva sempre più intenso, trapassò il frastuono circostante, e dalle nubi rossastre e ribollenti scaturirono delle sagome incombenti simili a mostruosi scarafaggi alati e forniti di corazza, con le zampe che si protendevano verso il terreno: navette da prelevamento corazzate e attrezzate per combattere… due, tre, sei, sette, otto… le labbra di Miles si mossero silenziosamente nel contarle fino ad arrivare a quattordici. Per Dio, erano riusciti ad approntare il B-7 in tempo utile.

– Le mie navette – rispose, indicando.

Beatrice rimase ferma a guardare verso l'alto con la bocca aperta.

– Mio Dio, sono splendide – mormorò, e Miles ebbe l'impressione di vedere la sua mente che cominciava a funzionare a velocità frenetica. – Però non sono nostre e neppure cetagandane. Chi diavolo…?

– Questo è un salvataggio politico a pagamento – spiegò Miles, inchinandosi.

– Mercenari?

– Non siamo una cosa strisciante e dotata di troppe zampe che tu abbia trovato nel tuo sacco a pelo. Il giusto tono di voce è un grido di gioia, così… Mercenari!

– Ma… ma… ma…

– Ora va', dannazione. Potrai discutere più tardi.

Beatrice sollevò le mani in un gesto di frustrazione e spiccò la corsa mentre Miles continuava a bloccare ogni persona che gli passava vicino, trasmettendo gli ordini del giorno. In questo modo riuscì a catturare anche uno degli alti commandos di Oliver e si fece issare sulle sue spalle: una rapida occhiata circolare gli rivelò quattordici capannelli di persone che si stavano coagulando in mezzo alla folla disordinata più o meno nelle posizioni giuste stabilite lungo il perimetro. Sopra di essi le navette si librarono nell'aria ancora per un momento prima di posarsi ad una ad una al suolo intorno al campo.

– Così dovrà bastare – borbottò Miles fra sé. – Giù – ordinò poi, battendo un colpetto sulla spalla del commando.

Si costrinse quindi a camminare con calma in direzione di una delle navette per dare il buon esempio… una folle corsa di massa verso di esse era infatti lo scenario per evitare il quale lui aveva sparso sangue, ossa e orgoglio durante le ultime… tre, quattro?… settimane.

Quattro soldati armati e in attrezzatura completa da combattimento furono i primi a scendere la rampa della navetta per assumere la posizione di guardia, e Miles notò con approvazione che gli uomini avevano le armi puntate nella direzione giusta, verso i prigionieri che stavano cercando di salvare. Un'altra pattuglia più numerosa e armata fino ai denti seguì a ruota le prime guardie e si allontanò di corsa, zigzagando per evitare il fuoco di copertura dei compagni e puntando verso le installazioni cetagandane che cingevano il cerchio della cupola. Era difficile stabilire quale fosse la direzione più pericolosa… a giudicare dal protrarsi della pioggia di colpi le navette da combattimento stavano fornendo un abbondante fuoco di copertura con cui distrarre i Cetagandani.

Finalmente dalla navetta sbucò anche l'uomo che più Miles desiderava vedere, l'ufficiale addetto alle comunicazioni.

– Tenente… – chiamò, poi riuscì a collegare il nome alla faccia e aggiunse: – Tenente Murka! Da questa parte!

Murka lo individuò subito e prese ad armeggiare con aria eccitata con il suo equipaggiamento.

– Commodoro Tung! – gridò nel proprio ricevitore. – Lui è qui! L'ho trovato!

Miles strappò spietatamente la cuffia per le comunicazioni dalla testa del tenente, che si piegò docilmente per permettere quel furto, e la piantò sulla propria con la mano sinistra, in tempo per sentire la flebile risposta di Tung.

– Bene, Murka, per l'amore di Dio non lo perda di nuovo. Si sieda su di lui, se sarà necessario.

– Voglio il mio staff – disse Miles nel ricevitore. – Ha già recuperato Elli ed Elena? Quanto tempo abbiamo per quest'operazione?

– Sì, signore, no, e circa due ore, se siamo fortunati – rispose secca la voce di Tung. – È bello riaverla a bordo, Ammiraglio Naismith.

– Mi sta dicendo… recuperi Elli ed Elena, con priorità uno!

– Ci stiamo lavorando. Chiudo.

Girandosi Miles scoprì che il caposquadra per la distribuzione delle barre nutritive addetto a quella sezione era riuscito a radunare il primo gruppo di 200 prigionieri e stava costringendo i 200 successivi a restare indietro in attesa del loro turno… eccellente. I prigionieri da imbarcare venivano incanalati uno alla volta lungo la rampa attraverso una strana strettoia: un mercenario tagliava il dietro di ciascuna tunica grigia con un rapido colpo di vibrolama, un secondo mercenario applicava alla schiena del prigioniero un paralizzatore medico ed un terzo passava su di essa un trattore medico manuale, strappando via rozzamente i numeri di serie cetagandani impressi sotto la pelle senza poi prendersi il disturbo di applicare una fasciatura.

– Andate a prua e sedetevi in fila per cinque, andate a prua e sedetevi in fila per cinque, andate a prua… – ripeteva quest'ultimo mercenario, con la voce uniforme che echeggiava a tempo con il movimento ipnotico del trattore medico.

Il Capitano Thorne, che a volte fungeva da aiutante di campo di Miles, emerse con passo affrettato dal miscuglio di bagliori e di ombre cupe, fiancheggiato da uno dei medici di bordo e… a Dio piacendo… da un soldato che portava gli abiti e gli stivali di Miles. Questi si tuffò verso gli stivali, ma fu invece catturato dal medico prima di raggiungerli.

Il dottore gli passò un paralizzatore medico fra le scapole nude e ineguali e lo fece seguire da un trattore manuale.

– Accidenti! – strillò Miles. – Non poteva aspettare un dannato secondo perché avesse inizio l'effetto del paralizzatore? E cosa significa tutto questo? – chiese, palpandosi il danno con la mano sinistra mentre il dolore cominciava già a svanire.

– Mi dispiace, signore – replicò il medico, senza eccessiva sincerità. – La smetta di toccarsi… ha le mani sporche – aggiunse, applicando una plastibenda… il rango aveva i suoi privilegi, dopo tutto. – Il Capitano Bothari-Jasek e il Comandante Quinn hanno appreso dagli altri controllori Cetagandani addetti ai monitor della prigione qualcosa che non sapevamo prima che lei entrasse nel campo, e cioè che questi numeri sono permeati da gocce di una sostanza le cui membrane lipidiche sono tenute allineate da un campo magnetico a bassa potenza che i Cetagandani generano nella cupola. Se si trascorre un'ora fuori della cupola le membrane cominciano a cedere e a liberare un veleno, e circa quattro ore più tardi il soggetto muore… in maniera molto sgradevole. Suppongo fosse una piccola garanzia ulteriore contro eventuali fughe.

– Capisco – mormorò Miles, con un brivido, poi si schiarì la gola e aggiunse, in tono più deciso: – Capitano Thorne, registri una nota di merito… con i massimi onori… per il Comandante Elli Quinn e il Capitano Elena Bothari-Jasek. Il servizio segreto del nostro… datore di lavoro ignorava questo particolare, anzi pare che i dati da esso raccolti fossero carenti sotto numerosi aspetti. Dovrò parlare con i responsabili… e in tono deciso… quando presenterò il conto spese per quest'operazione. Prima di mettere via il paralizzatore, dottore, mi anestetizzi la mano, per favore – concluse, protendendo là destra perché il medico la esaminasse.

– Lo ha fatto di nuovo, vero? – borbottò il dottore. – Quando imparerà…

Un passaggio del paralizzatore medico fu sufficiente a far scomparire la consapevolezza della mano gonfia dalla sfera percettiva di Miles: soltanto i suoi occhi, adesso, gli garantivano che essa era ancora attaccata al braccio.

– Sì, ma chi ci ha assunti sarà disposto a pagare per l'ampliamento dell'operazione? – chiese ansiosamente Thorne. – Questa storia era cominciata come una rapida azione lampo per tirare fuori un solo uomo, proprio il genere di cose in cui si specializzano organizzazioni come la nostra… mentre adesso vi è impegnata l'intera flotta dendarii. Questi dannati prigionieri sono più numerosi di noi nella misura di due a uno, il che non era previsto nel contratto originale. E se il nostro perennemente misterioso datore di lavoro decidesse di non pagarci?

– Non lo farà, hai la mia parola – replicò Miles. – Però… non ci sono dubbi sul fatto che dovrò andare a presentare il conto di persona.

– Dio li aiuti, allora – borbottò il medico, poi si allontanò per continuare a liberare dai numeri i prigionieri in attesa.

Il Commodoro Ky Tung, un tozzo Euroasiatico di mezz'età in armatura parziale e con una cuffia di comunicazione di comando, si materializzò accanto a Miles mentre le prime navette cariche di prigionieri chiudevano i portelli e salivano stridendo attraverso la nebbia scura, decollando senza una formazione precisa a mano a mano che avevano ultimato il carico. Conoscendo la predilezione di Tung per le formazioni serrate e ordinate, Miles dedusse da questo che il tempo doveva essere il fattore limitante più pericoloso.

– Su cosa stiamo caricando quella gente, lassù? – chiese a Tung.

– Abbiamo sventrato un paio di navi da carico usate e adesso possiamo ficcare circa 5000 persone nella stiva di ciascuna. Il viaggio per andare via di qui sarà rapido e sgradevole, e quella gente dovrà stare distesa e respirare il meno possibile.

– Cosa stanno mettendo insieme i Cetagandani per darci la caccia?

– Per ora poco più delle navette della polizia locale. Si dà infatti il caso che la maggior parte del loro contingente spaziale militare locale si trovi adesso dalla parte opposta del loro sole, il che spiega perché abbiamo scelto proprio questo momento per arrivare… abbiamo dovuto aspettare che riprendessero le loro manovre pratiche, nel caso cominciassi a chiederti cosa ci tratteneva. In altre parole, abbiamo mantenuto il piano originale per prelevare il Colonnello Tremont.

– Soltanto che ora è stato espanso secondo un fattore di 10.000 teste… e che dovremo effettuare almeno quattro viaggi invece di uno, giusto? – replicò Miles.

– Sì, ma senti questa – sogghignò Tung. – I Cetagandani hanno piazzato il loro campo di prigionia su questo miserabile avamposto planetario al fine di non dover impiegare troppe truppe e apparecchiature per la sorveglianza… contavano sulla distanza da Marilac e sull'andamento negativo della guerra laggiù per scoraggiare eventuali tentativi di salvataggio. Nel periodo che tu hai trascorso nel campo, però, metà del loro originale complemento di guardie è stato trasferito in altri punti caldi. La metà!

– Facevano affidamento sulla cupola – completò Miles, al suo posto, poi aggiunse, in tono più sommesso: – E quali sono le cattive notizie?

– Questa volta – replicò Tung, il cui sorriso aveva assunto una sfumatura acida, – il nostro limite massimo di tempo è di due ore.

– Dannazione. La metà della loro flotta spaziale locale costituisce comunque un nemico troppo numeroso… e sarà di ritorno fra due ore?

– Adesso fra un'ora e quaranta minuti – lo corresse Tung, lanciando un'occhiata in tralice che tradì la posizione del suo orologio operativo, proiettato olograficamente dalla cuffia di comando in un angolo del suo campo visivo.

– Ce la faremo a prelevare l'ultimo carico? – domandò Miles a bassa voce, dopo aver effettuato mentalmente qualche calcolo.

– Dipende dalla rapidità con cui preleveremo i primi tre – rispose Tung, il cui volto era ancora più impassibile del solito e non tradiva né speranza né timore.

Il che a sua volta dipende dall'efficacia con cui io sono riuscito ad addestrarli tutti… Quel che era fatto era fatto e quel che sarebbe successo non era ancora avvenuto; con uno sforzo Miles riportò la propria attenzione sulle contingenze attuali.

– Avete già trovato Elli ed Elena? – chiese.

– Ci sono tre pattuglie che le stanno cercando.

Non le avevano ancora trovate… Miles sentì lo stomaco che gli si serrava.

– Non mi sarei mai sognato di espandere quest'operazione a metà del suo svolgimento se non avessi saputo che mi stavano tenendo sotto controllo e che sarebbero riuscite a tradurre in ordini i miei vaghi accenni.

– Li hanno tradotti nel modo giusto? – domandò Tung. – Abbiamo discusso in merito alla loro interpretazione dei tuoi discorsi a doppio senso riportati dai video.

– Li hanno interpretati benissimo – convenne Miles, guardandosi intorno. – Avete registrato dei video di tutto questo? – esclamò poi, abbracciando l'intero campo con un gesto stupito della mano.

– Abbiamo registrato quello che riguardava te, prelevando le immagini dai monitor dei Cetagandani… Elli ed Elena le trasmettevano quotidianamente, in codice. Molto… divertente, signore – concluse Tung, in tono blando.

Alcune persone, rifletté Miles, erano capaci di trovare divertente vedere qualcuno costretto a inghiottire lumache.

– Una cosa molto pericolosa – osservò ad alta voce. – Quando avete ricevuto la loro ultima comunicazione?

– Ieri – rispose Tung, affrettandosi a calare una mano sul braccio di Miles per bloccare un suo istintivo balzo in avanti. – Non puoi fare niente di meglio delle mie tre pattuglie, e non ne ho altre da impiegare per cercare te.

– Già, certo. – Miles picchiò il pugno destro sul palmo della sinistra in un gesto di frustrazione prima di ricordare che non era una buona idea. I suoi due agenti, il suo legame vitale fra la cupola e i Dendarii erano dispersi… e i Cetagandani avevano l'abitudine di fucilare le spie con deprimente costanza, in genere dopo un interrogatorio tale da rendere la morte una prospettiva piacevole… Cercò di trovare rassicurazione nella logica: se le due donne fossero state scoperte come tecnici di monitoraggio fasulli e fossero state interrogate, Tung sarebbe andato incontro ad un massacro quando avesse attaccato, e dal momento che non era successo era evidente che loro non erano state prese. Questo, naturalmente, non escludeva l'eventualità che fossero state uccise poco prima dal fuoco dei loro stessi amici. Amici… lui ne aveva troppi per rimanere sano di mente in quel suo folle mestiere.

– Tu! – Miles si rivolse al soldato che stava ancora aspettando con i suoi abiti, togliendoglieli di mano. – Va' laggiù e trova una ragazza dai capelli rossi che si chiama Beatrice e un uomo ferito di nome Suegar. Portali da me e trasporta il ferito con cautela, perché ha lesioni interne.

Il soldato salutò e si affrettò ad allontanarsi. Era un vero piacere poter dare di nuovo ordini senza doverli accompagnare con una giustificazione teologica… Miles si lasciò sfuggire un sospiro, sentendo lo sfinimento che attendeva di fagocitarlo e che si annidava al limitare della sua bolla di iperconsapevolezza alimentata dall'adrenalina; tutti i fattori… i tempi delle navette, l'avvicinarsi del nemico, la distanza fino al punto di balzo che avrebbe permesso la fuga… si formavano e riformavano nella sua mente in tutte le loro possibili combinazioni e le piccole variazioni nei tempi si trasformavano di volta in volta in guai enormi, ma del resto aveva saputo che sarebbe stato così quando aveva dato inizio al tutto. Fino a questo momento avevano già avuto un miracolo… no, non un miracolo, si corresse nel lanciare un'occhiata in direzione di Tung e di Thorne, ma qualcosa dovuto alla straordinaria intuitività e devozione dei suoi uomini. Ben fatto, oh, davvero ben fatto…

Thorne gli venne in aiuto notando la sua difficoltà a vestirsi con una mano sola.

– Dove diavolo è la mia cuffia di comando? – gli domandò Miles.

– Ci era stato detto che eri ferito e in uno stato di sfinimento, quindi eri stato catalogato fra coloro da evacuare subito.

– Dannatamente presuntuoso da parte di qualcuno… – cominciò Miles, ma poi si costrinse a tenere a freno la propria ira, perché sapeva che in quel programma così serrato non c'era tempo per piccole commissioni come quella di procurargli una cuffia. Inoltre, sapeva che se ne avesse avuta una sarebbe stato tentato di impartire degli ordini mentre non era ancora abbastanza informato sulle complessità interne dell'operazione dal punto di vista della flotta dendarii per poterlo fare. Accettò quindi senza ulteriori commenti la sua condizione di osservatore anche perché lo lasciava libero di fungere da retroguardia.

Il soldato da lui mandato a cercarla tornò con Beatrice e con quattro prigionieri reclutati per trasportare Suegar, che venne adagiato insieme alla sua stuoia ai piedi di Miles.

– Chiama il mio medico – ordinò questi e il soldato si allontanò di corsa per andarlo a cercare.

Di lì a poco il dottore era inginocchiato accanto al semisvenuto Suegar e gli stava estirpando i numeri stampati sulla schiena; un momento più tardi il sibilo di un'ipospray di synergina ebbe l'effetto di allentare la tensione che attanagliava lo stomaco di Miles.

– Quanto è grave? – chiese.

– Non è in buone condizioni – ammise il dottore, controllando il visore diagnostico. – Ha il fegato leso e un accenno di emorragia nello stomaco… sarà meglio mandarlo sull'ammiraglia per essere operato. Tecnico medico…

Il dottore si girò verso un Dendarii che insieme alle guardie stava aspettando il ritorno della sua navetta e gli impartì una serie di istruzioni in seguito alle quali il tecnico si affrettò ad avvolgere Suegar in una sottile pellicola termica.

– Provvederò io perché ci arrivi – garantì Miles con un brivido, e invidiò un poco la pellicola termica nel sentire la nebbia acida che gli gocciolava fra i capelli e gli penetrava nelle ossa.

In quel momento l'attenzione di Tung fu bruscamente assorbita da un messaggio proveniente dalla cuffia di comunicazione e Miles, che aveva restituito a Murka quella che gli aveva sottratto perché lui potesse portare avanti i suoi compiti, non poté fare altro che fissarlo dondolandosi da un piede all'altro nell'agonia dell'attesa.

Elena, Elli, se ho causato la vostra morte…

– Bene – disse infine Tung, nel suo microfono. – Ben fatto. Presentatevi a rapporto nel punto di prelevamento A7. – Cambiò quindi canale con un movimento del mento e aggiunse: – Sim, Nout, tornate con le vostre pattuglie alla posizione perimetrale assegnata alle vostre navette. Le hanno trovate.

Miles si ritrovò piegato in avanti, con la mano sana puntellata contro le ginocchia gelide in attesa che la mente gli si schiarisse e che il cuore smettesse di sussultare con violenza.

– Elli ed Elena? Stanno bene?

– Non hanno chiesto un medico… sei certo di non averne bisogno tu? Sei verde.

– Sto bene – garantì Miles, raddrizzandosi ora che il cuore gli si era calmato, e incontrando così lo sguardo interrogativo di Beatrice. – Beatrice, per favore, vorresti andare a cercare Tris e Oliver per me? Ho bisogno di parlare con loro prima che la prossima navetta di prelevamento decolli.

La ragazza scosse il capo con aria impotente e si girò di scatto, senza salutare ma senza neppure discutere i suoi ordini, cosa che assurdamente rallegrò Miles.

Intanto il frastuono imperversante intorno al perimetro della cupola si era ridotto all'occasionale sibilo di qualche arma di piccolo calibro, misto ad urla umane e a comandi amplificati; in lontananza si vedevano fuochi che ardevano e tingevano di bagliori fra il rosso e l'arancione il velo di nebbia soffocante. Quella non era certo stata un'operazione di una precisione chirurgica, e i Cetagandani si sarebbero infuriati notevolmente quando avrebbero contato le perdite, quindi il momento di andarsene era arrivato da un pezzo; nel seguire quelle riflessioni, Miles cercò di tenere a mente la questione del veleno nei numeri di serie come antidoto contro l'immagine di impiegati e tecnici cetagandani schiacciati sotto le macerie degli edifici in fiamme, ma quei due incubi parvero amplificarsi a vicenda anziché annullarsi reciprocamente.

Finalmente arrivarono Tris e Oliver, che avevano entrambi un aspetto un po' sconcertato, e Beatrice si fermò insieme a loro, alla destra di Tris.

– Congratulazioni – esordì Miles, prima che uno qualsiasi dei tre avesse il tempo di aprire bocca, perché aveva molte cose da dire e pochissimo tempo per farlo. – Siete riusciti ad ottenere un esercito.

Nel parlare, abbracciò con un cenno della mano le file ordinate di prigionieri… ex-prigionieri… raccolte nei diversi gruppi d'imbarco nei punti prestabiliti: tutti aspettavano con calma, i più seduti per terra… era disciplina, oppure erano stati i Cetagandani a instillare in loro una simile pazienza? Comunque non importava.

– Temporaneamente – replicò Tris. – Credo che questo sia soltanto un momento di pausa. Se però le cose dovessero scaldarsi, se una o più navette dovessero andare perdute o se qualcuno cedesse al panico, diffondendolo…

– Puoi dire a chiunque si senta propenso a cedere al panico che potrà imbarcarsi con me, se questo lo farà sentire meglio. Ah… è però opportuno che lo avverta anche del fatto che io salirò con l'ultimo carico – puntualizzò Miles.

Tung, che stava dividendo la propria attenzione fra la sua cuffia di comando e quella conversazione, ebbe una smorfia di esasperazione nel sentire quella notizia.

– Questo li tranquillizzerà – sorrise Oliver.

– O almeno darà loro qualcosa a cui pensare – concesse Tris.

– Ora io intendo dare a voi due qualcosa a cui pensare… la nuova resistenza di Marilac, e cioè voi – dichiarò Miles. – In origine, chi mi ha assunto mi aveva dato l'incarico di liberare il Colonnello Tremont perché potesse raccogliere un esercito e portare avanti la lotta, ma quando l'ho trovato morente ho dovuto decidere se seguire alla lettera il mio contratto e prelevare un individuo catatonico o addirittura un cadavere, oppure attenermi al suo spirito e prelevare un esercito. Ho scelto la seconda alternativa ed ho selezionato voi due: voi dovrete portare avanti il lavoro del Colonnello Tremont.

– Io ero soltanto un tenente – cominciò Tris, in tono inorridito, all'unisono con Oliver. – Sono una combattente, non un ufficiale di stato maggiore. Il Colonnello Tremont era un genio.

– E adesso voi siete i suoi eredi… perché lo dico io. Guardatevi intorno: forse che io commetto errori nello scegliere i miei subordinati?

– Sembra di no – borbottò Tris, dopo un momento di silenzio.

– Costruitevi uno stato maggiore, trovate i vostri geni della tattica, i vostri maghi della tecnica e metteteli a lavorare per voi. Però la spinta, le decisioni e la direzione da seguire dovranno giungere da voi, forgiate in questa fossa, perché sarete voi due a ricordare sempre questo posto e a ricordare cosa state facendo e perché… sempre.

– E quando schiereremo in campo questo nostro esercito, Fratello Miles? – commentò Oliver, in tono sommesso. – Il mio tempo si è esaurito durante l'assedio del Nucleo Fallow. Se fossi stato da qualsiasi altra parte sarei potuto andare a casa.

– Fino a quando l'esercito di occupazione cetagandano non avesse invaso la tua città.

– In ogni caso, le probabilità non sono molto buone.

– Le probabilità erano ancora più sfavorevoli per Barrayar, ai suoi tempi, e tuttavia i Barrayarani hanno scacciato i Cetagandani: ci sono voluti vent'anni e più sangue di quanto voi due ne abbiate visto in tutta la vostra vita, ma ce l'hanno fatta – ritorse Miles.

– Barrayar aveva quei folli guerrieri Vor – commentò in tono scettico Tris, che sembrava meno colpita di Oliver da quel paragone storico. – Pazzoidi che si precipitavano in battaglia e a cui piaceva la prospettiva di morire. Marilac però non ha quel tipo di tradizione culturale: noi siamo un popolo civile… o almeno lo eravamo, un tempo…

– Lascia che ti dica qualcosa sui Vor barrayarani – la interruppe Miles. – I pazzi che cercavano una morte gloriosa in battaglia l'hanno trovata molto presto, e questo è servito a ripulire la catena di comando dagli idioti che vi si erano accumulati. I superstiti sono stati quelli che hanno imparato a combattere in maniera sporca e a sopravvivere per combattere un altro giorno e per vincere… coloro per i quali né le comodità, né la sicurezza, né la famiglia, gli amici o la loro stessa anima immortale erano più importanti della vittoria. I morti sono perdenti per definizione, e ciò a cui si deve mirare sono la sopravvivenza e la vittoria. Quei Barrayarani non erano superuomini e non erano immuni alla sofferenza: hanno sudato e faticato in preda alla confusione e nell'oscurità ed hanno vinto, senza avere neppure la metà delle risorse fisiche che Marilac possiede ancora adesso. Quando si è un Vor – concluse, in tono più calmo, – non è possibile tirarsi indietro.

– Anche un esercito volontario patriottico deve mangiare – osservò Tris, dopo una pausa, – e non sconfiggeremo i Cetagandani a colpi di sputi.

– Riceverete aiuti finanziari e militari attraverso canali segreti che non passeranno per mio tramite… se ci sarà un Comando della Resistenza a cui farli pervenire.

Tris fissò Oliver negli occhi come per soppesarlo: adesso il fuoco presente in lei ardeva più vicino alla superficie di quanto Miles lo avesse mai visto, scorrendo lungo i suoi muscoli tesi.

– E pensare, sergente – commentò in tono quieto, mentre il sibilo della prima navetta di ritorno trapassava la nebbia, – che ritenevo di essere io l'atea e che fossi tu il credente. Allora, verrai con me… oppure intendi tirarti indietro?

Oliver incurvò un poco le spalle… sotto il peso della storia, non della sconfitta, come indicava il bagliore che gli ardeva negli occhi.

– Vengo – rispose con un grugnito.

– Come procedono le cose? – chiese allora Miles, intercettando lo sguardo di Tung.

Questi scosse il capo e sollevò alcune dita.

– Lassù hanno accumulato un ritardo di circa sei minuti nelle operazioni di scarico – replicò.

– Dunque – proseguì Miles, tornando a girarsi verso Tris ed Oliver, – voglio che risaliate entrambi con quest'ondata e su navette separate, imbarcandovi ciascuno su uno dei due trasporti. Una volta lassù, comincerete ad accelerare le operazioni di scarico della vostra gente. Il tenente Murka vi indicherà le navette a cui siete assegnati – concluse, indicando il tenente, che venne avanti e li portò entrambi con sé.

Beatrice indugiò però accanto a Miles.

– Io sono incline al panico – gli comunicò in tono distaccato, disegnando con il piede nudo cerchi concentrici nella polvere sempre più umida.

– Non ho più bisogno di una guardia del corpo – replicò Miles, con un sorriso, – ma forse mi servirebbe un custode…

Negli occhi di lei affiorò un sorriso che però non si estese alle labbra. Più tardi, si ripromise Miles, più tardi avrebbe fatto ridere quelle labbra.

La seconda ondata di navette cominciò a decollare mentre ancora quelle della prima ondata stavano atterrando e Miles pregò fra sé che tutte avessero i sensori in stato di perfetto funzionamento nell'incrociarsi in quella nebbia, perché da quel momento in avanti i tempi avrebbero potuto soltanto diventare ancora più serrati. Intanto la nebbia si stava trasformando in una gelida pioggia che sferzava la pelle come aghi d'argento.

Adesso il punto focale dell'operazione si andava restringendo rapidamente, ridotto com'era ad una questione di macchine, di numeri e di tempi più che di fedeltà, di anime e di spaventosi obblighi; pensando che una mente patologica dal punto di vista emotivo, del tutto priva di amore e di paura, avrebbe perfino potuto definirla divertente, Miles prese a tracciare nella polvere con la mano sinistra numeri relativi alle persone trasportate, in transito e da prelevare… ma il terreno polveroso era ormai ridotto ad un nero fango appiccicaticcio che non conservava a lungo i suoi segni.

– Dannazione – sibilò improvvisamente Tung, mentre l'aria davanti alla sua faccia si faceva indistinta per il rapido susseguirsi di informazioni proiettate olograficamente che i suoi occhi seguivano con la velocità derivante dalla pratica; al tempo stesso, la mano destra del commodoro si contraeva e si serrava come se lui fosse stato tentato di strapparsi dalla testa la cuffia e di calpestarla per dare sfogo alla propria frustrazione. – Questo taglia la testa al toro: abbiamo appena perso due navette nel corso della seconda ondata.

Quali navette? urlò la mente di Miles. Oliver? Tris?

– In che modo? – si costrinse però a chiedere innanzitutto. Giuro che se sono andate a sbattere una contro l'altra andrò a cercare un muro per picchiarvi contro la testa fino a stordirmi…

– Una navetta da combattimento cetagandana ha infranto il nostro cordone. Il suo obiettivo erano le navi da trasporto, ma per fortuna l'abbiamo bloccata in tempo… o quasi.

– Hai l'identificazione delle due navette distrutte? Erano a pieno carico o stavano tornando qui?

– A-4 a pieno carico – rispose Tung, ripetendo le informazioni che gli venivano fornite, – B-7 di ritorno vuota. Perdita totale del carico, nessun superstite. La navetta da combattimento 5 della Triumph è stata danneggiata dal fuoco nemico e il recupero del pilota è ancora in corso.

Non aveva perso i suoi due comandanti: i successori del Colonnello Tremont, che lui aveva scelto e allevato con tanta cura erano al sicuro. Nel riaprire gli occhi, che aveva serrato per l'angoscia, Miles si accorse che Beatrice… per la quale i numeri di identificazione delle navette non avevano nessun significato… stava aspettando con ansia una sua decifrazione.

– Duecento morti? – sussurrò la ragazza.

– Duecentosei – la corresse Miles, mentre i volti, i nomi e le voci dei sei Dendarii in questione gli affioravano nella memoria. Anche i 200 passeggeri dovevano aver avuto un volto, ma lui si rifiutò di pensarvi per non creare nella propria mente un pericoloso sovraccarico emotivo.

– Sono cose che succedono – mormorò ancora Beatrice, in tono stordito.

– Stai bene?

– È ovvio che sto bene. Sono cose che succedono, inevitabili, e non sono una piagnucolosa mezza cartuccia che si terrorizza sotto il fuoco del nemico. – La ragazza sbatté in fretta le palpebre e sollevò il mento di scatto. – Dammi… qualcosa da fare. Qualsiasi cosa.

In fretta, aggiunse tacitamente Miles, al suo posto. D'accordo.

– Raggiungi Pel e Liant – disse, indicando la parte opposta del campo, – dividi i loro restanti gruppi in blocchi di trentatré e aggiungili ai gruppi previsti per la terza ondata, che dovrà salire in sovraccarico, poi torna da me a fare rapporto. Va', presto, perché gli altri saranno di ritorno entro pochi minuti.

– Sissignore – rispose Beatrice, eseguendo un saluto… per se stessa, non per lui: ordine, struttura, razionalità erano adesso una corda di salvataggio. Miles ricambiò il saluto con espressione grave.

– Le navette erano già sovraccariche – protestò Tung, non appena la ragazza fu fuori portata di udito. – Con duecentotrentatré persone stipate a bordo voleranno con la leggerezza di altrettanti mattoni, senza contare che ci vorrà più tempo per caricare qui e per scaricare in orbita.

– Sì. Dio… – Miles rinunciò infine a cercare di tracciare numeri nella fanghiglia: – Analizza queste cifre al computer per me, Ky, perché in questo momento non mi fido di riuscire a sommare in maniera esatta neppure due più due. Quanto saremo in ritardo quando il grosso delle truppe cetagandane arriverà a portata di tiro? Per favore, dammi la valutazione più precisa possibile, senza addolcire la pillola.

Tung borbottò qualcosa nella propria cuffia, scandendo numeri, margini, tempi mentre Miles seguiva ogni dettaglio con l'intensa attenzione di un predatore.

– Alla fine della terza ondata – annunciò infine Tung, con brusca franchezza, – cinque navette staranno ancora aspettando di scaricare quando il fuoco dei Cetagandani comincerà a friggerci.

Mille uomini e donne…

– Signore, posso rispettosamente suggerire che è arrivato il momento di ridurre il più possibile le nostre perdite? – aggiunse l'Eurasiatico.

– Puoi suggerirlo, commodoro.

– Alternativa numero uno, che è anche la più efficiente: utilizzare soltanto sette navette per l'ultima ondata e lasciare a terra i prigionieri da caricare nelle ultime cinque. Saranno ricatturati ma almeno saranno vivi.

La voce di Tung assunse una sfumatura più suadente nel pronunciare quell'ultima frase.

– C'è un solo problema, Ky, e cioè che io non voglio restare qui.

– Potresti sempre risalire con l'ultima navetta, proprio come hai detto. A proposito, signore, ho già fatto notare che a mio parere questa decisione è stata una stupida smargiassata?

– Le tue sopracciglia lo hanno detto con estrema eloquenza, poco fa, e sebbene possa sentirmi incline ad essere d'accordo con te… ti sei accorto dell'attenzione con cui i prigionieri rimasti mi stanno fissando? Hai mai visto un gatto dare la caccia ad un grillo?

Nel rilevare il fenomeno che Miles aveva appena descritto Tung si agitò, a disagio.

– Non mi va' l'idea di dover abbattere gli ultimi mille prigionieri per poter far decollare la mia navetta – aggiunse questi.

– Con lo schema di volo irregolare che stiamo tenendo potrebbero rendersi conto che non arriveranno altre navette soltanto dopo che la tua sarà già decollata.

– Quindi dovremmo semplicemente lasciarli là ad aspettarci? – Le pecore guardano verso l'alto, ma non vengono sfamate. ..

– Esatto.

– Ti piace quest'alternativa, Ky?

– Mi fa venire voglia di vomitare, ma… considera gli altri 9000, e la flotta dendarii. L'idea che tutti noi potremmo fare la fine del topo a causa del tuo sforzo condannato in partenza di prelevare tutti questi tuoi… miserabili peccatori mi dà una nausea ancora maggiore. I nove decimi di una pagnotta sono molto meglio che niente.

– Ho afferrato il punto, ma ora ti prego di passare all'alternativa numero due. Il volo di uscita dall'orbita è calcolato sulla base della velocità della nave più lenta, che è…

– Sono i trasporti.

– E la Triumph è sempre la più veloce?

– Ci puoi scommettere – confermò Tung, che un tempo era stato capitano della Triumph.

– Ed è anche la nave meglio corazzata.

– Sì, e allora? – chiese Tung. In effetti aveva capito benissimo dove Miles intendesse andare a parare e quella sua apparente ottusità era soltanto un modo per recalcitrare.

– E allora le prime sette navette dell'ultima ondata si agganceranno ai trasporti e partiranno in orario, poi richiameremo a bordo cinque piloti combattenti della Triumph e distruggeremo le loro navette… dopo tutto una è già danneggiata, giusto? Le ultime cinque navette da trasporto si agganceranno alla Triumph al posto di quelle da combattimento e gli schermi a piena potenza della nave le proteggeranno dal fuoco dei Cetagandani in arrivo. A quel punto ammucchieremo i prigionieri nei corridoi della nave, chiuderemo i portelli delle navette e taglieremo la corda alla massima velocità.

– La massa aggiuntiva di altre mille persone…

– Sarà sempre minore di quella di un paio di navette da trasporto. Se sarà necessario scaricheremo e distruggeremo anche quelle per rientrare nella finestra di massa/accelerazione.

– … manderà in sovraccarico i sistemi di supporto vitale…

– L'ossigeno di emergenza ci permetterà di arrivare al punto di balzo, e dopo aver effettuato il Balzo potremo distribuire i prigionieri sulle altre navi con tutta comodità.

– Quelle navette da trasporto sono nuove di zecca - fece notare Tung, in tono angosciato. – E le navette da combattimento… cinque navette… ti rendi conto di quanto sarà difficile raccogliere i fondi per rimpiazzarle? Si tratta di…

– Ti ho chiesto di calcolare i tempi, Ky, non di presentare un conto spese e danni – lo interruppe Miles, a denti stretti, poi aggiunse in tono più sommesso: – Aggiungerò quei costi al conto per i servigi che abbiamo reso.

– Hai mai sentito parlare di costi eccessivi, ragazzo? Così farai… – Cominciò Tung, poi s'interruppe e concentrò di nuovo la propria attenzione sulla cuffia, che costituiva una estensione della sala tattica a bordo della Triumph.

Alcuni calcoli furono effettuati, nuovi ordini vennero impartiti ed eseguiti.

– Dovrebbe funzionare – annunciò infine Tung, con un sospiro. – Ci permetterà di guadagnare quindici minuti dannatamente costosi. Se niente altro andrà storto…

L'Eurasiatico concluse la frase con un borbottio indistinto e frustrato, seccato quanto lo stesso Miles per la propria incapacità di essere contemporaneamente in tre posti distinti.

– Ecco che torna la mia navetta – commentò dopo un po', e lanciò a Miles un'occhiata da cui si capiva con chiarezza la sua riluttanza a lasciarlo abbandonato a se stesso, come anche il suo impaziente desiderio di allontanarsi dalla pioggia acida, dal fango e dal buio per avvicinarsi maggiormente al centro nevralgico di quell'operazione.

– Vattene – lo incitò Miles. – In ogni caso non potresti compiere il tragitto con me, perché è contrario alle procedure.

– Al diavolo le procedure – ribatté Tung, cupo.

Con il decollo della terza ondata a terra rimasero appena 2000 prigionieri e il frenetico vortice d'attività iniziale cominciò a scemare: adesso le pattuglie in armatura da combattimento si stavano ritirando dalla loro penetrazione nelle circostanti installazioni cetagandane per tornare ai punti previsti per l'atterraggio delle rispettive navette, e questo costituiva un pericoloso mutare della marea, nell'eventualità che qualche ufficiale cetagandano superstite fosse riuscito a mettere insieme un'organizzazione sufficiente a rendere difficile la loro ritirata.

– Ci vediamo a bordo della Triumph - dichiarò Tung, con enfasi, poi si soffermò a parlare con il Tenente Murka fuori della portata di udito di Miles, che esibì un sorriso comprensivo nei confronti del tenente già carico di responsabilità, perché non nutriva il minimo dubbio in merito agli ordini che adesso Tung gli stava impartendo. Se non fosse riuscito a portare con sé Miles sano e salvo, probabilmente Murka avrebbe fatto meglio a non provare neppure a tornare indietro.

Adesso non restava più niente altro che un'ultima, breve attesa… attendere dopo tutta quella fretta. Miles si accorse ben presto che aspettare aveva un effetto deleterio su di lui perché permetteva all'adrenalina prodotta dal suo organismo di disperdersi, dandogli modo di avvertire quanto fosse effettivamente stanco e dolorante. Intorno, i bagliori che rischiaravano il buio si stavano riducendo a vaghi chiarori rossastri.

In effetti l'intervallo di tempo che passò fra il dissolversi dell'affaticato rombo dell'ultima navetta della terza ondata che lasciava il suolo e l'echeggiare del sibilo stridente della prima navetta della quarta ondata che tornava indietro fu molto breve, anche se purtroppo questo dipese più dal fatto che erano nei guai che da una calcolata rapidità di manovra. A terra, i prigionieri aspettavano ancora suddivisi nelle squadre studiate per la distribuzione del cibo e conservavano la disciplina, ma naturalmente nessuno aveva spiegato loro il piccolo problema di tempi a cui si trovavano di fronte, anche se i nervosi soldati dendarii che li spingevano su per le rampe li obbligavano a tenere un passo adeguato alle esigenze di Miles. Del resto, quello di restare alla retroguardia non era mai un incarico popolare, neppure fra quella minoranza di lunatici che segnavano tacche sul calcio delle loro armi e ridacchiavano nel discutere fra loro di modi nuovi e più grotteschi per fare a pezzi i nemici.

Miles vide Suegar che veniva portato per primo su per la rampa in stato di semincoscienza, e calcolò che imbarcandosi con lui su questa navetta diretta Suegar sarebbe in effetti arrivato all'infermeria della Triumph prima di come vi sarebbe giunto se fosse stato inviato in precedenza su uno dei due trasporti per poi essere trasferito sull'ammiraglia in un momento meno rischioso.

L'arena che stavano per lasciare si era fatta intanto silenziosa e buia, bagnata, spettrale e triste. Infrangerò le porte dell'inferno e risusciterò i morti… c'era qualcosa di sbagliato nel modo in cui aveva ricordato quella citazione, ma non aveva importanza.

La pattuglia in tuta corazzata di questa navetta, l'ultima, emerse dal buio e dalla nebbia richiamata da un segnale elettronico di Murka come un branco di cani da pastore; il tenente era fermo ai piedi della rampa per fungere da collegamento fra la pattuglia e il pilota, che stava esprimendo la propria impazienza di decollare con piccoli sibili acuti dei motori.

Poi dall'oscurità scaturirono scariche al plasma che sfrigolarono nell'aria intrisa di pioggia. Qualche eroe cetagandano… un ufficiale, un soldato, un tecnico, chi poteva dirlo?… era strisciato fuori delle macerie ed aveva trovato un'arma… e un nemico contro cui usarla. Schegge di bagliori rossi e verdi continuarono a danzare per qualche secondo sulla retina di Miles, mentre un soldato dendarii rotolava fuori dal buio con il dorso dell'armatura segnato da una linea incandescente che continuò a sfrigolare e a fumare fino a quando non fu estinta dal contatto con il fango. Le gambe della corazza erano però state danneggiate e l'uomo rimase a contorcersi al suolo come un pesce in secca nel frenetico sforzo di liberarsene; intanto una seconda e mal diretta scarica di plasma trasformò qualche chilometro di nebbia e di pioggia in vapore surriscaldato lungo una linea retta che si perdeva in un ignoto infinito.

Proprio ciò di cui avevano bisogno… essere bloccati adesso dal fuoco di un cecchino. Un paio di Dendarii della retroguardia si avviarono per rientrare nella nebbia ed un prigioniero eccitato… oh, Dio, si trattava di nuovo del luogotenente di Pitt… afferrò l'arma del soldato bloccato dalla corazza danneggiata e accennò a seguirli.

– No, razza di idiota, tornerai un'altra volta quando verrà il tuo momento di combattere! – gridò Miles, dirigendosi verso Murka. – Indietreggiate, caricate e decollate! Non vi fermate a combattere, non ce n'è il tempo!

Alcuni fra gli ultimi prigionieri si erano gettati proni al suolo appiattendosi nel fango, una reazione logica e sensata in qualsiasi altra circostanza ma non ora, e Miles prese a correre in mezzo a loro assestando pacche sul posteriore per farli sollevare.

– Salite a bordo, su per la rampa, avanti, avanti!

Beatrice saltò fuori dal nulla e si mise ad imitarlo, sospingendo i compagni davanti a sé, mentre Miles si arrestava accanto al Dendarii caduto e gli apriva con la sinistra gli agganci dell'armatura; il soldato si liberò scalciando della protezione che quasi gli era stata fatale e si sollevò in piedi, zoppicando in direzione della sicurezza della navetta con Miles che lo seguiva da presso.

Murka e un altro soldato attendevano ai piedi della scaletta.

– Tenetevi pronti a sollevare la rampa e a decollare al mio segnale – cominciò Murka, rivolto al pilota della navetta. – Pronti…

Le sue parole furono troncate e soffocate dallo schiocco esplosivo di un raggio al plasma che gli attraversò il collo; Miles, che era fermo accanto al tenente, ne poté sentire il calore che passava a qualche centimetro dalla sua testa.

Il corpo di Murka cominciò ad accasciarsi e Miles lo schivò, indugiando il tempo necessario a sfilargli la cuffia di comunicazione… a cui però rimase attaccata anche la testa, cosa che lo costrinse a bloccarla con il braccio leso e anestetizzato per poter liberare la cuffia. Il peso, la rotondità e la densità di quella testa furono informazioni che gli martellarono i sensi e nel lasciarla cadere accanto al corpo del tenente lui seppe che le avrebbe ricordate con precisione fino al giorno della sua morte.

Barcollando risalì la rampa, aiutato da un ultimo Dendarii in armatura che lo tirò per un braccio, e nel percorrerla la sentì infossarsi in modo strano sotto i suoi piedi; questo lo indusse a lanciare un'occhiata verso l'alto e verso la striscia di metallo semifuso lasciata dall'arco al plasma che aveva ucciso Murka e poi proseguito la sua corsa fino a quel punto.

Infine si lasciò cadere oltre il portello, tenendo stretta la cuffia e urlando ordini in essa.

– Decollare! Decollare! Decollo immediato! Andiamo!

– Chi parla? – domandò di rimando la voce del pilota.

– Naismith.

– Sì, signore.

La navetta si sollevò pesantemente da terra fra il ruggire dei motori prima ancora che la rampa venisse ritirata; intanto il meccanismo che doveva richiuderla cominciò ad operare faticosamente fra uno stridere di metallo e di plastica… soltanto per bloccarsi all'altezza della contorta linea lasciata dall'arco al plasma.

– Sigillate quel portello laggiù! – ululò la voce del pilota, attraverso la cuffia di comunicazione.

– La rampa è bloccata! – gridò Miles, di rimando. – Bisogna sganciarla!

Il meccanismo lanciò acuti stridii nell'operare in senso inverso, la rampa vibrò e tornò a bloccarsi, mentre parecchie mani si protendevano a picchiare freneticamente contro di essa.

– In quel modo non ce la farete mai! – gridò Beatrice, che si trovava dalla parte opposta del portello rispetto a Miles, e si girò in modo da poter scalciare con entrambi i piedi nudi, incurante del vento di corsa che penetrava dall'apertura e che faceva vibrare e ondeggiare la navetta come una bottiglia sulla cui sommità un gigante stesse soffiando con forza.

Fra un coro di grida, di imprecazioni e di colpi la navetta s'inclinò con improvvisa violenza su un fianco, facendo scivolare sul ponte uomini, donne e tutti i pezzi d'equipaggiamento non fissati. In quel momento un ennesimo calcio assestato da Beatrice con i piedi ormai sanguinanti ebbe ragione di un ultimo bullone distorto: la rampa finalmente si staccò, ma Beatrice scivolò e cadde nel vuoto con essa.

Miles si tuffò di traverso verso di lei, ma non seppe mai se riuscì anche soltanto a sfiorarla, perché la sua mano destra era una massa priva di sensibilità: ciò che vide fu soltanto la bianca chiazza indistinta del volto di lei che svaniva nell'oscurità sottostante.

Nella sua mente parve calare un profondo silenzio: anche se il ruggito del vento e dei motori e il frastuono di urla e di imprecazioni non erano diminuiti di intensità, quel rumore si perdeva in un punto imprecisato del tragitto dagli orecchi al cervello, che non lo registrava e che riusciva a vedere soltanto una chiazza bianca fagocitata dal buio… un'immagine che continuava a ripetersi come un video entrato in loop.

Si ritrovò accoccolato sulle mani e sulle ginocchia a causa dell'accelerazione della navetta che lo stava premendo contro il ponte; qualcuno era riuscito a chiudere il portello e il semplice vociare umano sembrava flebile e insignificante adesso che gli dèi erano stati messi a tacere. Sollevando lo sguardo scorse il volto pallido del luogotenente di Pitt, che era accoccolato accanto a lui e stringeva ancora in pugno l'arma dendarii che aveva raccolto in quella che sembrava un'altra vita.

– Farai bene ad uccidere un mucchio di Cetagandani per Marilac, ragazzo – gli disse dopo un momento, con voce rauca. – E mi auguro che tu dimostri di valere qualcosa per qualcuno, perché di certo ho pagato un prezzo troppo alto per te.

L'uomo contrasse il volto in una smorfia incerta, troppo intimorito anche per apparire contrito, e Miles si chiese quale espressione dovesse avere la propria faccia… di certo era strana, molto strana, a giudicare da quella reazione.

Cominciò quindi a strisciare verso prua, alla ricerca di qualcosa, di qualcuno, ignorando le scie gialle prodotte negli angoli del suo campo visivo da lampi informi, finché una Dendarii in armatura ma priva di elmo lo tirò in piedi.

– Signore, non sarebbe meglio se venisse a prua nello scomparto di pilotaggio?

– Sì, d'accordo…

La donna gli passò un braccio sotto l'ascella per evitare che cadesse di nuovo e insieme si mossero verso prua nella navetta affollata da un misto di prigionieri di Marilac e di Dendarii… ogni volto che incrociavano si girava a guardarlo con espressione spaventata, ma nessuno osò dire nulla. Quando erano ormai quasi a prua, l'attenzione di Miles fu però attratta da una sorta di bozzolo argenteo.

– Aspetta… – disse, e si lasciò cadere in ginocchio con un barlume di speranza, chiamando: – Suegar? Ehi, Suegar!

Suegar aprì gli occhi appena di una fessura; era impossibile stabilire fino a che punto fosse consapevole di quello che stava succedendo, a causa dell'effetto combinato dei medicinali, dello shock e del dolore.

– Adesso sei in cammino. Ce l'abbiamo fatta, nei tempi previsti e con facilità. Con agilità e rapidità, su attraverso le regioni dell'aria, più in alto delle nuvole. Avevi interpretato le scritture nel modo giusto.

Le labbra di Suegar si mossero, e Miles si chinò maggiormente per sentire.

– … non erano vere scritture – sussurrò Suegar. – Io lo sapevo… tu lo sapevi… non mi prendere in giro…

Miles rimase in silenzio per un momento, colto alla sprovvista, poi tornò a chinarsi in avanti.

– No, fratello – sussurrò di rimando, – perché anche se siamo entrati nel fiume vestiti, di certo ne siamo usciti nudi.

Dalle labbra di Suegar scaturì una rauca risata. Miles si concesse di piangere soltanto dopo che ebbero effettuato il Balzo.

PARTE QUARTA

Illyan sedeva in silenzio.

Miles si lasciò ricadere all'indietro, pallido e sfinito, con uno stupido tremito interiore che gli faceva vibrare la voce.

– Mi dispiace, credevo di aver superato ogni cosa. Da allora sono successe tante assurde follie che non ho avuto il tempo di riflettere e di assimilare…

– Stanchezza da combattimento – suggerì Illyan.

– Il combattimento è durato soltanto un paio d'ore.

– Davvero? Da quel resoconto credevo si fosse trattato di sei settimane.

– Comunque sia. Se però il Conte Vorvolk volesse sostenere che avrei dovuto barattare delle vite umane con delle attrezzature… avevo forse cinque minuti per prendere una decisione, e per di più sotto il fuoco nemico, ma se anche avessi avuto a disposizione un mese di tempo sarei arrivato alla stessa conclusione. Di conseguenza sono disposto a sostenere le mie azioni, davanti ad una corte marziale o in qualsiasi dannata arena in cui lui mi voglia affrontare.

– Calmati – consigliò Illyan. – Mi occuperò io di Vorvolk e dei suoi consiglieri nascosti. Credo… no, ti garantisco che il loro piccolo complotto non turberà ulteriormente la tua convalescenza, Tenente Vorkosigan – concluse, con un bagliore nello sguardo.

Nel guardarlo, Miles ricordò a se stesso che Illyan prestava servizio da trent'anni nella Sicurezza Imperiale: il cane da guardia di Aral Vorkosigan aveva ancora i suoi denti aguzzi.

– Mi dispiace se la mia… negligenza ha scosso la fiducia che aveva in me, signore – aggiunse. Quella infertagli dal dubbio era infatti una strana ferita che poteva avvertire ancora come un invisibile dolore al petto, lento a guarire. Quindi la fiducia era un loop infinito, più di quanto si fosse mai reso conto. Illyan aveva forse ragione nel sostenere che lui avrebbe dovuto dare maggiore importanza alle apparenze? – In futuro cercherò di essere più intelligente.

Illyan gli indirizzò un'occhiata indecifrabile, con le labbra strette e uno strano rossore sul collo.

– Anch'io, tenente – rispose soltanto.

In quel momento la porta scivolò di lato e ci fu un frusciare di gonne. La Contessa Vorkosigan, una donna alta dai capelli rossi, con un passo deciso e ampio che non si era mai veramente adattato alla moda femminile barrayarana, sfoggiava le lunghe e ricche gonne di una matrona della classe Vor con la noncuranza di una bambina che giocasse a travestirsi, e in maniera altrettanto convincente.

– Signora – salutò Illyan, alzandosi in piedi.

– Salve Simon, e arrivederci – rispose lei, sorridendo. – Il dottore che hai spaventato mi prega di usare la mia superiore autorità per buttarti fuori di qui. So che voi ufficiali e gentiluomini avete degli affari da sbrigare, ma adesso è ora di accantonarli, o almeno così indicano i monitor medici.

La contessa guardò in direzione di Miles e un'espressione accigliata affiorò per un momento sotto la facciata disinvolta, rivelando l'acciaio sottostante.

Anche Illyan lo notò e si affrettò ad inchinarsi.

– Abbiamo finito, signora, quindi non ci sono problemi – garantì.

– Lo spero – replicò la contessa, alzando con decisione il mento e seguendolo con lo sguardo mentre se ne andava.

Nell'osservare quel profilo nitido, Miles comprese con una fitta improvvisa perché la morte di una certa alta e aggressiva ragazza dai capelli rossi gli stesse ancora lacerando l'anima anche dopo che si era riconciliato con le altre perdite di cui era stato in pari misura responsabile.

Ah! Con quanto ritardo riusciamo a vedere in noi stessi, e con quanta inutilità, si disse, e tuttavia la tensione che gli serrava la gola si allentò quando la Contessa Vorkosigan si girò verso di lui.

– Sembri un cadavere scongelato, mio caro – commentò lei, sfiorandogli la fronte con le labbra.

– Grazie, mamma – trillò Miles.

– Il Comandante Quinn, quella simpatica ragazza che ti ha accompagnato qui, mi ha detto che ultimamente non hai mangiato come si deve… tanto per cambiare.

– Dov'è Elli? – domandò Miles, rasserenandosi. – Posso vederla?

– Non è qui: è stata esclusa dalle aree di sicurezza, nella fattispecie quest'Ospedale Militare Imperiale, con la scusa che appartiene a personale militare straniero. Barrayarani! – Quella era l'imprecazione preferita del Capitano Cordelia Naismith (dell'Esplorazione Astronomica Betana, ora in pensione) e poteva essere pronunciata con una molteplicità di inflessioni diverse a seconda dell'occasione… in questo caso si trattava di esasperazione. – L'ho fatta accompagnare a Casa Vorkosigan perché aspettasse lì che ti dimettessero.

– Grazie… devo molto a Elli.

– Mi è parso di dedurlo – sorrise Cordelia. – Potrai essere al lago lungo tre ore dopo che avrai persuaso i dottori a dimetterti da questo luogo deprimente. Ho invitato il Comandante Quinn a venire con noi… ecco, ero certa che questo ti avrebbe indotto a concentrarti con maggiore serietà sulla tua convalescenza.

– Sì, signora - assentì Miles, scivolando più in basso fra le coltri. Adesso le braccia cominciavano a riacquisire la capacità di avvertire sensazioni, e sfortunatamente la sensazione in questione era il dolore… ma era sempre meglio che non provarne nessuna, si disse con un pallido sorriso.

– Faremo a turno a nutrirti e a viziarti – stava proseguendo sua madre. – E… mi potrai parlare della Terra.

– Ah… sì. Ho molte cose da dirti riguardo alla Terra.

– Allora riposa.

Un altro bacio, e fu di nuovo solo.

FINE