Nella solitudine della stanza in cui egli si ritrovava, la sua avventura allucinante gli stava passando davanti agli occhi. Si era sentito un altro, quel mattino, svegliandosi, quando aveva visto sul davanzale quel gatto stranissimo dal mantello di un verde smeraldo. La fuga del gatto, la visita allo psichiatra erano venute dopo; e poi, via via di seguito tutti gli altri fatti strani. Allucinazioni, sì. Ma qualcosa di vero sarebbe rimasto. Lo sdoppiamento del suo io sarebbe arrivato a qualcosa di concreto: una essenza di vita più buona, un mondo migliore in cui avrebbero agito una creatura di un altro mondo e una interminabile teoria di gatti dai mantelli tutti verdi.

Fritz Leiber

Il verde millennio

1

Phil Gish si svegliò di ottimo umore, come se tutta la sua vita precedente fosse appartenuta ad altre due persone (poveri disgraziati!).

Di solito balzava fuori dal letto come una molla e infilava in un baleno mutande e calze, mentre cercava freneticamente il barattolo della crema da barba. Ma questa volta riuscì a dominare i suoi impulsi nervosi e a tenere gli occhi chiusi. Voleva gustare fino in fondo questa sensazione che si sentiva dentro, del tutto sconosciuta e così intensa da non poterla spartire neppure con gli annunci pubblicitari che coprivano le pareti del suo piccolo appartamento di scapolo.

Era semplicemente meraviglioso, decise dopo un po’. Straordinariamente, assurdamente meraviglioso!

Era come se quello non fosse più il mondo in cui da cinquant’anni scoppiavano improvvise, l’una dopo l’altra, guerre calde e fredde; in cui il Federal Bureau of Loyalty e la Divertimenti SpA governavano gli USA in nome di quel contadino ubriacone e bigotto del Presidente Robert T. Barnes, e in cui (secondo Radioluna Rossa, il satellite d’informazioni del Cremlino) si stava prendendo in considerazione un nuovo piano per lo scambio dei discendenti dei prigionieri fatti nella guerra di Corea, mezzo secolo prima. Come se lui, Phil Gish, non fosse un povero diavolo che quella mattina, alle otto, aveva preso quattro pillole di sonnifero nella speranza di dimenticare, almeno per un po’, di avere perso di nuovo il posto perché c’era un robot che faceva il suo lavoro cinque volte più rapidamente e due volte più accuratamente di lui; cosa che lo aveva fatto andare in bestia, con l’unico risultato di ottenere il freddo consiglio di rivolgersi a uno psichiatra.

Fece un profondo e voluttuoso respiro. Anche l’aria aveva un sapore diverso, come se contenesse qualche meraviglioso composto che allontanava le preoccupazioni.

Aprì gli occhi e si osservò il petto pallido, e i due peli solitari, beffarde memorie di un glorioso passato scimmiesco. Ma questa volta il termine che gli venne in mente non fu “magro”, ma “snello”. Decise che tutto sommato il suo corpo gli piaceva; solido, ben fatto, anche se non proprio muscoloso. Sbadigliò, si stirò, si grattò vicino ai due peli e si guardò intorno. Il gatto verde era seduto sul davanzale della grande finestra rotonda e gli sorrideva.

— Ehi, sto sognando?

Il suono stesso della sua voce un po’ rauca, come sempre al mattino, rispose alla sua domanda.

“Non sarò mica ammattito sul serio?” Questa seconda domanda, espressa senza parole, venne subito accantonata. Si sentiva troppo bene per preoccuparsi. Se questa era pazzia, allora evviva la paranoia!

E poi, ci potevano essere innumerevoli spiegazioni naturali per il colore un po’ insolito del gatto. Solamente il giorno prima aveva visto una giovane signora che portava a spasso due barboncini rosa. Uno sprazzo di quello che poteva nascondere sotto il soprabito, un topless forse, lo aveva spinto a passarle vicino, e così aveva sentito che diceva al suo accompagnatore: «Non sono tinti, sciocco, sono mutanti!»

Inoltre, non c’erano forse degli animali verdi, come il bradipo? Però gli pareva di ricordare che la tinta del bradipo fosse dovuta a un fungo o a una muffa, mentre certamente non c’era alcuna traccia di muffa sulla pelliccia lucida dell’animale dall’aria benevola che sedeva sul davanzale.

— Ciao Lucky — disse sottovoce. Fin dal primo istante aveva deciso che doveva esserci un nesso fra il gatto e il suo nuovo incredibile stato di benessere. Se doveva iniziare una nuova èra nella sua vita, non ci sarebbe stato male un simbolo: un simbolo verde come la primavera. Almeno così gli sembrava.

— Vieni, Lucky — chiamò, senza alzare la testa dal morbido cuscino. — Vieni, micio — ripeté sentendosi un po’ sciocco.

Ma non ci fu bisogno di pregarlo di più. Il gatto saltò subito giù dal davanzale e trotterellò verso di lui, la pancia ondeggiante, come un piccolo cavallo grasso dai morbidi zoccoli. Phil sentì che la sua calma interiore cresceva in modo quasi sconvolgente. Il gatto sparì dietro il bordo del letto. Poi apparve il musetto verde, due piccole zampine verdi gli si posarono accanto, e due occhi color rame lo scrutarono.

— Come va, amico? — chiese Phil. — Felice di fare la tua conoscenza. Sei proprio un bel tipo, sai? Da dove arrivi?

Il musetto fece segno verso l’alto.

— Dal piano di sopra? — chiese Phil, e subito rise fra sé per aver interpretato il movimento come una risposta. — Perché non stai un po’ con me? Mi piace il tuo musetto e il tuo colore. Anch’io ogni tanto avrei voglia di essere verde. Tanto per cambiare.

Il muso del gatto era strano e curiosamente attraente: grandi orecchie, la fronte alta, il nasino quasi nascosto fra il pelo, e i baffi appena accennati, la bocca atteggiata in una smorfia imbronciata. Per un attimo Phil ebbe la sensazione che Lucky sarebbe potuto apparire molto diverso, molto meno simile a un gatto, se preso alla sprovvista. Era di un verde intenso, quasi verderame, solo più brillante.

Si chiese di che sesso potesse essere. Il grasso della pancia suggeriva che si trattasse di una femmina, eppure, per qualche ragione, Phil era sicuro che fosse un maschio.

Poi Lucky sorrise di nuovo, e Phil non ci pensò più. Allungò cautamente una mano, ma la ritrasse di scatto quando una zampina si mosse fulmineamente verso di essa. Poi, vergognandosi, rifece il gesto e la zampina gli toccò un dito. Phil, in risposta, l’accarezzò. Non avvertì la minima traccia di artigli. Dovevano essere tutti ritirati all’interno delle loro morbide guaine.

— Ora siamo amici — disse Phil con voce un po’ rauca. Il gatto saltò sul letto senza paura. Gli occhi di rame si fecero più vicini… una guancia pelosa si strofinò contro quella dell’uomo in un breve gesto d’amicizia. Phil si sentì gli occhi umidi per le lacrime.

“Che vita priva di affetti dev’essere la mia” pensò “se un gatto può farmi piangere”. Eppure era proprio così. La sua vita era sempre stata una delusione. I suoi genitori, dapprima, gli erano sembrati affettuosi e meravigliosi, ma poi aveva cominciato ad accorgersi delle loro grigie incertezze, della loro noia. Per un certo periodo la scuola era stata piena di straordinarie promesse, gli si erano aperte prospettive di conoscenza e di idealistica fratellanza; ma troppe di quelle prospettive erano chiuse da cartelli che dicevano: proibito o sovversivo, o da un ancora più insopportabile silenzio calcolato. Così come era successo all’uomo, che si era ripromesso di andare sui pianeti. Ma non l’aveva fatto. C’erano stati persino degli amici, un tempo, e un amore. Ma anche queste cose si erano rivelate un fallimento. E poi la serie interminabile di posti perduti a causa dei robot, a cominciare dai robot postini che individuavano la destinazione delle lettere leggendo gli indirizzi con una cellula fotoelettrica. L’unica cosa che i robot non sapevano fare, a quanto pareva, era quella di imboscarsi: un’attività nella quale Phil poteva vantarsi di non avere rivali automatizzati.

Sì, era stata una vita veramente vuota e priva di scopo la sua, si disse Phil, chiedendosi nello stesso tempo come mai neppure quella considerazione riuscisse a offuscare la sua presente felicità.

Si riscosse da quei pensieri e vide che il gatto stava passeggiando sul letto, ispezionando il suo corpo nudo.

— Ehi, va bene che siamo amici, ma non ti sembra di esagerare? Rispetta la mia intimità! — Ridendo scese dal letto e prima di uscire dal cono di calore proiettato dal soffitto, indossò una leggera vestaglia. Rabbrividì. Si mise a canticchiare un paio di strofe di Baciami a zero G e accennò un passo di danza, cosa che fece scattare il gatto alla rincorsa dei suoi piedi.

— Da dove arrivi, Lucky? — ripeté Phil, e mentre si dirigeva verso la finestra, il suo sguardo cadde sul tubetto semivuoto dei sonniferi. Per un attimo fu assalito da un dubbio inquietante: forse un’eccessiva quantità di pillole aveva fatto scattare dentro di lui una molla che aveva alterato il suo equilibrio? Dopo tutto, quel gatto non era normale (e neppure le allucinazioni), e il suo folle, inesplicabile senso di esaltazione era troppo simile alle fantasie di divina perfezione tipiche dei paranoici.

Poi raggiunse la finestra e il suo umore subì un ulteriore cambiamento, che gli fece dimenticare tutti i suoi timori.

La finestra si apriva a strapiombo su una strada angusta dominata dalla facciata esterna del gigantesco hotel riadattato in cui abitava Phil. Sporgendosi dal davanzale, a rischio dell’osso del collo, poteva sbirciare al di là della strada e scorgere l’angolo ricoperto di scritte pubblicitarie del Centro di Lotta della Divertimenti SpA con il suo eliporto sul tetto. L’hotel era stato costruito come residenza di lusso per i nuovi ricchi della guerra degli anni Settanta, ma durante la grande crisi di alloggi del decennio successivo le sue vaste stanze erano state suddivise in tante cellule dormitorio. L’edificio tuttavia conservava ancora alcuni segni dei suoi giorni di gloria: le ampie finestre rotonde munite di doppi vetri polarizzati, di cui quello interno poteva essere ruotato in modo da ottenere la perfetta trasparenza oppure la completa oscurità, con tutte le gradazioni intermedie. Ma c’era un altro lusso fuori dal comune: le finestre erano vere finestre e si potevano aprire. A causa del riscaldamento radiante dei letti e dei guasti del sistema di condizionamento dell’aria, quest’ultima possibilità era sfruttata più spesso di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, anche se i vetri erano tenuti chiusi per la maggior parte delle ore diurne.

A Phil l’interminabile parete grigia sotto la sua finestra, con quelle file di orribili oblò quasi tutti oscurati, era sempre sembrata la vista più opprimente del mondo: un simbolo di come lui stesso fosse escluso dalla vita e dalla gente.

Ma ora, mentre si sporgeva solo un poco, sfiorando con la testa il bordo circolare, scoprì di potere attraversare quel muro col pensiero, quasi che esso fosse composto di un qualche materiale che conduceva le emozioni, come un filo di rame conduce l’elettricità. Gli pareva non di vedere o pensare attraverso il muro, ma di sentire la trama molteplice di calde, pietose, ammirevoli, ridicole vite umane racchiuse in quei cubicoli: quelle felici per due quinti, e quelle tristi per nove decimi. Le vite di coloro che nutrivano paure e frustrazioni perché bisogna pur nutrire qualcosa, e le vite di quelli che facevano delle proprie paure e frustrazioni una pietosa armatura: il vecchio che sceglieva preoccupato fra le magre tessere alimentari guadagnate in tre guerre comunisto-capitaliste; il ragazzino che giocava all’astronauta e faceva finta che la finestra oscurata fosse il portello di un incrociatore spaziale da fumetti; le tre segretarie disoccupate (una delle quali stava camminando su e giù); i due amanti il cui incontro era turbato dalla paura del Federal Bureau of Morality; l’uomo grasso che si godeva le carezze di una ragazza attraverso la sensoradio e pensava a un tempo lontano; la vecchia signora piena di paure per i germi bellici e le ceneri radioattive che spolverava, spolverava, spolverava…

La sua nuova personalità era dotata di una straordinaria immaginazione, concluse Phil sorridendo.

Una vecchia mano sbucò da una finestra tre piani più sotto e scosse qualcosa, o forse niente, da uno straccio.

Si trattava di una coincidenza, senza dubbio, oppure gli era capitato una volta di osservare la donna, e poi se n’era dimenticato. Tuttavia Phil decise di interpretare quell’evento come un’incoraggiante conferma delle sue nuove facoltà. Poi il sorriso gli svanì dalle labbra, mentre pensava alla parete e a quello che c’era dietro di essa.

A quella finestra aveva tascorso un’infinità di ore noiosamente eccitanti a spiare le attività di tutte le giovani donne i cui cubicoli si trovavano anche lontanamente nel suo campo visivo. Tutte, tranne la nuova ragazza dai capelli neri, legati a coda di cavallo, che abitava proprio il cubicolo di fronte al suo, e che di tanto in tanto aveva sentito esercitarsi al tip-tap. La sua finestra era un po’ troppo vicina, e poi, malgrado fosse piuttosto bella, si sentiva vagamente intimorito da lei. C’era qualcosa di inquietante in quella ragazza, di ferino, e in ogni caso i suoi vetri erano sempre oscurati con cura. Anche in quel momento infatti la finestra era buia, anche se leggermente aperta.

Ma tutte le altre ragazze erano state oggetto del suo instancabile quanto sterile interesse. A cominciare da quella carina, biondo-verde che abitava in basso a sinistra, la signorina Phoebe Filmer (era perfino riuscito, con insolita determinazione, a scoprire il suo nome): aveva dedicato una buona parte del suo tempo libero a quella eccitante civetta. E infatti eccola lì, proprio in quel momento, che si aggirava con addosso una vestaglietta molto corta, ispezionando vari capi di biancheria intima. Era una situazione estremamente promettente, che normalmente avrebbe inchiodato il povero Phil per una ventina di minuti o anche più. Ma ora scoprì di poter distogliere lo sguardo senza timore di perdere qualcosa. Buon Dio, se voleva vedere di più, in tutti i sensi, della signorina Phoebe Filmer, non doveva far altro che cercare di conoscerla.

— Prrrt! — Una palla morbida e pelosa si posò sulla sua mano e guardando in basso vide il musetto verde di Lucky incorniciato fra il suo pollice e l’indice.

— Cosa c’è, micio?

Lucky piegò la testa in modo da sfregare la fronte e l’orecchio contro la sua mano e posò le zampe anteriori sul bordo della finestra. Subito Phil circondò con il braccio il petto del gatto. Non voleva che Lucky raggiungesse il davanzale esterno. Anzi, si rese conto, improvvisamente, che non voleva che Lucky lo lasciasse; ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato in grado di fermarlo, se il gatto avesse veramente voluto andarsene.

Con una certa vergognosa soddisfazione gli venne in mente che tutti gli animali domestici erano rigorosamente vietati nella Skyway Tower (i gatti e i cani erano diventati piuttosto rari dai tempi della guerra batteriologica, quando erano stati decimati come possibili portatori di germi), per cui il proprietario, apertamente, non avrebbe potuto far nulla per reclamarlo indietro.

Ma Lucky non pareva avesse alcuna intenzione di andarsene. Saltò sul pavimento e guardò Phil con aria affamata.

— Prrrt!

— Vuoi qualcosa da mangiare, vero?

— Prrrt-prt!

Phil fece mentalmente un inventario delle provviste e la sua scelta cadde, senza sapere il perché, sul concentrato di mirtilli. Sembrava del tutto inadatto per un gatto, eppure qualcosa gli diceva che per Lucky sarebbe andato benissimo.

Fu presto fatto. Immerse nell’acqua una tavoletta rosso scura, dura come il marmo, che immediatamente si gonfiò fino ad assumere le dimensioni di una palla da golf color rubino. Poi, seguendo un altro impulso improvviso, ci versò sopra il contenuto sciropposo di una capsula di vitamine.

Quest’ultimo ingrediente aveva un odore piuttosto rancido, e posando a terra lo strano miscuglio Phil cominciò a nutrire qualche dubbio. Lucky invece l’esaminò con evidenti segni di approvazione, miagolando avidamente. Ma non si mise a mangiare, rimase a guardare l’uomo. A Phil venne in mente che i gatti sono molto gelosi della loro intimità, e forse Lucky voleva mangiare da solo.

— Bene, amico, io vado a farmi la doccia. E ti prometto di non spiare.

Nel bagno, regolò i rubinetti in modo da avere un getto alternativamente tiepido e molto caldo. Ma, senza ragione, la doccia si mise a somministrargli scrosci di acqua gelida e bollente. Balzò da sotto il getto con un urlo. Tuttavia l’incidente non cambiò affatto il suo buon umore. Mentre si asciugava da solo (non gli piaceva il getto d’aria calda, e i robot asciugatori lo mettevano a disagio) cantò:

Com’è bello volare a zero-G!

Balla con me nell’aria, a zero-G.

Il soffitto non c’è più, il pavimento non c’è più:

stringimi, amami, tesoro, a testa in giù!

Quando uscì dal bagno si sentiva come un imperatore. Era deciso a ispezionare quel mondo che era suo, quel mondo che era di chiunque avesse il coraggio di chiederlo. Mentre si infilava maglia, calzoni, scarpe e giacca, spiegò al gatto, ormai sazio, i suoi nuovi sentimenti.

— Vedi, amico, la situazione è questa: sono sempre stato per tre quarti morto. Ma ora è finita. Sono stufo di sentirmi spaventato, messo da parte, annoiato. Basta con questi stupidi lavori di riempire schede, controllare quadranti o tagliare nastri, con la paura che inventino da un momento all’altro un nuovo robot. Adesso esco e mi guardo un po’ attorno, parlo con la gente, cerco di rendermi conto di come vanno le cose. Avrò delle avventure, mi sentirò finalmente vivo! Non c’è male come programma, vero? E sai chi è il responsabile di tutto questo, amico? Tu.

Lucky sembrò diventare quasi fluorescente per la soddisfazione e arruffò la sua verde pelliccia.

Phil si chiese che ore fossero. Il suo orologio da polso si era fermato il giorno prima, quella baracca, dopo solo cinque mesi che aveva cambiato le batterie. Sporse la testa dalla finestra e i suoi occhi corsero verso l’alto, lungo la facciata vertiginosa del palazzo, fin dove gli oblò non erano che piccoli puntini e appariva una stretta striscia di cielo blu. Soltanto l’ultima finestra sul lato est era illuminata di giallo dalla vera luce solare, mentre il falso sole, lo specchio di sodio che orbitava attorno alla Terra per rischiarare di notte la città, gettava la sua luce dieci piani più in basso.

Prese Lucky in braccio, senza neppure considerare la possibilità di lasciarlo a casa, e senza preoccuparsi dell’attenzione che poteva attrarre. Ma il gatto verde saltò immediatamente a terra e si diresse verso la porta d’ingresso, guardandolo come per dire: “Sono disposto a seguirti in ogni avventura, ma non ho bisogno di una balia”.

Fianco a fianco raggiunsero le scale e scesero al ventottesimo piano (l’ascensore, sovraccarico di lavoro, si fermava solo ai piani pari). E qui Phil si imbatté proprio nella signorina Phoebe Filmer, con la sua vestaglia frusciante, che a quanto pareva si stava dirigendo verso lo snack bar situato su quel piano.

— Salve, signorina Filmer — si sorprese a dire. — È da molto tempo che vi ammiro.

— Davvero? — disse lei guardandolo di sottecchi. — Come fate a sapere come mi chiamo?

— Ho chiesto al robot portiere chi fosse la deliziosa ragazza del 28-303a.

Lei fece una risatina maliziosa.

— Non si può parlare coi robot portieri; potete solo schiacciare bottoni. E non danno i nomi degli inquilini, a meno che non abbiate un’autorizzazione governativa — commentò con una punta di disprezzo.

— Io ci so fare coi robot — spiegò Phil. — Me li faccio amici con qualche chiacchiera.

— Bravo — osservò la signorina Filmer, voltando la testa e passandosi le dita fra i capelli biondo-verde.

— A proposito, vi piace il mio gatto verde? — chiese Phil.

— Un gatto verde! — esclamò eccitata la signorina Filmer. Guardò in basso e rialzò immediatamente lo sguardo con aria scettica. — E dov’è?

Anche Phil guardò in basso. Lucky era sparito. Gli sembrò di avere improvvisamente un blocco di ghiaccio nello stomaco. — Scusatemi — disse. — Spero di vedervi ancora.

Partì di corsa verso la rientranza dove si trovava l’ascensore. Lucky era davanti alla porta.

— Accidenti, amico — gli disse Phil — mi hai fatto prendere un colpo.

2

La strada ringhiò verso Phil. Per l’esattezza il ringhio proveniva da una macchina elettrica lanciata a tutta velocità che accostandosi al marciapiede aveva strappato via un pezzo triangolare di posteriore a un uomo grasso che non era stato abbastanza veloce da mettersi in salvo. Guardando meglio, Phil si accorse che non era un uomo grasso, ma un uomo magro che indossava un abito a pallone. Mentre si sgonfiava, l’uomo sedette sul marciapiede e cominciò a singhiozzare. Gli abiti a pallone non offrivano alcuna protezione reale ai pedoni, tranne forse per il fatto che ingrandivano l’apparente obiettivo; ma andavano molto di moda. Durante l’ultima guerra venivano riempiti di idrogeno come scudo contro i neutroni. Poi alcune piccole ma spiacevoli esplosioni in affollati rifugi avevano indotto il governo a prendere dei provvedimenti restrittivi.

Dopo avere ringhiato, la strada continuò a brontolare sordamente dai suoi due livelli inferiori. Il brontolio era composto dal ronzio delle vetture elettriche, dal rombare del traffico pesante sotterraneo, dal cicaleccio della pubblicità sonora, dallo strisciare affrettato dei piedi, lo stesso di quando Roma e Babilonia erano giovani, ma reso più intenso dal fatto che i piedi di molte donne erano sollevati su zoccoli ortopedici alti da sei a trenta centimetri.

Nessuna di questa miriade di rumori disturbava Phil che in un’altra occasione si sarebbe già infilato i tappi nelle orecchie, e avrebbe camminato rigido e guardingo, attento alle auto pirata, che talvolta saltavano anche sui marciapiedi. Ma quel giorno voleva assorbire tutto ciò che gli stava intorno, vedere le cose a cui era stato sempre cieco, osservare le espressioni apatiche ma ansiose sui visi dei passanti, sentire le invisibili linee di forza che simili a ragnatele e a fili di burattini, li legavano agli onnipresenti annunci pubblicitari: dal perentorio: Imparate a spaccare l’osso del collo! all’allettante Una bambola spogliarellista tutta per voi!, dal conciso Perché non lobotomizzarvi? allo stimolante Rendete attraente la vostra figura con un Abito da Sera Spray! La plastistoffa si applica in un batter d’occhio. Non scalda, non si appiccica! Speciali rigonfiamenti rendono attraente il seno! Disegnato da artisti proprio sul vostro corpo!

Lucky non sembrava più spaventato di Phil dalla strada. Trotterellava vicino alla base della monumentale facciata della Skyway Tower, il cui color verde poteva forse spiegare perché nessuno dei passanti si accorgesse del gatto. Anche se in verità non erano necessarie molte spiegazioni per capire perché quei sacchi ambulanti di nervi non vedessero al di là del proprio naso.

Uno scintillante robot venditore si diresse verso di lui sulle sue silenziose ruote, ma Phil abilmente interpose fra sé e la macchina un altro passante con l’abito a pallone. L’uomo fu così costretto a sorbirsi un lungo discorso sulle virtù di certe pillole dimagranti: evidentemente il robot l’aveva catalogato dalle sue dimensioni. Phil si affrettò dietro a Lucky che aveva girato nell’abbagliante Opperly Avenue.

Come se seguisse qualche odore particolare, il gatto abbandonò d’improvviso il muro, attraversò il marciapiede e si lanciò nella Opperly Avenue fra le macchine che sfrecciavano. Phil lo seguì con un certo batticuore, ma senza essere realmente in ansia. Qualcosa gli permetteva di avvertire facilmente le intenzioni di tutte le auto, evitarle perciò era un gioco da ragazzi.

Raggiunse il marciapiede opposto con un metro e mezzo abbondante di vantaggio nei confronti di un giovane giocherellone su una carcassa che assomigliava a una jeep spaziale ed era ricoperta di scritte del tipo: EHILÀ, VENUSIANO! e ATTENZIONE, RAGAZZE! VELOCITÀ DI FUGA ZERO. Ripreso fiato, Phil si trovò a guardare la bocca di una caverna adorna di cartelloni illuminati da antiquate luci al neon. Il più grande portava scritto: QUESTA SERA! Juno Jones l’Amazzone stritolamaschi contro Zubek il Nano il Misogino spaccaossa!

Non ebbe il tempo di leggere il resto del cartellone, perché Lucky si era lanciato lungo l’ampio corridoio fiancheggiato da stereografie giganti che rappresentavano uomini e donne mezzi nudi, minacciosi, che nella semioscurità sembravano tanti geni della lampada, appena materializzati da una nube di fumo.

Solitamente Phil avrebbe provato un certo disgusto, misto a paura e a un’affascinata inquietudine, nell’entrare, o soltanto nel passare vicino a una palestra specializzata in combattimenti fra maschi e femmine, ma quel giorno gli sembrò una cosa del tutto normale. Non gli venne neppure in mente di non seguire Lucky.

Appena prima di un cancelletto girevole e di un robot bigliettario nascosto nell’ombra, si scorgeva l’imboccatura illuminata di un altro corridoio. Lucky vi si infilò come un razzo. Phil aveva fatto appena in tempo a girare l’angolo che un lungo braccio, senza mano e senza ossa, spuntò dalla parete e si piazzò fermamente davanti a lui.

— Dove credi di andare, bello? — gracchiò una voce invisibile. — Torna indietro. — Il braccio gli diede un’energica spinta verso la biglietteria.

Phil vide il gatto che lo guardava con aria interrogativa dal corridoio, sul quale si aprivano varie porte. Cercò di girare attorno al braccio, ma questo si allungò fino a raggiungere la parete opposta.

— Sei ancora qui? — chiese la voce gracchiante. — Sentimi, bello, non conosco la tua voce. Se devi parlare con qualcuno, dimmi il nome e la parola d’ordine.

— Voglio solo prendere il mio gatto — rispose Phil. Lucky aveva raggiunto l’estremità del corridoio e stava sbirciando nell’ultima porta. — Vieni qui, Lucky — chiamò, ma il gatto non gli diede retta.

— Questo nome non significa niente per me — continuò la voce, raucamente. — Non mi hai ancora detto nessun nome che faccia scattare i miei relè.

Lucky sparì attraverso la porta. — Per favore, lasciami passare un momento a prendere il mio gatto — disse Phil, cercando di usare il suo tono più sincero. — Tornerò indietro subito.

— Io non lascio passare nessuno. Dimmi nome e parola, bello, e in fretta.

In quell’istante un terribile senso d’angoscia si impadronì di Phil, come se una luce nel suo cervello si fosse spenta e il suo cuore fosse diventato di ghiaccio. Sapeva che era successo qualcosa a Lucky. Si infilò sotto il braccio grigio e si lanciò in avanti, ma prima che avesse potuto fare cinque passi si sentì afferrare. Il corridoio roteò intorno a lui mentre veniva trascinato violentemente indietro. Si accorse di essere strettamente avvolto dal braccio elastico simile a un pitone. La voce gli chiese nell’orecchio: — Non si passa, bello. Ora devo tenerti finché non arriva il guardiano.

— Lasciami andare! Devo entrare là, hai capito? — gridò Phil. Lottò invano per liberarsi le braccia, senza mai distogliere lo sguardo dalla porta attraverso cui era sparito Lucky. — Lasciami andare!

— Cosa succede qui? — Una donna grande e grossa, con i capelli biondi tagliati corti, il naso rotto, la mascella prominente e due grandi occhi azzurri, era sbucata dalla porta più vicina. — Calmati, figliolo — tuonò avvicinandosi. — Che cosa vuoi?

— Il mio gatto è entrato là — spiegò Phil, cercando di mantenere la calma. — In quella porta là in fondo. — Fece un cenno con la testa verso di essa. — Cercavo di riprenderlo, ma questa cosa mi ha afferrato.

— Il vostro gatto?

— Sì, il mio gatto.

Lei ci pensò su. Phil si accorse per la prima volta, forse perché fino a quel momento la sua attenzione era stata tutta concentrata sulla porta, che la donna indossava dei calzoni aderenti, marroni, ed era nuda fino alla vita. Aveva seni piccoli e spalle massicce, muscolose.

— Va bene — disse lei dopo un po’ — lascialo andare.

— Non mi ha detto né un nome né una parola — si lamentò la voce. — Ha cercato di passarmi sotto. Devo trattenerlo finché non arriva il guardiano.

— Ci vorrà almeno un’ora, se non conosco male Jake. Lascialo andare, stupido robot — disse la donna con voce profonda, da basso. — Quest’uomo è un mio amico. Lo faccio passare io.

— Va bene, signora Jones — disse la voce, in tono imbronciato. Il braccio grigio si svolse d’attorno a Phil e rientrò nel muro.

— Ora va’ a cercare il tuo gatto e fila — disse la gigantessa.

— Grazie mille — disse Phil, voltandosi a metà verso di lei ma controllando sempre con la coda dell’occhio la porta. Lei non rispose, limitandosi a guardarlo con aria dubbiosa, per nulla imbarazzata della propria parziale nudità.

Phil cercò di non correre, anche se il corridoio sembrava non finire mai. Continuava a dirsi che non era successo niente a Lucky, sperando ardentemente che fosse vero. Non si sentiva più né coraggioso né avventuroso. Passò davanti alla porta da cui era uscita la donna, notando vagamente mucchi di indumenti sporchi e un robot dalle braccia di gomma per gli allenamenti. Raggiunse l’ultima porta, dopo aver notato che tutte le altre erano ermeticamente chiuse. Esitò. Non si sentiva nessun rumore. Entrò.

La stanza era grande, col soffitto basso. Alle pareti erano appoggiati degli armadietti e delle panche. All’estremità opposta vi era una porta chiusa, con a fianco due bassi tavoli automassaggiatori, le cui braccia articolate, protese goffamente in alto, li rendevano simili a scarafaggi rovesciati sulla schiena. C’erano anche degli altri attrezzi che Phil non conosceva, ma il pavimento era quasi del tutto sgombro.

Quasi al centro della stanza vi era una scatola marrone, larga una trentina di centimetri. Due uomini, con le spalle rivolte a Phil, la stavano fissando. Uno era piuttosto piccolo, dall’aria agile, vestito con una maglia nera a girocollo e pantaloni neri aderenti, e impugnava una pistola. L’altro era ancora più piccolo e più magro, vestito in modo simile ma di blu. Teneva in mano un filo attaccato alla scatola.

Phil si schiarì la gola. I due uomini lo guardarono con occhi inespressivi, poi tornarono a rivolgersi verso la scatola. Phil avanzò cautamente nella stanza, sbirciando negli angoli in cerca di Lucky. Poi fece un salto all’indietro. Per poco non aveva calpestato un topo morto.

Osservando più attentamente, si accorse che c’erano una mezza dozzina di topi morti sparsi sul pavimento.

Si schiarì ancora la voce, più rumorosamente, ma questa volta i due non lo guardarono neppure. Allora si fece avanti, scavalcando cautamente il topo morto.

Si udì un clic. Una piccola apertura si aprì in cima alla scatola marrone e ne schizzò fuori un topo. Non appena a terra corse via zigzagando freneticamente, scivolando ad ogni curva. Phil aspettava che da un momento all’altro Lucky uscisse allo scoperto e si lanciasse all’inseguimento. L’uomo vestito di nero seguì i movimenti del topo con la pistola. Non si udì alcuna esplosione, né apparve alcuna fiammata, ma il topo si fermò.

— Cerca di sorprendermi meglio la prossima volta, Cookie — disse l’uomo in nero al compagno. — Ti ho visto muovere la mano quando hai premuto il bottone. — I due ripresero la posizione di prima, immobili e all’erta.

Muovendosi cautamente in cerchio, attorno ai due uomini, Phil si mise alla ricerca di Lucky. Ben presto si rese conto che erano pochi i posti in cui avrebbe potuto nascondersi. Gli armadietti erano alti fino al soffitto, e tutti chiusi.

Uno dei topi a terra si mosse. Cookie mise giù il filo con il bottone, prese il topo e lo rimise nella scatola attraverso un’apertura laterale. Phil cominciava a sentirsi inquieto. Gli sembrava che dovesse esserci un nesso fra Lucky e i topi, ma era un nesso privo di senso. I muscoli del polpaccio cominciavano a fargli male a forza di camminare sulla punta dei piedi.

Facendosi coraggio si avvicinò ai due uomini immobili. — Scusatemi — disse nervosamente. — Non avete visto entrare un gatto per caso?

La domanda, al pari dei precedenti colpi di tosse, non ottenne risposta. — Vi prego di scusarmi, ma devo assolutamente trovarlo — continuò sfiorando il gomito dell’uomo in nero. La reazione fu immediata, anche se venne da un’altra direzione. Quello chiamato Cookie lo afferrò per la giacca e lo tirò indietro. I suoi tratti infantili si erano trasformati in una dura maschera.

— Cos’hai fatto! Hai interrotto il re durante il suo svago! Hai osato spingere il re! Meriti una punizione, un castigo!

Phil si sentì male per la paura. Era solo capace di pensare che se Lucky fosse stato lì, a infondergli nuovamente quella splendida sicurezza, non si sarebbe sentito così vergognosamente terrorizzato da quel piccolo prepotente che lo teneva per il bavero.

Si inumidì le labbra. — Stavo solo cercando il mio gatto — disse con voce tremante. — E poi, non l’ho spinto.

— Certo che l’hai spinto! Ti ho visto io! Gli hai dato uno spintone! E per quel che riguarda i gatti, sappi che Swish Jack Jones, lo scannafemmine, è il miglior gatto che ci sia qui, l’unico gatto. — La mano che lo teneva gli torse più strettamente il bavero attorno alla gola. — Non sperare di cavartela tanto a buon mercato. Allora, Jackie, cos’hai intenzione di fargli?

Finalmente l’uomo in nero si mosse. Girò lentamente la testa che spuntava dal collare di lana nera e guardò Phil col sorriso triste e stanco di un re che conosce il noioso ma inevitabile destino di infliggere condanne e punizioni. Allungò lentamente una mano e prese Phil per un gomito.

— No, per favore — sussurrò Phil, ma proprio in quel momento il pollice gli premette un nervo fra le ossa e non poté trattenere un grido di dolore. L’uomo dal viso da bambino sogghignò, soddisfatto che finalmente venisse fatta giustizia.

Swish Jack Jones si accigliò, come se il grido non fosse stato abbastanza forte; alzò l’altra mano. — Questa è una pistola paralizzante — disse con tono affettato — a ultrasuoni. Potrei ripassarti la spina dorsale, per tenerti fermo prima di lavorarti. Adesso è regolata per i topi, ma potrei aumentare, la potenza, se necessario.

Phil sentiva le budella che gli si scioglievano. — Non dovete farmi del male — disse. — Vi dico che cercavo solo il mio gatto.

L’altro scosse tristemente la testa e disse: — I piccoli ficcanaso dalle cattive intenzioni verso Bast non dovrebbero spararle così grosse. — E allungò una mano verso la coscia di Phil.

In quel momento arrivò l’uragano. Cookie venne sbattuto tre metri lontano, la pistola paralizzante cadde a terra; Swish Jack Jones fece un balzo indietro, e la gigantessa bionda, si piazzò infuriata fra Phil e lui, tuonando: — Sai benissimo che sopporto tutto, tranne che tu faccia il prepotente!

Si era infilata un kimono corto e alquanto sporco, meravigliosamente ricamato nel migliore stile orientale, solo che la figura sulla schiena non era quella di un drago ma di un’astronave eruttante fiamme.

— Non toccarmi, Juno, ti avverto — ringhiò l’uomo in nero, con una voce che aveva perso gran parte della sua patina da intellettuale Si stava massaggiando un polso.

— Ti ho steso la prima volta che abbiamo fatto un incontro — replicò la gigantessa. — Ti ho steso la notte che ci siamo sposati E posso rifarlo ogni volta che voglio. E Cookie insieme a te — aggiunse, mentre quest’ultimo faceva una smorfia che voleva essere minacciosa, ma che tradiva solo la rabbia. — Perché stavi tormentando questo poveretto?

— Io? — disse Jack alzando la voce. — Non lo stavo affatto tormentando. Stavo solo prendendo le mie precauzioni. È arrivato qui come un matto, senza dire niente, saltellando sulla punta dei piedi e blaterando di un gatto. Sembrava che stesse per dare i numeri. È pericoloso.

Cookie, con le labbra strette, muoveva la testa su e giù a conferma, ma Juno non si lasciò impressionare minimamente. — A me è sembrato pericoloso quanto una mosca. Perché non hai lasciato che si cercasse il gatto e che se ne andasse?

Il viso di Jack assunse un’espressione esterrefatta. — Come, Juno, sei stata tu a lasciar entrare questo scimunito? Mi stavo giusto chiedendo come avesse fatto a spuntarla col Vecchio Bracciodigomma. Vuol dire che ti sei bevuta questa storiella del gatto?

— Perché, non è qui? — chiese Juno guardandosi intorno.

— E come potrebbe esserci, Juno? — protestò Jack, con una lieve sfumatura di superiorità nella voce. — L’hai forse visto? No. E se ci fosse un gatto, correrebbe dietro ai topi, non ti pare? E poi, dove potrebbe nascondersi? Non certo là — continuò, mentre lo sguardo di Juno si posava sull’altra porta. — C’è dentro lui. — Juno annuì. — E allora dov’è? — chiese Jack. — Non crederai che Cookie ed io l’abbiamo… rapito, per caso?

Juno si fregò pensosamente il naso schiacciato. Poi si volse a Phil con un’espressione ancora amichevole ma piena di dubbi. — Dicci qualcosa di più su questo gatto, figliolo. Di che colore era?

— Verde — disse Phil, e nonostante le espressioni incredule degli altri non poté trattenersi dal continuare. — Sì, verde brillante. E gli piace la marmellata di mirtilli. È venuto da me circa un’ora fa. L’ho chiamato Lucky perché mi faceva sentire bene, come se potessi capire tutto.

Ci fu un lungo silenzio. Phil avrebbe voluto sprofondare. Poi Juno gli posò una grossa mano sulla spalla che gli fece piegare le ginocchia. — Vieni, figliolo — disse gentilmente. — È meglio che tu te ne vada.

Jack fece un passo avanti, gettando a Juno un’occhiata di sbieco. — Senti, amico — disse con voce sollecita, in cui si sentiva ancora una punta di scherno — aveva appuntamento con uno psichiatra stasera, ma mi pare che tu ne abbia più bisogno di me — e tese a Phil un pezzo di nastro fonoscritto. Phil lo prese umilmente e se lo mise in tasca. Cookie ridacchiò. Juno si voltò di scatto verso di lui. — Sentimi bene — ruggì. — Il fatto che sia matto non ti dà il diritto di ridere di lui, né di fare il prepotente!

In quel momento si aprì la porta. Phil non poté vedere nell’altra stanza perché un uomo alto e grasso, con le guance grigiastre e spessi occhiali scuri, riempiva la soglia quasi completamente. I tre si fecero immediatamente rispettosi.

— Cos’è questo baccano? — chiese con una voce che fece sobbalzare Phil, perché era quella del Vecchio Bracciodigomma.

— Questo tipo… — cominciò Cookie, ma venne zittito da un’occhiata di Jack.

Gli spessi occhiali si volsero verso Phil. — Oh, uno dei tuoi fanatici ammiratori, Jack — disse il grassone con condiscendenza. — Mandalo via.

— Certo, signor Brimstine — disse Jack. — Subito.

La porta si richiuse. Phil si lasciò portar fuori da Juno. Si sentiva uno straccio, tanto che quasi non si accorse di una strana coppia che veniva lungo il corridoio verso di loro. L’uomo aveva un’aria serafica e insieme allegra. Era molto abbronzato, portava scarpe arancioni e un berretto dello stesso colore. La donna assomigliava a una giovane strega, con quel naso ossuto e il mento appuntito. Aveva un cappellino rosso, fissato con una ventina di lunghi spilloni alla sua capigliatura scura e arruffata, e una corta gonna rigida e spessa come un tappeto. Entrambi portavano maglioni neri col collo alto. Phil, immerso nei suoi dispiaceri, li notò appena, ma si accorse ugualmente che i due ignorarono volutamente la gigantessa.

— Troverete il vostro eroe da fumetti là in fondo, che spara ai topi — disse la donna con voce irosa. La ragazza si limitò ad arricciare il naso da strega. L’uomo roteò i suoi occhi da furetto e fece un mezzo sorriso benevolo. — Amore, Juno — ammonì. — Nient’altro che amore.

La gigantessa restò un momento a guardarli con aria corrucciata, poi proseguì. — Un paio di ammiratori di Jack, intellettualoidi — confidò amaramente. — Poeti, fanatici religiosi, e tutto il resto. Gli hanno montato la testa, quei fetenti.

Raggiunsero la fine del corridoio. Il Vecchio Bracciodigomma agitò la sua mano senza dita e borbottò: — Circolare, circolare — ma Juno lo ridusse al silenzio con uno stanco: — Sta’ zitto!

— Ora fila a casa, figliolo — disse a Phil. — Se fossi in te non so se andrei dallo psichiatra di Jack. Probabilmente è qualche svitato che gli hanno affibbiato gli Akeley, quei tizi che abbiamo incrociato poco fa. Però qualche dottore dei matti potrebbe fare al caso tuo. — Gli diede una pacca sulle spalle e sorrise, mostrando una cicatrice all’interno delle labbra. — Mi dispiace per quello che è successo là dentro, con quello schifoso di mio marito. Vieni a trovarmi quando ne hai voglia. Il Vecchio Bracciodigomma ha l’impronta della tua voce. Chiedi di Juno Jones. Ma ricordati di una cosa, figliolo: basta coi gatti verdi.

3

Attraverso le palpebre semichiuse, con le ciglia che sfocavano tutti i contorni, Phil osservava il cerchio spettrale, giallo pallido, della finestra. Era la sola luce che riuscisse a sopportare, quella dello specchio al sodio sopra la stratosfera. Pochi minuti prima aveva spento anche la televisione, tuttavia la voce sexy della ragazza continuava a sussurrare la sua canzone e lui indossava ancora il grosso guantone della sensoradio. Ma la pressione delle dita della cantante registrata da una mano idraulica e trasmessa nell’etere fino al suo guantone, cominciava a sembrargli quella di uno scheletro con le dita di gomma. Phil si strappò di dosso l’arnese, spense l’audio, accese una sigaretta e si ritrovò solo con il suo problema. Era davvero pazzo? Lucky era soltanto il sogno di uno psicopatico, o lui era stato in qualche modo raggirato? Ancora una volta, con angoscia, dovette arrendersi all’evidenza: soltanto lui si era accorto del gatto. E poi c’erano molti altri indizi di allucinazione; il colore assurdo, il cibo incredibile, la sua impressione che Lucky non fosse veramente un gatto; la sua assurda illusione di divina onnipotenza.

Ma questi stessi sentimenti erano anche la ragione per la quale Lucky doveva esistere. Dopo quanto era successo quel giorno, Phil non avrebbe più potuto sopportare la vita senza Lucky, senza quelle calde sensazioni intuitive che l’avevano galvanizzato nel pomeriggio e gli avevano fatto dimenticare il lavoro perso, la solitudine, la vigliaccheria, le frustrazioni. — Lucky — mormorò prima ancora di rendersene conto, e il suono querulo da malato della sua voce lo spaventò talmente che si frugò in tasca e tirò fuori il nastro che gli aveva dato Swish Jack Jones. Aspirò con forza dalla sigaretta, e al chiarore della brace lesse: Dr. Anton Romadka. Cima della Fortezza. Ore otto.

Nella sua mente apparve l’immagine della guglia nera e sottile della “Fortezza”, un lussuoso edificio adibito ad albergo e uffici. Pensò che gli ci volevano pochi minuti per arrivarci. Ma poi, di scatto, appallottolò il pezzo di nastro e se lo rimise in tasca. Cominciò a camminare su e giù per la stanza. Se fosse andato dal dottor Romadka sarebbe stato come ammettere che non credeva all’esistenza di Lucky.

Pensò alle pillole di sonnifero, ma temeva che non gliene fossero restate abbastanza. Prese un libro che aveva cominciato, ma trovò il suo stereotipato sadismo insopportabilmente noioso. Come ultima risorsa accese di nuovo la televisione, audio e video.

— … preda dell’Anticristo.

Quelle parole, insieme al viso scarno apparso sullo schermo, indicavano che il Presidente Robert T. Barnes stava facendo una nuova predica sulla Russia ai suoi Fratelli Americani.

— Ma ci sono peccatori anche da questa parte della trincea — continuò la grande figura patriarcale, piegandosi in avanti e inarcando le sopracciglia. — Peccatori in mezzo a noi, creature dedite alla lussuria. Troppo a lungo costoro si sono crogiolati nei piaceri più bassi. — Agitò un dito e si chinò ancora una volta verso lo schermo. — Io li ammonisco che la loro ora è giunta.

Phil fece per spegnere (quante volte Barnes aveva lanciato quelle futili, e, secondo alcuni, ebbre, minacce, quando tutti sapevano che la sua amministrazione era compromessa fino al collo con la Divertimenti SpA?), ma si fermò avvertendo nella voce del Presidente una nota diversa e anche un poco inquietante.

— Fratelli Americani — disse Barnes quasi in un sussurro, con un leggero ondeggiamento del corpo — delle forze misteriose sono all’opera, pensieri insani, spiriti dell’aria più alta come quelli che perseguitarono l’antica Babilonia. Qualcuno cerca di condizionare le nostre menti, è l’ora della prova finale…

La sua momentanea curiosità svanì e Phil spense l’apparecchio, ripiombando nell’oscurità e nel silenzio. Eppure la retorica del Presidente aveva influenzato il corso dei suoi pensieri. Smise di camminare e si rannicchiò sulla poltrona di schiuma incastrata fra la televisione e il letto.

“Devo essere pazzo” si disse con una rassegnata certezza che tuttavia non gli provocava nessun dolore, forse perché se ne stava seduto immobile. Tutto quello che aveva fatto quel pomeriggio non rispondeva al suo carattere, compresa la sua sopravvalutazione di quel gatto immaginario.

Sì, doveva essere matto.

Il quel momento il pallido cerchio della finestra venne intersecato da un cerchio più piccolo e molto più luminoso. Automaticamente si alzò e si avvicinò.

La ragazza dell’appartamento di fronte aveva acceso la luce. Si era levata il mantello e ora si aggirava nella stanza, come se cercasse qualcosa, mentre la coda di capelli neri le ondeggiava da una parte e dall’altra secondo i movimenti della testa. Era lontano meno di sette metri, e poteva vederla molto distintamente. Indossava un vestito grigio, all’ultima moda. Aveva un viso stretto, naso piccolo, bocca larga, occhi molto distanziati e, si accorse Phil per la prima volta, le orecchie erano prive di lobo e si appuntivano in alto in modo quasi faunesco. Come nelle altre rare occasioni in cui l’aveva vista, Phil provò un brivido di inquietudine.

La ragazza alzò le spalle, rinunciando alla sua ricerca, e si avvicinò alla finestra, guardando dritto verso Phil. Lui si ritrasse istintivamente, pur sapendo di essere invisibile. Lei afferrò una maniglia sullo stipite e mosse la mano per un quarto di giro, oscurando così gradualmente il vetro.

Poi, proprio mentre Phil stava per voltarsi, la finestra ricominciò a illuminarsi, fino a ritornare quasi completamente trasparente. Capì cosa doveva essere successo: la lastra interna di vetro polarizzato non era stata bloccata bene ed era silenziosamente ruotata di un’altra decina di centimetri. Qualche volta era successo anche alla sua.

La ragazza ora credeva di essere nascosta. Ma non lo era.

Si stirò e si tolse il soprabito. Phil si morse le labbra. Non voleva guardarla, ma qualunque cosa servisse a distrarlo dai suoi tristi pensieri era la benvenuta, e Phil sapeva bene che quella finestra poteva fornirgli distrazioni avvincenti, anche se inconcludenti.

La ragazza si slacciò lentamente la chiusura magnetica della camicetta e se la sfilò con un agile movimento delle spalle. Phil, preso dall’incanto dei suoi seni appuntiti, dimenticò tutte le paure. Al di sotto di essi, quasi come una coppa, indossava una specie di corpetto molto aderente, di velluto nero.

Si tolse la gonna. Il corpetto le terminava sulle cosce. C’era qualcosa di strano, ma forse era dovuto al leggero oscuramento della finestra. Sembrava quasi che fosse fatto di una specie di pelliccia.

Restando in equilibrio su una gamba si tolse una calza, e insieme alla calza anche una di quelle grottesche scarpe alte trenta centimetri.

Solo che… il cuore di Phil ebbe un balzo… sembrava essersi tolta molto di più della scarpa. Per la precisione, il piede.

Allora guardò meglio e vide che nel punto dove avrebbe dovuto trovarsi la caviglia, la gamba si curvava un poco all’indietro, poi ritornava bruscamente in avanti e si assottigliava per finire in un piccolo zoccolo nero.

Si tolse l’altra calza e la scarpa con il medesimo risultato. Phil si accorse che il piede si adattava a un buco ricavato nella scarpa, restando in tal modo nascosto.

Poi cominciò a danzare gioiosamente. Phil poteva sentire il ticchettio degli zoccoli. E lui che aveva creduto che ballasse il tip-tap! Poteva distinguere chiaramente i garretti con i loro ciuffetti di pelo, identici per colore e aspetto al “corpetto”.

Lei smise di ballare, prese un rasoio e cominciò a radersi con attenzione l’orlo del “corpetto”.

Phil cominciò a pensare a voce alta. Arrivò a dire: — Prima un gatto verde, poi… — e il momento dopo si era girato e cominciava a correre verso la porta.

I suoi ricordi da quel momento si fecero un po’ confusi. Per esempio, quando attraversò di corsa la strada due isolati dopo la Skyway Tower per poco non venne investito da una macchina nera, con una carrozzeria tipo primi novecento, che andava a bassa velocità. In essa sedevano Cookie, gli Akeley e Swish Jack Jones con una scatola appoggiata sulle ginocchia. In quel momento Phil non li riconobbe neppure.

L’unica cosa certa per lui era quella che stringeva fra le dita, nella tasca: il nastro spiegazzato col nome e l’indirizzo del dottor Romadka.

4

La luce dell’indicatore salì velocemente fino all’ultimo pulsante, l’ascensore si arrestò con un soffio, e Phil uscì dalla porta scorrevole in un piccolo ingresso, coperto da un folto tappeto simile a un prato grigio. Da una delle pareti, una voce femminile, piena di fascino, mormorò: — Buona sera. Avete un appuntamento?

— Uh — fece Phil, piuttosto sorpreso per il solo fatto di riuscire a parlare.

— Avete un appuntamento? — ripeté la parete. — Rispondete con un sì o con un no, prego.

— Sì — disse Phil.

— Volete dirmi il vostro nome?

— Phil Gish. — Non appena ebbe pronunciato quelle parole, gli venne il dubbio che forse doveva nominare Jack Jones, ma la parete, dopo un breve ronzio soffocato, disse: — Piacere, signor Gish. Accomodatevi, prego.

Nella parete apparve una surrealistica porta a forma di pera. Phil entrò. Un braccio sinuoso, liscio e lucente come un serpente, spuntò di fianco a lui e indicò una sedia, col gesto elegante di una hostess che abbia studiato danza.

— Volete accomodarvi? — suggerì la parete. — Il dottor Romadka arriverà fra pochi istanti.

Phil inghiottì. Aveva la sensazione che se si fosse azzardato a superare la zona che gli era stata indicata, il braccio lo avrebbe fermato senza complimenti. Anche se probabilmente avrebbe accompagnato il gesto con un gentile “Vogliate scusarmi”, o magari un “Fai il bravo, Phil”.

Decise di ubbidire e di sedersi. La parete disse: — Grazie. — Allora tornò ad alzarsi. La parete disse: — Desiderate? — con una lieve nota d’impazienza. Si risedette. — Grazie — ripeté la parete.

La stanza era buia, ovattata e silenziosa. Evidentemente la maggior parte dei pazienti del dottor Romadka facevano sogni lussuosi. L’inevitabile scrivania era a forma di S, come un divano per innamorati. In giro non c’erano avvisi pubblicitari: un sicuro segno di ricchezza. Su una parte spiccava un grande disegno rotondo, forse copiato da qualche originale greco, che inquietò un poco Phil con la sua allusione a ninfe e satiri. Distolse rapidamente lo sguardo e diede un’occhiata circolare alla stanza; al di là di un arco si scorgeva l’inizio di una scala. Concluse che il dottor Romadka doveva possedere anche un attico.

Improvvisamente udì delle voci adirate, di un uomo e di una ragazza. Quest’ultima gettò un grido acuto, pieno di odio. Poi, da qualche parte, una porta sbatté violentemente, e poco dopo un uomo scese dalle scale senza muovere i piedi. Phil ne dedusse che doveva trattarsi di una scala mobile.

Il dottor Romadka era obeso, calvo e sorridente. Sulla guancia aveva quattro graffi profondi, recentissimi, che lui ignorava del tutto, aspettandosi evidentemente altrettanto da Phil. Gli fece cenno di accomodarsi. Si sedettero e si guardarono attraverso il piano ricurvo e lucido della scrivania.

Lo psichiatra sorrise. — Bene, signor Gish? Jack Jones mi ha fatto il vostro nome, e dal momento che sono Sacheverell e Mary a pagare, per me va bene lo stesso. Oh, Sacheverell e Mary sono il signore e la signora Akeley, gli amici di Jack Jones. Credevo che lo sapeste. Tra parentesi, siete in ritardo di un’ora.

Una goccia di sangue cadde sulla camicia, allargandosi.

Phil rabbrividì, poi riuscì finalmente a parlare. — Ero occupato a impazzire.

Lo psichiatra annuì. — Sembrate un po’ sconvolto.

— Un po’?

— Insomma… — fece l’altro, stringendosi nelle spalle come per scusarsi della sua insufficiente capacità descrittiva. Poi continuò: — Non dovete essere sorpreso di impazzire, come dite voi, signor Gish… posso chiamarvi Phil? Di questi tempi è la regola, piuttosto che l’eccezione, anche se il fatto che voi lo ammettiate è abbastanza fuori del comune. Da più di un secolo gli americani stanno vivendo in una specie di pazzia collettiva, di schizofrenia di massa, paragonabile soltanto alla mania olandese per i tulipani, alla caccia alle streghe, al ballo di San Vito, al trotzkismo e alle crociate. Fino al 1950 la nostra avrebbe potuto essere chiamata la Febbre dell’Automobile, ma ora anche la più fervida immaginazione non saprebbe trovare una definizione… Sto scrivendo un libro controcorrente su questo argomento. Non che l’attuale pazzia collettiva sia qualcosa di misterioso o straordinario. Quali altri risultati ci si potevano aspettare da una società, come quella americana, che da un lato sopravvaluta la sicurezza, la censura, un immaginario idealismo messianico e il sacrificio in guerra, e dall’altro manifesta un’insaziabile avidità per il possesso, la competizione spietata e aggressiva, il sadismo maschilista, il disprezzo per i genitori e lo Stato, e una sessualità assurdamente sovrastimolata?

La voce del dottore si fece più alta e stridente, mentre gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite, come se la sua indignazione nascesse anche da qualcosa di personale. Ma subito dopo ritornò alla sua posa cortese, professionale.

— Ora, Phil, esaminiamo come questa società malata vi ha contagiato. Forse vi sorprenderà, ma non useremo nessuna di quelle tecniche moderne, come l’elettrosonno, la cerebrofotografia o la terapia situazionale con un’amante-robot bionda. Noi faremo semplicemente quello che avrebbero fatto i nostri trisavoli: parleremo. Ci metteremo a nostro agio. Questa scrivania è stata costruita in modo che possiamo stare vicini, senza però essere obbligati a guardarci negli occhi. Volete fumare? Benissimo! Fate pure! Ora cominciamo dal principio. Parlatemi della vostra vita.

Phil inghiottì. — Mi scusi, dottor Romadka, ma preferirei farlo dopo. Ora vorrei raccontarvi della mia esperienza, voglio dire, delle allucinazioni che ho appena avuto e che mi hanno convinto di essere impazzito, e poi desidero che mi diciate qualcosa in proposito, cioè, che le interpretiate, le psicoanalizziate o qualcosa del genere.

L’altro alzò le spalle, tutto contento. — È un inizio che vale come un altro. Dite pure.

Phil gli raccontò quello che aveva visto attraverso la finestra semioscurata. Dovette ammettere, pieno di vergogna e sotto il pungolo esperto dell’analista, di avere usato spesso la finestra come punto di osservazione. Quando poi si trattò di raccontare l’allucinazione vera e propria, si accorse che il ricordo lo faceva ancora tremare di paura, ma alla fine riuscì a dire tutto.

Il dottor Romadka sembrava estasiato, come se gli avessero mostrato un prezioso capolavoro artistico. — Meraviglioso! — commentò. — Raramente ho incontrato un simbolo così perfetto degli oscuri istinti sessuali della nostra società. Un satiro, o meglio una satiressa, pronta a dispensare amore e insieme a calpestare selvaggiamente. Mary ne sarebbe affascinata, ne sono sicuro, e insisterebbe per farne una delle sue bambole. — Sospirò, poi si riscosse dal suo rapimento estetico. — Naturalmente, Phil, non posso aspettarmi ora come ora che siate interessato al lato artistico della vostra attività inconscia. Voi volete sapere le cause, le origini. Ditemi, avete mai visto un cavallo?

— Una volta, al circo — ammise Phil.

— La mitologia greca rientra nei vostri interessi?

— Che io sappia no.

— Vi ricordate di aver visto lo spettacolo televisivo La puledra o la sexycommedia musicale La cavalla in amore, oppure l’antico film Fantasia?

Phil scosse la testa. L’analista annuì con aria pensosa. — Avete detto che il pelo le ricopriva tutto il busto, a partire da sotto i seni? E che le gambe erano dritte e terminavano con degli zoccoli?

— Non esattamente — lo corresse Phil, e descrisse i ciuffetti di pelo sulle caviglie e i garretti sottili come polsi.

— Ma a parte queste particolarità era esattamente identica a una ragazza normale? Escluse le orecchie da fauno?

— No — rispose Phil aggrottando le sopracciglia, dopo averci pensato un attimo. — Aveva delle cosce molto grosse, robuste, come se fossero fatte per galoppare su grandi distanze. E aveva le braccia piuttosto lunghe, anche se in quel momento non lo avevo notato. La parte superiore del corpo era piegata un poco in avanti, non so se rendo l’idea, ed era bilanciata da un sedere notevole, anche se non proprio grosso.

— Magnifico! — esclamò l’analista. — Non solo avete fornito alla vostra allucinazione delle perfette gambe da cavallo, ma avete anche compiuto gli adattamenti anatomici necessari a un bipede. — Sorrise fra sé, come perso nell’ammirazione della potenza creativa dell’inconscio.

— Ma tutto questo cosa significa per il mio stato mentale? — chiese Phil. Se non fosse stato per la preoccupazione, l’atteggiamento del dottore lo avrebbe fortemente irritato. — Cosa c’è in me che non va?

Il dottor Romadka si riscosse dai suoi sogni ad occhi aperti con un sorriso di scusa. — Cosa c’è nell’America che non va? — chiese amaramente. — È ancora troppo presto per arrivare a delle conclusioni, Phil; o meglio: per aiutarvi a raggiungere le vostre conclusioni. Naturalmente la proiezione visuale creata dal vostro inconscio presenta alcuni riferimenti interessanti.

— Quali? — chiese Phil. — Forse non sono stato abbastanza chiaro, ma io sono molto preoccupato per quanto è successo. Non riesco a togliermelo dalla mente.

Il dottor Romadka sorrise, e alzò le spalle. — Forse un tentativo d’interpretazione potrebbe darvi sollievo. Ma dovete ricordare che è un’analisi improvvisata e che potrebbe anche essere sbagliata. Vediamo. I primi elementi che emergono sono la paura di esperienze sessuali a cui cercate di attribuire un aspetto terrificante; lo sforzo di autoeffeminarvi mediante l’invenzione di un oggetto sessuale selvaggio, dotato di zoccoli; il tentativo di unire il sesso con una bestia che calpesta, che infligge dolore (forse un’autopunizione per la vostra attività di voyeur). Tutto ciò si adegua perfettamente alla mitologia classica delle ninfe e dei loro compagni naturali, i satiri dagli zoccoli caprini. Per non parlare dei centauri, che come saprete erano spesso maestri degli uomini. — L’analista aggrottò le sopracciglia. — È possibile che sia stata la proiezione visiva del desiderio di ricevere ammaestramenti amorosi. Ma immagino che, come sempre, i significati più nascosti siano quelli più importanti. Mi permettete di azzardare una supposizione su di voi?

Phil annuì.

— Siete un impiegato in perenne lotta con i robot?

— Sì — disse Phil esterrefatto.

— Una deduzione piuttosto elementare — disse l’analista modestamente, ma con uno scintillio compiaciuto negli occhi. — In questo caso dobbiamo sospettare la presenza di un altro elemento mitologico. Conoscete la storia di Pandora? C’è un particolare interessante in essa. Pandora, mandata dagli dèi sulla terra per portare all’umanità un vaso colmo di tutti i mali, non era una ragazza qualunque. No, era una fanciulla di metallo, forgiata da Efeso su ordine di Zeus. In altre parole, un automa, un robot, che porta, in questo caso, i mali della Seconda Rivoluzione Industriale, vale a dire l’introduzione dei calcolatori elettronici e dei sensori.

— Ma Pandora aveva gli zoccoli? — chiese Phil un po’ dubbioso.

Il dottor Romadka respinse l’obiezione con un gesto della mano. — Probabilmente il vostro inconscio ha unito anche la leggenda araba del cavallo meccanico. L’inconscio è molto artistico in queste cose, caro Phil. Se solo sapeste quanto è fantasioso e creativo non vi porreste certe domande.

— Ma tutto questo cosa c’entra col sesso? — chiese Phil.

L’analista si strinse nelle spalle. — Forse niente. Una proiezione visuale, come un sogno, può significare moltissime cose insieme. Vi ho avvertito che questa era un’analisi improvvisata. L’abbiamo sviluppata fin dove era possibile.

— Sentite — disse Phil dopo un po’, con una certa esitazione — le cose che avete detto sono molto interessanti, e alcune di esse mi hanno veramente colpito. Ma… spero che non abbiate obiezioni… c’è un’altra cosa che mi preoccupa.

— Dite pure.

Phil divenne ancora più diffidente. Alla fine parlò con uno sforzo. — Dottore, c’è qualche possibilità che quello che ho visto possa essere reale? Una minima possibilità?

L’analista rise amabilmente. — Neanche una — disse con assoluta certezza. — Cosa vi preoccupa, Phil? Credete che gli dèi greci e le loro creature possano essersi materializzate in qualche modo?

— Qualcosa del genere, immagino — disse Phil senza convinzione.

Il dottor Romadka si chinò verso di lui, appoggiando un gomito sulla scrivania. — Se aveste solo una pallida idea delle cose che la gente mi racconta da questa scrivania, dei normali nevrotici, voglio dire, non sareste così impressionato per la vostra esperienza. C’è una donna, per esempio, che vede sempre dei ragni lunari negli angoli. Un uomo invece scorge continuamente una ragazza vestita di una pelliccia di visone aderente che le copre anche la faccia. E un altro che si sveglia sempre nel mezzo della notte perfettamente convinto di essere a letto con… No, questo non dovrei dirvelo.

— Ma io sono sicuro di averla vista — insistette Phil. — Non era un’ombra, o un’immagine vaga.

Il dottor Romadka sorrise. — Quanta gente ha visto i dischi volanti, Phil? Inclusi astronomi e scienziati nucleari. Quanti hanno visto dei soldati russi, o dei missili russi che facevano capolino alla finestra della loro camera da letto? Quanti sostenevano di avere visto Roosevelt, e di aver parlato con lui, il giorno della Grande Paura durante la Seconda Guerra Atomica? E poi, Phil, le ombre c’erano: avete detto che la finestra polarizzante non era al massimo della trasparenza. Inoltre avevate preso troppe pillole di sonnifero, l’avete ammesso voi stesso, e a volte fanno degli strani scherzi. E per quanto riguarda gli zoccoli, non avete mai pensato che i tacchi alti sono come dei piccoli, crudeli zoccoli? Chiunque abbia visto delle donne mentre lottano può confermarvelo. E la pettinatura della ragazza, il suo vestito simile al manto di un cavallo pezzato, il rumore del tip-tap che avevate sentito… Non vi rendete conto che il vostro inconscio avrebbe potuto mescolare tutte queste cose, e migliaia di altre, in un’immagine che, nelle vostre condizioni di tensione, eravate prontissimo ad accettare?

— Penso che sia così — ammise Phil, abbastanza sollevato. Ma non per molto.

— C’è un’altra cosa — disse raddrizzandosi di scatto. — La cosa che ho supposto di vedere questo pomeriggio. Ed era anche molto più reale della satiressa. Ci sono stato insieme per un’ora. L’ho anche toccato.

— E cos’era? — chiese gentilmente l’analista, abbozzando un sorriso condiscendente.

— Un gatto verde — disse Phil.

Visto che l’analista non rispondeva, Phil lo guardò. Ma il dottor Romadka lo stava semplicemente fissando. I quattro graffi con il sangue raggrumato spiccavano sul suo volto impallidito.

— Un gatto verde, ho detto — ripeté Phil.

— Un gatto verde? — La voce dell’analista sembrava venire da lontano.

— Sì.

— Ummm — osservò l’analista, sprofondando ulteriormente nella poltrona, come se cercasse di raggiungere qualcosa con il piede.

Un campanello emise una nota musicale. L’analista afferrò il telefono. Il suo viso assunse immediatamente un’espressione irata. Parlò con pause piene di significato, durante le quali si accigliava. — Sì… No. Non posso. Assolutamente non posso, vi dico… Non potete farlo, sareste arrestata… Molto bene, allora, ma solo per cinque minuti, avete capito? Vi aspetto.

Riappese il telefono e si rivolse a Phil con un’espressione disperata, che la sua calvizie e i grandi occhi rendevano comica. — È una circostanza molto imbarazzante — disse. — Una mia ex-paziente insiste per vedermi subito, minaccia di fare una scenata all’ingresso se non la ricevo. E lo farebbe. Abbiamo avuto delle discussioni piuttosto violente prima che interrompesse le sedute. Non ho altra scelta che vederla. So come calmarla almeno per il momento, giusto per farla tornare a casa.

— È meglio che vada — disse Phil alzandosi.

— Assolutamente no — protestò il dottor Romadka — Voglio approfondire il vostro caso questa sera stessa. L’ultimo particolare a cui avete accennato ha aperto delle prospettive nuove! No, aspettate cinque minuti nella stanza accanto, dieci al massimo, finché non mi sarò liberato di lei.

— Credo che sia meglio che me ne vada — disse Phil. — Se non vi spiace.

— È impossibile — esclamò l’analista prendendolo fermamente per un braccio. — È gelosissima di tutti gli altri miei pazienti e senza dubbio vi salterebbe addosso nell’istante stesso in cui usciste dall’ascensore. Ve l’ho detto che porta una pistola a spruzzo laminata in oro, piena di acido solforico? È uno dei suoi trucchi. L’unica altra via d’uscita è il montacarichi, ma non è certo fatto per essere usato dagli uomini. No — continuò accompagnando Phil fino a una porta sotto l’arco, ma senza entrare lui stesso — aspettatemi qui per cinque minuti. Ci sono un sacco di cose da leggere, da guardare, da ascoltare… Non è che avrete molto tempo, comunque. Fidatevi di me, Phil. È tutto sotto controllo.

La porta si chiuse. Una rapida occhiata in giro gli mostrò scaffali pieni di libri e di libronastri, un divano, un tavolo in mezzo alla stanza e uno specchio sul soffitto. Poi si ricordò di aver lasciato le sigarette sulla scrivania. Premette il bottone di apertura della porta. Non successe niente. Lo premette di nuovo.

Il dottor Romadka non poteva essersi allontanato più di cinque passi. Cominciò a battere i pugni sulla parete.

— Dottor Romadka — chiamò. — Dottor Romadka!

Le luci si spensero.

5

Phil smise di battere i pugni, e il nero silenzio si chiuse attorno a lui sommergendolo, soffocandolo, come un preambolo della cella d’ospedale e dell’elettrosonno ai quali, ne fu improvvisamente sicuro, intendeva consegnarlo il dottor Romadka. Nell’oscurità sentiva il cuore battergli forte. Il suo respiro affannoso era quello di un animale.

Si chiese disperato perché l’analista, dopo aver preso così alla leggera la sua allucinazione della satiressa, l’avesse immediatamente identificato come un pazzo pericoloso non appena aveva parlato del gatto verde. Gli psicologi, presumibilmente, conoscevano delle cose sul linguaggio segreto della mente che non venivano mai dette alla gente comune: simboli apparentemente innocenti che bollavano un uomo come codardo, stupratore, assassino, traditore, criptocomunista, anticonformista. Si ricordò di un frammento di conversazione che aveva udito da qualche parte: «Naturalmente, non appena lui interpretò la macchia in quel modo lo portarono in manicomio».

Si udì uno scatto secco. Phil sobbalzò e guardò in alto. Una sottile lama di luce apparve sul soffitto, si allargò, proiettando un ovale luminoso sul tavolo. Si rese conto che lo specchio era scivolato di lato. Non riusciva a vedere molto della stanza soprastante, a parte delle file di microfilm e un pezzo di una macchina tele-lettrice, di quelle che potevano collegarsi con tutte le microlibrerie d’America. Da dove si trovava non poteva scorgere nessuna figura umana, ma non voleva entrare nel fascio di luce. Si chiese, con un certo incredulo orgoglio, se era un tipo tanto pericoloso da essere catturato con una rete, come un pesce. Proprio in quel momento, dal buco ovale, spuntò un piede.

Era un piede delizioso, snello, rivestito della più lussuosa e brillante delle calze, di quelle che offrivano a ogni dito un suo traslucido compartimento. Fra le dita passavano quattro cordicelle di velluto nero che sostenevano una leggerissima scarpetta nera e che davano al piede un aspetto eccitante, pur facendolo assomigliare vagamente a un ragno. Si intravedeva anche una caviglia sottile e un polpaccio ben tornito, che non aveva affatto bisogno della calza per essere affascinante. Era tutto quello che poteva vedere per il momento, ma l’attesa non durò a lungo. Il primo piede fu seguito dall’altro, e subito dopo da tutto il resto della ragazza. Rimase appesa per un attimo, voltandogli le spalle. Ebbe una rapida immagine di un corto abito da sera nero, una mantellina nera, lunghi capelli scuri che cadevano sciolti e bianche braccia coperte da guanti neri che cominciavano sotto il gomito e terminavano alle nocche.

Il suo piede, strisciando sul tappeto, fece un lieve rumore. Di scatto lei si girò come una pantera, con un verso acuto. Il breve movimento colpì Phil per due cose: la prima, che gli venne rivelata dall’aprirsi della mantellina, era che il suo abito da sera cominciava da sotto il seno: una moda di cui aveva letto e fantasticato parecchio, ma che al suo livello sociale non era affatto seguita; la seconda, molto più degna di attenzione, era che le dita della mano destra della ragazza terminavano con degli artigli d’argento e che nella sinistra stringeva un oggetto anacronistico ma piuttosto preoccupante: un coltello dalla lama scintillante, lungo trenta centimetri. Con mossa da spadaccino glielo appoggiò alla gola.

— Ti ha mandato mio padre a spiarmi? — chiese, sibilando le parole.

— No, no — rispose Phil con voce soffocata, cercando di non muovere il pomo d’Adamo.

— Cosa ci fai qui allora, nascosto al buio? — chiese premendo un po’ di più con il coltello.

— Vostro padre mi ha chiuso dentro — disse Phil, piegandosi indie tro.

— Ishtar! Lo fa anche con i suoi pazienti — commentò lei. Il suo tono era ancora dubbioso, ma abbassò il coltello mettendosi in posizione di guardia, cosa che permise alla mantellina di coprirla in modo meno provocante.

— Mi ha chiuso e ha spento le luci — confermò Phil.

Lei socchiuse gli occhi, guardandolo pensosa fra le lunghe ciglia — Potrei quasi credere alla prima parte — disse. — Manda spesso qui i suoi pazienti per osservarli.

— Per osservarli?

Lei indicò il soffitto con un artiglio d’argento. — Lo specchio è trasparente dalla parte di sopra. Gli piace guardare cosa fanno i suoi pazienti quando credono di essere soli, o in coppia. Olimpico guardone! Ma questa sera gli ho lasciato il segno. — Mostrò gli artigli, macchiati di un colore bruno rossiccio.

Phil sentì che lo stomaco gli si rivoltava, ma colse l’occasione per chiedere: — Se lo specchio è trasparente, com’è che non mi avete visto quando mi ha chiuso dentro?

— Lui lo copre sempre quando non lo usa — rispose lei — e a me interessava aprirlo, non guardarci dentro. Ho scoperto la serratura solo mezzo minuto fa. Mio padre probabilmente non sa neppure che esiste. È molto abile nel suo sudicio lavoro, ma di meccanica non capisce niente.

— Voi invece sembrate brava in un sacco di cose — disse Phil. — Nella scherma soprattutto.

Lei si toccò pensosamente il labbro superiore con la punta della lingua. — Non sei male, anche se hai un’aria un po’ fiacca. Perché ti ha chiuso qui? Ti interessa troppo il sesso? Credevo che incoraggiasse la cosa nei suoi pazienti, e cercasse di imperdirla soltanto alla sua amata figliola.

Mentre Phil cercava le parole più adatte a rispondere, gli occhi scuri della ragazza si fecero pensosi. — Di’, che ne diresti di noi due? — Fece una pausa, poi con un gesto secco lanciò il coltello sul pavimento, dove si conficcò vibrando. Avanzò verso Phil. — Sì, tu ed io.

— Vostro padre può tornare da un momento all’altro — protestò Phil agitato.

— Giusto, e mi piacerebbe tanto vedere la faccia che farebbe. — Sollevò le braccia. — Guarda come sono bella. Guardali. Sembrano due boccioli di rosa.

Era veramente molto bella. Ma nonostante questo Phil si sentì gelare. Lei scoprì i denti e avventò gli artigli verso la sua guancia, ma all’ultimo momento trasformò l’unghiata in una carezza sprezzante.

— Non preoccuparti — disse. — So che il mio fascino è di quelli che terrorizzano i deboli. E poi il corvo non si accoppia col coniglio. Volevo farlo solo per dispetto a mio padre. Perché ti ha rinchiuso? Mi sembri così inoffensivo.

— Ho detto qualcosa a proposito di un gatto verde, tutto qui — rispose Phil con un tono di voce petulante.

Lei strabuzzò gli occhi. — Per Tammuz! Proprio dopo aver incoraggiato gli Akeley ad adorare Bast. È così incostante quell’uomo che certe volte penso sia un criptocomunista con una gran confusione in testa a forza di camuffarsi da qualcosa d’altro.

— Ha detto anche qualcosa a proposito di una sua ex paziente violenta che va in giro con…

— …una pistola a spruzzo placcata d’oro, lo so — lo interruppe lei. — È la sua storiella preferita per liberarsi dei pazienti.

— Ma non mi ha dato l’impressione di volersi liberare di me.

— No — confermò lei allegramente, estraendo il coltello dal pavimento. — Sembra che voglia tenerti qui.

— Io credo che voglia mandarmi in un ospedale psichiatrico — azzardò Phil, con la segreta speranza di essere contraddetto, ma lei si limitò ad annuire.

— Non ti invidio — aggiunse, infilando il coltello in un fodero nella gonna. — Mio padre è un seguace dei metodi all’antica, tipo terapia per convulsioni e fosse dei serpenti simulate. Bene, se gli assistenti torturatori sono in arrivo, sarà meglio che me ne vada. — Fece tre rapidi passi, poi si voltò a guardarlo freddamente, stringendo le labbra. — Vuoi venire con me? — chiese. — Non che tu mi piaccia, neanche lontanamente. Detesto gli uomini; sto ribollendo di protesta contro i maschi, come direbbe mia nonna. Ma mi piace sempre contraddire mio padre.

Phil aveva la sensazione di dover scegliere fra la padella e la brace, ma non esitò a rispondere di sì.

Lei fece un cenno di assenso con la testa e si diresse verso una parete. — Volete provare con l’ascensore? — provò a chiedere Phil.

— No di certo — rispose lei seccamente.

— Ma lui ha detto che l’unica altra via…

— Sshh! — sibilò lei, e schiacciò un bottone di apertura.

La parete non si mosse di un centimetro. — Dunque è in codice — osservò la ragazza. — Dovevo immaginarlo. — Premette ancora il bottone secondo un rapido ritmo, con il medesimo risultato. — Oh, oh, è nel codice speciale, l’unico che io non dovrei conoscere. — Gettò un’occhiata a Phil. — Devi essere importante — sbuffò. Premette il bottone con un altro ritmo. Questa volta, con una certa sorpresa da parte di Phil, la parete si aprì obbediente. Lui la seguì in una cucina luccicante; c’erano scaffali sotto vetro con bistecche e verdure sterilizzate ai raggi gamma, freezer, forno a raggi infrarossi, coltura di funghi e un piccolo serbatoio di microbi per gli aperitivi. Phil spalancò gli occhi alla vista di tanto lusso, poi gli venne in mente una cosa. — E lo specchio aperto? Se vostro padre salisse di sopra e si accorgesse che me ne sono andato?

— Non questa sera, dopo quello che gli ho fatto. Ora smettila di fare domande. — Era in piedi di fronte a un cilindro verticale che sporgeva per metà da una parete, impegnata ancora una volta a premere bottoni. Una lucina verde salì lungo una colonna di pulsanti, veloce come un razzo. — Vai a prendere un cuscino in libreria, presto!

Quando Phil tornò stringendo al petto un cilindro di gommapiuma alto una trentina di centimetri, sul montacarichi era aperta una porticina che al massimo poteva servire a un nano. — Mettilo sulla piattaforma — gli ordinò — sopra tutte quelle cinghie. Servono per i pacchi. Bene. Ora entra e sieditici sopra. Metti le mani ai due lati del cuscino e afferrati alle cinghie. Stringile bene, perché scende più in fretta che se fosse in caduta libera e non ti conviene restare indietro seduto a mezz’aria. E stai dritto, se non vuoi farti portar via la testa.

— Un momento! — disse Phil, ritirando il piede che aveva già infilato nell’apertura. — Non vorrete…

— Io vengo dopo, perché so come far funzionare il bottone dal di dentro. Sbrigati.

— Ma questo è il montacarichi, vero? — chiese lui.

— Cosa ti aspettavi? Degli schiavetti che ti portassero giù per una scala a chiocciola? Oppure, se ne hai voglia, puoi sempre cercare di convincere mio padre a comprarmi un elicottero.

— Volete dire — disse Phil con voce tremante — che io dovrei andar giù per quel buco su una piattaforma senza protezione?

Lei tirò fuori il coltello dalla gonna. — Voglio dire che lo farai; altrimenti ti chiudo di nuovo nella biblioteca.

Phil fece un salto indietro, e si sedette immediatamente sulla piattaforma, fece scivolare la testa sotto l’apertura, ritirò lentamente le gambe e assunse la posizione del Budda Ansioso. — Non c’è bisogno di spingere — disse dignitosamente.

— Ti manderò al primo piano sotterraneo — disse lei seccamente. — Hai cinque secondi per uscire. Spero che la porta sia aperta. In caso contrario, dovrai tornare su, sperando che sia io a chiamare e non un altro piano. Non preoccuparti — gli disse chiudendo la porta. — Io l’ho fatto una dozzina di volte… O almeno ci ho pensato.

Nel buio la schiena di Phil si irrigidì come acciaio temprato, e le mani che stringevano le cinghie divennero quelle di un gorilla. Ebbe solo il tempo di pensare che se avesse avuto con sé Lucky, infilato sotto la giacca…

La piattaforma schizzò via sotto di lui, trascinandolo con sé. Lo stomaco gli si arrampicò rapidamente sopra il cuore e si sistemò appena sotto il pomo d’Adamo. Un serpente gigante sibilò e Phil si rese drammaticamente conto di trovarsi a soli pochi centimetri da una terribile morte per attrito. Poi, mentre cominciava a pensare di essersi sistemato, sentì distintamente la piattaforma attraverso il cuscino, le caviglie gli affondarono nel sedere, le vertebre si infilarono nei dischi intervertebrali e varie altre cose si rimescolarono dentro di lui.

Si ritrovò a guardare confusamente una stanza vuota e semibuia. Ebbe la netta sensazione che i minuti stavano passando. Si tuffò fuori, appena in tempo prima che la piattaforma partisse con un violento risucchio. Stava ancora prendendo fiato, quando dallo scivolo giunse una folata d’aria e la piattaforma si fermò con uno zing. La signorina Romadka balzò agilmente a terra e si inchinò a un pubblico immaginario.

— Non l’avevate mai fatto prima? — chiese Phil accigliato.

— Certo che l’ho fatto. Ma sapevo che dicendoti il contrario avresti preso la cosa più seriamente. — Gli pizzicò un orecchio. — Vieni, non sei ancora sfuggito alle grinfie di mio padre.

Quasi suo malgrado Phil si accorse che poteva alzarsi e seguirla. Si sentiva quasi calmo. — Come siete riuscita a premere il bottone dall’interno?

— L’ho tenuto schiacciato con del nastro adesivo, sono entrata e ho chiuso la porta. La piattaforma non si muove se una delle porte dei piani superiori è aperta.

— A proposito, come vi chiamate?

— Mitzie — disse lei. — Mitzie Romadka.

— Io Phil. Phil Gish.

Lei lo condusse in un garage immerso nell’ombra, pieno di macchine di lusso tutte decorate, chiuse in box simili a celle di prigione. Più avanti c’era una rampa che portava verso l’alto. Mitzie premette un segnale in codice di un cancello che proteggeva una piccola coupé nera completamente priva di fronzoli.

— Ha un’aria molto innocente, vero? — osservò lei. — Era di un becchino. — Saltò dentro. Lui alzò le spalle con rassegnazione e la seguì. Constatò, senza particolare sorpresa, che lei aveva indossato una maschera da sera nera che le copriva tutto il viso. — Non è mia — spiegò. — La tengo nascosta per conto di Carstairs e della banda. È roba che scotta.

Con questa rassicurante osservazione si diresse verso la rampa, mentre il piccolo motore elettrico della macchina ronzava sommessamente. Il portone si aprì automaticamente. Si ritrovarono fuori, nella luce spettrale dello specchio al sodio. Avevano quasi raggiunto il livello stradale quando una grossa auto si fermò proprio davanti a loro, bloccando per tre quarti l’uscita. Ne balzarono fuori due uomini, mentre un terzo, di cui Phil riuscì a scorgere soltanto le gambe e la pancia rotonda, corse loro incontro con andatura ondeggiante.

— Sta’ a sentire, se questo è un altro falso allarme… — sentì che diceva uno degli uomini dentro l’auto con tono scettico.

— Non essere assurdo — disse seccamente un altro, e Phil riconobbe la voce del dottor Romadka. — Ti ripeto che ha parlato di un gatto verde.

In quel momento l’analista voltò la testa e vide Phil che lo guardava con occhi spalancati.

— Eccolo! È lui!

Il grido rabbioso del dottore venne coperto dallo stridìo dei pneumatici, mentre Mitzie lanciava l’auto nello stretto passaggio tra il muro della rampa e la macchina dei nemici. I paraurti dei due veicoli si agganciarono, si staccarono con un rumore stridente, ma alla fine si ritrovarono sulla strada, prendendo lentamente velocità. Phil si guardò alle spalle.

— Sono risaliti — disse a Mitzie. — Stanno girando.

— L’avevo detto io che eri importante — mormorò lei sotto la maschera, ancora incredula. — Forza allora! — E improvvisamente infilò la macchina in una piccola rampa che conduceva verso il basso — Ehi, c’è scritto Solo uscita! — guaì Phil.

— È proprio per questo che l’ho presa — disse lei seccamente.

Lui chiuse gli occhi mentre la macchina correva all’ingiù, ma quella sera gli dèi sembravano più inclini alla generosità.

Quando la macchina si fu raddrizzata, Phil riaprì gli occhi. Si trovavano al livello stradale sotterraneo, dove brillavano i gialli lampioni al sodio e stavano avanzando a discreta velocità. Ancora una volta Phil si guardò alle spalle.

— Ci hanno seguiti — disse con stupore, misto forse a un po’ d’orgoglio.

— Sei davvero importante — mormorò Mitzie scuotendo la testa. — Bene, questo topolino non è stato certo fatto per battere quel rinoceronte. Preparati per l’accelerazione, e prega che le auto nei prossimi dieci incroci siano al posto giusto.

Phil si sentì schiacciare contro il sedile di gommapiuma su cui aveva appoggiato la nuca. Proprio dietro di loro apparve un bagliore rossastro. La macchina inseguitrice rimpicciolì rapidamente. Voltandosi con difficoltà, si accorse che le luci al sodio si erano trasformate in una striscia gialla. L’auto schizzò di fronte a un autocarro che stava sbucando da una strada laterale. A quella velocità tutto sembrava fermo. Alcuni isolati più avanti saettarono fra due auto, anch’esse apparentemente immobili. Il bagliore rosso si spense. Presero un’altra rampa segnata SOLO USCITA e sbucarono nella gialla notte spettrale. Presero un’andatura molto meno spericolata e girarono quattro angoli uno dopo l’altro.

— Questo dovrebbe bastare — disse Mitzie con professionale noncuranza. Phil annuì debolmente.

— Carstairs ha fatto montare il servorazzo ieri — spiegò lei. — Non era del tutto sicuro che l’allineamento fosse perfetto. Un bel trucco, vero? È molto utile se per esempio hai appena svuotato un robot venditore e ci sono tre macchine della polizia che ti puntano addosso, e magari anche un elicottero sulla testa. È molto più utile di una cortina fumogena. Vedrai.

— Ho già visto — l’assicurò Phil con un brivido, ma un po’ distrattamente.

— Questo era niente — disse lei con disprezzo. — Il bello è quando hai appena fatto un colpo e ti stanno beccando. Allora sì che c’è da divertirsi. Vedrai, ti dico. Sai una cosa, Phil, mi piaci. Sei spaventato a morte, però stai al gioco. Sono sicura di poter persuadere Carstairs a lasciarti entrare nella banda.

Phil rabbrividì di nuovo, ma la sua mente era altrove. Né i passatempi criminali di Mitzie Romadka, né la sua improvvisa amicizia riuscivano a risvegliare il suo interesse. Con lo sguardo fisso sulla strada colorata di giallo, pensava a Lucky e a come si era sentito quando il gatto era con lui.

Improvvisamente si riscosse. — Cos’era quel gatto verde, a proposito? — stava chiedendo Mitzie con indifferenza. — Uno smeraldo intagliato o la parola d’ordine di una società segreta?

Phill scrollò le spalle.

— Bene, dimentichiamocene allora — disse lei — e divertiamoci un po’. — Spinse al massimo la velocità del motore elettrico e passò un semaforo rosso che emise un guaito di protesta. I suoi occhi brillavano malignamente dietro il pizzo nero della maschera. Il suo respiro si fece più affrettato, la voce eccitata. — Carstairs ha individuato una serie di robot venditori. Gli saltiamo addosso e li sventriamo: uno, due, dieci! Saltate, sorelle, saltate!

Quest’ultima, esuberante osservazione, era rivolta a due donne avvolte in mantelli in bilico su piattaforme luccicanti, e venne accompagnata da un insidioso tuffo della macchina verso di loro. Fecero appena in tempo a rifugiarsi sul marciapiede, dove caddero sulle ginocchia, gridando. Mitzie tubò felice.

Come se si svegliasse da un sogno Phil improvvisamente esclamò: — No! Non voglio averci niente a che fare! Potete lasciarmi al 3010 della Opperly Avenue, livello superiore — aggiunse.

Lei, una volta tanto, lo guardò con una certa curiosità, perfino con sorpresa. — Va bene — disse dopo un po’ — ti accontenterò, se non altro per come mi sono divertita a vedere la faccia che hai fatto quando ho chiuso la porta del montacarichi. — Fece una strettissima conversione a U, contro tutte le norme del codice. Senza neppure guardarlo disse rudemente: — Non cerco mai di investire i vecchi, sai. Non hanno abbastanza ormoni, non c’è divertimento. Quelle due ragazze invece erano uno spettacolo.

Lui non fece commenti. Per un po’ proseguirono in silenzio. Poi Phil si rese conto vagamente che Mitzie gli lanciava delle occhiate.

— Se ti riuscisse di raccogliere un po’ di coraggio e cambiassi idea — disse lei irritata — potrai trovarci al Tan Jet, sul tardi.

Ancora una volta Phil rimase zitto. Lei continuò a bassa voce: — La notte è l’unico momento in cui si può vivere, sai; almeno in questo secolo. Ci hanno portato via le giungle, e il mare aperto e le autostrade, perfino lo spazio e l’aria. Hanno abolito metà della notte. Hanno cercato di sottrarci anche il rischio. Ma noi l’abbiamo ritrovato nelle città; noi che abbiamo fegato e odiamo le pecore! Bene, eccoci al 3010 della Opperly — aggiunse, bloccando la macchina.

Phil aprì la portiera e fece per uscire. Soltanto allora Mitzie sembrò accorgersi della grande insegna luminosa e si rese conto che l’indirizzo era quello dello stadio di lotta della Divertimenti SpA. Si sporse attraverso il sedile mentre lui era già sul marciapiede e si voltava per chiudere la portiera.

— Così è questo che ti interessa! — gli gridò con rabbia, mentre la maschera si gonfiava e sgonfiava al ritmo del suo respiro. — Mi respingi, arricci il naso di fronte ai miei amici e ai miei modi, sei superiore alla violenza e al sesso, e poi non pensi ad altro che a soddisfare i tuoi istinti guardando lottare uomini e donne! — Per un istante, prima che gli sbattesse la portiera in faccia, dei lampi sembrarono scoccare attraverso i buchi per gli occhi della maschera. — Io almeno i miei divertimenti me li godo in prima persona, piccolo verginello schifoso!

6

La folla che usciva dal corridoio cancellò via da Phil lo spiacevole ricordo degli epiteti di Mitzie. Si fece strada rasentando la parete, schiacciato e pestato, preso a gomitate, semiasfissiato da nuvole grigio-azzurre di tabacco e di cosiddetta erba venusiana, deliziato da commenti del tipo: «Avrebbe potuto sbarazzarsi di lei tutte le volte che voleva.» E: «Proprio non le sopporto quelle stupide donne giudice!»

Finalmente venne risucchiato da un vortice di folla vicino al corridoio laterale. Senza molta speranza boccheggiò: — Juno Jones. — Il Vecchio Bracciodigomma sussurrò raucamente: — Entra pure amico — e inarcò leggermente il suo braccio grigio per lasciare passare Phil, mentre col resto della sua lunghezza si sforzava di trattenere un improvviso flusso di gente e con l’estremità bloccava un tipo vestito di marrone con gli occhi fuori delle orbite che aveva cercato di infilarsi dietro di lui.

Phil si asciugò la fronte e respirò profondamente. Si sentiva un po’ incerto sulle gambe ora che non c’era più la calca. Una donna uscì dalla porta di fronte. Era vestita in modo sciatto, ma vistoso: un lungo abito informe, scarpe coi bottoni, cappello a larghe tese con dei fiori, collo di pelliccia e guanti. Sembrava una donna delle pulizie di una volta, col vestito della festa. Non la riconobbe finché la folla dietro di lui cominciò ad acclamarla, scandendo il suo nome: — Juno! Juno!

Lei li salutò con un gesto della mano, ma i suoi occhi erano fissi su Phil.

— Ehi, sono felice di vederti — disse afferrandolo per un braccio. Poi gli mormorò: — Non fare domande. Vieni con me — e lo trascinò lungo il corridoio, lontano dalla gente.

Le grida della folla si fecero deluse e un po’ irritate. Una voce acuta si udì sopra le altre: — Dove vai con quella mezza cartuccia?

Juno si voltò di scatto e si piantò di fronte a loro: — State a sentire, babbei! — tuonò, e la folla si zittì, mentre il lampo di un flash la illuminava. — Lo so che sono la vostra eroina, e ne sono felice, ma anch’io ho diritto alla mia vita amorosa! E non permettetevi di offenderla!

Mentre la folla scoppiava a ridere e riprendeva ad acclamarla, Juno spinse Phil attraverso una porta. — Spero che non ti spiaccia quello che ho detto. Sono i miei ammiratori, e devo tenermeli buoni.

Phil scosse la testa, un po’ confuso. Si aspettava che lei si fermasse non appena fuori degli sguardi della gente, invece continuò a spingerlo lungo uno stretto corridoio.

— Stai a sentire, ehm… — cominciò con voce ansiosa.

— Phil — disse lui. — Phil Gish.

— Phil, senti, vuoi venire a cena con me?

— Certo — disse Phil.

— Bene. — Sembrò sollevata, ma non smise di guardarsi intorno con fare apprensivo mentre continuava a camminare in fretta. — Conosco un buon ristorante. Un posto tranquillo, dove fanno dell’ottimo coniglio allo spiedo. — Raggiunsero una stretta scala immersa nell’ombra. Juno lo fece voltare da quella parte, ma mentre Phil stava per salire lo tirò indietro. — Non di lì, Phil, per carità — lo avvertì. — Si va dritti da Billig e dalle vespe. Il posto che dico io è al livello inferiore. — Cominciò a scendere. — Potevamo prendere l’ascensore, ma di qui è meglio. Più privato — aggiunse con tono burbero.

Alla fine delle scale una porta stretta immetteva direttamente in una sala buia con un bancone che correva lungo una delle pareti e di fronte si apriva una fila di separé. A giudicare dalle cromature annerite doveva risalire al 1960. I clienti erano camionisti, poliziotti e altri individui meno identificabili. Vicino alla porta da cui erano entrati c’era quella dell’ascensore. Juno agitò una delle sue manone verso un paio di tizi e gridò a qualcuno: — Whisky e braciole, e che siano ben cotte. Tu cosa prendi, Phil?

Lui si ricordò che non mangiava dal giorno prima e mormorò qualcosa a proposito di un sandwich di fermenti e di un bicchiere di latte di soia. Lei gli lanciò una strana occhiata ma non fece commenti, poi lo prese nuovamente a rimorchio. Rispose ad alcuni saluti ma senza intrattenersi, e sembrò sollevata di scaricare Phil nel separé vicino alla porta d’ingresso, dove più forte era il rumore dei camion. Le luci dei fari, mescolate con quella dello specchio al sodio, lampeggiavano attraverso il plastivetro graffiato e polveroso. Ma, cosa straordinaria, non c’era traccia di jukebox o di radio di sorta nel locale. I bottoni sulla parete a fianco del tavolo portavano l’indicazione di cibi sintetici ormai inesistenti, con un cartello di FUORI SERVIZIO che doveva avere almeno vent’anni.

Phil studiò la sua compagna, seduta di fronte a lui, e si rese conto che doveva averle prese parecchio. Sulla mascella portava ancora i segni di un brutto colpo, malamente coperto da un trucco frettoloso. Juno aprì la borsetta, agitata come una ragazzina timida, e cominciò a incipriarsi la mascella. Poi ci rinunciò, mise via la cipria e si piegò in avanti appoggiando sul tavolo i grossi gomiti.

— Non crederci se ti dicono che gli incontri sono truccati — disse accigliata. — Zubek si è fatto scoppiare le budella per cercare di battermi stanotte.

— Hai vinto? — chiese Phil.

— Oh, certo. Due cadute, un avvitamento e una caduta libera… Vuol dire che l’ho fatto volare fuori e non è più tornato indietro.

Un vassoio scivolò lungo il banco del bar. Juno si alzò e lo prese ancor prima che Phil si rendesse conto che era per loro. A giudicare dalla velocità con cui era stato eseguito l’ordine, Phil decise che dovevano servirsi ancora del forno a raggi infrarossi. I pezzi di coniglio di Juno erano grossi quanto delle piccole bistecche (doveva essere come minimo un coniglio ottoploide), mentre il whisky era scuro e abbondate. Phil assaggiò il sandwich e lo trovò passabile, sebbene si sentisse sempre a disagio quando mangiava in un ristorante non meccanizzato.

Mentre Juno masticava le braciole e beveva whisky gli accennò alla storia della sua vita. Phil seppe così che era una ragazza di campagna, venuta ancora giovane in città, che aveva sofferto le solite disillusioni. — Come fa una ragazza a cavarsela di questi tempi? — chiese a Phil. — Specialmente una grande e grossa come me? Non che avessi un brutto personale, ma anche allora ero troppo grossa e forte. Facevo spaventare gli uomini, e a quel tempo non conoscevo ancora quelli a cui potevano piacere le mie doti. Allora provai per un po’ a fare la madre di fatica (sai cos’è, dare alla luce i bambini per le signore ricche che non hanno voglia di portarseli per nove mesi), ma sapevo che non c’era futuro in quella professione. Tempo dieci anni e mi sarei ritrovata a frugare nei bidoni dei robot spazzini, cercando di far durare un mese un vestito di carta gettato via. Allora mi ricordai che al mio paese ero capace di stendere nove ragazzi su dieci e mi iscrissi a delle gare per dilettanti. Dopo un po’ presi ad addestrarmi per diventare una professionista. — Scosse tristemente la testa. — Avresti dovuto vedermi allora; ero veramente bella prima che fossi costretta a fare la cura di ormoni. — Si guardò con un certo schifo le mani, ancora coperte dai guanti bianchi, macchiati di sugo. — Mi hanno dato anche la pituitrina, quei bastardi. — Sospirò e scosse le spalle. Ormai le erano rimaste solo le ossa nel piatto e stava scolando il secondo whisky. — Ecco com’è andata, Phil. Naturalmente dovevo finire per innamorarmi di un lottatore e sposarlo, quel piccolo farabutto. La maggior parte delle ragazze nel nostro mestiere fa questo errore. Ma almeno posso permettermi di mangiare coniglio, e anche carne, e ci sono un sacco di imbecilli che mi rispettano.

Phil annuì con forza. — Ti sei fatta una posizione nella vita. Una posizione sicura.

— Stai scherzando? — chiese lei. — Fra cinque anni sarò finita. Dieci al massimo, se riesco a diventare un personaggio. — Scosse la testa e si piegò in avanti. — Anzi, le cose stanno molto peggio. I combattimenti fra maschi e femmine hanno vita breve. Il governo vuole proibirli.

— Lo dicono sempre — cercò di rassicurarla Phil — e non lo fanno mai.

Lei si strinse nelle spalle con aria rassegnata. — Questa volta lo faranno.

— Ho sentito il Presidente che diceva qualcosa del genere, stasera — disse Phil — ma sembrava ubriaco.

Lei alzò ancora le spalle.

— Si dice che la Divertimenti SpA abbia un sacco di agganci nel governo — obiettò Phil.

Lei sorrise con aria strana. — Giusto. I migliori agganci che un’organizzazione abbia mai avuto. Ma ormai ha fatto il suo tempo. Da qualche settimana Moe è preoccupato, molto preoccupato. Te lo dico io.

— Moe?

— Moe Brimstine. Quello che hai visto questo pomeriggio.

— Ah, sì — disse Phil, mentre gli ritornava vividamente alla memoria l’immagine della sua figura massiccia, dalla mascella quadrata, che riempiva il vano della porta. — Sai, sono rimasto sorpreso quando mi sono accorto che la sua voce era quella del Vecchio Bracciodigomma — continuò con una piccola risata. — Mi sembrava un uomo troppo importante per fare il portiere.

— Sicuro che lo è! — esclamò Juno, riacquistando per un attimo la sua voce tonante. — Non crederai davvero, Phil, che lui passi il suo tempo a spiare attraverso un buco, manovrando quell’affare di gomma? Si è solo servito della sua voce per registrare le domande e le risposte di Bracciodigomma. Si diverte un mondo a fare cose del genere. — Inarcò le folte sopracciglia. — Non sai neanche chi è Moe Brimstine?

Phil scosse la testa.

— Ma dove sei vissuto per tutto questo tempo? Scusa, Phil, ma Moe Brimstine è… accidenti, è uno dei capi dell’organizzazione, un pochino più sotto solo al signor Billig in persona!

Quando Phil mostrò di non conoscere neppure quest’ultimo, lei ci rinunciò. — Non importa, Phil — disse in tono amichevole. — Sappi che Moe Brimstine è praticamente il capo della Divertimenti SpA, che controlla i centri di lotta e di divertimenti, i robot venditori, i sexy-jukebox e un sacco di altre cose di cui non si parla molto. Ed è preoccupato, molto preoccupato. Io conosco Moe, lui vive solo per l’organizzazione. Per questo dico che le cose vanno davvero male. — Fece una pausa, poi aggiunse enigmaticamente, come se la cosa la riguardasse personalmente: — Un sacco di cose vanno male.

Phil annuì. Rimasero un po’ in silenzio.

— Dimmi, Phil — fece Juno alla fine a bassa voce, guardandosi le grosse dita macchiate di sugo che stringevano il bicchiere vuoto. — Era proprio una… come si dice… un’allucinazione, vero, quella del gatto verde?

— Prima pensavo di sì — rispose Phil a bassa voce. — Ora non ne sono tanto sicuro.

Lei tirò un profondo respiro e lo guardò. — Sai una cosa — disse con improvviso calore — neanch’io ne sono sicura. Dimmi, Phil, quanto può valere quel gatto, ammesso che ci sia? Diecimila dollari?

Phil spalancò gli occhi, ma contemporaneamente pensò che il valore di Lucky non avrebbe mai potuto essere misurato in denaro. — Diecimila dollari? — mormorò. — Non ne ho la più pallida idea. Perché ti è venuta in mente una simile cifra?

— Ecco — disse Juno lentamente — dopo che gli Akeley (che gli venga un colpo!) se ne sono andati, Jack è venuto da me e ha cominciato a dirmi che mi ero comportata come una stupida, non perché ti avevo lasciato entrare, ma perché ti avevo lasciato andar via. Mi dice: «Tu sei stupida, Juno, completamente stupida. Non sai riconoscere le buone occasioni. Io sarei in grado di ricavare diecimila dollari da quella mezza cartuccia, solo che non lo farò, almeno non subito» dice «perché ci sono cose più importanti, Juno, cose più importanti» — finì lei facendo roteare gli occhi, come se fosse sul ring, sul punto di affrontare il marito nei panni di Swish Jack Jones, lo Scannafemmine.

— Da parte mia, comunque — continuò dopo un po’, con voce meno indignata — non mi sono mica stupita troppo, perché lui cerca sempre di stuzzicarmi da quando ha conosciuto Sashy (Jack non vuole che lo chiami così) Akeley. Ma questa sera, appena scesa dal ring, Moe Brimstine comincia a farmi un sacco di domande su un gatto verde. Si vede che aveva risentito i nastri del Vecchio Bracciodigomma, e inoltre io avevo accennato qualcosa a proposito di un gatto verde parlando con te. Lui faceva finta che fosse tanto per curiosità, come si dice, ma Moe Brimstine non fa mai niente senza scopo. Io naturalmente gli ho detto che tu eri solo un povero matto innocuo coi gatti per la testa, ma lui non sembrava del tutto soddisfatto. — Guardò Phil perplessa. — Anche tu credevi di essere matto questo pomeriggio, vero? Non ci credevi mica ai gatti verdi? Dopo che noi ti abbiamo convinto, voglio dire.

Phil annuì.

— Ma adesso hai cambiato idea?

— Sì. Vedi, alla fine ho seguito il consiglio di tuo marito e sono andato dallo psicoanalista.

— Quel maledetto psicologo degli Akeley! — disse lei con disprezzo.

Phil le raccontò del suo incontro col dottor Romadka. Quando ebbe finito, Juno esplose. — Ho capito tutto. Se ti ha chiuso a chiave, e ha chiamato dei gorilla, e quelli hanno anche infranto il codice per correrti dietro, allora di sicuro il gatto non te lo sei sognato, amico!

— Non sembravano dei gorilla — obiettò Phil dubbioso. — E poi la signorina Romadka non ha dato grande importanza al gatto verde.

— Quella schifosa sgualdrinella! — disse Juno con un gesto di disprezzo.

Phil ci restò di sasso. Non si era reso conto di averle detto tanto di Mitzie.

— E poi — continuò Juno come se questo chiudesse la questione — Moe si interessa al gatto verde, altrimenti non mi avrebbe fatto tante domande, e di qualsiasi cosa si interessa Moe. stai sicuro che deve essere vera. Ah, quel povero scemo!

— Chi? Moe? — chiese Phil confuso.

— Certo che no. Volevo dire Jack. Vedrai quando Moe si accorge che ha preso il gatto verde e se l’è tenuto. — Inarcò le sopracciglia eccitata. — Sta’ a sentire, Phil, secondo me è andata così: Moe dice a Jack e a qualcuno degli altri: «Ragazzi, ci sono diecimila dollari per chi mi porta un gatto verde». Diecimila è la cifra preferita di Brimstine quando tratta coi furbastri come Jack. Poi…

— Ma cosa se ne fa Moe Brimstine di un gatto verde? — obiettò Phil. — Perché non glielo hai chiesto?

— Amico, nessuno chiede mai niente a Moe Brimstine — rispose Juno.

— Allora credi che tuo marito e Cookie mi abbiano rubato il gatto verde mentre il Vecchio Bracciodigomma mi tratteneva nel corridoio?

Juno gli diede un’occhiata come per dire che quella era una cosa ovvia.

— Ma il signor Brimstine ha interrogato anche tuo marito?

— Jack non era in programma questa sera — spiegò Juno. — Se ne è andato da qualche parte.

— Dagli Akeley? — chiese Phil, mentre gli ritornava in mente un ricordo confuso.

— No, questa non è la sera di ricevimento — disse Juno. La sua voce per un attimo divenne amaramente affettata. — Loro ricevono solamente una volta alla settimana. Jack sarà andato da qualche parte con Cookie.

— Ma se è vero, come dici tu, che Brimstine ha offerto diecimila dollari per un gatto verde, perché Jack non glielo ha dato, invece di tenerselo?

Juno roteò gli occhi come un toro infuriato. — Oh, devono essere stati quegli Akeley; l’avranno convinto a fare qualcosa; magari si sono fatti dare anche il gatto. Se lo rigirano come vogliono, quei due.

Phil si sentiva sempre più confuso. — Ma cosa se ne fanno gli Akeley di un gatto verde?

— Che cosa se ne fanno dei matti come quelli di qualunque cosa? Cosa se ne fanno di Jack? — sbuffò, fissando Phil negli occhi. — Ricordati bene di una cosa — disse burbera. — Io amo Jack, quel piccolo sorcio. Ne ho sopportate di tutti i colori da lui, ma non me la sono mai presa eccessivamente. Certo, è stato brutto quando mi sono accorta che gli importava più di Cookie e di quelli come lui che di me, ma non l’ho mai dato da vedere. Dopo tutto, a un uomo non fa piacere sapere che puoi stenderlo come vuoi. Ma quando gli Akeley l’hanno scoperto e hanno cominciato a fargli venire delle strane idee, questo è stato troppo per me. Sono degli intellettuali quelli, capisci, l’hanno montato, gli raccontano un sacco di balle sul suo talento artistico nascosto, gli dicono che lui è Zeus, o che so io, in lotta contro il principio femminile, eccetera. Be’, lui c’è cascato, hai capito? È andato giù in caduta libera. Ha cominciato a comprare dei nastri, perfino dei libri stampati! Poi ha preso a insultarmi, a dirmi un sacco di parole che io non avevo mai sentito. Non la finisce mai di raccontare quant’è grande Mary, con le sue arti magiche e tutte quelle cose lì, e quant’è meraviglioso Sashy con le sue idee sulla comprensione e l’amore e un sacco di altre scemenze. Mi ha detto in faccia che sono una tonta e una stupida in senso semantico. — Ed essendo riuscita a pronunciare l’ultima parola, Juno finì di trangugiare il suo whisky. — Vedi, Phil — continuò — posso combattere contro Cookie e gli altri, perché sono al mio livello, ma non posso combattere contro quei cervelloni. Mi stanno portando via Jackie e io non posso fare niente per impedirlo. Ma adesso l’hanno cacciato in un guaio davvero grosso, ci scommetto, con questa faccenda del gatto verde. Perché Moe Brimstine non si fa mica impressionare dagli intellettuali, o da qualunque altra cosa. — Appoggiò adagio il bicchiere e strinse i pugni. — Se ce l’avessi fra le mani glielo farei vedere io, gli farei tornare il buon senso. Ma prima di parlare con Moe Brimstine non sospettavo neanche lontanamente una cosa del genere, e ormai non posso fare più niente.

Il ricordo confuso di Phil sì schiarì all’improvviso. Disse a Juno di come, mentre correva dal dottor Romadka, avesse visto Jack, Cookie, Sacheverell e Mary sulla vecchia auto elettrica.

Juno diede un gran colpo sul tavolo con entrambi i pugni facendo voltare la gente. — Quel carro funebre! — ruggì. — Dovevo immaginarlo. È una occasione così importante questa che ricevono fuori programma. — Balzò in piedi e afferrò Phil per un polso, mentre cercava il proprio bicchiere prese per sbaglio quello di Phil, ma se ne accorse appena in tempo per non bere l’ultimo goccio di latte di soia, lo rimise giù rabbrividendo e trascinò Phil fuori dal separé. — Vieni — disse. — Andiamo dagli Akeley! Al tempio!

Nell’istante in cui Juno apriva la porta che conduceva alla sottostrada, all’estremità opposta della sala si aprì l’ascensore e apparve una figura massiccia, con. occhiali scuri che formavano due macchie nere.

Fu allora che Phil ebbe una dimostrazione fuori programma della forza di Juno Jones. Venne sollevato da terra e scagliato attraverso la porta a tre metri di distanza, sulla sottostrada piena di traffico pesante.

— Era Moe Brimstine — boccheggiò Phil.

— Lo so — disse Juno trascinandolo verso la scala mobile che portava ai livelli superiori e alle cabine telefoniche. — Non ci ha visti.

Ma Phil non ne era tanto sicuro.

7

Il taxi aveva appena superato le vetrine luccicanti del Monstro Multi-Products, dietro cui una fila di robot manichini, molto realistici, marciavano in un interminabile percorso a forma di otto, mostrando l’ultima moda in fatto di vestiti di pelle sintetica, quando Juno si sporse in avanti e grugnì al tassista di fermare. Era rimasta in silenzio per la maggior parte del viaggio, come se il whisky le si fosse fermato sullo stomaco. Phil saltò a terra in fretta, improvvisamente ansioso di vedere che aspetto avesse la casa degli Akeley. Era come se le sue speranze e le sue paure si fossero rimesse in moto nel momento in cui il taxi si era fermato.

L’accenno di Juno al “tempio” l’aveva quasi indotto ad aspettarsi delle colonne greche o un portale egizio. Invece si trovò di fronte a una macchia scura, delimitata dal marciapiede, dalle vetrine lontane, dai negozi e dai sostegni delle strade superiori. Attraversò esitando il marciapiede, come se si trovasse sull’orlo del nulla. Era davvero molto buio, anche per essere al livello inferiore. La luna al sodio era tramontata.

Poi, mentre i suoi occhi si adattavano all’oscurità, la casa cominciò a prendere forma. Era una vecchia costruzione a due piani, e, cosa incredibile, era di legno, con il tetto fortemente inclinato e delle luci che apparivano debolmente attraverso persiane chiuse e bizzarre lunette polverose. Qualcosa scricchiolò sotto i suoi piedi e Phil si accorse che fra lui e la casa c’era un cortile di vera terra, se non proprio di verde. Quello doveva essere stato il livello del suolo della città, qualche centinaio di anni prima. Ora le finestre del secondo piano guardavano, attraverso un varco, la strada del livello superiore, molto al di sopra della testa di Phil. Il varco, a un certo punto, era attraversato da una trave. La casa era così antica e malsicura da aver bisogno di un sostegno.

Ma c’era qualcosa di ancora più strano. Phil sapeva che la casa si trovava nel cuore della città, attorniata da ogni lato da giganteschi edifici. Avrebbero dovuto esserci file e file di finestre illuminate e, molto in alto, un quadrato di cielo notturno. Invece si scorgeva solo buio, come se la casa preatomica sorgesse in una propria notte privata.

I fari di un’auto che procedeva due livelli più sopra illuminarono la parte superiore dell’edificio e Phil si accorse che tutto attorno alla casa c’erano dei pannelli neri e opachi, che la coprivano come un soffitto, poche decine di centimetri sopra le guglie più alte.

— È per via di una faccenda legale — spiegò Juno. — Jack mi ha raccontato qualcosa una volta. Sembra che i vecchi proprietari non abbiano potuto essere sfrattati, così il comune ha reclamato i diritti aerei e gli ha costruito sopra. Fa venire i brividi, sembra che debba andare a pezzi da un momento all’altro. Il posto adatto per gli Akeley. — Poi aggiunse, a voce più alta: — Bene, ho detto che sarei entrata, ed eccomi qui. Andiamo.

Phil la seguì attraverso il cortile fino ai gradini malsicuri che portavano a un porticato. La sua mano incontrò una vecchia ringhiera scrostata. A metà della scala un gatto gli saettò fra i piedi. Per un attimo il cuore gli balzò in gola, poi, mentre la bestiola si fermava in cima ai gradini, vide il pelo chiazzato. Non poteva certo essere Lucky. Il gatto corse a nascondersi dietro un angolo del porticato. Seguendolo, Phil e Juno si trovarono di fronte a una porta a sei pannelli illuminata da un globo sporco che doveva essere una vecchia lampadina a filamento incandescente. Il gatto sembrava sparito non si sa dove, finché Phil non individuò una piccola porta oscillante ritagliata in fondo a quella grande.

Ignorando il batacchio a forma di testa di gatto, incrostato di verderame, Juno batté un tal pugno sulla porta che Phil sì rannicchiò, lanciando occhiate preoccupate al tetto. Ma la casa non crollò.

Dopo qualche istante si aprì uno spioncino sopra il batacchio e uri occhio grigio e acquoso ispezionò Juno.

— Voglio vedere quel disgraziato di mio marito — urlò lei, ma la sua voce aveva perso qualcosa della solita sicurezza.

— Calmati, Juno — disse una voce, che Phil riconobbe per quella di Sacheverell Akeley. — La tua aura è tutta offuscata; riesco a stento a vederti.

— Stammi a sentire — muggì Juno — o mi lasci entrare o sbatto giù la tua schifosa catapecchia.

Certo Juno esagerava un po’, pensò Phil, ma quella minaccia non poteva essere presa alla leggera. Sacheverell però non si scompose — No, Juno — disse fermamente. — Non ti posso lasciare entrare con tutte quelle vibrazioni ostili, mentre emani ormoni d’odio. Più tardi, forse, quando potremo aiutarti a ritrovare la tua tranquillità interiore, ma non ora.

— Aspetta — si lamentò Juno con un tono sorprendentemente docile. — Ho portato un amico che deve sbrigare degli affari con te — e si fece da parte.

— Che affari? — chiese Sacheverell scettico.

Phil, guardando dritto nello spioncino, disse: — Il gatto verde.

La porta si aprì e Sacheverell, non più in berretto e pantaloni arancioni, ma in una tunica color bronzo ricamata di verde, fece cenno a Phil di entrare con un braccio coperto di frusciante seta. La sua marcata abbronzatura gli conferiva un’aria da mistico orientale. — Tutte le porte sono aperte per colui che pronuncia questo nome — disse semplicemente. — Siete disposto a garantire di tener quieta la vostra compagna?

— Non ho intenzione di toccare niente e nessuno qui dentro — grugnì sgarbatamente Juno, infilandosi dietro a Phil. — Mi sento già abbastanza sporca.

— Le rose nascono dallo sterco, Juno — le ricordò gentilmente Sacheverell — e dal male fiorisce il bene. Sii felice di poter partecipare al grande mutamento.

Phil si trovò sulla soglia di una grande sala. Nuvole di incenso grigio si avvolgevano a spirale fra mobili vittoriani su cui erano sparsi in gran profusione oggetti e ornamenti appartenenti a tutte le religioni del mondo. Anche qui l’illuminazione consisteva in lampade a incandescenza, che lasciavano ampie zone d’ombre. All’estremità opposta della sala c’era una porta nascosta da pesanti tende di velluto nero. Mescolato all’odore resinoso dell’incenso si avvertiva un tanfo pesante di cibo avariato, di vestiti, di corpi umani e un odore penetrante di animali.

Allora Phil si accorse che la stanza brulicava letteralmente di gatti: neri, bianchi, topazio, argentei, soriani; a strisce, chiazzati, macchiati, a bande; a pelo corto, angora, persiani, siamesi, mutanti. Saltavano dalle spalliere delle poltrone e dagli scaffali; sbirciavano vivacemente da sotto i tavoli o con aria assonnata fra un cuscino e l’altro; si aggiravano a passettini furtivi o stavano immobili in pose regali. Uno era sdraiato per tutta la sua lunghezza sul Corano intessuto al centro di un tappeto di preghiera. Un altro si era sistemato su una stella a cinque punte, in argento annerito, intarsiata sul piano scuro di un tavolino. Un altro giocava con un amuleto che pendeva da una parete, una specie di piccola scatola di cuoio; un altro annusava una statuetta steatopigia, dai molti seni; un altro ancora si stava avvolgendo pigramente in un rosario; due leccavano del latte piuttosto sporco da un calice d’argento tempestato di ametiste.

Allora, per la seconda volta, Phil sentì il cuore balzargli in gola, perché al centro di una mensola, posta su un autentico caminetto, in mezzo fra un’icona dorata e una maschera messicana di latta che rappresentava un demone, era seduto, regalmente immobile, le zampe anteriori dritte come lance… il gatto verde.

Mentre Phil vi si avvicinava come ipnotizzato, udì Sacheverell che diceva gentilmente: — No, quello non è il vero gatto, ma un suo simulacro, l’antico precursore egizio, una statua di Bast, la divinità della vita e dell’amore.

E infatti Phil si accorse di avere davanti una semplice statuetta di bronzo, coperta di verderame, quasi della identica sfumatura di colore del pelo di Lucky. Sacheverell lo raggiunse e disse: — Non appena Lui è venuto ho tirato fuori tutte le nostre reliquie di Bast. La maggior parte sono là — indicò la tenda di velluto nero — attorno all’altare. Altre qui. — E mostrò, vicino alla statua, un piccolo sarcofago contenente la mummia di un gatto, avvolta in bende di lino, che sembrava un sacchetto con una protuberanza in cima. Mentre Sacheverell illustrava il significato di una piccola urna contenente le interiora preservate di un gatto, un siamese a sei polpastrelli saltò sulla mensola e cominciò ad annusare con circospezione la mummia.

Finalmente Phil ritrovò la voce. — Allora Lucky è veramente qui?

Le sopracciglia curve di Sacheverell si inarcarono ancora di più. — Lucky?

— Il gatto verde — spiegò Phil.

Il viso di Sacheverell si fece solenne. — Nessuno ha il gatto verde — disse con tono di rimprovero. — Non sarebbe permesso. È Lui che ha noi. Noi siamo i suoi umili adoratori, i suoi sommi sacerdoti.

— Ma io voglio vederlo — disse Phil.

— Ciò sarà permesso — lo rassicurò Sacheverell — quando Egli si sveglierà e il mondo si trasformerà. Nel frattempo, calmatevi, caro… Phil Gish, vero? Phil… filo… amore… un nome di buon augurio.

— Perché diavolo questo gatto verde è tanto importante? Che cos’è?

I due uomini si voltarono. Juno era ancora ferma sulla soglia. Chinata leggermente in avanti, con le braccia incrociate, la testa incassata fra le spalle, li guardava con aria imbronciata, con un’espressione ribelle sul volto.

— Il gatto verde è amore — le disse dolcemente Sacheverell. — L’amore che sboccia anche dall’odio.

Ci fu un’altra interruzione: una risatina fanciullesca che proveniva da un punto della stanza di fronte al caminetto a cui Phil prima non aveva fatto caso. Scorse un’alcova ampia e profonda con finestre chiuse da persiane grigie, come tutte le altre finestre della stanza tranne quella a fianco del caminetto, che guardava verso il buio. Nell’alcova c’era un divano semicircolare sul quale era sdraiata Mary Akeley, in una posa da adolescente, ancora vestita col maglione nero e la gonna rossa rigida.

— Sapete — disse — non riesco proprio ad abituarmi all’idea di amare tutti. Sacheverell dice che devo comportarmi bene con la mia piccola gente e smettere di punzecchiarli con gli spilloni e cose del genere, ma è difficile.

Per un attimo Phil ebbe la spiacevole sensazione che la donna si riferisse ai gatti. Poi notò una serie di piccoli scaffali alle sue spalle, che iniziavano sopra la spalliera del divano e finivano a metà parete, pieni di bamboline. Avvicinandosi, si accorse che non si trattava di normali bambole, ma di figurine umane estremamente realistiche, alte non più di quindici centimetri. Non aveva mai visto delle bambole modellate e vestite così perfettamente. Ce n’erano due o trecento. Nei loro scaffali, dietro a Mary, sembravano uno spaccato di un’affollata strada a tre livelli in un mondo in miniatura. Davanti al divano c’era un tavolo basso coperto di pezzi di cera, stampi, microattrezzi e lenti d’ingrandimento, parecchie statuette semifinite e quadratini di stoffa così delicata che doveva essere stata tessuta su ordinazione.

— Vi piace il mio piccolo popolo? — sentì che gli chiedeva Mary. — Piace quasi a tutti. Ho cominciato facendo delle bamboline che riproducevano delle spogliarelliste, ma queste, sono tutte mie, e sono molto più divertenti. Sacheverell, caro, io credo che loro siano contente di farsi infilzare da me. Penso che sia questo il modo in cui vogliono essere amate.

— Forse, mia cara — disse Sacheverell con un risolino affettuoso — ma adesso dobbiamo vedere come la pensa Lui.

Phil si accorse che le bamboline erano delle copie perfette di persone reali. Tanto perfette che per un attimo Phil si chiese quale fosse il mondo reale: quello grande, o questo in miniatura di Mary. Riconobbe il Presidente Barnes, e quello sovietico Vanadin, la mascella quadrata di John Emmet del Federal Bureau of Loyalty, molte celebrità della televisione e della sensoradio, Sacheverell e almeno otto versioni della stessa Mary, Jack Jones coi suoi pantaloni neri, Juno vestita di marrone, il dottor Romadka e — trattenne il fiato — Mitzie Romadka in un abito da sera molto simile a quello che le aveva visto addosso poche ore prima.

— Riconoscete qualche amico? — chiese Mary dolcemente, allungando verso di lui il suo giovane viso, tutto naso e mento, con espressione interrogativa.

Si udirono dei passi pesanti. Juno si era decisa a entrare nella stanza e si era messa alle spalle di Phil per guardare le bambole. Mary fissò lo sguardo su di lei con un sorriso innocente. — Sono spaventosamente belline, vero? — osservò.

— Ugh! — disse Juno.

— Cerca di essere felice! — disse Sacheverell, ammonendola col dito. — Sforzati. Presto sarà tutto molto più facile. Quando Lui si sveglierà, voglio dire. Ora devo andare a vedere se c’è stato qualche cambiamento. Divertitevi. — E dopo aver affidato loro questo meraviglioso compito, si affrettò a uscire dalla stanza, facendo frusciare la sua tunica verde contro la tenda di velluto.

— Sacheverell è stato efficientissimo da quando Lui è arrivato — osservò Mary. — Un grande piccolo manager. Non l’ho mai visto così pieno di energia. Si era già entusiasmato per altre cose, sapete — continuò lei. — Cristianesimo semantico, neo-mitraismo, Bhagavad-Gita, il Vangelo secondo San Isherwood, folklore bradburiano, la Triplice Dea di Creta, il satanismo e l’adorazione del diavolo (questi sono quelli che piacciono anche a me) e non so che altro. Ogni volta che ne trova uno nuovo, si entusiasma moltissimo, ma come questa volta mai. L’ha presa molto sul serio. Da quando Jack gli ha dato il gatto verde, tutto raggomitolato che dormiva…

— Non dormiva — l’interruppe Phil piuttosto duramente. — Era stato colpito da una pistola paralizzante.

— Non siate ridicolo — disse Mary. — Jack l’ha trovato che dormiva. Bene, non appena Sacheverell l’ha toccato ci ha annunziato che il mondo sarebbe cambiato e sarebbe iniziata una nuova era d’amore e comprensione, e da allora è stato affaccendato come un’ape. Arrivato a casa ha tirato fuori tutti gli aggeggi di Bast. Gli ho detto che dal momento che Bast è una dea femmina, forse non dovremmo chiamarlo “Lui”. Ma Sacheverell ha detto che no, che era così e doveva essere così. E immagino che abbia ragione, perché quando l’ha portato a casa, addormentato, tutti i gatti si sono precipitati attorno a lui, ma le gattine correvano ancora di più che i maschi. In ogni modo io mi fido sempre delle intuizioni di Sacheverell, perché è così bravo in fatto di percezioni extrasensoriali che ne ricaviamo la metà delle nostre entrate.

Si udì un grugnito soffocato e poi di nuovo il rumore pesante di passi. Mary sorrise furtivamente, seguendo Juno con gli occhi, ma continuò a chiacchierare:

— Sapete, penso che ci sia qualcosa di vero in quello che dice Sacheverell su una nuova èra di amore e di comprensione, perché i gatti avevano l’abitudine di azzuffarsi continuamente, ma da quando Lui è in casa sono buoni come angioletti, come una piccola ONU felina senza la Russia e i satelliti. Persino io mi sento più dolce, e questo è davvero straordinario, anche se mi spezzerà il cuore non odiare più nessuno. — Sospirò. — Comunque, se tutti quanti cominceranno ad amarsi fra di loro, dovrò rassegnarmi e mettermi a far pratica fin da ora.

Phil, che si era chinato verso di lei, si ritirò di scatto a quelle parole. La sua faccia, nonostante le labbra invitanti e la pelle morbida, era un po’ troppo simile a quella di una giovane strega. Ma Mary si limitò ad allungare una mano dietro le spalle e a prendere la bambola di Juno. — Dovrò amare perfino lei! — disse.

I passi cambiarono direzione e si avvicinarono. La faccia di Juno era rossa come un peperone, stravolta per la rabbia.

— Mettimi giù! — ordinò. — Lo so che sei una strega. Ce n’era una anche in una fattoria vicina alla mia, quand’ero in Pennsylvania. Solo le streghe fanno delle statuette di cera della gente e poi le infilzano.

Per tutta risposta Mary accarezzò affettuosamente la bambolina. — No, Juno, io dovrò amarti e tu dovrai abituarti all’idea. — Rivolse uno sguardo dolce a Juno, che rabbrividiva a ogni carezza data alla bambola. — Tra parentesi, io sono davvero una strega. E se potessi scegliere, preferirei di molto infilzarti.

— Mettimi giù! — tuonò Juno sollevando le braccia, con i muscoli tesi che premevano contro le maniche strette della camicetta, come se avesse sollevato una grossa pietra, e si apprestava a scagliarla contro Mary.

Mary, senza fretta, l’accontentò e prese un’altra figurina. — Preferisci che manifesti il mio amore per Jack? Sei tu che mi costringi a farlo.

— Non toccarlo! — La faccia di Juno era quasi paonazza. — Sono anche troppe le moine che gli fai di solito, ma questo è ancora peggio. Smettila di toccarlo in quel modo! Aaaaaah!

Phil si fece da parte mentre Juno, con un urlo terribile, dava un calcio al tavolino facendo cadere tutto quello che c’era sopra e costringendo i gatti a rifugiarsi sotto i tavoli e le sedie. — Ora le faccio a pezzi una per una — gridò.

Mary balzò immediatamente in ginocchio sul divano, la schiena rivolta al suo piccolo popolo, le braccia spalancate.

— Dritto negli occhi — sibilò col viso contorto dall’ira. — Negli occhi te li infilerò gli aghi! Accorri al mio richiamo, Satana!

Phil non riuscì mai a capire se Juno fosse davvero, come sembrava, un po’ intimorita dalla diabolica minaccia di Mary, perché proprio in quel momento si udì uno scalpiccio affannoso di piedi sulla scala e dall’ingresso sbucarono Jack Jones e Cookie.

— Juno! — gridò Jack. — Ti avevo avvertita che ti avrei uccisa se avessi messo piede qui dentro!

Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Cookie confermò solennemente: — E lo farà.

Juno si voltò verso il marito assumendo la posa di un orso. — Sentimi bene, piccolo fetente, tu vieni subito a casa con me. — Cominciò a sollevare la gonna e a rimboccarsi, o piuttosto a strapparsi, le maniche del vestito. Il collo di pelo le era già caduto a terra, e il cappello le si era messo tutto di sbieco.

Nel frattempo Jack si stava guardando in giro, rendendosi conto dei danni.

— Juno! — esclamò esterefatto, facendosi avanti — hai rotto tutto, hai rovinato anche il piccolo popolo, hai perfino portato qui quello scimunito! — e passando diede a Phil un colpo tale che lo spedì contro la parete, facendogli battere i denti. — Non vedi quello che hai fatto, Juno? — continuò Jack con crescente indignazione, come se dovesse convincere Juno dell’enormità del suo delitto prima di liquidarla. — Hai fatto l’unica cosa che loro non perdoneranno mai, che li farà rivoltare persino contro di me. — Era sul punto di scoppiare a piangere. — Non ti rendi conto che loro sono le due uniche persone al mondo che significano qualcosa per me? Non capisci che all’infuori di Mary e Sacheverell a me non importa niente di nessuno?

Con sorpresa di Phil la risposta a quest’ultima affermazione non venne da Juno, che aveva minacciosamente sollevato le braccia nude, ma da Cookie.

— Oh, allora non t’importa niente neppure di me? — disse con voce acuta. — È da un pezzo che lo sospettavo, ma ora l’ammetti tu stesso.

— Sta’ zitto, sei solo uno stupido leccapiedi — disse Jack.

— Oh, così io sono solo uno stupido leccapiedi, vero? Bene, lascia che ti dica una cosa: Juno ha ragione, e io avrei dovuto ammetterlo da molto tempo. Questi Akeley ti hanno montato la testa. Ti hanno rincitrullito.

In quel momento Sacheverell rientrò all’improvviso nella stanza, con un fruscio di seta. — Smettetela subito! — ordinò alzando le braccia. — Disturberete il Suo risveglio. Sollevatevi al di sopra dell’odio. Non vi rendete conto che le vostre aure sono così scure che riesco a distinguervi soltanto come macchie d’inchiostro? Neppure Lui riuscirebbe a raggiungervi.

— Smettila tu con queste sciocchezze su di “Lui” — disse Cookie con disprezzo. — Non voglio più sentire quella parola; sono stufo di far finta di credere a tutte quelle stupidaggini sui vostri culti. Avete già fatto abbastanza danni a Jackie. Lo sai che avremmo potuto guadagnare diecimila dollari con quel gatto che stai usando per le tue buffonate? Jackie l’aveva appena paralizzato ed era pronto a consegnarlo a Moe Brimstine per diecimila dollari, quando sei capitato tu con tutte le tue arie da grande mago e quella orribile strega di tua moglie. Hai fatto credere a Jackie che sarebbe diventato il fondatore di una nuova religione o qualcosa del genere e l’hai convinto a forza di chiacchiere a darti il gatto. Ti odio. Ti farei a pezzi — e cominciò a camminare verso di lui sulla punta dei piedi, gonfiando il torace come un galletto da combattimento.

Ancora una volta Phil ebbe una sorpresa, perché lo sguardo scandalizzato di Sacheverell si rivolse non a Cookie ma a Jack.

— Jack — boccheggiò — vorresti dirmi che Gli hai sparato con un paralizzatore e che hai perfino pensato di poterLo vendere per denaro? Giuda!

— Guarda cos’hai combinato — si lamentò Jack, rivolto non a Cookie ma a Juno. — Hai rovinato tutto.

— Ti rovino io a te, razza di intellettualoide da strapazzo — ruggì lei, e gli si gettò addosso con l’irruenza di una principiante. Sul viso di Jack si dipinse una smorfia astuta, mentre si scansava con agilità, allungando contemporaneamente una mano. Ma proprio in quell’istante l’addestramento professionale di Juno prese il sopravvento. Rallentò, afferrò abilmente il polso di Jack, si piegò con una rotazione e fece volare Jack al di sopra della schiena, mandandolo a finire contro il tavolo con la stella a cinque punte, che si rovesciò con un gran fracasso mentre vari oggetti religiosi cadevano dal muro.

Nel frattempo Mary Akeley aveva afferrato una piccola morsa che si trovava accanto a lei e l’aveva scagliata con grande precisione verso la testa di Cookie, proprio nell’istante in cui questi si gettava d’improvviso alla gola di Sacheverell. La morsa volò per la stanza e mancò di poco la testa di Cookie.

In mezzo a tutta quella baraonda, Phil, con strana calma e freddezza, si avvicinò agli scaffali con le bambole, scelse con cura quella di Mitzie e se la mise nella tasca della giacca.

Quando si voltò vide che Jack aveva raccolto, fra gli oggetti caduti, un coltello sacrificale azteco di vetro nero e si dondolava sulle ginocchia come un cobra. Juno aveva in mano un Buddha di bronzo, piccolo ma massiccio.

Vicino alla tenda di velluto Cookie stava cercando di strozzare Sacheverell steso a terra che gli menava grandi colpi sulla testa con il calice d’argento che serviva da abbeveratoio per i gatti.

Mary, afferrati alcuni spilloni, si era lanciata in avanti. Esitò prima di decidere chi attaccare, poi si lanciò verso Cookie, non tanto, pensò Phil, per aiutare il marito, quanto perché i suoi insulti le bruciavano ancora.

Mai prima di allora, neppure nelle trincee, Phil Gish aveva visto così forte il desiderio di uccidere su un viso umano.

Ora lo vedeva su cinque.

Poi, all’improvviso, ogni rancore sembrò sparire nel nulla.

La stanza divenne silenziosa. Il coltello di vetro nero e il calice caddero dalle mani di Jack e di Sacheverell. Gli spilloni di Mary colpirono il suolo con un lieve, vibrante tintinnio. Il Buddha di Juno piombò sul tappeto di preghiera con un tonfo. Le mani di Cookie si allentarono e si ritirarono come vergognose, prima ancora di ricevere un messaggio dal cervello.

Anche le espressioni si rilassarono. Le rughe scavate dall’odio si ammorbidirono e svanirono. Le labbra che avevano lasciato scoperti i denti si ricomposero. Gli occhi si riempirono di una dolorosa comprensione.

Jack fu il primo a parlare con voce bassa e stupita: — Juno, tu mi ami davvero. Non vuoi soltanto possedermi ed umiliarmi come uomo.

Juno disse: — Ti importa davvero di quello che penso, vero, Jack?

Cookie disse: — Non l’avevo capito, Sacheverell: c’è del vero in quello che dici. Non è tutta una montatura.

Mary disse: — E tu vuoi davvero che Jack sia felice, Cookie. Non è solo vanità e invidia.

Sacheverell disse: — Mio Dio, sta succedendo. E io che credevo di aver preparato soltanto una messa in scena, o poco più.

In quanto a Phil, gli sembrava di essere ritornato in quel mare d’oro in cui aveva nuotato nel pomeriggio. Gli sembrava che il suo cuore fosse unito da fili sensibili con quelli delle cinque persone che gli stavano intorno. Gli pareva addirittura che dei fili sottili e delicati lo unissero alle bamboline e gli permettessero di capire Romadka, Barnes, Vanadin, forse perfino se stesso.

Poi, insieme a tutti gli altri, si voltò verso la tenda di velluto. A una decina di centimetri dal pavimento aveva fatto capolino la testolina verde di Lucky. Sembrava un grande gioiello verde, sospeso, che li illuminava a turno con i suoi raggi. Poi Lucky avanzò nella stanza. Subito, da sotto i tavoli e le sedie, dal caminetto e da dietro i libri, apparvero tutti gli altri gatti e si raccolsero in cerchio attorno a Lucky.

— È cominciato — mormorò felice Sacheverell. — Il mondo sta cambiando.

— San Francesco d’Assisi — disse Mary debolmente — reincarnato in un gatto.

Lucky camminava lentamente, gli altri gatti gli fecero ala e lo seguirono, mantenendo sempre una rispettosa distanza. Passò davanti a Mary e a Cookie, superò anche Sacherevell, che sembrò un tantino deluso, e balzò leggermente fra le braccia di Phil.

Phil non aveva mai tenuto fra le mani qualcosa che pesasse così poco, né aveva mai toccato un pelo così elettrizzante. Gli sembrò che il suo petto fosse troppo piccolo per contenere il cuore.

Sacheverell disse a voce bassa ma squillante: — Voi siete il prescelto. — Phil lo guardò, poi, in un impeto irragionevole e quasi mistico di angoscia, volse gli occhi alla finestra alle sue spalle.

Il vetro stava vibrando, onde grigie, circolari, che si allargavano da un punto centrale.

Nello stesso istante sentì la mano sinistra, quella che stringeva Lucky, diventare insensibile. Lucky balzò in aria convulsamente e cadde a un paio di metri da lui, restando immobile.

Il vetro della finestra si spezzò di colpo e cadde tintinnando a terra, lasciando soltanto alcuni frammenti attaccati allo stipite.

Il corteo di gatti si disperse e i suoi membri corsero nell’ingresso e su per le scale.

Moe Brimstine scavalcò il davanzale con un’agilità insospettata per un uomo della sua mole. Si fermò a un passo dalla finestra stringendo un paralizzatore nella mano gigantesca. A Phil sembrò che avesse la mascella macchiata dell’oscurità alle sue spalle, mentre le ellissi nere degli occhiali sembravano due frammenti della stessa oscurità.

— Fuori ci sono un paio di ragazzi con gli ortho — disse, mettendosi di fianco alla finestra. — So che non volete farvi tagliare a fette.

A quanto pareva nessuno lo voleva, anche se Phil non aveva la più pallida idea di cosa potesse essere un ortho.

— Ascoltatemi attentamente, tutti quanti — disse Moe. — Se vi dimenticherete tutto questo, se penserete e vi comporterete come se non fosse mai successo nulla, a cominciare dal fatto di aver trovato il gatto questo pomeriggio, allora io mi dimenticherò di voi. Questo vale per te, Jack, anche se sei più stupido di quanto avessi mai creduto e ti sei lasciato scappare un buon affare da diecimila; e anche per te, Juno, e per Cookie. Ma se non ve ne dimenticate, se dovessi avere il più piccolo indizio che non ve ne siete dimenticati… Be’, non parliamone. — Scrutò attentamente la loro faccia. — Allora siamo d’accordo — disse, e cambiando di mano la pistola paralizzante venne avanti e raccolse Lucky.

— Lui… Lui… — mormorò Sacheverell disperato. Moe lo guardò e Sacheverell non disse più niente.

— Per quanto tempo ha dormito dopo che l’hai colpito? — chiese Moe a Jack.

Jack si inumidì le labbra. — Quasi fino a ora — disse. — Fino a cinque minuti fa. — Moe indietreggiò fino alla finestra.

Phil sentì qualcosa dentro di sé che lo tormentava costringendolo a muoversi, perché lui certamente non voleva spostarsi di un millimetro.

Avanzò verso Moe, tremando, prima un passo, poi un altro. Sentiva un dolore lancinante attanagliargli il petto, come se venisse fatto a pezzi da immaginari ortho.

— Metti giù quel gatto — riuscì a dire.

Moe lo guardò con aria profondamente annoiata.

— È solo un pazzo — sentì Jack dire a Moe con un sussurro ansioso. — Non darà alcun fastidio.

— Su questo non ho dubbi — disse Moe seccamente, e trasferì la pistola nella mano che teneva Lucky.

Ma Phil continuò ad avanzare verso la figura torreggiante. Cercò di fermarsi, ma il tormento che provava dentro non glielo permise. E ancora una volta, suo malgrado, aprì le labbra e parlò.

— Mettilo giù. Non puoi averlo. Nessuno può. — Sollevò i pugni, ma il sinistro era come morto.

Moe lo guardò disgustato. Il grosso pugno si mosse verso la mascella di Phil, molto lentamente. Eppure, per qualche ragione, non ebbe il tempo di scansarsi.

8

Phil si dibatteva in una grigia risacca rinvigorente. Poi si accorse che era un asciugamano umido col quale Juno lo stava massaggiando.

— Come va la testa? — chiese lei con un sorriso che mise in mostra la cicatrice sul labbro.

Gli sembrava che la testa gli pesasse più del solito, ma non sentiva alcun dolore particolare, finché con la mano non toccò il rigonfiamento sul mento.

— Stai benissimo — gli disse Juno, gettando l’asciugamano sul tavolo nero e argento rovesciato. Phil ne dubitava.

— Credete che il signor Brimstine possa essere un Belzebita?

Phil girò cautamente la testa. Sacheverell, la cui tunica verde pareva ora un accappatoio appariscente e non troppo pulito e la cui carnagione scura era tornata a essere una semplice abbronzatura, era impegnato in una specie di consulto con Jack e Cookie. Stavano bevendo. Mary si dava da fare al suo tavolo di lavoro.

— Un che? — chiese sospettosamente Cookie.

— Ma sì, un Satanista, un adoratore del Diavolo — spiegò bruscamente Sacheverell. — Questo spiegherebbe il suo furto del Gatto Verde. Un Satanista si opporrebbe con tutte le forze al fiorire del bene nel mondo.

— Piantatela di dire scemenze — lo interruppe Cookie. — A Moe Brimstine non interessano affatto queste robe mistiche. A lui interessano solo i soldi. E lo stesso vale per il signor Billig. E Moe Brimstine lavora solo per se stesso o per il signor Billig. O probabilmente per entrambi. Non è così, Jack?

Il re non pareva incline alla loquacità, ma rispose con un convinto cenno di assenso.

Juno mise un bicchiere nelle mani di Phil. — Bevi questo — gli disse. Phil guardò il liquido bruno. — Che cos’è? — chiese.

— Non latte di soia — lo assicurò lei. — Bevilo!

Il whisky, a cui era mescolato qualcosa di amaro, gli bruciò la gola e gli fece lacrimare gli occhi, ma quasi immediatamente la testa cominciò a schiarirglisi. Ispezionò la stanza. A parte il tavolo di Mary, nulla era stato rimesso a posto, ma qualcuno aveva coperto la finestra rotta col tappeto di preghiera.

— E poi — stava dicendo Cookie con grande sicurezza — anche quella vostra idea che il gatto sia una roba mistica è una scemenza.

Sacheverell guardò lui e Jack con espressione esterrefatta. — Ma non l’avete sentito? — chiese. — Non l’avete sentito quello che ha fatto a tutti noi?

Jack si mosse a disagio, evitando il suo sguardo, mentre Cookie si stringeva nelle spalle. — Oh, quello! — rispose nervosamente. — Eravamo fuori di noi, un po’ per la lotta, un po’ per le vostre chiacchiere. Potevamo credere a qualsiasi cosa.

— Ma non avete sentito cambiare il vostro intero essere? — insistette Sacheverell. — Non avete sentito germogliare l’amore e la comprensione universale?

— Universale un accidente! — disse Cookie rudemente. — Io non ho sentito un bel niente. E tu, Jackie?

Il re non annuì, ma neppure scosse la testa. Ed evitò gli occhi di Sacheverell.

Quest’ultimo li guardò con triste stupore. — Vi siete già dimenticati — disse. — Avete voluto dimenticare. Ma come spiegate — chiese a Cookie — il comportamento dei gatti? L’hanno riconosciuto. L’hanno adorato.

— Sono andati in calore, tutto qui — affermò Cookie. — Probabilmente quella bestia è un mutante ermafrodita, supersessuato. E poi c’è un’altra cosa: se quel gatto è davvero soprannaturale e ha tutti questi poteri, perché si è lasciato paralizzare? Perché non ha somministrato anche a Moe Brimstine un po’ di quella roba universale?

— C’era il vetro e una certa distanza fra loro — gli ricordò Sacheverell. — E poi se il signor Brimstine è un Belzebita…

— Inoltre — continuò Cookie senza badargli — perché si è lasciato paralizzare da Jackie, la prima volta? Di’ un po’, Jackie, prima di colpire quel gattaccio hai sentito sbocciare tutto questo amore universale o no?

Jack aggrottò le sopracciglia. — Io l’ho paralizzato istintivamente — disse adagio, gli occhi fissi sul calice rovesciato, che scelse proprio quel momento per rotolare di qualche centimetro. — Ho visto qualcosa con la coda dell’occhio e ho sparato. — Fece una pausa. — Per la verità credevo che fosse un topo.

— Istintivamente o no, l’hai paralizzato, e poi l’abbiamo chiuso nell’armadio non appena ci siamo accorti che era verde — disse Cookie con aria sicura. — Il che prova al di là di ogni dubbio che il gatto non ha alcun potere. È stato Sashy che ci ha fatto credere che ne avesse. Mi aveva talmente suggestionato, che se qualcuno fosse entrato con addosso un lenzuolo arancione dicendo di essere Maometto gli avrei creduto.

— Ma supponete che il Gatto Verde fosse stato colto di sorpresa — replicò Sacheverell. — Ogni divinità ha i suoi limiti. Forse il Gatto Verde non è così abile a leggere nella mente come nell’unire telepaticamente i pensieri e i sentimenti dei mortali.

Cookie fece un rumore volgare. Jack gli gettò una rapida occhiata insieme irritata e implorante, che voleva dire: “Hai dimostrato la tua tesi. Adesso smettila.”

Sacheverell alzò le spalle e disse: — Bene, se devo scendere al vostro livello materialistico, spiegatemi perché allora il Gatto è così importante per il signor Brimstine?

— Che ne so io? — disse Cookie stizzosamente. — Forse lo usa per contrabbandare eroina, o per passare dei documenti segreti a Vanadin: forse appartiene all’attuale amante del re del Sud Africa. Moe ti ha detto qualcosa, Jackie?

— Soltanto che avrebbe pagato diecimila dollari per un gatto verde, sempre che non fosse tinto. Questo un paio di settimane fa. Qualcuno dei ragazzi chiese dettagli, ma lui disse che non ce n’erano. — Si alzò. — Ma a che serve parlarne? Non possiamo fare niente — disse bruscamente guardando Sacheverell, come se lo sfidasse, o lo implorasse, a rispondere.

— Be’… — cominciò Sacheverell.

Phil aveva finito di pensare. Si alzò, spingendo in fuori il suo piccolo petto. — Possiamo salvare il gatto verde da Brimstine — disse. — Chi è con me?

Cookie si voltò di scatto verso di lui. — Nessuno, neanche tu — disse. Jack si coprì gli occhi con una mano. — È arrivato lo scimunito — disse lamentosamente.

Juno si sollevò dalla sedia e si mosse pesantemente verso di lui con il bicchiere e la bottiglia. — Senti, Phil — disse — devo ammettere che hai del fegato. Ma nessuno, proprio nessuno, si mette contro Moe Brimstine.

Phil ci pensò un momento. — Io l’ho fatto — disse con orgoglio.

— Sì, lo so — ammise lei — ma lui non ti ha mica preso sul serio.

Phil guardò Sacheverell. — E voi? — chiese. — Voi credete in Lucky.

Cookie gettò a Sacheverell un’occhiata di avvertimento. — Se uno solo di noi procura dei fastidi a Moe Brimstine per quel gatto, ci ritroveremo tutti quanti a respirare plastica fusa!

— Be’… — disse Sacheverell guardandosi intorno in cerca di consiglio. I suoi occhi si fissarono sulla moglie. — Mary, quali passi pensi che dovremmo compiere?

Mary, impegnata con la lingua fra i denti in una difficile opera di rifinitura, scosse le spalle. — Non mi interessa quello che volete fare voi — disse, togliendo una microscopica scaglia di cera. — Io sto lavorando su Moe Brimstine a modo mio — e sollevò, perché potessero vederla, una piccola testa di cera che già cominciava ad assumere l’aspetto di quella del vice capo della Divertimenti SpA. — E quando sarà finita — aggiunse — allora comincerò con gli aghi e gli spilloni!

Juno disse: — Ugh! — Cookie sembrò quasi impressionato. Sacheverell si morsicò pensosamente le labbra, osservando cautamente Jack e Cookie. — Sì — disse — suppongo che dopo tutto questo sia il sistema migliore.

— Va bene — disse Phil, e si avviò verso la porta.

— Dove credi di andare? — disse Cookie.

— A riprendere il gatto — disse Phil.

Vi fu un accorrere generale e tutti in coro cercarono di convincerlo dell’assurdità dell’impresa, ma fu Juno che lo afferrò per le spalle, facendolo voltare.

— Phil — disse — una volta tanto devo ammettere che questi deficienti hanno ragione. Non puoi fare niente per quel… quello stupido gatto. Devi ficcartelo nella zucca una volta per tutte.

Phil si limitò a sorridere.

Lei scosse la testa con aria disgustata. — Non avrei dovuto farti bere il whisky.

— Non è colpa del whisky, ma di quello che ci hai messo dentro — intervenne Cookie. — È completamente sbronzo.

Phil gli sorrise serenamente, come per confermare la sua opinione, e allora, d’improvviso, si ritrassero tutti, e per un attimo lui pensò che avessero riconosciuto la sua ferma determinazione e si fossero inchinati all’inevitabile. Poi si accorse che stavano guardando oltre le sue spalle e sentì un soffio d’aria fredda che proveniva dall’esterno.

Il dottor Romadka appoggiò una valigia nera nell’ingresso, disse sorridendo: — Salve Sacheverell, salve Mary — e fece un cenno di saluto a Jack, a Juno e a Cookie, prima di rivolgere, come per caso, lo sguardo a Phil.

— E bravo Phil — disse allegramente l’analista — mi avete fatto fare una bella corsa. È già tanto che sia riuscito a trovarvi. Avevamo iniziato una conversazione molto interessante e sono ansioso di continuarla. — Lanciò una breve occhiata agli altri. — Spero ci vorrete scusare se parliamo un momento di faccende professionali. Vedi, Phil — continuò con tono persuasivo — immagino che la… ehm, persona che ti ha persuaso, o meglio obbligato a fuggire, abbia cercato di metterti in testa le idee più strane. Ma sono sicuro di poterti dimostrare in pochi minuti quanto siano assurde. Detto per inciso, si tratta della stessa persona che aveva spento le luci e bloccato tutte le porte. Una bella imbrogliona, non ti pare? E pensare che è mia figlia. Adesso saluta i tuoi amici, Phil… Spero che non ce l’avranno con me se ti porto via…

Mentre finiva il suo discorso, il dottor Romadka si era fatto avanti, e la luce fece risaltare chiaramente i quattro graffi sulla guancia. Mary disse malignamente: — Anton, non ho mai creduto a quella paziente pazza furiosa che minaccia sempre cose terribili, ma ora devo ammettere di essermi sbagliata. Qualcuno ti ha dato proprio delle belle unghiate.

Il sorriso del dottor Romadka impallidì un poco. — A volte le illusioni si rivelano reali, Mary — disse scherzosamente — anche se il mio lavoro consiste nel provare il contrario. Vero, Phil? Proprio come non c’è nessuna donna con gli zoccoli e il pelo che si dimentica di oscurare la finestra prima di spogliarsi.

— O nessun gatto verde — aggiunse Phil calmo.

— Già, appunto — fece il dottor Romadka, secco.

— Ma perché non ammettere, caro dottore — continuò freddamente Phil — che anche il gatto verde è una di quelle illusioni che si rivelano molto reali? E che voi lo state cercando? Non cogliereste affatto di sorpresa questi signori: tutti lo hanno visto.

Gli occhi del dottore si fecero improvvisamente sospettosi, e lo restarono anche quando Cookie disse in tono scandalizzato: — Noi non abbiamo visto niente — e Jack confermò: — Dottore, non sappiamo di cosa sta parlando quello lì. Ma di sicuro è matto. È per questo che ve l’avevo mandato.

Phil osservò divertito lo psicoanalista scrutare Juno, Sacheverell e Mary. Poi rise e disse loro misteriosamente: — Per voi potrebbe essere peggio se vado via col dottore invece che mettermi contro Brimstine.

Gli occhi di Romadka si fecero ancora più sospettosi, ma Jack intervenne: — Sentite, dottore, avete intenzione di prendervi cura di questo tipo e di rinchiuderlo da qualche parte, in modo che non possa più dare fastidi?

— Di questo potete starne certi — fece brusco il dottor Romadka, mettendo da parte i sorrisi e le finzioni. — Ficcati bene in testa, Phil, che tu verrai con me, ti piaccia o no. E se per caso ti venisse voglia di scappare ancora, sappi che ho degli amici fuori.

— Allora va bene — disse Jack. — Io sono d’accordo. Saremo felici di sbarazzarcene.

Juno, che da un pezzo aveva la fronte aggrottata, scosse la testa come un toro confuso. — Accidenti, Jack, non lo so mica io. Non mi piace questa storia.

— Juno… — cominciò Jack minacciosamente.

— Non mi piace l’idea di gettare questo poveretto in pasto ai lupi — finì lei con aria di sfida.

— In pasto ai lupi, signora Jones? — disse il dottor Romadka con aria minacciosa — È una cosa necessaria per il bene di tutti Per favore, spiegate…

Proprio in quel momento Sacheverell si fece avanti con grande decisione. Non c’era più alcuna traccia di simpatia nell’occhiata dura che lanciò a Phil. — Penso che Anton e Jack abbiano ragione — disse, afferrando Phil per un braccio e spingendolo verso la porta. — Sono stanco dei vostri inganni, signor Gish. Andate subito con Anton e i suoi amici, senza tante storie.

Phil udì un grugnito di soddisfazione da parte del dottor Romadka. Cercò di liberarsi da Sacheverell, ma questi lo strinse ancora più forte e quando la sua bocca fu vicino all’orecchio di Phil, mormorò. — Sali le scale, due rampe.

Sacheverell diede a Phil una brusca spinta mentre lui stesso finiva addosso al dottor Romadka, che si era chinato per raccogliere la borsa nera, riuscendo contemporaneamente a gettare a terra l’antica lampada da pavimento che illuminava debolmente l’ingresso.

Phil si lanciò su per la scala cigolante nell’improvvisa oscurità, aiutandosi a tentoni con la ringhiera traballante. Alle sue spalle si udivano grida e passi in corsa. Il più vicino era Sacheverell che urlava con quanto fiato aveva in gola: — Eccolo! Inseguiamolo!

Phil raggiunse il pianerottolo, poi la seconda rampa, con Sacheverell sempre alle spalle simile a un pipistrello verde.

Arrivati in cima, afferrò Phil e lo spinse dentro una porta. Per un attimo le loro facce si trovarono vicine.

— Fuori dalla finestra, poi sulla trave — gli sussurrò. — Bisogna osare tutto per Lui!

La porta si richiuse e udì Sacheverell urlare: — È in soffitta. Seguitemi. — Phil si ritrovò nell’oscurità, di fronte a un’alta finestra debolmente illuminata dall’esterno, mentre sul pavimento ai suoi piedi correvano freneticamente i topi che avevano fatto della stanza il loro rifugio.

Raggiunse la finestra, che era a due imposte, con antichi vetri lattiginosi. Gli era capitato spesso di incontrare nei romanzi vecchie finestre come quella che si rifiutavano di aprirsi. Questa invece girò senza difficoltà sui cardini. Si arrampicò sul davanzale e restò accucciato, tenendosi in equilibrio con una mano.

Attorno a lui vi erano tegole di ardesia e assi di legno vecchie di due secoli, che puzzavano di muffa. Di fronte, a circa sette metri di distanza, la strada piena di traffico. Fra i due, una trave di ferro larga una quindicina di centimetri, debolmente illuminata dai fari delle automobili. La trave, coperta di sudiciume, era incastrata nel camino di mattoni che sorgeva proprio a fianco della finestra. In effetti, uno dei piedi di Phil era posato su di essa. Sotto, due piani di buio.

Ciò che successe poi fu forse una conseguenza della droga calmante e inibitrice della paura che Juno gli aveva messo nel whisky, anche se Phil lo attribuì all’influenza di Lucky e all’incitamento grottesco, eppure stranamente efficace, di Sacheverell. Sta di fatto che Phil non era un atleta, e anzi soffriva un poco di agorafobia.

In ogni modo, si alzò lentamente in piedi, abbandonò la finestra, restò immobile un attimo, poi corse agilmente lungo la trave. Arrivato alla strada rotolò goffamente dall’altra parte del parapetto e si gettò lungo disteso sul marciapiede.

Nello stesso istante dall’oscurità alle sue spalle si alzò una lama abbagliante di luce blu che tagliò la trave di sbieco, sfavillò per un attimo contro il soffitto nero sopra il tetto della casa, e si spense.

La trave resistette per un momento. Poi, lentamente, le due labbra del taglio cominciarono a scivolare l’una sull’altra. Il camino cadde pigramente. Si udirono delle grida dal basso. Il tetto degli Akeley si mosse verso la strada di qualche decina di centimetri. E si fermò. Delle nuvolette di fumo si sollevarono nell’aria.

Phil cominciò a correre lungo la strada fino a un taxi parcheggiato a un isolato di distanza. Stava pensando che qualunque cosa fossero gli “ortho” dei ragazzi di Moe Brimstine, a quanto pareva li avevano anche gli amici di Romadka. Non poté fare a meno di pensare alla drammatica situazione del gruppo nella soffitta oscillante. Gli pareva quasi di sentire le titaniche imprecazioni di Juno.

Si infilò nel taxi.

— Al Tan Jet — disse all’autista. — È una specie di night club.

— Sì, lo conosco — disse l’altro con l’aria di chi la sa lunga, e diede a Phil un’occhiata triste e rassegnata, del genere che si riserva a coloro che insistono, contro tutti i buoni consigli, a cercare la propria rovina.

9

Qualcuno che cantava il Blue della fine del secolo, con voce roca e malinconica, fu la sola cosa che poté udire Phil mentre scendeva attraverso le scale buie nel quasi altrettanto buio Tan Jet. Nessun portiere, robot o umano, era di guardia all’entrata, o se c’era, non si vedeva, e nessuna cameriera gli si precipitò incontro. A quanto pareva, ci si aspettava che i clienti conoscessero la strada da soli.

E di clienti ce n’erano parecchi. Sedevano in piccoli gruppi, in una calma truculenta che suonava come sfida e derisione del trambusto frenetico di quei tempi, e dell’illusione che la frenesia portasse da qualche parte. Non c’erano juke-box teatrali negli angoli, nessuno schermo tv in vista e i separé non sembravano forniti di sensoradio.

Quattro musicisti in carne e ossa strimpellavano sommessamente vecchi strumenti jazz mentre un singolo riflettore illuminava di luce ambrata una cantante color caffè, ingannevolmente languida, coperta fino ai polsi e al collo da un vestito di lustrini.

Stanotte son triste, amore,
e sotto le luci al sodio
mi si spezza il cuore…

Un uomo e una donna uscirono dall’oscurità da due direzioni opposte e si guardarono. — Dolcezza! — gridò lui. Lei restò immobile come una roccia, mentre l’uomo le si avvicinava e le dava uno schiaffo tale da scuoterle tutti i riccioli rossi. — Amore mio! — gridò lei, e gli restituì il ceffone. Phil poté vedere che gli occhi dell’uomo si spalancavano per il piacere, mentre la guancia gli diventava tutta rossa. Si presero ritualmente a braccetto e uscirono.

Non m’importa, amore,
se il mondo è impazzito,
la Luna è sconvolta
e già da cent’anni
lo spazio è ammattito…

In quel momento Phil individuò la nera capigliatura di Mitzie Romadka e il suo mantello in un angolo all’estremità opposta della sala. Si diresse da quella parte, sentendo un improvviso senso di disagio.

Gli zatteroni
non li voglio più,
le belle notizie
non darmele più.
Canto questo lamento
che il secolo pianger fa
e pianger fa il millennio…

Mentre gli spettatori applaudivano pacatamente, Phil si fermò vicino al tavolo di Mitzie. La ragazza era con tre giovani uomini, che però sedevano chiaramente a una certa distanza, come se lei fosse stata esclusa dalla loro compagnia.

I tre, pur senza muovere un dito, mostravano di possedere, più di ogni altro avventore, quella mistica durezza che sembrava la prerogativa dei frequentatori del locale. Avevano la calma dignità degli assassini. Voltandosi per vedere quello che i tre stavano guardando, Mitzie balzò in piedi chiamandolo per nome, con un grido entusiasta, ma anche con un certo allarme negli occhi. Non indossava più la maschera. Gli si avvicinò e gli diede uno schiaffo piuttosto doloroso con la sinistra.

Lui sollevò la mano per restituirle lo schiaffo, ma esitò e riuscì a darle appena un leggero buffetto. Lei gli lanciò un’occhiata, poi si voltò con un largo sorriso, dicendo allegramente: — Amici, ecco Phil. Phil, ti presento Carstairs, Llewellyn e Buck.

Carstairs aveva un rigonfiamento in cima alla testa che gli dava un aspetto a pera. Portava una sottile frangetta, che però non lo rendeva affatto effeminato. — Così sarebbe questo il pagliaccio a cui hai raccontato i piani di stanotte — osservò pigramente.

Llewellyn aveva un’aria molto inglese ed era molto scuro. — E gli hai anche detto che saremmo venuti qui. Mi chiedo come mai non abbia portato la polizia.

Buck aveva la faccia di un falco e un accento del Kentucky che sembrava imparato sui nastri. — La polizia non ha mai tentato di beccare qualcuno al Tan Jet, finora — osservò. — Buono, Otie! — Quest’ultimo richiamo era rivolto a un cagnaccio dall’aria miserabile che sporse la testa da sotto la sedia mostrando i denti a Phil.

Phil si appoggiò al tavolo, la mano vicino a una brocca alta e sottile. — Sono sorpreso di trovarti in un posto tranquillo come questo — disse rivolto a Mitzie. — Mi aspettavo droga, lotte al coltello e donne nude.

Mitzie si girò di scatto verso di lui. — Quanto a droghe, cosa credi che stiamo bevendo in questo momento? — chiese infuriata. — Per i coltelli, basta solo che tu aspetti un po’. E per le donne nude, caro tifoso di combattimenti fra maschi e femmine, se Carstairs, Llewellyn o Buck si infiammassero per qualche ragazza, io andrei subito da lei e le strapperei i vestiti!

Mentre diceva queste ultime parole, stava guardando dietro a Phil. Lui volse il capo e vide la signorina Phoebe Filmer con un giovanotto dall’aria piuttosto impaurita. Phoebe, che indossava un abito da sera color verde pallido profondamente scollato, sembrava ancora più impaurita, e aveva il viso verde quasi quanto i capelli. Forse aveva sentito l’ultima affermazione di Mitzie. Poi riconobbe Phil, e alla paura si aggiunse lo stupore. Phil le rivolse un sorriso rassicurante, anche se forzato. In quel momento l’accompagnatore di Phoebe richiamò la sua attenzione su un separé vuoto vicino alla porta, e i due si affrettarono verso quel rifugio con l’ansia di due turisti in visita ai bassifondi.

Phil si sentì notevolmente rassicurato. Prese una sedia libera da un tavolo vicino, cercò un bicchiere vuoto e lo riempì col contenuto della brocca. Llewellyn, che come gli altri ne aveva soltanto un dito nel bicchiere, richiamò l’attenzione di Buck e alzò gli occhi al cielo in un gesto significativo. Il bianco degli occhi formò due bizzarre mezzelune sotto le iridi.

— Glieli strapperei subito — ripeté Mitzie con convinzione.

Carstairs disse con voce sarcastica: — Mitz, piantala di fare la parte della mammina premurosa. — Si lisciò accuratamente la frangetta, come un antico giudice che si aggiusti la parrucca prima di pronunciare la sentenza. — È chiaro che hai spifferato i nostri piani a questo pagliaccio, e che lui li ha raccontati alla polizia, ragion per cui ci stavano aspettando quando abbiamo svaligiato il primo robot.

— Già — disse Llewellyn, e Buck annuì.

— E se io non avessi insistito per mettere una nuova carica nel razzo ausiliario — continuò Carstairs — ci avrebbero beccati.

— È stata solo una coincidenza — tagliò corto Mitzie.

— È la prima volta che mi capita un coincidenza. Personalmente non ho mai creduto alle coincidenze.

Phil bevve un lungo sorso. Gli sembrò una robetta leggera in confronto al whisky adulterato che gli aveva dato Juno. O almeno così gli parve per i primi due o tre secondi. Poi sentì che la sommità della testa gli si gonfiava a mo’ di pera, come quella di Carstairs. La cantante eseguiva un nuovo motivo, il cui ritornello faceva:

Caro, sono pazza di te,
mi sento così strana e così nuova…

Carstairs continuò tranquillamente: — Mitzie, ti abbiamo fatto entrare nella banda, ti abbiamo iniziata, pur sapendo che eri la figlia di uno psicoanalista, un elemento poco sicuro…

Mitzie gli lanciò un’occhiata di fuoco. — Iniziata? — disse. — Puoi dirlo forte!

— Comunque sia — affermò Carstairs lentamente — tu hai tradito la banda. O almeno ti sei comportata da irresponsabile. — Scandiva le parole ancora più lentamente. — La tua irresponsabilità ci ha fatto perdere un sacco di grana. — Fece una pausa lunga e crudele. — Sei fuori, Mitzie.

— Fuori — ripeté Carstairs.

— Proprio così — disse Llewellyn.

— Già — confermò anche Buck, mentre accarezzava il muso di Otie.

Phil appoggiò i gomiti sul tavolo. — Signori — disse tranquillamente — dite di aver perso un mucchio di soldi? Io sono in grado di rimediare.

Carstairs lo guardò vagamente irritato, e alzò la mano aperta. Phil sorrise e porse la guancia. — Sto cercando un gioiello senza prezzo — continuò. — Per ottenerlo intendo penetrare questa notte nella sede della Divertimenti SpA. Sono disposto ad accettare il vostro aiuto.

A sentir nominare la Divertimenti SpA, Buck mosse la testa almeno di un centimetro, mentre Carstairs sbatté quasi le ciglia.

— Avete delle idee grandiose, mi pare — osservò tranquillamente Llewellyn.

— Sì — disse Buck con uno sbadiglio — forse avrebbe potuto trovare un posto più facile.

— Hai detto che è uno dei matti di tuo padre, vero? — chiese Carstairs a Mitzie.

Lei fece per rispondere, ma Phil la batté sul tempo. — Conosco un passaggio segreto per arrivare nell’ufficio di Billig. Sarà semplice. Non dovete preoccuparvi delle vespe.

— Cosa sarebbe questo gioiello preziosissimo? — chiese Buck con voce strascicata.

— Qualcosa che non credo siate in grado di apprezzare — replicò Phil. — Comunque — continuò, sorseggiando più cautamente la bevanda euforica — dovrebbe esserci in giro abbastanza valuta ordinaria per compensarvi del disturbo. Ho sentito dire che la Divertimenti SpA è piuttosto ricca. Tanto per dirne una, tutti i robot venditori lavorano per lei. E allora perché non colpire la fonte?

Otie allungò la testa dal suo nascondiglio e fece la mossa di azzannare la mano di Phil che, avendo i riflessi appannati dal liquore, non si mosse. Le fauci si richiusero a un paio di centimetri dalle sue dita. — Perché si chiama Otie? — chiese.

— Perché è un coyote — spiegò Buck con una certa condiscendenza. — È stato fatto regredire geneticamente fino al tipo oligocenico.

Phil si chiese se anche i gatti potevano essere fatti regredire fino ai loro progenitori egizi, e se questi progenitori non fossero per caso verdi.

Nel frattempo gli occhi di Mitzie si erano illuminati. Guardò i suoi compagni. — Perché non accettiamo? — propose, sforzandosi di fingersi indifferente. — Sembra eccitante.

Carstairs, Llewellyn e Buck sedevano freddi e sprezzanti come quando Phil era arrivato. Eppure c’era una differenza.

— Perché no? — ripeté Mitzie dopo un momento.

— Naturalmente è rischioso — disse Phil. — I ragazzi di Moe Brimstine hanno gli ortho.

— Che cosa ne sai tu degli ortho? — chiese Carstairs con improvviso interesse.

Phil alzò le spalle. — Sono blu e sfrigolano — rispose. — Li hanno usati contro di me, poco fa.

— Perché non accettiamo, allora? — insistette Mitzie.

— Ho chiesto a Juno e a Jack Jones di aiutarmi — aggiunse Phil. — Sapete, i lottatori. Ma non hanno voluto.

Ancora nessuno rispondeva alla domanda di Mitzie. — Bene, quand’è così… — disse lei con un sorriso trionfante, voltando le spalle al tavolo. — Vieni, Phil.

Avevano fatto appena tre passi, quando Carstairs cominciò a ridacchiare sommessamente. Phil avrebbe anche proseguito, ma Mitzie si voltò mostrando una tale ansia che lui ci rimase male.

— Non correte tanto — disse Carstairs. — Llewellyn, Buck e io ci iscriviamo a questa piccola spedizione, a patto che il pagliaccio ci sappia dare le risposte giuste a qualche domanda quando finiremo. — Sorrise, alzandosi. — Una sola cosa, Mitzie. Questa volta sarà meglio che non ci siano poliziotti.

Mitzie rise. Phil accettò la situazione con un: — Felice di avervi con me, ragazzi — e fece per prendere il braccio di Mitzie, ma lei andò invece con Carstairs e Llewellyn, senza degnarlo di un’occhiata.

La cantante in lustrini aveva attaccato un motivo più allegro:

Riempimi di schiaffi,
rompimi le ossa.
L’amore è cosi buffo.
Ridi anche tu con me…

Per dare un balsamo ai suoi sentimenti feriti, Phil si diresse verso il separé di Phoebe Filmer, dove la biondo-verde era oggetto delle esplicite offerte di due giovani barbuti, sotto lo sguardo agitato del suo accompagnatore.

Phil batté sulla spalla del primo ruffiano. — Filate, ragazzi — ordinò con un cenno significativo verso il suo tavolo. Almeno Buck stava guardando dalla loro parte, e Otie ringhiò. I ruffiani barbuti si eclissarono. Phil si inchinò lievemente a Phoebe.

— Grazie — disse lei con voce debole e stupita.

Phil fece un gesto per dire che non era niente, e se ne andò.

— Dite — chiese lei correndogli dietro e trascinando con sé il proprio accompagnatore — l’avete poi trovato il vostro gatto verde?

Lui sorrise. — No — disse. — Ma sto per trovarlo.

10

— E come penseresti di entrare, visto che di notte è chiuso? — lo incalzò Carstairs ironicamente.

Per tutta risposta, Phil sollevò le sopracciglia con aria di sfida e spinse la porta del ristorante. Li precedette altezzosamente, mentre Llewellyn esaminava la serratura.

La lunga sala era molto buia. C’era un odore pesante di sudore, di liquore e di cibi vecchi; a Phil sembrava perfino di poter individuare quello del coniglio bruciacchiato di Juno. Otie annusò con aria famelica, tirando il guinzaglio. Phil si diresse con sicurezza fra il bancone e i separé. Si sentiva particolarmente contento di sé, perché Mitzie, durante il tragitto, aveva trovato l’occasione di chiedergli l’indirizzo.

— Va bene, va bene — sentì Carstairs sussurrare a Llewellyn — la serratura era stata forzata. Vuol dire che qualcuno ci ha preceduto. Terremo gli occhi aperti.

Phil aprì la porta delle scale ed esitò. Non era completamente buio.

Sentì un sibilo lieve alle sue spalle e vide un cono luminescente allargarsi. Un paio di secondi dopo i gradini cominciarono a brillare di luce lattiginosa.

Buck ridacchiò nell’orecchio di Phil. — Nebbia luminosa — spiegò con freddezza professionale. — Vai avanti. Io spruzzo.

Phil cominciò a salire, preceduto di due o tre gradini dalla luce lattiginosa che si materializzava a nuvolette. La nebbia si posò su Otie, che si mise a brillare come un fantasma. Un po’ ne rimase attaccata anche al fondo dei pantaloni e alle scarpe di Phil.

— Saremo un bersaglio visibile se dovessimo scappare e nasconderci — osservò Phil, mentre raggiungeva il corridoio che aveva percorso insieme con Juno e iniziava la salita della rampa di scale sconosciuta.

— Invece no — disse Buck ridacchiando — perché spruzzo un neutralizzatore appena siamo passati. — Diresse verso i piedi di Phil una bomboletta nerastra: si oscurarono, insieme a una parte dei gradini. Voltandosi, Phil si accorse che il bagliore lungo le scale svaniva bruscamente. Non poteva vedere né Mitzie né Carstairs né Llewellyn.

— Come fate a maneggiare due bombolette e insieme a tenere Otie? — chiese Phil.

— Diavolo, potrei anche sparare con un fucile e far funzionare una distilleria, oltre a questo — lo assicurò Buck.

Poi si accorse di un vago chiarore sopra di lui, al di là della nebbia luminosa. Anche Buck se ne rese conto e neutralizzò immediatamente la loro nebbia, compresa quella attaccata a Phil e a Otie. Phil salì cautamente gli ultimi dieci gradini, mentre il chiarore si faceva sempre più intenso, e si trovò in un corridoio curvo, immerso nell’ombra. Accorciò ancora i passi, poi si fermò.

Un paio di metri più avanti giacevano tre corpi gonfi e pelosi, ciascuno con mezza dozzina di cosi neri, lunghi e sottili come dardi, infilati nel corpo.

Riconobbe almeno due dei gatti morti. Malgrado il grottesco gonfiore, si trattava di un siamese e di un gatto a pelo corto degli Akeley.

— Attenzione! — sussurrò Carstairs, ma nello stesso istante Otie sfuggì a Buck e si gettò in avanti, per annusare il gatto più vicino, tirandosi dietro il guinzaglio. Mentre accostava il naso, la coda di uno dei dardi cominciò a ruotare con un lieve fruscio, come di piume. Otie si irrigidì, teso, senza curarsi dei richiami ansiosi del suo padrone. Il fruscio divenne sempre più intenso. Improvvisamente Otie cercò di afferrare il dardo, che però nello stesso istante si staccò dal corpo del gatto. I denti di Otie si chiusero nel vuoto. Il dardo restò sospeso in aria, a un metro dal pavimento, come una grossa vespa nera. — Che nessuno si avvicini — ordinò Carstairs raucamente. Buck cercò di raggiungere il guinzaglio, ma questo si allontanò bruscamente quando Otie, che osservava il dardo con spasmodica tensione, cambiò di scatto posizione.

Il fruscio si trasformò in un ronzio sinistro. Si udirono due zing in rapida successione, e il dardo tremolò come la fiamma di una candela colpita dal vento. Voltandosi, Phil si accorse che Carstairs stava sparando con una specie di pistola ad aria. Il dardo cominciò a muoversi su e giù, come se danzasse. Otie saltò, azzannando, come un cane a caccia di un’ape, ma il dardo si scansò.

— Torna indietro, Otie — disse Buck disperatamente. Il cane, in piedi sulle zampe posteriori, cercò di colpire il dardo con quelle anteriori. Ci furono altri futili zing della pistola di Carstairs. Il dardo tornò indietro e si fermò sopra il muso di Otie. Quando il cane aprì la bocca per azzannarlo, gli si infilò in gola.

Otie, con gli occhi e le mascelle spalancate, agitò le zampe nell’aria. Poi si rimise a quattro zampe e si lanciò a tutta velocità lungo il corridoio. Andò a sbattere contro una parete, si rialzò a fatica, ritornò tremando da Buck, finché cadde a terra e rimase immobile. A Phil sembrò che la povera creatura tirasse un respiro profondo; poi improvvisamente si sentì venire il voltastomaco, perché il coyote aveva cominciato a gonfiarsi.

— Non toccatelo! — gridò Carstairs, ma Buck si teneva ben lontano. Carstairs si avvicinò a Buck e si chinò con prudenza per osservare l’animale, mentre la frangetta gli cadeva in avanti. — Avevo sempre avuto voglia di vedere una di queste cose in azione — disse sottovoce.

— Sono chiamati missili individuali, vero? — chiese Llewellyn avvicinandosi affascinato. — Antiuomo, cioè.

Carstairs annuì. — Sono stati usati nell’ultima guerra fredda, ma se ne è saputo pochissimo. Servivano per assassinare. L’FBL e i Russi potrebbero raccontarne delle belle. Si dice che siano spinti da una piccola turbina a ioni radioattivi. Mi piacerebbe avere un rivelatore, per controllare. Naturalmente sono attirati dal calore del corpo, e poi vi iniettano un veleno.

Buck mormorò: — Otie. — Gli occhi gonfi del coyote si voltarono ancora dalla sua parte, poi divennero vitrei. Buck si rialzò sbuffando. — Era sempre stato un cane stupido — disse duramente. Mitzie, che si era affiancata a Llewellyn, fissò freddamente l’animale morto.

Phil continuò lungo il corridoio, mentre nel suo stomaco le droghe combattevano contro la nausea, tanto che il corridoio semibuio gli sembrava insieme vivido e irreale.

— Dove stai andando? — gli chiese Carstairs.

Phil alzò le spalle. — A cercare quello per cui sono venuto — rispose confusamente.

— Stai lontano dai gatti, allora — gli suggerì piano Carstairs, ma Phil stava già camminando rasente al muro.

— Come facciamo a sapere che quei missili non ci attaccheranno come hanno fatto con Otie? — Era la voce di Buck, preoccupata.

— Gli altri sono passati, no? — rispose Carstairs, irritato.

— Quali altri? — chiese Buck.

— Quelli che hanno forzato la serratura della porta e che hanno mandato avanti i gatti per attirare i missili — gli spiegò Carstairs impaziente. — A proposito, se qualche missile comincia a ruotare la coda, potete cercare di fermarlo buttandogli sopra la giacca.

Dopo i gatti morti, Phil si imbatté in una rete argentea con parecchi squarci irregolari, tre dei quali formavano un specie di porta. La rete sembrava abbastanza fitta e abbastanza forte da trattenere le vespe. Passò attraverso lo squarcio. Le estremità del filo argenteo erano fuse e arrotondate, come per un calore intenso.

Appena oltre la rete, vi era il corpo di un uomo nell’uniforme grigia della Divertimenti SpA. Stringeva ancora la pistola. Era intatto, solo che la parte superiore della testa era rotolata a mezzo metro di distanza. Era stata tagliata di netto appena sopra il naso da qualcosa di caldo. Phil si ricordò di come il raggio blu aveva tranciato facilmente la trave di metallo. Si allontanò in fretta, ma aveva appena superato un arco che fece un balzo all’indietro vedendo un grosso serpente grigio arrotolato. Poi si accorse che il serpente era un robot portiere simile al Vecchio Bracciodigomma, e alzando lo sguardo vide che era stato tagliato proprio vicino al muro.

Mitzie e gli altri superarono la rete. Carstairs si chinò ansiosamente vicino al morto per esaminare la pistola che stringeva, ma un momento dopo si rialzò scrollando le spalle.

— Non è un ortho, vero? — chiese Buck. — Visto che usano questi missili, c’era da aspettarsi che fossero all’avanguardia anche in altre cose.

— È solo una normale pistola a gas — disse Carstairs. — Ma di sicuro a questo qui non hanno tagliato la testa con una sega circolare incandescente. Gli altri devono avere gli ortho. — Si voltò verso Phil e lo prese per i risvolti della giacca. — Senti, pagliaccio — disse calmo — chi sono questi altri? Tu lo sapevi che qualcuno voleva entrare qui questa notte. Eri sicuro che la porta sarebbe stata aperta.

— Siamo un po’ come sciacalli, no? — osservò Phil trasognato.

Carstairs gli torse i risvolti della giacca. — Chi sono!

Phil non disse niente, ma si voltò di scatto udendo la voce metallica di Moe Brimstine. — Che cosa vuoi, bello?

Llewellyn aveva dato uno strattone al moncone di braccio che sporgeva dalla parete.

— Lascia stare — ordinò Carstairs, abbandonando Phil.

— Prenditela calma, Carstie, vecchio mio — disse Llewellyn facendo lampeggiare i denti in un sorriso. — C’è una cosa piuttosto strana. Vedete quel buco nel muro, fatto dal raggio che ha tagliato il braccio robot? Bene, adesso guardate dalla parte opposta, in linea retta.

Seguendo come gli altri l’indicazione di Llewellyn Phil vide un profondo buco nel pavimento, un paio di metri circa alle loro spalle.

— Non capisco — disse Buck. — Vuoi dire che qualcuno ha sparato quel raggio dal piano di sotto?

— Non credo proprio — replicò Llewellyn. — Evidentemente si tratta di un fucile che spara contemporaneamente in direzioni opposte. Penso che se ci fossimo guardati alle spalle, in cima alle scale avremmo visto dei tagli esattamente opposti a quelli della rete.

Guardò Carstairs socchiudendo gli occhi. — Comincio a pensare che questi ortho siano delle armi piuttosto strane, Carstie. — Poi rivolse lo sguardo verso Phil. — Avete detto che sono blu e sfrigolano, signor Gish. Sparano anche all’indietro?

— Ehi, guardate qui questo microfono — li interruppe Buck, che era andato a curiosare lungo il muro alle spalle della guardia. — C’è un bottone, con uno strano aggeggio attaccato che l’ha schiacciato due volte mentre lo guardavo.

— Non toccarlo — disse Carstairs. — Probabilmente è un bottone che il nostro Testamozza doveva schiacciare ogni tanto per far sapere che era di guardia. Chiunque ci ha preceduti, sapeva il fatto suo. Te lo chiedo ancora una volta, pagliaccio: chi sono?

— Già, sputa fuori — disse Buck affiancandosi a Carstairs. — È colpa tua se il mio Otie è stato ucciso.

— Sì, parla — incalzò Llewellyn, lasciando andare il moncone di braccio, che si ritirò contro la parete finché non sembrò una cicatrice raggrinzita, nello stesso istante, come se le ferite interne cominciassero a farsi sentire, una versione metallica della voce di Moe Brimstine gracchiò: — Così va bene, bello. Vai via e non tornare più.

In quel momento, mentre l’inquietante ammonimento aveva immobilizzato tutti, Phil si incamminò con la tranquilla superiorità prodotta dalla droga, passando oltre Llewellyn e l’arco.

— Signori — disse — penso che vogliate visitare la stanza del tesoro.

La stanza non aveva un soffitto molto alto, ma era tanto grande che la sola parete chiaramente visibile era quella alle loro spalle. Non era molto illuminata, ma dava lo stesso l’impressione di esserlo per via degli oggetti lucidi, ordinatamente allineati, su cui si rifletteva la luce. A sinistra c’erano file e file di robot venditori, luccicanti, dalla forma di grosse tartarughe, con una cupoletta in cima: gli stessi efficienti venditori metallici che dalla mattina alla sera vagavano per le strade, individuando i clienti per mezzo di radar ipersonici e di analizzatori visuali. Soltanto che ora le loro affascinanti vetrinette erano chiuse, le loro braccia per raccogliere il denaro e offrire la merce accuratamente ripiegate, le instancabili ruote sotto il loro guscio di metallo immobili, le loro voci soavi, ricche di misurato sex appeal robotico (voci maschili per le donne, femminili per gli uomini, allegre e sagge per i bambini), erano egualmente silenziose.

A destra, allineati con la stessa precisione, c’erano le schiere dei robot manichini, abbigliati nelle fogge più varie: dai vestiti da sera con collo di zibellino ai gioielli da bagno. I loro capelli brillavano in centinaia di sfumature, la loro carnagione di plastica emanava una vellutata seduzione, avevano le pose di principesse, ma, come i robot venditori, erano immobili. Non camminavano con passo armonioso, non facevano gesti eleganti, individualizzati, e neppure sorrisi misteriosi e altezzosi; le loro labbra non si aprivano per descrivere qualità e prezzi degli abiti che indossavano. Fissavano tutte davanti a sé come mummie egiziane non ancora avvolte nelle bende, e in effetti una di esse, coronata e vestita di una guaina aderente, sembrava la copia esatta di Nefertiti.

Parve a Phil che quelle file di venditori e indossatrici robot fossero in realtà allineate per una parata militare, che avesse in quel momento di fronte agli occhi l’armata (l’armata del denaro e della moda) della Divertimenti SpA.

Llewellyn fu il primo a rompere il silenzio. Si buttò sul primo robot ed eseguì alcune rapide operazioni. Si udì un clic e fra le sue mani apparve una manciata di biglietti e di monete, mentre il bianco degli occhi brillava gioiosamente sul suo viso nero.

— Hanno ancora l’incasso della giornata! — chiamò sottovoce.

Buck guardò dall’armata del denaro a quella della moda con famelica indecisione. Quando Carstairs grugnì sprezzante, si affrettò a raggiungere Llewellyn, messosi metodicamente al lavoro sulla prima fila di robot.

Malgrado il suo apparente autocontrollo, era evidente che anche a Carstairs prudevano le mani. Guardò Phil incerto. Poi comandò seccamente: — Sveglia, Mitzie! — Lei gli si rivolse obbediente, con un viso stranamente apatico. — Mitz, voglio che tu faccia la guardia al pagliaccio. Se cerca di tagliare la corda o di schiacciare qualche bottone, usa il coltello. — Lei annuì.

— Ehi! — chiamò Buck con un sussurro eccitato. — Qui c’è un gruppo di robot giocatori!

Carstairs non si mosse subito, anche se per l’impazienza di mettersi all’opera continuava a far schioccare senza rumore le dita. Studiò rabbiosamente Mitzie. — Mi sono spiegato, Mitzie? Non voglio passi falsi. Ne hai già fatto uno oggi. Non che pensi che tu abbia un debole per quel pagliaccio, ma hai fatto un po’ la scema con lui. Adesso basta, chiaro?

Questa volta il suo cenno di assenso, benché muto come il primo, sembrò soddisfarlo, e Carstairs si affrettò a raggiungere Llewellyn e Buck.

Nello stesso momento, Phil si voltò e si infilò in una porta ad arco a fianco di quella per cui erano entrati. Non aveva fatto dieci passi lungo il corridoio curvo che Mitzie l’aveva raggiunto e si era messa di fronte a lui.

— Torna indietro — sussurrò. La sua mano teneva il coltello puntato contro il petto di Phil, senza tremare, neppure di quel tanto da far balenare sulla lama le luci pallide che si riflettevano dal soffitto.

Phil le sorrise. — Mitzie — disse gentilmente — i tuoi amici hanno trovato quello che cercavano, ma io no. Perciò lasciami passare.

Lei negò sprezzantemente, e gli appoggiò la punta del coltello alla camicia.

Phil non indietreggiò. — Devi lasciarmi passare — ripeté con dolcezza — perché non sei più tanto sicura che la crudeltà e l’astuzia, e se necessario anche l’uccidere a sangue freddo, siano i modi migliori per affrontare la vita. Non sei più sicura che l’approvazione della banda sia la sola cosa che conta. Ed è un’approvazione piuttosto forzata, Mitzie, e per ottenerla devi mostrarti obbediente, e fare giochi di equilibrismo, come quel povero cane sciocco, e il loro cameratismo non è affatto così romantico, fino alla morte, tutti per uno e uno per tutti, come vorresti far credere. Ma ora non ho tempo di dirti altro, perché devo andare.

— Torna indietro — ringhiò lei. Tuttavia Phil, benché il coltello gli sfiorasse la carne, sapeva che non era più un comando, ma una preghiera.

— Ora vado avanti, Mitzie — mormorò, e s’incamminò dritto, contro il coltello. Per qualche decina di centimetri la punta della lama arretrò esattamente alla sua stessa velocità, poi scivolò improvvisamente di lato, e mentre passava a fianco della ragazza, Phil udì l’inizio soffocato di un singhiozzo.

Nessuno dei due disse nulla. Lui si voltò una volta e vide il profilo di Mitzie che si stagliava contro la luce proveniente dalla sala, le sue spalle curve e la mano che ancora teneva il coltello. Le facce hanno spesso un’aria insospettatamente debole viste di profilo, ma Phil non ne aveva mai visto una che paresse anche così tragicamente perduta.

Quell’immagine lo seguì mentre il corridoio diventava più scuro, poi di nuovo più chiaro e girava improvvisamente in un angolo acuto per emergere in una lunga sala, riccamente ammobiliata. Aveva già fatto un passo prima di accorgersi che nella stanza si trovavano tre persone e che una di esse era Moe Brimstine. Non stavano guardando dalla sua parte, e avrebbe potuto facilmente nascondersi, ma si mosse con troppa fretta e urtò una sottile colonna sulla quale era posato un piccolo acquario, con dei polipini viola, verdi e rosa. La colonnina oscillò pericolosamente. Mentre cercava di afferrarla inciampò e cadde nella stanza, trascinandosela dietro e spargendo dappertutto acqua e piccoli polipi multicolori.

11

Qualche secondo dopo Phil decise a malincuore che starsene disteso sul morbido pavimento di gomma, con entrambi gli occhi ben chiusi, non gli sarebbe servito a molto. Li aprì cautamente, sbatté le palpebre sul pavimento e cercò di farsi coraggio per guardare in alto. Nel frattempo:

— Brimstine, perché non arriva quell’uomo dell’FBL?

— Non si preoccupi, signor Billig. Sarà qui a momenti.

— Comincio a dubitarne. E se ci avessero mentito? Se progettassero di attaccarci, sperando di impadronirsi del gatto verde?

— Il governo non oserebbe mai fare una cosa del genere, signor Billig. Hanno bisogno del gatto verde. O almeno così credono.

— E allora perché non è ancora arrivato quello dell’FBL?

— Vi dico di non preoccuparvi, signor Billig. Rilassatevi. Fatevi accarezzare la fronte da Dora.

— Pfui!

Alquanto confuso, Phil alzò il mento dal pavimento e voltò con cautela la testa. Quel signor Billig che aveva sentito nominare in un tono tanto reverente si rivelò per un uomo molto magro, scuro, che a una prima occhiata pareva sulla trentina, a una seconda sulla settantina, e a una terza un mistero spiegabile solo con l’uso di ormoni per prolungare la giovinezza. Vestiva un completo sportivo nero, dal taglio severo. Moe Brimstine, al suo fianco, sembrava ancora più grande, ma solo fisicamente. Le sue maniere brusche si erano trasformate in quelle di un servo, con i privilegi del buffone. Perfino i suoi occhiali neri apparivano ora un po’ comici.

L’altro membro del terzetto era una biondo-viola di una bellezza che toglieva il respiro, e il cui abito consisteva di una lunghissima spirale di sottile filo d’argento sopra una guaina di raso bianco. Era seduta su un tavolo e osservava gli altri con un freddo sorriso. Il signor Billig camminava su e giù senza un attimo di tregua, come se fosse impegnato in qualche allenamento, con Moe Brimstine che lo seguiva come un istruttore ansioso.

Ma quel che era più stupefacente, per Phil, era che nessuno dei tre gli dedicava la minima attenzione. Apparentemente il fatto che fosse entrato nella sala rovesciando un acquario non era tanto importante da meritare un’occhiata. O se un’occhiata c’era stata era stata davvero molto breve. Oltre ad essere esterrefatto e piuttosto spaventato, Phil si sentiva ora persino un po’ offeso.

— Non credo che dobbiate prendere questo atteggiamento verso Dora, signor Billig — disse Moe Brimstine. — È una ragazza molto intelligente; perfino voi provereste piacere nello scoprire quanto. Non è così, Dora?

— Sono molto abile nell’offrire piacere agli uomini, alle donne e ai bambini — disse Dora sbadigliando. — Fra le altre cose ho imparato a memoria tutti i più importanti libri porno scritti dall’alba della storia.

— Pfui! Scemenze! Brimstine, tu non vuoi capire quanto sia seria questa faccenda. Allora ti dirò che secondo le mie ultime informazioni il governo sta per mettere sotto accusa non solo tre dei nostri governatori e una cinquantina dei nostri sindaci, ma anche quattro senatori e una decina di deputati.

L’annuncio lasciò di stucco Moe Brimstine — Ma sono tutti — disse sottovoce.

— Non proprio, ma quasi — disse Billig seccamente.

— Significherebbe la fine della Divertimenti SpA.

— E io che cosa ti ho detto? — replicò Billig.

Phil, un po’ irritato, si sedette e si mise a osservarli, col mento appoggiato a una mano. La sua manovra non suscitò la minima attenzione. Si convinse a non cercare una spiegazione del loro comportamento.

Moe Brimstine aveva recuperato il proprio buon umore con una alzata di spalle. — In ogni modo avete il gatto verde. Potete stare tranquillo.

— Davvero? — chiese Billig fermandosi. — Sei sicuro di averlo chiuso bene, Brimstine?

— Sentite, signor Billig, l’ho messo in una gabbia di rame, dove nessuno può toccarlo e lui non può toccare nessuno, neppure elettronicamente. E poi è ancora addormentato. Non potete chiedere di più, vi pare?

— Forse no — concesse Billig di malavoglia. — Ma c’è sempre il problema di prima: come possiamo essere sicuri che il governo abbia un tale bisogno del gatto verde da essere disposto ad accantonare tutte le accuse, pur di entrarne in possesso?

— Non preoccupatevi, signor Billig. Questa è una cosa di cui possiamo essere certi. Da almeno un mese sappiamo che la ricerca del gatto è il compito più urgente e più segreto dell’FBL, dell’FBI e del servizio segreto speciale.

— Ma per quale ragione? — Billig aveva ricominciato a passeggiare. — Non è che un animale con uno strano colore. Non ha senso.

— Sentite, signor Billig, ne abbiamo già discusso prima. Loro sono assolutamente convinti che il gatto rappresenti un terribile pericolo. Credono che possa controllare la mente e cambiare la personalità di un uomo, e sono convinti di averne le prove, inclusi i casi di quattro alti ufficiali che hanno lasciato il paese, a quanto pare, diretti in Russia. Hanno preso ogni genere di misure segrete, non solo per catturare il gatto, ma anche per impedire che il Presidente e i più importanti ufficiali abbiano alcun contatto con lui. Secondo le nostre informazioni, la teoria originale del governo era che il gatto veniva dalla Russia, che le idee genetiche di Lysenko erano giuste e che i Russi avevano allevato degli animali intelligenti e dotati di facoltà extrasensoriali per usarli come spie e sabotatori, e forse per rimpiazzare gran parte della popolazione mondiale. Ma ora il governo sembra propenso a credere che il gatto sia un mutante o un mostro o qualcosa del genere, e che sia in grado di conquistare l’America, forse tutto il mondo, mediante il controllo dei sentimenti e dei pensieri.

Phil si sollevò indignato. Avrebbe voluto dire: “Ehi, Lucky non è affatto tutto questo!” La conservazione l’aveva interessato a tal punto da fargli quasi dimenticare la sua incredibile situazione.

— Lo so, lo so — stava dicendo Billig. — Ma voi cosa ne pensate, Brimstine?

L’altro si strinse nelle spalle. — Penso che siano matti — disse beatamente. — Quel gatto non mi sembra niente di speciale, anche se non ho intenzione di correre rischi. Credo che si tratti di una colossale suggestione collettiva, di una fobia.

— Pensi che siano matti e ti aspetti che io non mi preoccupi — grugnì Billig. — Dov’è quest’uomo dell’FBL?

— Sta venendo — lo rassicurò Brimstine. — Vedrete che tutto andrà bene.

— È esattamente quello che mi hai detto quando il Presidente ha cominciato a prendere misure contro la Divertimenti SpA. — ribatté Billig, accalorandosi. — Hai detto che era solo un bluff, per attirare i voti del Midwest. Mi hai spiegato che Barnes era un contadino ubriacone, che potevamo raggirarlo tutte le volte che volevamo. Mi hai assicurato che era solo una gran messinscena, come le altre sei volte. Be’, non lo era. È successo qualcosa che ha cambiato tutto.

— Lo so, lo so — ammise Brimstine, per una volta tanto a corto di parole.

— Non hai ancora scoperto cos’è successo? — insistette Billig.

Brimstine alzò le spalle. — Penso che Barnes sia matto.

— Questa è la tua spiegazione per ogni cosa! — ruggì Billig fra i denti. — Se succederà qualcosa anche questa volta, mi dovrei consolare pensando che i poliziotti che mi arrestano sono matti? Dov’è quest’uomo dell’FBL?

— Dovreste davvero cercare di rilassarvi, signor Billig — suggerì Moe Brimstine riprendendosi. — Distraetevi in qualche modo. Con Dora, per esempio — e ignorando il terzo pfui di Billig, Brimstine la scrutò criticamente. — Sistemati la bocca, cara — disse.

Con un’obbedienza piena di grazia, che riuscì tuttavia ad essere sprezzante, la bellezza biondo-viola scivolò dal tavolo e si diresse verso Phil, il quale decise che ormai era tempo che smettessero di far finta di ignorarlo.

— Guardate come ancheggia, signor Billig — disse Brimstine premuroso. — Un bel pezzo di figliola, eh?

Lei gettò all’indietro i capelli con un gesto del capo, si fermò a un metro da Phil, prese il rossetto e guardando dritto davanti a sé, se lo passò accuratamente sulle labbra. Nello stesso istante qualcosa di freddo e di attaccaticcio si chiuse su un dito della mano sinistra di Phil. Istintivamente lui scosse la mano, e un piccolo polipo rosa si staccò dal suo dito dirigendosi verso la ragazza, per spiaccicarsi nell’aria a circa mezzo metro da lei.

Phil lo guardò restare lì sospeso e sentì che la testa gli si stava gonfiando fino a scoppiare, come se avesse preso un altro bicchiere della limonata del Tan Jet. Poi si alzò e avanzò cautamente con le braccia tese davanti a sé.

Fra lui e l’altra metà della stanza vi era una superficie invisibile e piatta, che si estendeva fin dove poteva toccare. Si rese conto di trovarsi dalla parte invisibile di uno specchio unidirezionale che divideva in due la sala. Dora, così vicina a lui da poterla toccare, si voltò e la sua gonna sfiorò l’altro lato della superficie. C’era un intervallo di almeno cinque centimetri rispetto al punto dove si trovava appiccicato il polipo. Uno specchio non poteva essere così spesso. Dovevano esserci due pannelli, probabilmente con il vuoto in mezzo. Infatti, si rese conto con una nuova sorpresa, le loro voci non si udivano direttamente, ma attraverso dei microfoni, che però le registravano in modo biauricolare, così da conservarne profondità e giusta direzione.

Ne ebbe la conferma constatando che le voci non erano localizzate così perfettamente come gli era sembrato prima di accorgersi dello specchio. Inoltre la sensazione di profondità era un po’ eccessiva, come se i microfoni fossero posti a una distanza superiore a quella fra le orecchie.

Notò infine che tutte le sorgenti di luce si trovavano al di là del pannello.

Arrivato alla conclusione che loro non lo ignoravano, ma erano semplicemente ignari della sua presenza, Phil si sentì quasi un ladro, e piuttosto a disagio. Guardò nervosamente alle spalle, lungo il corridoio che aveva percorso, e poi davanti a sé, dove esso proseguiva dritto e buio. Si chiese perché mai Billig avesse sistemato lo specchio in modo tale che lui stesso, Brimstine e Dora potessero essere spiati. Non aveva senso. Benché fosse protetto, sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

Avrebbe potuto lasciare la stanza, ma in quel momento Moe Brimstine riattaccò un telefono e disse eccitato: — Sta arrivando! — al che Billig smise di colpo di camminare e divenne calmo come l’acqua nera di uno stagno. Evitò accuratamente di guardare verso l’arco di ingresso, ma non altrettanto fece Brimstine.

Un uomo entrò e si fermò. Aveva la faccia dura e si muoveva rigidamente. I capelli erano spruzzati di grigio, e il viso mostrava i segni di lunghi anni di preoccupazioni, ma non del genere di quelle di Billig.

Billig lo guardò con un sorriso interrogativo, poco meno che derisorio. Attese un attimo, poi disse: — Date le circostanze, suppongo che non vogliate usare il vostro nome, ma…

— Chiamatemi Dave Greeley — disse l’altro seccamente.

— …ma immagino che veniate da parte del Federal Bureau of Loyalty e che abbiate pieni poteri per trattare in nome del servizio e del Presidente?

L’altro fece un cenno di assenso.

— Il signor Greeley, il signor Brimstine — disse Billig con un gesto flessuoso del braccio che ricordò a Phil l’ondeggiare di un serpente. — Il signor Greeley, Dora… ehm, Dora Pannes.

L’uomo del governo fece un cenno vago.

— Signor Billig — disse — ci avete detto di avere il gatto verde. Se è così, lo compreremo.

— E cosa siete disposti a pagare? — mormorò Billig.

— Il carteggio Moreland-McCartney con le prove delle bustarelle pagate a quei senatori dalla Divertimenti SpA, più tutte le registrazioni e i nastri relativi al caso. E in aggiunta altro materiale analogo riguardante una sessantina di casi, che non credo sia necessario enumerarvi.

— Non è abbastanza — disse Billig dolcemente.

Greeley esitò. — Naturalmente potrei fare appello a voi come americano — disse con voce diversa — come cittadino di un emisfero minacciato da un mortale pericolo.

— Vi prego, signor Greeley — lo interruppe Billig con una risatina.

Greeley strinse le labbra. Quando le riaprì, parlò col tono che aveva usato all’inizio.

— Lettere di fiducia indirizzate a tutti i suddetti uomini politici, datate oggi, firmate e con le impronte digitali del Presidente e di tutti i ministri, con registrazioni vocali e visive a conferma. Naturalmente i nostri esperti dovranno esaminare il gatto prima dello scambio. Possono essere qui in una ventina di minuti.

— Così va meglio — mormorò Billig — molto meglio. Ma non è ancora abbastanza.

— Che altro volete? — chiese Greeley irritato, ma a Phil sembrò che la risposta la conoscesse già.

— I testimoni, consegnati nelle nostre mani — disse Billig. — O’Malley, Fattori, Madelin, Luszcak, e gli altri trenta, anzi trentaquattro.

— Questo non è possibile — ribatté Greeley seccamente. — Non posso pagarvi in vite umane.

— E chi ha mai detto una cosa del genere? — chiese Billig dolcemente. — Io certo no, vero, Moe? È solo che ci sentiremmo più sicuri con i testimoni sotto la nostra custodia protettiva, piuttosto che sotto la vostra.

— So benissimo cosa fareste loro — disse Greeley.

Billig alzò le spalle. — A questo punto non dovete pensarci. In ogni modo, vi sono modi per dimenticare. — E gettò un’occhiata a Dora, la quale a sua volta rivolse all’uomo dell’FBL un pigro sorriso provocante.

Greeley arrossì. Per qualche secondo sembrò concentrarsi sul proprio respiro. — Ascoltatemi bene, Billig — disse finalmente — non crediate che io o il governo nutriamo nei vostri confronti sentimenti diversi dall’odio e dal disprezzo. La Divertimenti SpA ha corrotto un terzo della nazione. Abbiamo circondato le vostre sedi, qui e in venti altre città, in modo da non farne uscire neppure una mosca. La sola ragione per cui non vi abbiamo schiacciato è che ci avete detto di avere catturato una cosa che è un po’ più pericolosa per l’America della vostra corrotta organizzazione. Ma la nostra pazienza ha un limite. Sospettiamo un bluff da parte vostra, nonostante quei peli verdi che ci avete mandato. Concludete quest’affare finché potete.

— Le analisi fisico-chimiche dei peli devono aver mostrato qualcosa di molto interessante ai vostri esperti — mormorò Billig, sorridendo tra sé. — Come avete detto voi, signor Greeley, noi abbiamo qualcosa di cui non potete fare a meno. Qualcosa che vale più o meno… un terzo della nazione, diciamo? Mi sembra che ve la caviate a buon mercato. Pensate a quanto sarebbero disposti a pagare i Russi. Perciò credo che i testimoni siano una parte essenziale dello scambio. Anzi, ne sono certo.

— Vi avverto — disse Greeley con veemenza — che ho pieni poteri decisionali per quanto riguarda il Progetto Micio, dopo Emmett, e che ho consigliato Emmett e il Presidente di interrompere le trattative e di assalirvi se insistete in questa richiesta.

— Non mi interessa quello che avete consigliato voi — disse Billig. — Mi interessa quello che Emmett e Barnes hanno consigliato a voi.

A giudicare dalla sua espressione Greeley avrebbe preferito essere sordo e cieco. Strinse i pugni e lentamente li riaprì. Si preparò a parlare.

Ma proprio in quel momento una spia telefonica lampeggiò. Moe Brimstine prese il ricevitore, con l’aria di voler solo lanciare un ruggito di rimprovero e riappendere. Invece ascoltò in silenzio per un po’. Greeley lo scrutava attentamente.

In quell’istante Phil udì il sibilo lieve di una porta scorrevole che si apriva e un rumore leggero di passi, meno netto dei suoni che giungevano attraverso i microfoni biauricolari. Guardò lungo il corridoio buio. A una quindicina di metri di distanza, dove il corridoio finiva a T, apparve una luce. Poi il dottor Romadka attraversò il corridoio. L’analista portava ancora la sua valigetta nera. Nell’altra mano stringeva una pistola. Sparì alla vista.

— È meglio che veniate, signor Billig.

Phil si voltò appena in tempo per vedere Billig che prendeva la cornetta dalle mani di Brimstine, lanciandogli un’occhiata. — Tre? — chiese Billig seccamente. — E un quarto uomo con una ragazza, hanno detto? E cosa voleva il quarto? Non mi interessa se era una stupidaggine! Cosa?

Senza attaccare, Billig si rivolse a Greeley. — Dovremo attendere qualche minuto prima di completare il nostro affare — disse brevemente. — Dora vi intratterrà.

— Non possiamo attendere — disse Greeley con una nota di trionfo nella voce. — L’attacco comincerà fra dieci minuti, a meno che io non ritorni. E può esserci una sola cosa abbastanza importante da farvi sospendere le trattative. Avete perso il gatto verde, o temete che sia così.

— Sono sicuro che Emmett aspetterà più a lungo, anche se non ve l’ha detto — rispose bruscamente Billig. — Fallo sorvegliare da Benson, Brimstine. Poi torna indietro.

— Fatemi parlare con Emmett — disse Greeley. — Coopereremo pienamente con voi per ritrovare il gatto. Avete la mia parola che le accuse verranno accantonate.

— La vostra parola! Portalo via — disse Billig seccamente.

Greeley, scostando sprezzantemente il braccio dalla mano di Brimstine, si diresse verso l’uscita. Dora li accompagnò, e Greeley si staccò da lei.

— Non preoccuparti, agnellino — gli disse Dora — vado solo a fare la nanna.

Billig sollevò il ricevitore. Ma un attimo prima di appoggiarlo all’orecchio, gli occhi gli si strinsero come per un sospetto improvviso e guardò verso Phil, o piuttosto verso un punto vicino a Phil, con tale intensità da fargli venir voglia di nascondersi, soltanto che per un secondo non seppe decidersi dove.

Poi l’indice e il medio della mano destra di Billig schiacciarono due bottoni, con la rapidità di un serpente che azzanni la preda.

Le luci si accesero d’improvviso e si fece un silenzio di tomba. Phil vide la sua immagine riflettersi su uno specchio che nascondeva Billig e tagliava a metà la stanza. La sua immagine aveva l’espressione di un uomo che venga sorpreso nudo in pubblico. Esitò per un altro disperato secondo, raggelato dal pensiero che lo specchio fosse un enorme occhio, poi cominciò a correre lungo il corridoio dritto. Raggiunse l’intersezione a T e svoltò nella direzione che aveva preso Romadka. Sentì dinanzi a sé un rumore di passi che correvano nella sua direzione. Ritornò dalla parte da cui era venuto Romadka e si trovò in una stanza brillantemente illuminata. Al centro c’era una pesante gabbia di rame, con le sbarre a un paio di centimetri l’una dall’altra.

Un angolo della gabbia era stato tagliato con precisione e giaceva sul pavimento, come una tenda arancione a tre lati. Phil si guardò intorno in cerca di una via d’uscita, ma vide solo pareti bianche, il cui candore era segnato soltanto da un profondo solco in corrispondenza del taglio nella gabbia. La sua occhiata circolare terminò sulla porta da cui era entrato. Il signor Billig e Moe Brimstine erano in piedi sulla soglia. Brimstine impugnava un paralizzatore e il signor Billig un’arma più pesante che teneva puntata contro Phil, ma a una certa distanza dal suo fianco.

— Allora — disse Billig — cosa ne avete fatto del gatto verde?

12

Non potevano essere passati più di tre minuti dal momento della sua cattura, ma gli pareva di ascoltare il signor Billig da anni. Phil sedeva preoccupato, su uno sgabello in una stanza lunga e bassa, dove era stato condotto da due uomini vestiti con abiti sobri, evidentemente un gradino più sopra delle normali guardie, che il signor Billig chiamava coi nomi di Harris e Hayes. Lungo uno dei lati più lunghi della stanza c’erano delle finestre e una porta che dava su un balcone, al di là del quale si scorgeva solo un’inquietante oscurità. Harris e Hayes stavano alle spalle di Phil, mentre Billig camminava su e giù di fronte a lui.

Proprio in quel momento, con una voce che sembrava quella di un nastro fatto girare a velocità tripla, ma non così acuta, disse: — Vi siete mai immaginato concretamente dieci milioni di dollari? Pensateci bene: uno yacht sul Rio delle Amazzoni, con cabina a cupola, il vostro elicottero privato, una bionda, una bruna e una rossa, e voi monarca assoluto di un interessantissimo microcosmo. Non vi attira?

— Ma io non l’ho preso il gatto verde — rispose pronto Phil, contagiato dalla velocità di Billig. — Non so dove sia.

— Cosa volete allora? — chiese Billig. — O siete uno di quelli che hanno paura di chiedere? Non preoccupatevi, ne ho sentite di tutti i colori.

Phil aprì la bocca, pensò a Lucky e non disse niente.

— Colpiscilo, Harris — ordinò Billig — e vedi di non metterci tutto il giorno.

Il dolore rimbalzava come una palla d’acciaio dentro il cranio di Phil, sotto i colpi spietati di Harris. All’ultimo, Phil sentì la testa annebbiarsi e i suoi pensieri diventare indistinti. La faccia da cassiere di banca di Harris svanì per essere sostituita dalla maschera di Billig, con le sue rughe in agguato.

Billig estrasse la pistola che aveva quando Phil era stato catturato. — Ti taglierò a pezzi, un po’ alla volta. Il raggio brucerà la carne, e ti impedirà di perdere troppo sangue.

La mente annebbiata di Phil riuscì solo a pensare a quanto fosse ridicola la cosa. Forse Billig l’aveva preso per un albero? La testa dell’uomo gli girava intorno insistentemente, come un piccolo pianeta. O forse era la stanza che oscillava? Improvvisamente Phil stese un braccio.

— Bene — disse — cominciate con questo. Attento a non far male alle foglie.

Billig abbassò la pistola. — L’hai colpito troppo forte — disse a Harris — oppure gli piace. Proveremo in un altro modo. Dov’è Brimstine? Gli ho detto che aveva solo due minuti per trovarmi Jack. Frugalo, Hayes.

Delle dita agili si insinuarono nelle tasche di Phil porgendo via via a Billig degli oggetti qualunque. Quando la mano si infilò nella tasca destra, Phil si ricordò confusamente di qualcosa e fece una mossa per impedirlo, ma Harris gli torse il braccio dietro la schiena.

Hayes porse cautamente a Billig la figurina di cera di Mitzie Romadka, nel suo vestito da sera che le lasciava il seno scoperto.

Billig disse a mezza voce a Hayes: — Scommetto che questa è opera di quella Mary… come si chiama?… quella che ci faceva le bambole di spogliarelliste. Era molto brava, ma adesso è anche migliorata. — Girò delicatamente la bambolina fra le dita, studiando le reazioni sul viso di Phil. — La volete? — chiese improvvisamente. — Vi spiacerebbe se le venisse fatto del male? — Fece un gesto come per strapparle la testa, poi la posò subito sul tavolo al suo fianco e alzò le braccia al cielo. — Dove diavolo è Brimstine?

— Eccomi — annunciò quest’ultimo piombando nella stanza come un orso. — Ho trovato Jack. E abbiamo preso la ragazza di cui parlavano quei tre ladruncoli. Si era messa in fila coi robot manichini. Non l’avremmo mai trovata se non avesse starnutito.

Mitzie venne introdotta nella stanza da Dora che le teneva le mani dietro la schiena. Sul viso della biondo-viola vi era un sorriso di disprezzo a cui si mescolava una traccia di crudeltà. La figlia dell’analista aveva perso la sua cappa da sera, e i lunghi capelli neri le nascondevano quasi un occhio. Teneva il mento alto come chi ha combattuto ed è stato sconfitto, ma non è stato veramente sottomesso. Quando vide Phil, distolse orgogliosamente lo sguardo, come se il fatto di essere stata catturata avesse eliminato il problema che lui le aveva posto.

— Ah, l’originale — osservò Billig, sollevando gli occhi dalla statuina, che poi si fece scivolare in tasca. — Mia cara — le disse avvicinandosi — ti piacerebbe apparire in una pubblicità dal vivo in tutto il territorio nazionale, o posare per una serie di robot indossatrici ultra lusso? O preferisci diventare una stella della sensoradio, o ambasciatrice in Brasile oppure la mia assistente e partecipare a tutto quanto succede al mondo di interessante? O vuoi dieci milioni di dollari? Devi solo dirci cos’hai fatto del gatto verde.

Mitzie rispose a quel fuoco di fila di domande con una smorfia di disprezzo. — Mia cara — l’assicurò Billig — parlo seriamente. Questa è un’occasione che capita una sola volta nella vita, e tu sei una ragazza carina. — Fece per accarezzarle le spalle, e invece si voltò di scatto per osservare la reazione di Phil.

Jack Jones arrivò di corsa nella stanza e si fermò di botto. Guardò Phil come se non lo conoscesse, poi salutò Billig con un sorriso sardonico.

— Cosa fai lì impalato? — disse Billig. — Avanti, al lavoro. Hayes, portami subito quei tre ladruncoli.

Phil cercò di sfuggire alla presa apparentemente distratta di Harris. Poi le dita di Jack trovarono i suoi nervi, e il dolore non fu più una palla d’acciaio, ma le radici incandescenti di una pianta infuocata, che si insinuavano con mille diramazioni in ogni più piccolo interstizio fra le cellule del suo corpo. Udì se stesso urlare: — Romadka! Romadka! — il dolore diminuì e Phil balbettò rapidamente: — Il dottor Romadka ha rubato il gatto. L’ho visto uscire dalla stanza dove si trova la gabbia con una valigetta nera. Il gatto doveva essere dentro.

— Chi è questo Romadka? — chiese Billig.

— Un analista — boccheggiò Phil. Accennò a Jack Jones. — Lui può confermarlo.

— Non ne ho mai sentito parlare — negò subito Jack.

— Non è vero — mormorò Phil disperato. — Avete visto come mi ha inseguito questa notte. Dovevate capire che gli interessava il gatto verde.

Jack scosse la testa. — Si sta inventando tutto — disse a Billig.

Dall’altra parte della stanza, Brimstine appese un telefono e chiamò Billig. — Benson dice che Greeley è sempre tranquillo. Sembra certo che l’incursione incomincerà all’ora che ha detto.

— Avanti, non perdere tempo! — scattò Billig, esasperato, rivolgendosi a Jack. — Lavoratelo di nuovo.

Mentre le piccole mani terribili gli si avvicinavano, Phil gettò a Mitzie un’occhiata implorante.

— Il dottor Anton Romadka è mio padre — disse lei freddamente. — Ha fama di grande psicoanalista. Questo tipo isterico con cui state perdendo tempo è uno dei suoi pazienti.

— Mia cara, perché non l’hai detto prima? — disse Billig felice. — Dora, lasciale subito i polsi! — La donna ubbidì con una cinica alzata di sopracciglia.

— Mia cara, non mi ero reso conto che ti stava ancora tenendo — l’assicurò Billig, e le corse vicino, senza smettere di parlare. — Mia cara, è tutto chiaro, ora: questo isterico, come l’hai così ben definito, ha rubato il gatto per ordine di tuo padre e gliel’ha consegnato. Ma tu, a quanto posso vedere, disprezzi tuo padre, che ti ha probabilmente costretto a seguirlo con la forza. Ora devi soltanto dirci dov’è, o dove pensi che sia, e avrai non una, ma tutte quante le cose che ti ho appena menzionato.

— Mio padre non sarebbe capace neppure di rubare l’incasso a un robot che vende banane — gli rispose seccamente Mitzie. — Quanto a voi, siete stupido, presuntuoso e insicuro come tutti gli uomini. Soltanto che siete più veloce. Pensate che un furto tanto difficile può averlo compiuto solo un uomo. Mio padre è un lurido analista, ma un paio di sedute con lui vi farebbero bene.

— Mia cara, non combinerai nulla se continui così — le disse Billig ridendo. — Ti assicuro che sei fra amici. Noi desideriamo solo il tuo bene. — Le prese il braccio con paterna sollecitudine.

La destra di Mitzie ebbe uno scatto e Billig si ritrasse con quattro graffi rossi sulla guancia sinistra.

— Prendila, Dora! — ordinò. La donna non si fece pregare e circondò la vita e i gomiti di Mitzie con le sue braccia. Mitzie si irrigidì in una posa sdegnosa. — Pensavo che fosse disarmata. Brimstine, toglile quegli artigli. — Brimstine afferrò la destra di Mitzie attorno alle nocche con una delle sue grosse zampe e cominciò a strapparle le unghie appuntite. Billig allontanò con un gesto Harris che aveva abbandonato Phil per offrire aiuto al suo capo, poi ritornò da Mitzie.

— Mia cara — disse, parlando lentamente questa volta — sei davvero meravigliosa, una di quelle deliziose bisbetiche che torturano l’eroe nei romanzetti sadici. Ma temo che questa notte dovremo invertire i ruoli.

Quell’intimo impulso che aveva spinto Phil contro Brimstine dagli Akeley, si mise ancora una volta in azione. Malgrado la debolezza dei suoi muscoli straziati dal dolore lo costrinse a gettarsi contro Billig gridando: — Non toccarla!

Naturalmente Jack gli fece lo sgambetto, lo prese per il colletto quasi prima che piombasse rovinosamente a terra, e lo rimise sullo sgabello.

In quel momento arrivarono Hayes e quattro o cinque uomini in divisa, conducendo in mezzo a loro Carstairs, Llewellyn e Buck, tutti e tre piuttosto malconci. Carstairs, sulla cui fronte scendeva ora non solo la frangetta, ma anche del sangue, fissò Mitzie.

— Grazie del servizio, Mitz — disse con voce calma.

Llewellyn e Buck annuirono.

— Sei davvero convinto che vi abbia tradito io? — chiese Mitzie. Nessuno dei tre mostrò di aver udito la domanda.

Phil, osservando Billig, si accorse di un impercettibile sorriso del suo volto, anche se il capo della Divertimenti SpA non stava guardando niente in particolare.

— Portate questi ragazzi nel garage — ordinò Billig a Hayes, stando attento a non mostrare ai tre la guancia graffiata. — Ti telefonerò fra una quindicina di secondi per dirti cosa farne. — Poi, mentre Hayes e le guardie stavano eseguendo l’ordine, si rivolse a Mitzie con voce abbastanza alta perché anche Carstairs potesse udirlo: — Grazie ancora, cara. Un ottimo lavoro.

Carstairs fece in tempo a lanciarle un’ultima occhiata carica d’odio prima di essere portato via con gli altri.

— Venite tutti — disse Billig allegramente. — Vi invito a un piccolo spettacolo. Posso offrirti il braccio, mia cara? Mi sono già dimenticato di quella carezza d’amore, e se prometti di fare la brava bambina dirò a Dora di lasciarti andare. — Mitzie non rispose, ma Dora la lasciò libera, pur con una certa riluttanza. — Vieni, cara — la pregò Billig avviandosi verso il balcone. Mitzie camminò al suo fianco senza guardarlo. Lui non cercò di toccarla. Camminavano in fretta. Billig si guardò alle spalle.

— Muovetevi voi — ordinò esasperato. — Sembrate addormentati.

Brimstine, Dora e Harris si affrettarono a seguirlo. Jack e Phil restarono per ultimi.

— Dovevo farlo — sussurrò Jack all’orecchio di Phil. — Non potevo sapere che recitassi tanto bene da ingannare Billig. Ma per l’amor di Dio non dire più niente su Romadka. So che sei l’amante di Juno. Romadka mi ha costretto a condurlo qui. I suoi amici sono rimasti dagli Akeley. Uccideranno Mary e Sacheverell, anche Juno e Cookie, se lui viene preso.

Phil stava ancora cercando di formulare una risposta quando raggiunsero il balcone. Nella ringhiera si apriva un varco da cui scendeva nell’oscurità una scala, con la prima decina di gradini debolmente illuminati.

Senza preavviso Mitzie si lanciò per le scale, scendendo tre gradini alla volta. Harris si mosse per inseguirla, ma Billig lo fermò con un gesto. — Sta facendo quello che volevo — spiegò tranquillamente — cinque volte più in fretta che se l’avessi costretta. Non hai ancora capito che dobbiamo fare in fretta?

Brimstine stava osservando attentamente Mitzie, ormai appena distinguibile, simile a una falena, nell’oscurità. — Non può più vedere i gradini — disse con ammirazione professionale. — Quella ragazza ci sa fare.

Billig alzò le spalle e si avvicinò a un quadro di comando sulla ringhiera. Prese un telefono e si fermò un attimo pensieroso, come per essere sicuro che fossero trascorsi esattamente quindici secondi da quando aveva parlato a Hayes, e non dodici o tredici.

— Hayes? — disse, poi mormorò rapidamente qualcosa. Fece una pausa aggrottando le sopracciglia, come se Hayes si stesse dimostrando incredibilmente lento a capire. — Certo, certo!

Poi premette un bottone e una luce accecante trasformò l’oscurità in un immenso garage, vuoto e grigio, col pavimento a una decina di metri dal balcone. C’erano una quantità di segnali che indicavano in quali direzioni dovevano muoversi le macchine, solo che non ce n’era neanche una. Lungo le pareti si aprivano una decina di grandi porte, otto delle quali con la scritta USCITA. Le scale da cui Mitzie era scesa raggiungevano il centro del garage. Lei era ferma a pochi passi, pietrificata, come accecata dalla luce.

Da qualche parte, in lontananza, un motore elettrico si mise in moto.

— Signore e signori — disse Billig a Dora, Brimstine, Harris e Jack, ma soprattutto a Phil — questo è il luogo dove gli spettatori degli incontri di lotta parcheggiano le loro auto. Ma ora gli incontri sono finiti, e le auto se ne sono andate. — Si sfiorò la guancia, dove i quattro graffi avevano quasi cessato di sanguinare. — Perciò possiamo utilizzare questo spazio per il nostro piccolo spettacolo. Signor Gish, io devo avere il gatto verde. Penso che voi abbiate molto a cuore la bellezza e la vita della ragazza…

Ma Phil, che aveva le braccia bloccate dietro alla schiena da Jack, lo udì a malapena, tutt’intento a fissare Mitzie. Lei sembrò riaversi d’improvviso dal suo stordimento e corse verso l’uscita più vicina. Una fitta grata scese bloccandola, simultaneamente, furono sbarrate tutte le altre uscite. Phil vide le dita di Billig sollevarsi da alcuni bottoni. Tornò a guardare Mitzie e la vide esitare, poi correre indietro verso la scala. Billig toccò un altro bottone e le scale si ritrassero verso l’alto. Mitzie restò tutta sola sul pavimento grigio.

Il ronzio del motore invisibile si fece più forte. Billig si appoggiò alla balaustra e osservò la ragazza pensosamente, come se fosse stato un Caligola o un Nerone, ma più astuto e più pratico. Poi si voltò, estrasse dalla tasca la statuetta di Mitzie e parlò a Phil.

— Signor Gish — disse — voglio assolutamente sapere dove si trova il gatto verde, o dove l’ha portato il vostro dottor Romadka. Oppure preferite che capiti questo a lei, là sotto? — Strappò una delle gambe della statuetta. Phil poteva vedere due coni irregolari di cera dove la gamba si era spezzata. — O questo? — Billig strappò un braccio. — O questo? O questo?

In quel momento un jeep scoperta apparve accelerando da sotto il balcone. Phil vide che a bordo c’erano tre persone, anche se non riuscì a capire subito chi fossero. Ma Mitzie corse verso la macchina gridando eccitata: — Carstairs! — La macchina non si fermò. — Sei meraviglioso — gridò Mitzie. D’improvviso la macchina accelerò puntandole addosso. Mitzie dovette saltare di lato per non essere investita.

La macchina fece un’ampia curva. Mitzie si rialzò.

— O questo! — sibilò Billig a Phil, e strappò la bambolina alla vita, schiacciandole i seni con il pollice. — Ora ditemi per favore dove si trova il dottor Romadka.

— Non lo so! — urlò Phil, lottando per liberarsi da Jack, che gli sussurrò agitatissimo in un orecchio: — Bene, non dire una parola.

— Vi ricordo — continuò Billig rapidamente, prendendo qualcosa da sotto la giacca — che sarà molto peggio per lei, come per chiunque altro, se a farle del male sono delle persone che lei ha idealizzato, piuttosto che coloro che odia. Avanti, ditemi del gatto. Vedete, questo è un ortho. Posso fare a pezzi quella macchina nel momento in cui me lo dite.

Ma Phil, come tutti gli altri, stava osservando Mitzie. Dopo essersi rialzata non si era più mossa. Restava lì immobile, guardando la macchina che le veniva addosso. Arrivò così vicina che Phil poteva già vedere la testa nera della ragazza contro il muso cromato, ma poi di colpo la jeep sterzò, mancandola di un soffio. Mitzie rimase immobile come una statua; la gonna corta le sbatté contro le gambe per lo spostamento d’aria.

Poi si voltò a guardare la macchina che si allontanava.

— Conigli! — li schernì, a voce alta.

Per un istante nessuno sul balcone si mosse. Poi si udirono dei colpi sordi e Phil si rese conto che Moe Brimstine stava picchiando con i pugni sulla balaustra. — Lo dicevo io che quella ragazza ci sa fare!

— Già, proprio così — mormorò Billig seccamente. Brimstine, con aria vergognosa, cessò di applaudire.

— Ma prima o poi la prenderanno — continuò Billig rivolgendosi a Phil — a meno che… — e agitò la grossa pistola nera che teneva con la sua piccola mano. — È meglio che parliate.

La jeep eseguì una curva strettissima sotto il balcone e tornò indietro, col motore che rombava. Mitzie l’attese immobile, con una smorfia sul volto, le mani appoggiate ai fianchi, come prima. Poi, quando Phil credette che l’auto l’avesse già travolta, lei fece un balzo. Una ruota le sfiorò il piede. La jeep proseguì nella sua corsa.

— Imbecille! — urlò Mitzie.

Brimstine sollevò entrambi i pugni sulla balaustra, guardò Billig e li abbassò con uno sforzo lungo i fianchi. Phil si accorse di avere le braccia intorpidite, da quanto Jack gliele stringeva. Dietro a Billig, Harris e Dora erano chini sulla balaustra, attenti come scommettitori.

Ma Billig, per quanto dovesse essere lui un giocatore, non era né attento né tranquillo. — Sentite, signor Gish — disse in fretta. — Non piacerebbe neanche a me vedere quella ragazza sfracellata, e Brimstine già pensa di scritturarla per un numero. Questa è probabilmente l’ultima occasione che vi resta per salvarla. Dov’è Romadka? Dov’è il gatto?

Una spia telefonica cominciò a lampeggiare sul quadro di controllo Billig l’ignorò. — Dov’è il gatto? — ripeté.

Ma tutto quello che Phil riuscì a pensare, mentre la jeep nera girava a ridosso del muro e Mitzie si voltava per affrontarla, fu che una cosa simile era già accaduta, nell’antica Creta, dove ragazze dalla vita sottile e dai capelli scuri come Mitzie affrontavano un toro nero, lo scansavano o volteggiavano sopra le sue corna crudeli, con il seno nudo come quello di Mitzie: la cosa più tenera del mondo contro la più terribile.

La spia continuò a lampeggiare.

La jeep uscì dalla curva, con Llewellyn e Buck che si sporgevano per bilanciarla come se fosse una barca a vela, mentre Carstairs sedeva immobile come la morte al volante. Si avventò addosso a Mitzie rombando. Lei attese finché non le fu vicino quasi come la volta precedente, poi saltò a sinistra. Immediatamente, quasi fosse sintonizzata sui suoi pensieri, anche la jeep sterzò a sinistra. Ma Mitzie, dopo il primo salto, balzò subito indietro al posto che aveva occupato prima.

Ancora una volta la jeep le passò di fianco.

— Imbecille due volte! — gridò Mitzie.

La jeep sparì sotto il balcone con una stretta curva, che fece stridere le gomme. Si udì uno schianto, poi un rumore raschiante, come se l’auto avesse sfiorato il muro senza fermarsi.

Nello stesso istante una figura dalle spalle nere e con la testa rosea sbucò da sotto il balcone, camminando rapidamente. Portava una valigetta nera. Si fermò, si chinò, appoggiò la valigetta a terra e l’aprì.

La jeep riapparve da sotto il balcone. Aveva un’andatura irregolare, ma stava acquistando velocità.

Qualcosa di verde e di piccolo sbucò dalla valigetta nera e guardò verso la jeep.

La macchina non si fermò, ma rallentò e Carstairs, Llewellyn e Buck saltarono a terra e corsero via, come se la testa verde fosse il demonio in persona. La jeep continuò ad avanzare, lentamente, a singhiozzo, verso Mitzie, simile a un animale cieco e ferito.

La figura dalla testa rosa ritornò con passi rapidi e meccanici sotto la balconata, come se non riuscisse a comprendere quello che aveva fatto, né il perché. In ritardo Phil si rese conto che doveva essere il dottor Romadka.

La spia del telefono continuava a lampeggiare.

Il gatto verde saltò fuori della valigetta e si sedette a fianco di essa.

— Paralizzatelo! — ordinò Billig a Brimstine e ad Harris.

Il gatto girò il capo e guardò curiosamente in alto.

Brimstine e Harris osservarono Billig, poi fecero un passo avanti e sbirciarono in basso, restando come pietrificati. Alle loro spalle Dora era pallida e immobile come un fantasma.

Poi anche Phil la sentì. La stessa, inevitabile onda dorata di amicizia e comprensione che aveva calmato la lotta a casa degli Akeley, ma che ora sembrava salire come una marea.

— Paralizzate quell’animale! — ripeté Billig. Le rughe, ora non più nascoste, del suo viso si stavano contraendo. Si ritrasse dalla balaustra come se non potesse sopportare l’onda d’oro.

Brimstine fece per infilare una mano sotto la giacca, invece prese il telefono. Dopo un momento disse tranquillamente: — L’incursione è cominciata, proprio come aveva detto Greeley. Gli uomini dell’FBL stanno attaccando da tutte le direzioni.

— Paralizzatelo, vi dico! Prendetelo. Può ancora salvarci — ordinò Billig, agitando freneticamente una mano di fronte al viso, come per scacciare l’onda d’oro.

Harris si limitò a guardarlo. Brimstine scosse lentamente la testa, con aria confusa.

Billig rantolando si coprì con la mano libera la bocca e le narici, come se l’onda d’oro fosse qualcosa nell’aria che si potesse respirare, e raggiunse a fatica la ringhiera. Con l’altra mano sollevò la grossa pistola, tenendola ben alta sopra la spalla.

Un’ago di luce blu scaturì dalle due estremità dell’arma, scavando dei solchi fumanti sulle due pareti opposte del garage. Billig cominciò ad abbassare con determinazione la pistola, mentre i solchi si allungavano. L’aria si riempì di un odore aspro, come di ozono. Il raggio blu fece impallidire le luci, e la stanza sembrò immersa nell’ombra.

Il gatto verde continuò a osservare Billig curiosamente, ma l’uomo evitava di guardarlo negli occhi. I muscoli della mascella e delle tempie si erano gonfiati, attorno alla mano che gli stringeva la bocca.

Il solco anteriore raggiunse il pavimento, passò zigzagando vicino a Mitzie e alla jeep sobbalzante, arrivò a tre metri dal gatto ed esitò. Si mosse in cerchio, come se avesse incontrato una barriera magica al di là della quale non poteva passare. Poi si fermò.

Jack mormorò: — Sashy aveva ragione.

Billig emise un rantolo e cominciò a lamentarsi.

Il raggio blu si spense. La pistola cadde a terra. Il lamento si trasformò in un grido strozzato e Billig barcollò. Jack si fece avanti per sorreggerlo.

Phil balzò verso il quadro dei comandi e schiacciò i bottoni che aveva visto premere da Billig. Le grate sulle uscite si sollevarono. Phil raggiunse la scala quasi ancor prima che incominciasse a muoversi, e scese i gradini attraverso strati di ozono e di dorata armonia. La jeep si era arrestata tremando a pochi passi da Mitzie, che la fissava con aria ebete, le spalle curve, come se un soffio di vento la potesse gettare a terra.

Quando le scale toccarono terra, la forza d’inerzia costrinse Phil a fare una decina di passi, ma riuscì a non cadere e a ritornare indietro di corsa. Raggiunse la zona fra il gatto verde e il punto dove i tre avevano abbandonato la jeep, e qui venne colto da un brivido di terrore improvviso e indicibile, che svanì nell’attimo stesso in cui lo provava.

Ebbe appena il tempo di chiedersi se fosse quella la ragione che aveva indotto Carstairs e gli altri a fuggire, ma già stava gridando : — Lucky! — e Lucky gli rispondeva: Prrt! Prese fra le braccia il gatto, che non fece la minima resistenza; toccò con dita tremanti la pelliccia verde, poi ritornò correndo verso Mitzie e la jeep. Al posto dello sguardo ebete, la ragazza aveva sul volto un sorriso stupito, di trionfo e di orgoglio.

La prese per un braccio e la spinse verso la jeep. — Sali! — le gridò in un orecchio. — Usciamo di qui. Guida tu.

Afferrando il volante, parve ritrovare un po’ di vita. Accese il motore mentre lui montava al suo fianco, con Lucky che gli stava aggrappato al petto. — Da che parte? — chiese con voce roca.

— Un’uscita qualunque.

Con un ronzio un po’ affannoso la jeep si avviò verso quella più vicina. Phil sentì la sensazione di pace attorno a loro allentarsi, come se Lucky si riposasse. La jeep, pur acquistando velocità, sembrava lenta come un’automobilina da bambini. Guardandosi alle spalle, Phil vide che il gruppo sul balcone era ancora immobile, come se fossero tanti robot manichini senza corrente. Tutti tranne Billig, che aveva ricominciato a muoversi alacremente.

— Prendeteli — lo udì implorare Phil con voce rotta, rivolgendosi ora all’uno, ora all’altro. — Uccideteli.

La jeep cominciò a salire la rampa.

— Dora! — si sentì Billig gridare. — Prendi il mio ortho e uccidili.

L’effetto dell’onda di pace doveva essersi attenuato, pensò Phil, perché proprio mentre la sommità del portone gli impediva la visuale, scorse la biondo-viola curvarsi e sparare.

Il raggio blu colpì il terreno dietro alla jeep, sollevando una nuvola di fumo e di frammenti di cemento. Il gatto si alzò ma incontrò l’architrave. Dora aggiustò il tiro. Il raggio si avvicinò a loro, poi venne fermato dallo spessore del muro. La rampa fece una curva e Phil vide sei uomini con l’uniforme della Divertimenti SpA. Due avevano la pistola in pugno, gli altri quattro no. Si girarono e videro la jeep. I due con le pistole le sollevarono, mentre gli altri fecero per estrarle.

Poi Lucky si mise a sedere in grembo a Phil dritto come la statuetta di Bast, ed emise un’altra di quelle grandi onde invisibili e dorate. Phil poté capire il momento preciso in cui le guardie ne furono investite da come cambiarono espressione le loro facce. Osservarono la jeep passare al loro fianco, con smorfie di timore e di incredulità.

Più avanti, incontrarono uno spiazzo illuminato da una fredda luce grigia, contro cui si stagliava un gruppo di una ventina di uomini, pesantemente armati, che avanzavano cautamente lungo le pareti. Portavano fucili, reti, bombole spray per immobilizzare un uomo in un bozzolo di plastica, e delle specie di gabbie per uccelli.

Puntarono i fucili, ma ancora una volta, e più forte che mai, così forte da far tremare Phil, l’onda d’oro li avvolse. Ancora una volta sfilarono sotto i loro occhi visi preoccupati, stupiti, che sorridevano loro malgrado. Mentre la jeep usciva nell’alba fredda, piena di ombre. Phil accarezzò il pelo morbido e soffice di Lucky e mormorò: — Piccolo portatore di pace. Hai perfino ammansito l’FBL.

Lucky lo guardò con espressione furba, poi fece un tremendo sbadiglio e si raggomitolò in grembo a Phil. La sensazione di dorata armonia si attenuò, finché non ne rimase che l’ombra.

— Capisco — disse Phil. — Ti sei stancato, a forza di diffondere pace. — Improvvisamente si sentì pure lui terribilmente stanco, ma riuscì a dire, un po’ indistintamente: — Lucky, non mi importa se vieni dall’Egitto, dalla Russia o dalle giungle dell’Amazzonia. Tu sei quello che ci vuole per l’America.

13

La jeep, proseguendo a velocità costante e voltando di tanto in tanto, mise fra sé e la Divertimenti SpA diversi isolati di vuote strade mattutine. Phil si chiese se non potessero rintracciarli mediante gli occhi elettronici che, a quanto si diceva, sorvegliavano ogni incrocio, ma dimenticò quel dubbio prima che potesse diventare una preoccupazione. Lucky era raggomitolato nel suo grembo come un grosso krapfen verde. Si sentiva sopraffare dal sonno, desiderava scivolare dolcemente in un mondo privo di luci, di suoni e di gravità.

Ma prima di addormentarsi guardò Mitzie. Il suo viso aveva un’espressione dura e orgogliosa, quasi di scherno, benché due lacrime le colassero lungo le guance. Phil si sentì più irritato che sorpreso o impietosito. Nessuno, si disse, aveva il diritto di provare simili sentimenti in presenza di Lucky.

Decise che era giunto il momento di dirle gentilmente alcune verità: — Non dobbiamo vantarci tanto della nostra fuga. È Lucky che ha fatto tutto. Anche se tu sei stata davvero coraggiosa nell’evitare la jeep.

Mitzie non lo guardò, ma strinse le labbra.

— L’episodio della jeep è stato istruttivo — continuò Phil, girando ancora un po’ nella ferita il suo angelico coltello. — È servito a dimostrarti che razza di farabutti sono quei tre a cui ti eri unita. Ma ora — proseguì, temperando la giustizia con la clemenza — hai imparato che la tua romantica adorazione del male vale meno di niente di fronte al vero amore e alla comprensione. Vero, Mitzie?

Mitzie fermò la macchina. Phil si accorse vagamente che avevano parcheggiato in un vialetto senza uscita, dal fondo sconnesso, situato in una piazza fuori mano, con dei gradini maltenuti, chiusa intorno da alti edifici. Si appoggiò allo schienale, sorridendo assonnato fra sé, accarezzando con le dita la pelliccia morbida di Lucky. Aspettava con compiacimento i singhiozzi di Mitzie.

Invece sentì sbattere la portiera.

Si riscosse. Mitzie era in piedi vicino alla jeep, contro lo sfondo nebbioso dei giardinetti e dei grattacieli silenziosi. Improvvisamente si chinò verso di lui, appoggiandosi con le braccia rigide alla portiera. Respirò profondamente, sollevando i piccoli, teneri seni nelle loro semicoppe di raso nero.

Adesso deve succedere, si disse Phil. Adesso deve cedere, singhiozzando, al potere di Lucky.

— Ti odio, Phil — disse invece lei con furore. — Tu vorresti fare di me una rammollita. — Nuove lacrime le spuntarono agli angoli degli occhi, ma la sua espressione si fece sempre più fiera. — Carstairs, Llewellyn e Buck volevano uccidermi, è vero, ma almeno mi hanno offerto l’occasione di essere qualcosa. Mi hanno concesso la dignità di essere odiata. Non hanno cercato di affogarmi nella merda.

“Io voglio la gloria — continuò con voce che si sforzava di essere ferma. — Voglio la mia gloriale non mi interessa se per te è una gloria a buon mercato ed egoistica. È la sola cosa bella e affascinante in un mondo falso e codardo. Voglio sputare in faccia a questo mondo di pecore e voglio affrontarlo quando verrà a vendicarsi, come ho affrontato quella jeep.

— Sei stata molto coraggiosa, prima — disse Phil per prendere tempo, chiedendosi perché diavolo il potere di Lucky, che aveva vinto venti uomini in un colpo solo, fosse così inefficace contro una sola ragazza testarda.

— Risparmiami le adulazioni — disse lei sarcastica. — So benissimo quello che è capace di fare quella tua bestiolina da scuola di catechismo, e so come vorresti ridurmi. Io ho una sola cosa fatta di titanio in me, il resto è una poltiglia schifosa. Tu vorresti che quella cosa si spezzasse. No, peggio, vorresti che si rammollisse. Bene, io non lo permetterò. — Si raddrizzò e staccò le mani dalla portiera.

Improvvisamente Phil sentì un specie di sonnolenta preoccupazione. Accarezzò il pelo di Lucky, poi lo scosse un po’. — Svegliati — disse a disagio.

Lucky si limitò a fare le fusa. O forse russava.

— Addio per sempre, Phil — disse Mitzie, voltandosi.

— No, aspetta — gridò Phil, sporgendosi finalmente dal sedile. — Non andartene. — Scosse ancora una volta Lucky, quasi rudemente. — Svegliati — implorò. — Fermala.

Il piccolo dio giaceva fra le sue mani come uno straccio verde.

Phil posò Lucky sul sedile al suo fianco e fece per scendere dalla macchina. Ma improvvisamente un’ondata di profonda tristezza lo sommerse. Si rese conto che qualcosa di prezioso gli stava scivolando fra le dita, ma non era sicuro che fosse veramente prezioso, né che lui avesse il diritto di fermarlo. E poi il suo dio l’aveva piantato in asso, e si sentiva terribilmente assonnato.

Così guardò Mitzie che scivolava via da lui, irrevocabilmente come il tempo, e si limitò a riprendere in grembo Lucky. La osservò mentre si allontanava nella mattina nebbiosa, fra i cespugli, come una ninfa orgogliosa e adirata, con la testa alta e la schiena dritta, dritta come quei deliziosi e ridicoli seni con i quali lei insisteva ad affrontare il mondo intero.

Per un tempo che gli sembrò lunghissimo, rimase a guardare l’angolo vuoto e indistinto dietro cui era sparita. Era caduto preda di una specie di stordimento ipnotico, simile al sonno. Ogni tanto qualche pensiero attraversava la distesa opaca della sua mente, ma erano solo ombre fugaci. Una volta pensò che forse Lucky non aveva potuto trattenere Mitzie perché gli sforzi precedenti l’avevano esaurito; non ci si poteva aspettare che un piccolo dio emanasse tante onde d’oro senza risentirne almeno un po’.

Poi gli venne in mente che in quel preciso momento lui stesso doveva essere la posta di un’affannosa caccia da parte del Federal Bureau of Loyalty, dei giannizzeri della Divertimenti SpA, di Romadka e della sua allegra compagnia, forse anche dei buoni vecchi Carstairs, Llewellyn e Buck. Nonostante questo non aveva paura, né sentiva alcuna voglia di preparare un piano. L’angolo da cui era sparita Mitzie divenne più luminoso, ma restò vuoto.

Dalla massa a forma di krapfen che stava rannicchiata sul suo grembo uscirono quattro piedi. Lucky si stiracchiò, si diede una scrollatina, guardò Phil con i suoi occhietti vivaci e fece: Prrrrt-prt.

— Sei un bel tipo tu — si lamentò Phil di malumore, con gli occhi impastati di sonno. — Ti addormenti proprio quando ho più bisogno di te.

Lucky non si curò del rimprovero. Prrrt-prt, ripeté perentoriamente.

Una volta uscito dal suo stordimento, Phil si sentì ancora terribilmente assonnato. — Ho capito quello che vuoi — bofonchiò Phil. — Hai fame. Ti meriti un bel pranzo, dopo tutte le meraviglie che ci hai fatto vedere. Ma non ne ho di concentrato di mirtilli, qui. Ti darò qualcosa da mangiare… più… tardi.

Prrrt-prt! insisté Lucky col tono di un onesto lavoratore che si veda defraudato della paga.

Ma nessun appello poteva più raggiungere Phil. — ’notte — disse nella maniera più gentile possibile, e si addormentò.

Sognò cose, strane e sinistre, ma confuse. Sognò foreste dalle fronde oscure, con piccoli animali che squittivano. Gli squittii si fecero più forti e Phil fuggì dal proprio sogno, per trovarsi sulla jeep parcheggiata in un vialetto senza uscita di una piccola piazza.

Per un attimo gli parve di scorgere i fantasmi degli alberi dalle nere fronde, e di udire l’eco degli squittii, ma poi si accorse che erano solo i cespugli non potati della piazza, e i gridolini di un gruppo di scolarette.

Si rese conto confusamente che stavano tornando da scuola… no, dal dopo scuola, dal momento che le ombre degli edifici si stavano allungando nella piazza. Aveva dormito tutto il giorno, indisturbato.

Poi si rese conto che il suo grembo e il suo cuore erano freddi, e che Lucky se n’era andato.

14

Il primo impulso di Phil fu quello di balzare dalla jeep e di cercarlo. Ma il gelo nel cuore gli diceva che Lucky era ormai lontano. E poi quella piazza era una vera e propria jungla; sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio.

Non era mai stato prima in quel posto, ma a giudicare dalle scolarette doveva trovarsi in un quartiere abitato da intellettuali. Dapprima aveva pensato che la scuola fosse solo femminile, poi aveva notato anche alcuni ragazzi fra gli studenti che tornavano a casa, e ne aveva dedotto che la maggior parte delle famiglie del quartiere avevano deliberatamente scelto di avere quante più figlie possibile. Da quando era diventato possibile predeterminare il sesso grazie alla centrifugazione dello sperma umano, moltissimi genitori avevano deciso di avere dei figli maschi, specialmente al primo parto, ripromettendosi di solito di avere delle figlie più tardi. Ma poiché sfortunatamente le famiglie di tre persone erano la regola, ne era derivata una sovrappopolazione maschile, che aveva indotto il governo ad emanare inefficaci leggi contro la predeterminazione del sesso; vi erano stati infruttuosi tentativi di auto-controllo da parte dei medici, molti discorsi al Congresso e un movimento quasi fanatico fra le classi intellettuali per generare solo femmine. Questo non solo per ristabilire l’equilibrio fra i sessi, ma forse anche perché si era sparsa la voce che era stata raggiunta la partenogenesi umana. Phil si ricordava di una conversazione televisiva trasmessa una domenica pomeriggio: Saranno donne nate da vergini le nostre uniche intellettuali?

Altri aspetti dei dintorni confermavano la sua ipotesi: le case avevano un’aria piuttosto dimessa, i grattacieli erano bassi, la pubblicità era ridotta ai soli cartelloni, il traffico scarso e non si vedevano auto pirata.

Lasciò vagare lo sguardo lungo le file di finestre, chiedendosi dove potesse essere andato Lucky. Intanto accese la radio della jeep. “…mentre si ritiene che Billig, l’uomo del mistero, la mente della Divertimenti SpA, abbia lasciato il paese. Questa sera alle venti e trenta, ora di New Washington, il Presidente Barnes rivolgerà un discorso a tutti noi Americani, in parte per far tacere le poche voci di protesta, ispirate dalla Divertimenti, contro la messa al bando dei combattimenti fra maschi e femmine e dei sexy jukebox, ma soprattutto per spiegare alla cittadinanza disorientata le vere ragioni che hanno indotto questa mattina il governo federale a incriminare sessantanove alti funzionari. Io prevedo (e ricordate, amici, che questa è una mia personale previsione, non soggetta a querela) che il Presidente rivelerà che la Divertimenti SpA vendeva pillole oniriche, tavolette per la sterilità temporanea e infine, amici, e sono stupefatto e disgustato io nel dirlo quanto voi nell’ascoltarlo, robot femmine equipaggiati per funzioni oscene.

“E ora un’importante notizia a proposito dei gatti. I gatti non sono portatori di alcuna infezione, e non devono essere uccisi in nessun caso, siano essi domestici o randagi. Ma tutti i proprietari di gatti devono portarli alla più vicina stazione di polizia, e lo stesso deve fare chiunque trovi dei gatti per strada. Vi è una severa multa per i primi, se non lo faranno, e un premio di cento dollari per i secondi. E allora forza, ragazzi! Come mai questo improvviso interesse del governo per i gatti? Il ministero della Sanità mantiene il più assoluto riserbo, ma il vostro commentatore è in grado di anticiparvi una notizia proveniente da fonte bene informata: è stato scoperto che una razza molto rara di gatti è portatrice di un virus in grado di debellare il cancro. Non sarebbe meraviglioso, amici miei, sapere che questa terribile malattia non costituisce più una minaccia?

“Ma ricordatevi di questo, cari ascoltatori, e ve lo dirò in marziano: Zip-zap-zup! Che vuol dire: Portate i gatti!

“Ed ora, amici, a proposito della notizia che la ‘supernova’ della sensoradio, Zelda Zornia, mentre era in vacanza in Brasile, ha fatto una sensotrasmissione pubblicitaria per i gioielli da bagno, vorrei assicurare tutti voi ascoltatori dediti alla moralità, che…”

Phil si schiarì le idee, cercando di mettersi nei panni di Lucky, di intuire la direzione nella quale si era allontanato. Mosse dubbiosamente la testa da una parte e dall’altra, come l’ago di una bussola o il piattino di una seduta spiritica, e finalmente si fermò. Scese dalla jeep e si incamminò dritto attraverso i cespugli polverosi, scricchiolanti.

Superata un’ultima siepe stentata si trovò a guardare, al di là di una strada vuota, una vecchia casa, vecchia quasi quanto quella degli Akeley, ma con il cielo libero al di sopra.

Era a tre piani, costruita in mattoni antichi, e faceva la stessa impressione pomposa e rispettabile di un banchiere dell’Ottocento. Intorno aveva un giardino pieno di erbacce come la piazza, chiuso da un’alta cancellata di ferro.

L’unica stonatura era costituita da un oggetto circolare, del diametro di almeno quindici metri, sospeso al di sopra del tetto mediante un traliccio. A giudicare dal colore verdastro, sembrava fatto di rame. Aveva l’aria di essere vecchio quasi quanto la casa, e altrettanto intonato, come se il banchiere dell’Ottocento avesse deciso di mettersi un berretto verde, sfidando chiunque a dirgli qualcosa.

Phil attraversò la strada, salì alcuni gradini e sbirciò attraverso il cancello. Vicino alla porta con la sua antiquata maniglia di ottone riuscì a distinguere una targa di bronzo annerita, su cui era scritto: FONDAZIONE HUMBERFORD.

Si guardò intorno a disagio. Nel punto in cui doveva trovarsi la jeep, vide le teste e le spalle di due uomini vestiti di nero. Quel colore gli ricordava in modo spiacevole gli abiti che indossavano le guardie di Billig. Sembrava che i due stessero discutendo. Uno di essi si sollevò, come se stesse per salire sulla jeep, ma l’altro lo tirò indietro e i due si allontanarono. Non nella sua direzione, però, notò Phil con sollievo.

Spinse il cancello di ferro, che si aprì con un cigolìo tale che Phil indietreggiò intimorito. Visto però che non succedeva niente, si infilò dentro e cominciò a sbirciare fra le erbacce, poi si avventurò nel giardino, chiamando sottovoce: — Lucky!

Di tanto in tanto, gettava un’occhiata nella direzione della jeep. Una volta scorse gli elmetti radio e le divise blu di tre poliziotti. Si domandò se la prossima volta avrebbe visto il dottor Romadka, o gli Akeley, o forse Carstairs, Llewellyn e Buck, e rabbrividì al pensiero che per un pelo qualcuno non l’aveva catturato.

Ma la sorpresa successiva gli venne da qualcosa di più vicino. Aveva fatto il giro della casa, dopo aver frugato il giardino posteriore, egualmente privo di vita e non curato, quando vide un uomo dai capelli neri che lo guardava dalla strada.

Quello che lo allarmò di più era la straordinaria somiglianza dell’uomo con la ragazza che Phil aveva visto spogliarsi aell’appartamento di fronte al suo, quella con gli zoccoli. L’uomo aveva la stessa vivace espressione da fauno.

Phil si sentì gelare. Ma l’uomo si limitò a sbadigliare, si voltò e se ne Andò, canticchiando o fischiettando un motivetto che gli fece venire la pelle d’oca, perché gli ricordava qualcosa che aveva sentito nel suo sogno.

Tutta quell’esperienza stava assumendo sempre più le caratteristiche di un sogno ad occhi aperti: la casa silenziosa, il giardino abbandonato, la sua inutile ricerca, il ricordo malinconico dell’addio di Mitzie, la sensazione opprimente di un passato morto. Tuttavia la sensazione che Lucky fosse vicino era sempre forte, e alla fine Phil si rese conto che avrebbe dovuto fare una cosa che aveva fino a quel momento evitato.

Salì riluttante i gradini che portavano alla porta d’ingresso sotto il piccolo portico, allungò la mano verso la maniglia, poi, per allontanare ancora un po’ il momento fatidico, chiamò alcune volte: — Lucky!

Qualcuno, alle sue spalle, chiese gentilmente: — Cercate un gatto?

Phil si voltò con una sensazione di colpa, e si trovò di fronte un uomo molto vecchio, alto e fragile come uno spirito, e apparentemente altrettanto silenzioso, dal momento che Phil non l’aveva neppure sentito arrivare. Il suo viso sottile, pieno di rughe, coi capelli bianchi tagliati corti, aveva un’aria di inquietante familiarità. Quel viso univa alla nobiltà di un asceta precristiano una nota di irriverente umorismo, come se il suo possessore fosse ritornato a una saggia fanciullezza. Nonostante il batticuore che gli aveva procurato quella domanda, così sorprendentemente precisa, a Phil l’uomo piacque fin dalla prima occhiata.

Vedendolo esitare, il vecchio proseguì: — Il mio interesse, sia detto per inciso, è puramente accademico. O se preferite è una curiosità infantile, il che è poi lo stesso. — I suoi occhi ebbero un lampo malizioso. — Si tratta forse di un gatto verde? — chiese rapidamente. — No, non occorre che rispondiate a questa domanda, non più di quanto abbiate risposto alla prima. Non voglio mettervi a disagio. È solo che la mia mente è abituata a fare le deduzioni più azzardate.

Fece un largo sorriso, e Phil, benché frastornato, non poté fare a meno di sorridere.

— Forse siete un giornalista — continuò il vecchio tranquillamente, — o almeno possiamo far finta che lo siate. Il dottor Garnett chiama sempre la stampa quando la Fondazione Humberford fa qualche scoperta, anche se purtroppo devo dire che la stampa ha smesso di venire vent’anni fa. Ormai la parapsicologia non fa più notizia. Ma forse nel frattempo è cresciuta una nuova razza di giornalisti che si interessa ancora di poteri paranormali. In ogni modo Garnett e gli altri saranno felicissimi per la presenza della stampa.

— Volete dire che la Fondazione Humberford si occupa di percezioni extrasensoriali e altre cose del genere? — chiese Phil.

— Dovreste saperlo, dal momento che siete stato mandato qui per fare un articolo — disse il vecchio con aria di rimprovero. — Certo, i reporter spesso non hanno la più pallida idea di quello che dovrebbe essere l’oggetto del loro articolo, così siete scusato.

Phil si sorprese di nuovo a sorridere. Non riusciva a capire come mai il vecchio sapesse di Lucky, né cosa c’entrasse in tutta la vicenda, ma si sentiva stranamente sicuro che non aveva niente a che fare con le organizzazioni che stavano dando la caccia al gatto. E la maliziosa finzione del vecchio che Phil fosse un giornalista poteva servire almeno a fargli superare quella porta imponente e dare un’occhiata in giro.

— E così la Fondazione Humberford ha fatto una nuova scoperta nel campo della parapsicologia? — chiese in tono discorsivo.

L’altro annuì. — Il dottor Garnett era molto eccitato. Tanto che non ha avuto tempo di spiegarmi di cosasi trattava, tranne che si stanno ottenendo dei risultati straordinari. È successo stamattina. Così sono corso qui. I poteri paranormali tendono a svanire rapidamente, perciò è meglio studiarli finché ci sono. Garnett ha l’ordine di chiamarmi non appena succede qualcosa di interessante. In verità quasi tutti i laboratori scientifici della regione hanno questo ordine, solo che gli altri non sempre mi chiamano. Ma, grazie a Thoth, Garnett non lavora in un campo sottoposto al benevolo controllo dei servizi di sicurezza, e lui stesso non ha una mentalità del genere. Anzi, non sono neppure certo che abbia mai sentito parlare dell’FBL. Così potreste fare davvero un bel colpo, signor…?

— Gish. Phil Gish.

La mano del vecchio strinse la sua. Era leggera come una piuma. — Morton Opperly.

Phil lo guardò per parecchi secondi, senza fiato. — Il…?

L’altro annuì con un’alzata di spalle, come per scusarsi. Phil ci mise un po’ prima di convincersi. Quello era Morton Opperly, lo scienziato che aveva lavorato al Progetto Manhattan, che aveva firmato insieme a Einstein la Dichiarazione dei Fisici, che aveva cercato senza successo di farsi imprigionare per il suo rifiuto di svolgere ricerche durante la terza guerra mondiale, che era diventato una leggenda. Phil aveva sempre creduto che fosse morto da parecchi anni.

Guardò il famoso scienziato con felice reverenza. La domanda che gli venne spontanea alle labbra fu una testimonianza dell’abilità di Opperly nel creare un’atmosfera di discussione libera, senza restrizioni, sconosciuta ormai in America fin dal 1940.

— Signor Opperly, cosa sono gli ortho?

— Gli ortho? Potrebbe essere un’abbreviazione di molti termini scientifici, Phil, ma scommetto che state parlando di quelli che sparano. Il loro nome completo è ortho-fissili. Il guaio dei normali materiali fissili, cioè di quelli in condizioni normali, è che i frammenti e i neutroni esplodono in tutte le direzioni e che la massa critica è piuttosto grande. Ma se si riesce ad allineare gli atomi col loro asse di rotazione nella stessa direzione, allora tutti si scindono nello stesso punto e ogni neutrone colpisce il nucleo dell’atomo a esso più vicino. In tal modo tutti i neutroni vengono utilizzati e la massa critica diventa piccolissima. Metà dei frammenti vola in una direzione, metà nell’altra, rendendo l’apparecchio un’arma estremamente conveniente e pericolosa, a parte il fatto che spara in due direzioni opposte.

— E come è possibile allineare gli atomi? — chiese Phil.

— Mediante un campo elettrico e una temperatura vicina allo zero assoluto — rispose Opperly, premendo un bottone vicino alla porta. — È la cosa più semplice del mondo. I nuovi isolanti possono mantenere la temperatura del caricatore a un grado Kelvin per settimane. Il caricatore contiene abbastanza proiettili fissili da assicurare un fuoco rapido, cioè un raggio stabile che dura più di un minuto. Pensi di farti un ortho a casa, Phil? Temo che non lo vendano in scatole di montaggio. Tutto quello che ti ho detto è top secret, pena di morte eccetera. Ma sto diventando così vecchio che non capisco più le regole del segreto militare. Racconto tutto. Continuo a dire a Bobbie T. che un giorno o l’altro dovrà eliminarmi ma, come tutti, si rifiuta di prendermi sul serio. È il trucco che hanno usato con me nella terza guerra, e non l’hanno mai dimenticato.

— Bobbie T.?

Opperly fece un altro dei suoi sorrisi di scusa. — Barnes. Il Presidente Robert T. Barnes. Eravamo fra i soci fondatori della Società Spaziale del Midwest. Naturalmente allora era solo uno sbarbatello, e ora è diventato una vecchia zitella istupidita che cita le scritture. Ma i sogni in comune hanno la capacità di unire per sempre delle persone. Di tanto in tanto vado a trovarlo, con il mio distintivo della Società Spaziale. È una delle mie fonti di informazione su quello che succede nel mondo, anche se i servizi di sicurezza non gli dicono molto. È così che ho saputo del gatto verde.

Phil stava cercando di farsi coraggio per chiedere a Opperly che cosa ne sapeva del gatto, quando udì dei passi alle sue spalle.

L’uomo che assomigliava alla ragazza con gli zoccoli era fermo al cancello. Proprio in quel momento la porta si aprì e apparve un altro uomo: aveva un’aria da studioso, e il viso che si contraeva per il nervosismo e l’agitazione. Le tasche della giacca e del panciotto rigurgitavano di microlibri, tanto da poterci fare almeno una decina di enciclopedie. Aveva anche un paio di micronotes col loro stilo, e per finire una penna stilografica. I suoi capelli erano grigi e sottili, e portava un antico pince-nez che si contraeva insieme al suo naso.

— Dottor Opperly! — esclamò con voce acuta che tradiva agitazione e contentezza insieme. — Siete arrivato al momento cruciale!

— Mi fa piacere, Hugo — rispose Opperly. — Dov’è Garnett?

Ma l’altro stava guardando Phil, il quale aveva deciso che il suo tic era permanente. In quel momento stava esprimendo una certa inquietudine mista a curiosità.

— Oh — disse Opperly con aria casuale — questo signore è Phil Gish, della stampa. — I suoi occhi ammiccarono. — Di Radioluna America. Phil, questo è il Rettore Hugo Frobister. Rettore di filosofia, il massimo grado accademico, sapete. Io sono solo un misero Dottore.

Frobister rivolse a Phil un sorriso raggiante, come se fosse un benefattore con un assegno da centomila dollari. — Felicissimo di conoscervi, signor Gish — disse. Poi estrasse con un gesto fulmineo il micronotes e appoggiò sulla sua superficie bianca lo stilo, i cui movimenti venivano riprodotti in un decimillesimo dello spazio su un nastro all’interno. — Radioluna America, avete detto?

In quel momento l’uomo al cancello si avvicinò con passi pesanti. Phil sentì una sensazione di disagio; ma il nuovo venuto rivolse loro un largo sorriso innocente che accentuò la bellezza del suo viso da fauno.

— Anch’io stampa — annunciò felice. — Presento me a voi, Dion da Silva. Molto felice.

Frobister parve sul punto di liquefarsi per la gioia, anche se l’allegria di da Silva era indubbiamente contagiosa. — Che giornale? — chiese Frobister.

Phil si accorse che Opperly stava scrutando intensamente il nuovo venuto, il quale sembrava avere delle difficoltà a capire la domanda di Frobister.

— Come che? — chiese, inarcando le folte sopracciglia.

— La Prensa — suggerì improvvisamente Opperly. — Il signor da Silva è un inviato de La Prensa.

— Sì questo. Grazie — confermò da Silva.

Phil avrebbe giurato che Opperly non aveva mai visto prima da Silva e che da Silva non aveva mai sentito parlare de La Prensa.

Frobister tuttavia accettò la spiegazione senza discutere. — Entrate, entrate, signori — disse facendosi da parte. — Immagino che prima vorrete visitare la nostra piccola Fondazione e dare un’occhiata a tutti i nostri progetti. Per avere un quadro d’insieme.

— Sono sicuro che preferiscono vedere subito Garnett e venire al sodo — disse Opperly. — A proposito, Hugo, dov’è Winston?

— A dire la verità non ho la più pallida idea di cosa stia facendo il dottor Garnett — rispose Frobister, tutto soddisfatto. — Sono successe una quantità di cose questa mattina. In tutti i progetti. Comunque dovremo fare il giro della Fondazione per trovarlo.

Opperly gettò a Phil un’occhiata di comica rassegnazione. Dion da Silva passò davanti a Phil, dispensando a tutti ampi sorrisi e dicendo: — Bello, bello. — Phil era sempre più eccitato: sentiva che stava avvicinandosi a Lucky.

15

All’interno, la Fondazione Humberford si presentava come una via di mezzo fra una tetra dimora edoardiana e un laboratorio scientifico piacevolmente disordinato. Librerie a vetri piene di libri rilegati in pelle, che non venivano aperti da anni, si trovavano fianco a fianco con moderni scaffali di microfilm. I ritratti anneriti di John Junius Humberford e dei suoi antenati guardavano dall’alto macchine per mescolare le immancabili carte di Rhine e schermi fluorescenti tridimensionali su cui decine di registrazioni di onde cerebrali, prese da diversi angoli, si univano per formare il nebuloso simulacro di un pensiero umano. Imponenti salotti, che facevano pensare a signore in crinolina che prendevano il tè, erano invece occupati da ragazze dall’espressione solenne e sommariamente vestite, con degli elettrodi applicati in una ventina di parti del corpo. Tecnici con larghi camici inciampavano in tappeti vecchi di un centinaio d’anni.

Ma quel giorno si notava un’eccitazione particolare, che faceva dimenticare la metà edoardiana della casa, e perfino il sudiciume delle pareti. Il Rettore Frobister e il suo codazzo di visitatori passavano completamente inosservati. Ragazze che pronunciavano trionfanti i nomi delle carte di Rhine fissavano nel vuoto senza vederli. Chiaroveggenti intenti a disegnare oggetti immaginati da qualcun altro tre piani più sopra, non alzavano lo sguardo dalle lavagne. Un tecnico sbucò con una grossa siringa in mano e prese dei campioni d’aria sotto il loro naso, apparentemente senza accorgersi di loro. Delle macchine collegate fra di loro ronzavano e sputavano carte.

Phil era così occupato a cercare il suo gatto verde che sentì poco o niente delle spiegazioni di Frobister, tranne alcune frasi pronunciate con voce molto acuta: — … Questa è la sua centodiciassettemilatrecentodiciottesima prova con le carte… Comunicazione telepatica con gli animali inferiori… un giorno forse potremo comprendere i pensieri di un’ameba… No, non so proprio dove sia il dottor Garnett, signorina Ames. Ora sono occupato con visitatori importanti… la telecinesi renderà antiquate le sensoradio…

Mentre saliva dietro a da Silva le scale che portavano al piano superiore, Phil cominciò a prestare più attenzione a Frobister. — Nella stanza che ora vi mostrerò — stava dicendo il Rettore — è in corso un esperimento di telepatia totale. Quando questa tecnica sarà perfezionata, sarà possibile per due individui mettere a nudo le rispettive menti, e confrontare i loro pensieri allo stato puro, per così dire.

— Bene! — intervenne da Silva.

Frobister alzò le sopracciglia, seccato per l’interruzione, prima di ricordarsi che si trattava di un giornalista. Poi continuò, sorridendo: — Nel caso in questione, tuttavia, siamo ancora a uno stadio preliminare: due individui, per mezzo di prolungate conversazioni, di scritti, di disegni, di espressioni musicali, eccetera, stanno tentando di scambiarsi i loro più segreti pensieri, fino al punto che tenderanno a diventare telepatici, come pare succeda ad alcune coppie sposate. — Quando raggiunsero il piano superiore, Frobister aveva il fiato grosso. — Per inciso — continuò — il giovanotto coinvolto in questo esperimento è uno dei nostri medium migliori, mentre la signorina è un’attrice della sensoradio, che gentilmente dedica il proprio tempo libero alla causa della scienza.

Fece una pausa, tenendo la mano sopra la maniglia di ottone della porta.

— Forse è meglio non disturbarli, Hugo — suggerì Opperly con voce un po’ affaticata, appoggiandosi al muro, ma senza mostrare altri postumi della salita. — Mi sembra un esperimento piuttosto intimo.

Frobister scosse la testa. — Come ho detto — disse, scandendo le sillabe — questi due ricercatori sono impegnati a mettere a nudo le rispettive menti.

Aprì la porta, guardò dentro, rimase a bocca aperta, e la richiuse rapidamente, ma non prima che da Silva, sbirciando al di sopra delle sue spalle, emettesse un suono di approvazione.

— Come dicevo, le loro menti — ripeté Frobister, allontanandosi dalla porta un po’ scosso. — Forse avete ragione, dottor Opperly, meglio non disturbarli. Gli esperimenti a volte sono alquanto faticosi. — Guardò con aria apprensiva il supposto inviato de La Prensa. — Voglio sperare, señor da Silva…

— Molto bene! — lo rassicurò da Silva entusiasta.

Frobister lo guardò dubbiosamente, si riscosse e disse con rinnovata energia: — Ora, signori, non rimane che mostrarvi il nostro progetto principale: quello sul tetto. Se vorrete precedermi su questa scala a chiocciola…

— Credo che vi aspetterò qui, Hugo — disse Opperly. — Anche le visite possono essere faticose.

— Ma credo che il dottor Garnett sia sul tetto.

— Allora fallo scendere.

Mentre Phil si arrampicava sulla scala di metallo, illuminata da finestrelle circolari che si aprivano nelle pareti coperte di muffa, gli venne da pensare che Lucky quel giorno doveva aver avuto una giornata campale, avvicinando le persone nella comprensione e nell’amore, e tutto il resto. Anzi, si sentiva quasi geloso per il modo in cui Lucky stava distribuendo i suoi favori a tutti.

Dal basso gli giunse la voce cerimoniosa del Rettore Frobister. — Credo che sia utile precisare, per meglio chiarire quanto vedrete, che una delle ragioni principali che indussero J.J. Humberford a dare vita alla sua Fondazione fu la convinzione che l’umanità si sarebbe molto presto autodistrutta se non fosse intervenuta qualche potenza superiore. Perciò noi ci sentiamo in dovere di applicare quel poco che sappiamo sulla percezione extrasensoriale per raggiungere questo fine. Anche se vi fosse una sola possibilità su un milione di mettersi in contatto con una potenza superiore, da qualche parte nell’universo, la posta in gioco è talmente alta che non dobbiamo trascurare neanche questa minima possibilità. Per inciso, signori, fate attenzione al penultimo gradino. Non c’è.

Phil, che stava giusto per appoggiarci il piede, fece appena in tempo ad allungare il passo, e si trovò sul tetto. Lo specchio al sodio in orbita attorno alla Terra rifletteva la luce del Sole, ma certo non in misura tale da spiegare gli occhiali da sole che Frobister porse a lui e a da Silva.

Phil osservò le incrostazioni di verderame sulla superficie inferiore del disco concavo sopra il tetto. Ispezionò il traliccio sottile che lo so steneva e la piccola tettoia al centro del tetto. Ma Frobister li stava invitando a salire una scala che conduceva a una piccola piattaforma vicino all’orlo del disco.

Un volta raggiunta la piattaforma. Phil intuì immediatamente la necessità degli occhiali scuri. L’interno del disco era talmente lucido che perfino la luce dello specchio al sodio vi si rifletteva con un bagliore accecante. Serrò le palpebre e si infilò rapidamente gli occhiali scuri.

— Come sapete — stava dicendo Frobister — la natura esatta delle onde mentali è sconosciuta. Può darsi che esse si muovano istantanea mente, o almeno a una velocità molte volte superiore a quella della luce. Non siamo ancora riusciti a misurarla esattamente, anche se abbiamo cronometrato le trasmissioni di pensiero fra qui e Montevideo. I fattori psicofisiologici non ci hanno permesso di ottenere risultati attendibili. Può anche darsi che non si tratti di onde. E d’altra parte, è possibile che vengano riflesse e rifratte come la luce normale.

— Giusto — intervenne da Silva, che Phil, ancora abbagliato per l’occhiata data allo specchio, poteva distinguere solo confusamente.

— Voi credete che sia così? — chiese Frobister bruscamente.

Il faunesco inviato de La Prensa si strinse nelle spalle muscolose. — Solo suppongo — disse.

— In ogni modo — continuò Frobister — noi stiamo lavorando in base a questa ultima ipotesi. Questa struttura di rame è uno specchio parabolico. Le onde mentali che si originano nel suo centro focale vengono concentrate in un raggio diretto verso l’alto, verso qualunque sistema planetario si trovi in questa direzione.

— Straordinario — disse da Silva. — Spiega tutto.

— Cosa volete dire? — chiese Frobister seccamente.

— Mi inchino davanti a meraviglie di scienza — gli rispose da Silva.

Frobister annuì. — Avete ragione. Chi può sapere se il messaggio che ora viene trasmesso, questa invocazione d’aiuto di un’umanità ingannata e minacciata dalla guerra, non possa giungere, fra un giorno o fra un secolo, a una razza veramente matura e buona, che accorrerà rapidamente in nostro aiuto? A proposito, signor Gish, state attento alla ringhiera. È rotta.

Phil allontanò di scatto la mano dalla ringhiera arrugginita. — Capisco — disse a Frobister. — Ma come fanno queste onde mentali a originarsi nel centro focale?

— Osservate — disse Frobister. Strizzando gli occhi, Phil studiò la superficie abbagliante dello specchio. Da un buco posto al centro della coppa emergeva una sfera rosso-bruna che indossava un paio di occhiali dalle lenti molto scure. Le labbra della sfera si mossero e Phil udì una voce stranamente familiare che diceva: — SOS Terra. SOS Terra.

— È un medium al di sopra della media — disse Frobister con un risolino — se mi permettete la battuta. Naturalmente sta lanciando onde mentali, npn sonore, ma la voce aiuta la sua concentrazione extrasensoriale. È un tipo piuttosto eccentrico, uno studioso di religioni. Ma quasi tutti i nostri uomini migliori sono un po’ strani.

Nel frattempo gli occhi di Phil si erano finalmente adattati alla luce, e poté così vedere che la testa sudata al centro dello specchio parabolico era quella di Sacheverell Akeley. Nello stesso istante anche Sacheverell riconobbe Phil, e la sua testa abbronzata sparì d’incanto, come quella di un burattino.

— Ma cosa fa? — disse Frobister in tono duro. — Ha ancora venti minuti di lavoro. Comunque, signori, credo che abbiate visto tutto quello che vi può servire per i vostri articoli. Possiamo scendere.

Mentre Phil raggiungeva il tetto, Sacheverell Akeley lo raggiunse di corsa, con la fronte abbronzata coperta di sudore.

— Cosa fate qui? — chiese Phil immediatamente. — Come avete fatto a scappare? Dagli amici di Romadka, voglio dire.

— Se ne sono andati in gran fretta un paio d’ore dopo Romadka — rispose Sacheverell rapidamente. — Dopo una telefonata. Tra l’altro Romadka si è portato via tre dei nostri gatti. Per quanto mi riguarda, io lavoro qui da un’infinità di tempo. Ma la cosa importante — continuò abbassando la voce a un sussurro — è che Lui si trova qui, vero? Il Gatto Verde, voglio dire. Non ho mai proiettato i miei pensieri con tanta intensità, neppure verso le stelle.

Prima che Phil potesse rispondere, Frobister e da Silva li guardarono con curiosità. Phil e Sacheverell li seguirono lungo la scala a chiocciola.

Al piano inferiore trovarono Opperly immerso in una conversazione con un uomo che pareva vivere per metà fuori dal mondo. Era grasso, barbuto, e i suoi occhi sembravano in grado di vedere molto al di là delle cose che guardava. Sacheverell tirò Phil per una manica. — È Garnett. Ha poteri extrasensoriali spaventosi — gli sussurrò in un orecchio.

— Ma come lo spieghi, Winnie? — stava dicendo Opperly. — Come mai questi successi in quasi tutti i vostri progetti, così d’improvviso?

Garnett si accigliò. — Be’, c’è una circostanza insolita. Uno dei nostri tecnici dice di aver trovato degli ormoni, o una molecola proteica particolare, nell’aria del laboratorio.

— Che ormoni? — chiese Opperly.

— Non è stato facile identificarli. — Garnett esitò. — Sono incredibilmente variabili. Come camaleonti.

Opperly sorrise e ammiccò a Phil.

— Dimmi, Winnie, non avete per caso trovato un animale un po’ strano alla Fondazione questa mattina?

La mano di Sacheverell si strinse sul braccio di Phil.

Il dottor Garnett si guardò intorno perplesso. Poi alzò le sopracciglia. — Sì — disse. — Ginny Ames ha trovato un gatto verde, uno di quegli animali mutanti che vanno di moda, immagino. Era sulla porta che miagolava, stamattina. Non avevamo molto da dargli, allora lei ha provveduto con della conserva di sambuco, e sembra che gli sia piaciuta. Credo sia ancora in giro.

— Winnie, non hai ricevuto nessuna segnalazione dai servizi di sicurezza? — chiese Opperly incredulo. — O dall’FBL?

Garnett scosse la testa. — Sono almeno dieci anni che non arriva più niente. L’ESP è così poco popolare che perfino il governo si è dimenticato di noi.

— Capisco — disse Opperly con gli occhi che gli brillavano. — In questo caso non hai saputo niente di una creatura mutante, simile a un gatto verde, apparentemente dotata di incredibili poteri parapsicologici, che ha indotto parecchi alti ufficiali a fuggire in Russia, e a fare una quantità di cose altrettanto pazze? La notizia non è stata resa di dominio pubblico, ma le più alte gerarchie scientifiche e mediche hanno ricevuto rapporti sull’argomento, con l’invito a comunicare al governo tutto quello che sanno o che sentono dire. Perfino a me è stato detto qualcosa.

— C’era da scommetterlo — disse Garnett disgustato. — Salta fuori qualcosa che riguarda la parapsicologia, e consultano tutti tranne noi. — Poi guardò Opperly come uno che si svegli in quel momento. — Vorresti dire che questa creatura è la causa di tutti i risultati che stiamo ottenendo?

Opperly annuì. — Proprio così.

— Ma come? Perché…

Opperly si strinse nelle spalle. — Non lo so. Stavo solo facendo una delle mie supposizioni azzardate di cui ho parlato poco fa ai miei amici giornalisti — disse, sorridendo a Phil e a da Silva.

— Supposizioni! — disse Garnett. — Bene, lo scopriremo subito. — E si avviò lungo il corridoio, sollevando nuvolette di polvere dall’antico tappeto. — Daremo un’occhiata a questo animale e vedremo se è vero. Signorina Ames…! — cominciò a chiamare, e improvvisamente il suo viso assunse ancora quell’espressione assente, come se non si trovasse del tutto in questo mondo. Si fermò. — Lei sta pensando la stessa cosa — disse a voce bassa, ma così distante che anche Phil capì che stava usando le sue percezioni. — È d’accordo con te, Op. — La sua espressione si fece ancora più assente. — Anzi, tutti sono d’accordo. Tutti quelli della Fondazione, o quasi. — Dalla sua espressione si sarebbe detto che ormai avesse perso quasi ogni contatto con la realtà. La sua voce divenne un flebile mormorio. — Anzi, hai ragione tu.

La porta all’estremità del corridoio si aprì e apparve una giovane donna con un lungo naso che indossava un camice da laboratorio e che rivolse un cenno gentile a Garnett. Aveva gli occhi semichiusi e la fronte distesa, come se gli stesse proiettando mentalmente qualcosa. Poi si accorse dei visitatori. — Vorresti vedere questo animale verde con gli occhi del corpo? — chiese.

— Certamente, Ginny — disse Garnett e si avviò. Phil avrebbe voluto metterli immediatamente al corrente di tutto quello che sapeva su Lucky, ma da Silva lo prevenne.

— Signori — disse — penso voi capire meglio che io credevo. Spiacente sottovalutato voi. Meglio dire ora…

In quel momento Lucky emerse dalla porta in cui era entrata Ginny. Avanzò pigramente, sicuro di sé come un dio. La ragazza chiuse la porta alle sue spalle. Phil sentì il suo spirito risollevarsi d’improvviso, come sempre all’apparizione del gatto verde.

Akeley gli strinse il braccio. — È Lui!

E quasi nello stesso istante una voce imperiosa parlò alle loro spalle. — Fatevi da parte, tutti quanti.

Phil obbedì, come gli altri.

Dave Greeley era fermo in cima alle scale. L’ufficiale dell’FBL aveva un’aria efficiente, di chi sa il fatto suo, anche se i suoi capelli sembravano ancora più grigi e la sua espressione ancora più preoccupata della notte prima.

Fece un breve cenno a Opperly e disse: — Scusatemi, dottore — poi abbassò il paralizzatore fra la doppia fila di persone addossate alle pareti e premette il grilletto. Ma i suoi nervi non dovevano essere saldi come Phil aveva creduto, perché il gatto non cadde a terra. Fu invece la signorina Ames a boccheggiare stupita. — La mia gamba… Non la sento più!

Greeley fece una smorfia e riaggiustò la mira, mentre dal tappeto vicino ai piedi della signorina Ames si sollevavano nuvolette di polvere. Ma nello stesso istante Phil avvertì l’onda d’oro che emanava da Lucky. Il viso di Greeley si fece rosso e le sue dita irrigidite lasciarono l’arma, come se una mano invisibile le stesse aprendo e la pistola cadde a terra.

In quel momento un’altra voce parlò alle loro spalle, languida e sprezzante: — Non muovetevi, signori, se non volete finir male.

Dalle scale era apparsa Dora Pannes. La biondo-viola era vestita con un semplice abito grigio, e una grossa borsa le pendeva da una spalla ma sembrava ancora più bella della notte prima. La sua mano delicata stringeva un grosso ortho.

Phil non si sentì minimamente spaventato, anche se un vago ricordo cercava di affacciarsi da un angolo della sua mente. Sapeva che lei non avrebbe potuto far del male a nessuno, finché Lucky era lì. Era molto più interessato alle reazioni degli altri.

Ma, tranne una sola eccezione, non ci furono reazioni di sorta.

L’eccezione fu da Silva. Il suo sguardo era fisso su Dora Pannes con famelica adorazione.

La bionda avanzò con fare deciso, senza neppure guardare da Silva. Mentre passava a fianco di Greeley, raccolse con un gesto fulmineo il paralizzatore, poi ne prese uno ancora più grosso da sotto la giacca dell’uomo, li infilò entrambi nella borsa, e continuò a camminare verso il gatto.

Adesso comincerà a sentirla, si disse Phil.

La bionda continuò ad avanzare. Lucky la osservava con aria indifferente, poi improvvisamente saltò sul davanzale della finestra con il pelo gonfio, le orecchie tese all’indietro, ed emise un lungo sibilo rabbioso.

Nell’istante seguente Phil sentì un terrore innominabile, quale non aveva mai provato prima, come se tutto il mondo stesse per essere stritolato in un solo istante, come se il buio fra le stelle stesse scendendo su di lui per strangolarlo. Confusamente, vide che anche gli altri erano impalliditi. Guardò terrorizzato Lucky, come se il gatto si fosse trasformato in un demonio, e vide Dora Pannes che freddamente allungava una mano per afferrarlo. Il gatto cercò di evitarla, ma lei fu più veloce. Allora le balzò dritto in faccia, con gli artigli tesi. Dora, calmissima, se lo staccò dal viso e lo mise nella borsa, la richiuse e tornò indietro. Era bella e composta come quando era apparsa dalle scale. Neppure una goccia di sangue era ancora scesa dai graffi.

Mentre gli passava di fianco, da Silva la guardò con espressione istupidita. Nei suoi occhi c’era ancora l’ombra del desiderio.

— Povero scemo — disse lei, poi sparì lungo le scale.

Phil sentì il cuore che batteva dieci, undici, dodici volte, come i rintocchi di un orologio, poi si lanciò giù per le scale, mentre qualcun altro correva dietro di lui.

Raggiunse la porta d’ingresso e balzò dai gradini in tempo per vedere un’auto nera allontanarsi rombando. Greeley era al suo fianco, e abbaiava ordini in una radiolina portatile. Dalla direzione opposta spuntò a gran velocità un’altra auto. Delle fiamme rosse sprizzarono da sotto i paraurti, mentre i retrorazzi la facevano fermare di fronte al cancello. Greeley si infilò sul sedile posteriore, e Phil lo seguì.

— Puoi ancora vederli — gridò Greeley all’autista. — Usa i razzi! — Poi si rivolse a Phil. — E voi chi siete?

— Phil Gish, di Radioluna America — rispose Phil incautamente, ma le ultime parole si persero nel rombo dei razzi.

L’altra macchina era almeno a cinque isolati di distanza quando erano partiti all’inseguimento. Mentre Phil si districava con difficoltà dal groviglio in cui l’aveva cacciato la brusca accelerata, notò che la distanza si era ridotta quasi a un isolato.

— Spegni i jet — ordinò Greeley. — Possiamo bloccarla col motore normale; ma sta’ attento che non ci sfugga. Potrebbero avere i razzi anche loro. Che posizione avete nel Progetto Micio, Phil?

— Sono una specie di osservatore speciale — improvvisò Phil, boccheggiando, e tenendosi aggrappato con due mani. — La mia sezione ritiene che il gatto verde potrebbe anche non essere pericoloso.

— Come? — chiese Greeley, scrutando davanti.

— Non l’avete sentito, alla Fondazione?

— Sentito cosa? — chiese Greeley, misurando la distanza sempre più corta fra i due veicoli. — Quel senso di terrore?

— No. Di pace, di compensione…

Ma proprio in quell’istante la macchina di fronte a loro rallentò leggermente e ne venne gettato fuori qualcosa di verde, che rotolò su se stesso una dozzina di volte, e poi sfrecciò verso un vicolo.

— Frena! — urlò Greeley, e Phil quasi venne rovesciato addosso all’uomo di fianco al guidatore mentre i retrorazzi entravano in azione e la parte posteriore della macchina si sollevava. Poi si accorse di essere rimasto solo nella macchina e si precipitò fuori.

— È un vicolo cieco. Non può uscire — stava dicendo Greeley. — Avanziamo affiancati. Gish, voi stategli dietro.

— Non fategli del male — avvertì Phil.

— Non ci pensiamo neanche! — gli gridò Greeley.

Ormai Phil li aveva raggiunti, e poteva vedere il gatto verde accucciato alla fine del vicolo, a sette o otto metri dalla linea degli uomini che avanzavano, pronto a difendersi.

La distanza si ridusse a tre metri. Il gatto scattò in avanti, procedendo di sbieco, prima da una parte poi dall’altra; infine si lanciò fra Greeley e l’uomo alla sua destra, dritto verso Phil che lo attendeva a braccia aperte.

— Lucky! — esclamò al colmo della felicità, sollevando il gatto.

Cinque artigli gli graffiarono dolorosamente il mento, mentre altri cinque affondavano nella pelle delle sue mani.

Guardò il piccolo musetto. A parte il colore, era quello di un normalissimo, anche se arrabbiatissimo, gatto. E si sentiva ancora l’odore della tintura.

— Ecco — disse calmo e porse l’animale a Greeley.

— Lucky? — gridò Greeley, mentre gli artigli graffiavano anche le sue mani. — È solo un gatto tinto, maledizione! L’avevano preparato prima, e l’hanno gettato fuori per trattenerci. Avanti! Prendilo tu, Simms, dobbiamo tenerlo, per maggior sicurezza.

Presumibilmente, fu Simms questa volta a provare le trafitture delle unghie del gatto. Gli uomini dell’FBL risalivano in macchina.

Ma Phil non li seguì. Non ne ebbe il cuore. Mentre i razzi rombavano ancora, restò lì nel vicolo, stanco e graffiato.

16

Mentre la porta dell’ascensore si chiudeva alle sue spalle, e iniziava la faticosa salita dal ventottesimo al ventinovesimo piano, Phil si stava già rammaricando di non aver accettato l’invito di Phoebe Filmer a bere qualcosa nella sua stanza. Quando lei gli si era avvicinata nell’ingresso, per ringraziarlo di come l’aveva salvata al Tan Jet, l’idea di stare in compagnia di un essere umano gli era sembrata insopportabile. Ma ora che soltanto il vuoto echeggiante di una rampa di scale lo separava dalla solitudine della sua stanza, si accorse all’improvviso che la cosa di cui più aveva bisogno era proprio la compagnia.

E pensare che solo il giorno prima era uscito dalla sua stanza pieno di energie, pronto ad affrontare ogni avventura. Ne aveva avute tante di avventure, ed era stato preso a schiaffi dalla vita in modo tale che si sentiva ancora tutto frastornato. Certe volte, durante quelle incredibili ventiquattro ore, gli era sembrato che la sua intera personalità stesse cambiando, che si stesse trasformando nell’intrepido ma sensibile avventuriero e amante che aveva sempre sognato di essere.

Invece eccolo lì, che si trascinava stancamente verso la sua stanza, dopo essersi comportato un’ennesima volta come un codardo e aver detto “No” quando invece soltanto dieci secondi dopo avrebbe desiderato con tutto il cuore di aver detto “Sì”. Anzi, a giudicare dalla velocità con cui stava ricadendo nelle sue vecchie abitudini, c’era da aspettarsi che passasse il resto della serata a spiare Phoebe Filmer dalla finestra oscurata.

Certo, poteva scusarsi dicendo che non c’era alcuna ragione per pensare tanto a una ragazza di ordinaria bellezza, quando aveva appena incontrato una donna così perversamente desiderabile come Mitzie Romadka e aveva visto un incanto come Dora Pannes, per non parlare di personaggi grotteschi ma interessanti come Juno Jones e Mary Akeley. Ma queste erano tutte scuse, e lui lo sapeva. Phoebe Filmer era più alla sua portata, benché sempre non abbastanza per lui.

Oppure poteva dirsi, ancora una volta, che se soltanto Lucky fosse stato al suo fianco, sarebbe tornato ad essere coraggioso e intraprendente. Ma neppure questo era vero. La realtà era che tutto stava diventando più grande di lui. Voleva il gatto verde, certo, ma lo voleva come un animaletto domestico, come una mascotte, un portafortuna, qualcosa che gli dormisse ai piedi del letto. Non un mostro misterioso, un mutante che lo coinvolgeva con lottatori, fanatici religiosi, psicoanalisti dal grilletto facile, ragazze con gli artigli, banditi, scienziati di fama mondiale, telepati, centrali del vizio, assalti dell’FBL, criminali nazionali e internazionali, e un sacco di altre cose che erano decisamente troppo grandi per Phil Gish.

Disse la parola in codice che faceva aprire la sua porta, entrò e stava per chiudere, quando si accorse di non essere solo.

A carponi sul pavimento, apparentemente per guardare sotto il letto, ma ora con il viso rivolto nella sua direzione, c’era la ragazza dai capelli neri e dall’aspetto faunesco della finestra di fronte. Si sentì gelare il sangue. Con la mano stringeva la maniglia della porta non ancora chiusa, pronto a spalancarla e a scappare.

Lei si alzò lentamente, sorridendo. — Salve — disse con voce calda, in un accento straniero che Phil non riuscì a identificare. — Ho perso una cosa… penso che forse è nascosta qui. — Si lisciò il vestito nero a disegni grigi che le aveva visto togliersi la sera prima. Poi si passò una mano fra i capelli e lungo la coda di cavallo.

— Cosa? — chiese Phil con voce rauca, stringendo ancora la maniglia. Ogni volta che la guardava negli occhi, non poteva fare a meno di abbassare immediatamente lo sguardo alle scarpe alte venti centimetri che portava ai piedi.

— Sì — rispose lei — un… come si chiama… un micio. — Poi, dopo una pausa: — Vi comportate come se conosceste me. — Il suo sorriso si allargò e fece un gesto di rimprovero col dito. — Avete spiato da finestra, cattivello?

Phil inghiottì senza riuscire a dire una parola, tuttavia quell’osservazione gli fece apparire la ragazza molto più umana. Le allucinazioni non fanno arrossire.

— Non importa — lo rassicurò. — Finestre di fronte… Perché no? Stessa cosa… Finestre di fronte, un poco aperte… Forse mio micio saltato di qua. Allora sono passata per vedere.

— Siete passata? — chiese Phil nervosamente, guardandole ancora una volta le gambe.

— Certo — disse lei sorridendo, e indicò la finestra. — Venite a vedere.

Con notevole riluttanza, Phil abbandonò la maniglia e si avvicinò cautamente alla finestra aperta. Fra i due davanzali era posata una scala pieghevole dall’aria piuttosto fragile, fatta di un metallo grigio.

Phil si voltò a guardarla. — Era un gatto verde? — chiese bruscamente.

Il viso di lei si illuminò. — Allora saltato qui.

Phil annuì. — Inoltre — proseguì rapidamente — credo di aver incontrato vostro fratello oggi, un giornalista di nome Dion da Silva, inviato del giornale La Prensa.

Lei annuì felice. — È vero — disse. — Io sono Dytie da Silva.

— Phil Gish. Dytie, avete detto?

— Esatto. Abbreviazione di Afrodite, dea di amore. Piace? Per favore, dove sono mio fratello e gatto, ora?

— Non ne ho la più pallida idea — disse Phil tristemente.

Lei alzò le spalle come se si aspettasse quella risposta. — Niente strano. Noi un po’ matti. Ci perdiamo sempre.

— Così voi verreste dall’Argentina? — chiese Phil in tono poco convinto. L’accento della ragazza non gli pareva spagnolo, ma d’altra parte la sua conoscenza in fatto di accenti era piuttosto scarsa.

— Certo — rispose lei tranquillamente, come se stesse pensando a qualcos’altro. — Un paese lontano lontano.

— Ditemi, signorina da Silva, il vostro gatto è dotato di poteri particolari?

Lei aggrottò le sopracciglia. — Poteri particolari? — ripeté lentamente, sillaba per sillaba. — Non capire.

— Voglio dire — spiegò Phil pazientemente — può rendere la gente intorno a lui felice?

La sua fronte si distese. — Certo. Micetti carini rendono la gente felice. Piacciono a voi animali, Phil?

Ancora una volta non poté fare a meno di guardarle le gambe. Ma, tutto sommato, cominciava a sentirsi più sicuro.

— Signorina da Silva — disse — avrei molte altre domande da farvi, ma sfortunatamente non conosco lo spagnolo e non credo che voi comprendiate l’inglese così bene da poter rispondere alle mie domande. Ma forse, se vi dicessi semplicemente quello che mi è successo, potreste aiutarmi. Almeno lo spero. Sedetevi, signorina; è una storia molto lunga.

— Buona idea — disse lei, sprofondandosi nel letto. — Ma ti prego, Phil, chiama me Dytie.

Ha un’abilità particolare nel farmi sentire a mio agio, pensò Phil mentre si sedeva nella poltrona di fronte al letto. — Ecco, Dytie, tutto è cominciato quando… — Andò avanti per un’ora, raccontandole dettagliatamente tutto quello che gli era capitato da quando si era svegliato e aveva visto Lucky seduto sul davanzale della finestra. Non le disse però di averla osservata alla finestra la sera prima, il che rese necessario abbreviare anche il resoconto della sua seduta con Romadka. Dytie lo interruppe spesso per chiedergli chiarimenti, alcuni su cose assolutamente ovvie, come per esempio cos’era uno spillone, e cosa il Federal Bureau of Loyalty, e cosa cercavano di farsi i lottatori maschi e femmine quand’erano sul ring. Sorvolava invece su cose che lui si aspettava la stupissero, benché non fosse sicuro se lo faceva perché realmente capiva, o perché non voleva capire. Gli ortho non la interessarono per niente, moltissimo invece i paralizzatori. Le imprese di Lucky non parvero soprenderla gran che. I suoi commenti erano di solito di questo tenore: — Quel gatto. Quant’è stupido. Anche fortunato. Hai scelto bene nome, Phil.

Quando le disse della Fondazione Humberford e di suo fratello, lei rotolò sulla pancia e cominciò ad ascoltare con grande attenzione. Ma quando raccontò esitando dell’improvvisa infatuazione di Dion per Dora Pannes, lei ridacchiò con aria rassegnata. — Sempre lo stesso. Dà caccia a ogni cosa con due gambe e ghiandole mammarie. Tranne quando incinto, naturalmente.

— Cosa?

— Cosa ho detto? Devo aver sbagliato parola — si scusò rapidamente Dytie.

Invece si interessò moltissimo di Morton Opperly, e insistette perché Phil le dicesse tutto sul famoso scienziato.

— Lui uomo intelligente — osservò con convinzione. — Molto piacere incontrarlo.

— Cercherò di fartelo conoscere — disse Phil, e raccontò di come il gatto verde era stato catturato da Dora Pannes.

Dytie scosse la testa con gravità. — Certa gente ha cuore molto duro — disse. — Loro non piacere i mici.

Phil finì rapidamente la storia col falso gatto verde che l’aveva graffiato nel vicolo.

Dytie si alzò e gli toccò affettuosamente le mani. — Povero Phil — disse, e aggiunse: — Allora sappiamo chi ha gatto, ma non dove.

— Esatto — disse Phil. — E non sarà facile scoprirlo, perché Billig si sta nascondendo dall’FBL. — Si alzò in fretta, cercando di non fare capire che desiderava mettere una qualche distanza fra loro due. Le dita di Dytie erano morbide e gentili, ma c’era qualcosa nel suo tocco e nella sua vicinanza che lo faceva rabbrividire. Probabilmente era il suo odore, che senza essere penetrante e neppure sgradevole, era però del tutto sconosciuto. Lei lo guardò con aria intenta, ma non cercò di seguirlo. Lui si spostò dall’altra parte della stanza.

— Bene, Dytie, questa è la mia storia — disse un po’ affannosamente. — E ora vorrei farti qualche domanda. Cos’ha di speciale il tuo gatto, tanto che la Divertimenti SpA spera di poterlo usare per corrompere il governo? È un mutante con poteri telepatici, in grado di controllare le emozioni? È una regressione, o è stato allevato artificialmente? O è forse un trionfo inaspettato dei genetisti sovietici, basato su principi che i nostri scienziati non accettano? Accidenti, non sarà davvero un dio egizio, come crede Sacheverell? Tocca a te rispondere, Dytie.

Ma lei si limitò a sorridere. — Scusami, Phil. Ma questa tua storia molto lunga. Torno subito.

Phil si aspettava che lei uscisse dalla finestra, e si stava chiedendo cosa avrebbe dovuto fare. Invece la ragazza andò in bagno e chiuse la porta. Phil si mise a passeggiare su e giù per la stanza, cercando di scaricare la tensione, armeggiando qua e là. Accese la televisione, e la guardò senza capire una parola di quello che l’annunciatore sportivo raccontava sulle imprese, le follie e le frivolezze delle stelle della lotta libera. A un certo punto, durante uno dei suoi giri per la stanza, urtò violentemente l’apparecchio. Dovette rompersi qualcosa perché l’audio si ridusse a un mormorio incomprensibile, e Phil si ritrovò ancora una volta solo con le sue preoccupazioni. Tanto solo, che quando udì un lieve rumore alle sue spalle sobbalzò.

La porta d’ingresso si era aperta. Mitzie Romadka era in piedi nel corridoio. Sembrava molto giovane e molto stanca, in maglione e calzoni blu scoloriti. Una ciocca dei suoi lunghi capelli neri le ricadeva sulla guancia. Fissò su Phil uno sguardo infelice, di sfida.

— Ieri notte ti ho detto: «Addio per sempre», ed è così — cominciò bruscamente. — Perciò non metterti delle idee strane in testa. Sono venuta solo per avvertirti di una cosa. — La voce le si spezzò. — Oh, accidenti, è tutto così confuso. — Si morse le labbra, facendosi forza. — Non è solo perché Carstairs, Llewellyn e Buck mi odiano, o perché tu hai cercato di umiliarmi, di rammollirmi. Quando sono tornata a casa, attraverso lo scivolo di servizio, stamattina presto, ho sentito mio padre che parlava con altri due uomini. Ho scoperto che è un agente sovietico, e che il suo incarico è ora quello di catturare il gatto verde, non importa quanti uomini debba uccidere. E lui pensa che sia tu ad averlo.

Phil la guardò, e fu come se tutte quelle ore non fossero trascorse, come se si trovasse ancora in quella piccola piazza, all’alba, mentre Mitzie stava per lasciarlo, e tutta la tensione che aveva accumulato si incanalò in una nuova, più certa direzione.

— Cara — disse dolcemente e con cautela, come se un rumore improvviso potesse farla svanire — cara Mitzie, io non volevo umiliarti.

— Oh? — disse lei, accomodandosi la ciocca di capelli.

Le si avvicinò piano piano. — Ero solo preoccupato e geloso, di te e dei tuoi amici.

— Stai attento a quello che dici, Phil — mormorò lei minacciosamente. — Cerca di essere onesto.

— Va bene. Ho cercato di umiliarti. Con tutte le mie forze. Ero pieno di quella vanità e di quella presunzione che vengono dall’aver capito troppo. Non sapevo che la tua sfida e la tua gloria hanno un posto nel mondo. Mitzie, ti amo.

L’abbracciò e lei non svanì. La sensazione del suo corpo era completamente diversa da quella che aveva immaginato. Era un corpo esile e terribilmente stanco.

Poi sollevò il mento dalla sua spalla, e Phil venne violentemente respinto a un paio di metri di distanza.

Mitzie stava guardando dietro di lui. Notò con sollievo che non aveva né pistola, né pugnale, né artigli, né cose del genere.

Si voltò. Dytie da Silva, appoggiata allo stipite del bagno, li stava guardando con espressione interrogativa. — Ciao — li salutò allegramente, poi rivolta a Phil: — È tua ragazza?

Mitzie impallidì. — Quante cerchi di fartene insieme? — disse sprezzante, rivolta a Phil.

— Non preoccupare te — disse Dytie tranquillamente. — Lui molto timido all’inizio.

— Oh! — esclamò Mitzie, battendo sul pavimento con tutti e due i piedi contemporaneamente.

In quel momento l’audio della tv riprese a funzionare. — … si sapeva da tempo che lei e suo marito non dividevano più lo stesso letto. Ma per un’ironia della sorte i suoi fans hanno dovuto attendere quello che presumibilmente, dopo la proibizione dei combattimenti, è stato il suo ultimo incontro prima di poter vedere il suo nuovo amore.

Al centro dello schermo c’era Phil, con un’aria spaesata e un sorriso ebete sul volto. Juno gli teneva un braccio attorno alle spalle, e stava gridando: — … anch’io ho diritto alla mia vita amorosa! E non permettetevi di offenderla!

— Oh! — urlò Mitzie, e col palmo della mano diede un sonoro ceffone sulla guancia sinistra di Phil, poi corse fuori della porta sbattendosela alle spalle. Phil restò per qualche secondo di pietra. Poi spense la TV e si asciugò le lacrime dall’occhio sinistro.

— Perché non insegui? — chiese Dytie premurosamente. — Non preoccupare, Phil, lei ritorna. Lei ama te davvero, ancora più. È orgogliosa che tu sei tanto virile, che hai molte ragazze.

— Per favore — grugnì Phil alzando una mano. — Quello era un addio per sempre.

— Non è mai per sempre. Lei ritorna.

E proprio in quell’istante si udì un timido bussare alla porta. Phil aprì, chiedendosi se doveva schiaffeggiarla subito o aspettare. Il dottor Anton Romadka gli puntò in faccia una pistola paralizzante ed entrò.

Il piccolo psicoanalista aveva un’aria elegantemente professionale nel suo abito fuori moda, camicia bianca e cravatta, prediletto da molti medici. Portava persino un gilè, abbottonato sul suo stomaco paffuto. La guancia sinistra era liscia come la sua testa calva: evidentemente aveva coperto i graffi con della finta pelle. Aveva un’espressione di paterna benevolenza, ma tenne sempre la pistola puntata su Phil, lanciando di tanto in tanto delle occhiate a Dytie.

— Phil — disse — non intendo negare le affermazioni che mia figlia ha appena fatto sul mio conto, perché se solo ci pensi un istante, questo ci renderà alleati e compagni. Chi meglio di te può sapere, caro Phil, quanto mostruosamente psicotica sia diventata la civiltà americana? Tu stesso hai sperimentato sulla tua persona ciò che essa può fare al cervello, al corpo e agli organi del senso. E chi meglio di te potrebbe apprezzare l’equilibrio di una Repubblica dei Lavoratori, in cui ogni psicosi, grazie alla ferma guida della scienza marxista, è impossibile, perché ogni irrazionalismo, ogni illusione (comprese le folli invenzioni del capitalismo decadente e della sua pseudo scienza) è inconcepibile.

Phil si accorse di avere gli occhi sbarrati e di annuire. Si riscosse. La voce benevola di Romadka era singolarmente ipnotica.

— Naturalmente avrei dovuto capire tutto questo ieri sera, Phil, e fare appello alla tua ragione — continuò Romadka, senza mai spostare di un millimetro il paralizzatore dal collo di Phil. — Ma avevo fretta e non riuscivo a controllare le mie emozioni. Nemmeno i nostri agenti riescono ad essere del tutto immuni dalle perversioni americane, quando sono costretti a vivere in questo paese. Ho fatto molti errori, e in particolare quello di non prendere subito in considerazione la mia sfortunata figliola; anche se sono contento che sia venuta ad avvertirti, perché in questo modo ho potuto rintracciarti. Cosa che a sua volta permetterà a te, Phil, e alla tua deliziosa compagna, di godere della sana sicurezza offerta dai Sovietici.

Il piccolo psichiatra sorrise e si appoggiò cautamente al bracciolo della poltrona. La sua voce assunse un tono confidenziale. — E adesso, figlioli miei — continuò con un cenno del capo, rivolto questa volta anche a Dytie — vi dirò come potete rendere un grande servizio a questa nazione immune dalla pazzia, e guadagnarvi la sua eterna benevolenza quando raggiungerete le sue realistiche spiagge. Il capitalismo psicotico, di fronte alla prospettiva di una completa sconfitta nella prossima guerra, ha deciso di usare contro la Repubblica dei Lavoratori un’ultima sporca arma: la sua follia collettiva e le sue allucinazioni catalizzate e scatenate in un bombardamento elettronico e chimico sul tessuto nervoso collettivo sovietico. Finora questo veleno capitalistico contro l’Unione Pan-Sovietica ha assunto la forma di un’illusione riguardante gatti verdi. Non fraintendetemi: questi gatti verdi sono reali. Anzi, io sono fermamente convinto che si tratti di comuni gatti nei quali sono stati inseriti chirurgicamente dei piccoli trasmettitori elettronici e che sono in grado di spruzzare intorno degli ormoni, come le puzzole. Anche se i gatti verdi non sono probabilmente l’elemento più importante in questo assalto contro la psiche sovietica, essi ne sono la testa di ponte. Sfortunatamente non siamo ancora riusciti a mettere le mani su una di queste creature, in modo da poter confermare le nostre deduzioni e da prendere le opportune contromisure. È assolutamente indispensabile che lo facciamo.

— Ma c’è un solo gatto verde — obiettò Phil — e si crede che stia attaccando l’America. Non è vero, naturalmente.

— Certo che non è vero, figlio mio — continuò con voce grave. — Io ti sto esponendo dei fatti basati sul marxismo. Quelle storie che hai sentito sono soltanto delle invenzioni messe in giro dal governo capitalista per nascondere ai propri schiavi e ai propri pseudoscienziati l’enormità dei suoi crimini. La verità è che un gatto verde è scappato dai loro laboratori. Già una volta mi hai portato a quel gatto, Phil. Puoi farlo ancora.

— No, non posso — disse Phil con calma.

— Tu puoi, Phil — ripeté Romadka.

— Ma l’avevate già preso una volta — obiettò Phil — e ve lo siete lasciato sfuggire.

Per la prima volta un’ombra di impazienza oscurò la benevolenza del dottore. — Ho già detto che ho commesso degli errori ieri notte. Qualcuno è riuscito a puntarmi contro un ipno-raggio, probabilmente anche uno spray drogato. Per un certo tempo non sono stato responsabile delle mie azioni. Sono riuscito solo a sfuggire all’incursione dell’FBL. Ma non succederà un’altra volta. — Il suo tono divenne spiccio. — Avanti, Phil, vieni con me, e porta anche la tua amica. Non c’è più tempo per le discussioni.

— Ma… — cominciò Phil.

Dytie da Silva si piazzò di fronte a Romadka. — Io non venire — disse. — Perché dovere? Tu sembri matto. Nazione immune dalla pazzia? Irrazionalismo impossibile? Scienza assoluta? Tutte scemenze!

Di fronte a quello sfogo l’analista si limitò a sollevare le sopracciglia. — Stavo giusto per parlare di voi, signorina. Cosa fate qui, tanto pef cominciare?

— Sono venuta dalla finestra di fronte — disse Dytie, indicando col dito.

Romadka la studiò pensosamente, come se stesse controllando qualcosa nei suoi ricordi. Improvvisamente sorrise. — La descrizione corrisponde — disse. — Voi siete la giovane donna che il signor Gish ha osservato ieri sera mentre si spogliava, e che è stata la fonte di un’interessante allucinazione.

— Phil, non avevi detto a me — disse Dytie guardandolo con occhi brillanti.

— Oh no, non l’ha fatto — disse il dottor Romadka ironico.

— Perché no? — chiese lei. — Non importa a me. Se a lui piace, okay.

Romadka la guardò con disprezzo. — Una tipica esibizionista, vero. E anche ninfomane.

Dytie si mise le mani sui fianchi. — Senti, io non sono buona dire parole lunghe. Ma tua diagnosi sbagliata. Non è ninfomania, è satinasi. Faccio vedere. — E cominciò immediatamente a togliersi una calza. Phil la guardò con un misto di fascino e di orrore.

Romadka si alzò irritato. — Non mi è mai capitato… — cominciò. — Se credete che facendo appello ai miei istinti sessuali…

In quel momento Dytie si tolse la scarpa, il falso piede, e sollevò il delicato zoccolo nero e il garretto sottile, coperto di pelo, per farglielo vedere. — Ecco qua, immune dalle illusioni — disse accalorandosi. — Guarda bene. Satinasi!

Le ginocchia del dottor Romadka cominciarono a tremare. La sua faccia era diventata grigiastra e gli occhi gli stavano uscendo dalle orbite.

Senza preavviso Dytie si alzò, girò su se stessa e lasciò partire un calcio molto accurato. Il paralizzatore schizzò via dalla mano tremante del dottore e andò a finire contro il muro. Romadka ritirò la mano di scatto, come se lo zoccolo fosse quello del diavolo in persona, e uscì precipitosamente dalla stanza. Il rumore dei suoi passi veloci e irregolari svanì lentamente. Phil poteva immaginarsi benissimo come si sentiva il dottore. Ci mancava poco che non si mettesse a correre anche lui.

Dytie, ridendo di cuore, saltellò fino alla porta, la richiuse e prese la pistola di Romadka.

— Questo paralizzatore? — chiese.

Phil si inumidì le labbra, afferrandosi al bordo del tavolo per sostenersi. Sapeva che la sua faccia doveva avere lo stesso colore di quella di Romadka. — Dytie — riuscì finalmente a dire, battendo i denti — tu vieni da un paese molto più lontano dell’Argentina.

Lei sorrise con aria di scusa. — Giusto, Phil. Ho storia molto più lunga che tua da raccontare.

Phil fece un cenno tremante con la testa — Ma prima, se non ti dispiace. — Non riuscì a proseguire, e indicò la scarpa, il piede e la calza che giacevano a terra.

— Certo, Phil, capisco. — Li prese e sì sedette sul bordo del letto per rimetterseli. Phil seguì i suoi movimenti con un senso di disagio, ma quando lei fu sul punto di infilare lo zoccolo nella cavità del falso piede indietreggiò distogliendo lo sguardo.

Nel frattempo lei stava dicendo in tono pratico: — Tu non detto all’uomo immune da illusioni, ma hai idea dov’è micio?

— No — rispose Phil nervosamente — ma so dove potrei scoprirlo.

— In questa città?

— Sì.

— Porti me là, Phil?

— Immagino di sì.

— Tu anche vuoi trovare micio, Phil?

— Sì. Credo di sì.

— Bene. Puoi guardare ora.

Si fece forza e le lanciò un’occhiata, poi tirò un sospiro di sollievo. Le gambe erano tornate ad essere quelle di una qualsiasi ragazza. Illudersi, decise, talvolta è indispensabile.

— E adesso — disse — puoi rispondere a quelle mie domande.

Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta.

— Questa volta è tua ragazza — disse Dytie ottimista.

Ma Phil non intendeva correre altri rischi. Aprì lo spioncino unidirezionale e si trovò a guardare dritto in faccia Dave Greeley.

— È l’FBL — sussurrò a Dytie, che balzò in piedi. Durante il suo racconto gli aveva fatto numerose domande sul Federal Bureau of Loyalty, alle quali lui aveva risposto dettagliatamente. E doveva essere giunta a delle conclusioni ben precise. — Dobbiamo filare, Phil. No tempo per domande risposte ora. — Saltò agilmente sul davanzale e poi sulla scala.

Non era lunga come la trave degli Akeley, ma era dieci volte più alta, e Phil non era ubriaco. Se non avesse camminato su quella trave, e se non fosse sceso dallo scivolo di servizio del dottor Romadka, non avrebbe mai osato avventurarvisi. Il cuore gli batteva all’impazzata quando raggiunse la stanza di Dytie. Si voltò con la mezza intenzione di togliere la scala, ma dalla sua stanza venne il rumore di qualcosa che si rompeva. Dytie lo prese per un braccio.

— Niente tempo ora — disse, e lo spinse nel corridoio. Pochi secondi dopo entravano nell’ascensore. — Ehi, ma quello è il bottone di salita — l’avvertì lui.

— Lo so, Phil — disse lei in tono rassicurante.

Uscendo sul tetto, Phil provò per un attimo una stupenda sensazione di libertà. Lo specchio al sodio non era ancora tramontato, e tutto intorno a lui era luminoso, anche se le regioni più basse del cielo erano buie e piene di stelle.

Poi vide una mezza dozzina di elicotteri che si stavano abbassando verso di loro come moscerini. Dytie lo stava trascinando verso un angolo vuoto del tetto. Provò una certa irritazione per quel suo inutile affannarsi. Una voce potente dal cielo ordinò loro di fermarsi.

Dytie si fermò quasi sull’orlo del tetto, tastò con la mano nel vuoto, si sollevò di mezzo metro nell’aria e tastò ancora.

Si udì il rumore di un elicottero che atterrava alle loro spalle.

Dytie aprì nell’aria una piccola porta nera come l’inchiostro, ed entrò. Si voltò, il suo viso simile a una pallida maschera nel rettangolo nero. — Vieni, Phil — lo incitò e allungò un braccio fuori dal rettangolo verso di lui.

Phil guardò quel ritratto allucinante incorniciato d’aria. Al di sotto, poteva distinguere chiaramente i muri della casa di fronte e il nastro della strada cinquanta piani sotto.

Dietro di lui si udirono delle grida, e un altro ordine rimbombò dal cielo.

Phil afferrò il polso di Dytie. Annaspando con l’altra mano afferrò un piolo invisibile, poi anche il piede trovò un appoggio. Si arrampicò nel vuoto e rotolò attraverso la porta nera in una nera cavità, su un pavimento curvo. Voltandosi vide un rettangolo di cielo con tre stelle. Il rettangolo si strinse e svanì. Il buio divenne assoluto.

Poi cominciò a cadere.

17

Phil si agitò freneticamente, con l’istintiva speranza di chi precipita verso la morte di poter deformare a suo vantaggio lo spazio tendendo i muscoli allo spasimo.

Poi si chiese quanto tempo ci volesse a cadere per cinquanta piani, ma aveva trovato sempre ostico fare i calcoli a mente.

Poi si domandò come mai la cavità nera cadesse con lui.

Poi vomitò, ma tutto quello che uscì dal suo stomaco fu il fantasma di un sandwich di fermenti e il latte di soia consumato il giorno prima.

Continuò a cadere.

Una luce morbida si diffuse intorno a lui. Si trovava all’interno di una sfera del diametro di due metri e mezzo circa, con i piedi posti al centro e la testa che sfiorava l’imbottitura. Spingendo lo sguardo oltre i propri piedi, scorse Dytie da Silva tranquillamente sdraiata nell’aria e intenta a scrutare uno schermo posto nell’imbottitura della sfera.

Ma stava ancora cadendo.

Phil non ne sapeva molto di astronavi, ma sapeva che non si poteva andare in caduta libera senza prima aver accelerato per liberarsi del campo gravitazionale della Terra.

Ma non c’era stata alcuna accelerazione.

— Dytie! — gridò, e in quello spazio ristretto la sua voce rimbombò assordante. — Cosa mi sta succedendo?

Con un sussulto lei si voltò a guardarlo. — Ssh, Phil. Tu in caduta libera ma non cadi. Ho spento la gravità.

Fra un conato di vomito e l’altro, Phil cercò di afferrare l’idea. — Hai spento la gravità? — Continuava a sentirsi cadere, ma non era più così sicuro che avrebbe colpito qualcosa.

Dytie fece scorrere lo sguardo lungo il suo corpo che fluttuava impotente, fino al viso. — Certo, Phil. Gravità va intorno a questa piccola barca come luce. La gravità non attira lei. La luce non la fa vedere.

— È per questo che era invisibile?

— Invisibile? Nessuno la vede. Aspetta, Phil, devo fare cosa.

— Ma con una nave come questa si può viaggiare… — cominciò Phil, la mente piena di ardite speculazioni.

— Questa non nave, Phil, solo scialuppa. Basta parlare ora.

La caduta di Phil acquistò una direzione. Si accorse di fluttuare lentamente verso Dytie. — Qui vicino me, Phil — lo istruì lei. Pochi istanti dopo si trovò comodamente disteso sullo stomaco vicino a Dytie, con la testa sopra lo schermo.

Poi la velocità della sua apparente caduta aumentò, anche se la sfera non stava più cadendo, insieme a lui, finché il suo corpo venne gentilmente schiacciato contro l’imbottitura. Ne dedusse che stavano accelerando, e ne ricevette una conferma dallo schermo.

Dapprima non riuscì a interpretare le immagini. Era tutto colorato di viola, si vedevano dei quadrati e dei rettangoli con dei nastri scuri in mezzo. Sul quadrato centrale c’erano dei punti che si muovevano lentamente mentre lui li osservava. Si vedevano poi tre o quattro croci con dei cerchi in mezzo. A poco a poco i quadrati e i rettangoli rimpicciolirono, mentre dai bordi dello schermo ne comparivano di nuovi. Si rese conto di guardare la città dall’alto, e che i punti ora appena distinguibili, erano gli uomini che li inseguivano, le croci gli elicotteri.

Si sentì gelare il sangue al pensiero di trovarsi sospeso a una simile altezza sopra la città, e di salire sempre di più. Poi cominciò a lasciarsi trasportare dalla meraviglia delle immagini. Phil aveva volato pochissimo, e le rare volte che l’aveva fatto non aveva visto granché: ora lo spettacolo della città che rimpiccioliva sotto di lui lo affascinava. Cominciò a sentirsi simile a un dio, che amministrava la giustizia per l’umanità dall’alto della sua nave. Già si immaginava di calare come un vendicatore sui dittatori della Terra.

— Fra poco noi alti abbastanza, Phil — disse Dytie. — Prendi maniglie e metti piedi sotto la sbarra.

Fece come lei gli aveva detto. Un secondo dopo ne comprese la ragione, perché si sentì spingere lontano dallo schermo, e dovette aggrapparsi forte. Ne dedusse che stavano decelerando. Dopo un po’ si ritrovò di nuovo in caduta libera. Nel frattempo l’immagine sullo schermo si era trasformata in quella dell’intera città: una scacchiera di piccoli riquadri molto simile a una mappa.

Dytie prese una vera mappa e la distese a fianco dello schermo.

— Hai detto tu sai dove poter scoprire dove è micio. Hai detto in città. Mostra Dytie.

Phil cercò di concentrarsi sul problema. Solo ora si rendeva conto di quanto fosse labile la speranza su cui aveva basato la sua affermazione. Dipendeva tutto dal presupposto che Billig avesse il gatto verde, che Jack Jones sapesse dove si era nascosto Billig, e che Jack Jones stesso si fosse nascosto dagli Akeley. Ma era l’unica speranza di poter trovare Lucky.

Poi gli venne in mente che non aveva idea di dove si trovasse la casa degli Akeley. Ma lo soccorse il ricordo improvviso di una grande vetrina piena di manichini che camminavano. La casa degli Akeley era vicina alla Monstro Multi-Products, e tutti conoscevano l’indirizzo del grande magazzino. Localizzò il posto sulla mappa e poi sullo schermo. Subito accelerarono verso il basso, per cui dovette aggrapparsi ancora una volta alle maniglie, mentre i quadrati sullo schermo si ingrandivano, con al centro quello, più grosso, della Monstro Multi-Products.

Cercò di avere da Dytie una risposta alle domande che le aveva posto nella sua stanza, ma lei lo interruppe. — Già detto, mia storia molto lunga. Niente tempo ora. Prima trovare micio. Molto importante.

Il rettangolo del tetto della Monstro Multi-Products riempiva ormai buona parte dello schermo, e le strade intorno erano dei larghi nastri. La loro velocità diminuì. Dytie manovrò la scialuppa attorno al grande magazzino, finché Phil non riuscì ad individuare, alla base dell’edificio vicino, la piccola fessura che indicava il cubo di spazio in cui era contenuta la casa degli Akeley, privata dei suoi diritti d’aria.

Mentre scendevano lentamente nel canyon della strada, fra muri con e senza finestre, a Phil parve che l’immagine violetta che appariva sullo schermo fosse quella di una città stregata. Sembrava popolata da scarafaggi e da insetti più piccoli: macchine e pedoni.

Presto si trovarono sospesi a soli tre metri dal marciapiede, sulle teste dei passanti ignari.

Dytie fece scivolare la scialuppa fra la ringhiera del marciapiede e il piano “terreno” del grattacielo a fianco della casa degli Akeley. L’immagine viola si scurì notevolmente. Scesero ancora, sotto la strada superiore e quella successiva, finché non furono a mezzo metro dal mucchio di mattoni del comignolo caduto. Dytie manovrò alcuni comandi. Lo schermo e le luci si spensero e di colpo Phil si ritrovò schiacciato sull’imbottitura dalla gravità normale.

— Abbassare gambe per atterraggio scialuppa — disse Dytie. — Buono adesso, Phil.

Vicino alla ragazza apparve una fessura di oscurità meno intensa, che si allargò fino a diventare un rettangolo, attraverso il quale, un attimo dopo, Phil riuscì a scorgere un pezzo del portico degli Akeley. Il rettangolo venne oscurato da Dytie che usciva. Phil la seguì, mettendo avanti i piedi e muovendoli fino a trovare la scaletta, poi scese cautamente fino al giardino sassoso degli Akeley. Guardò in alto. Per quanto poteva vedere, non c’era assolutamente niente sopra di lui, a parte le strade dei due livelli superiori e il “soffitto” nero e opaco sopra la casa. Non soltanto la luce “andava attorno” alla scialuppa, ma non veniva neanche minimamente distorta.

— Tutto a posto — lo rassicurò Dytie. — Nessuno cammina su pietre e inciampa in scala. È questo il posto, Phil?

La casa degli Akeley sembrava più che mai vecchia e in rovina, adesso che si era inclinata in avanti di quasi mezzo metro in conseguenza della caduta del camino. Nei due piani superiori si era aperta una fenditura e nulla era stato fatto per ripararla. Tuttavia dalle imposte del soggiorno filtrava un po’ di luce.

Avanzando cautamente con un occhio alla parete minacciosamente inclinata, Phil condusse Dytie al portico. Esitò un attimo di fronte alla vecchia porta, con lo sportellino per i gatti, poi prese il batacchio a forma di testa di gatto e diede due colpi. Dopo un attimo si udì il rumore di passi, lo spioncino si aprì. Questa volta Phil riconobbe immediatamente gli occhi grigi e acquosi di Sacheverell.

— Felice di vedervi, Phil. Chi c’è con voi?

— La signorina Dytie da Silva.

Sacheverell aprì la porta. — Entrate, entrate. Il fato dev’essere al lavoro. Anche suo fratello è qui.

18

Il salotto degli Akeley era nelle stesse condizioni di completo disordine in cui l’aveva visto l’ultima volta. Nessuno si era preoccupato molto di pulire, dopo la lotta. In più, anzi, c’erano un gran numero di piatti sporchi, di tazze e di bicchieri sparsi nei posti più strani. A giudicare dai resti di cibo e di bevande, erano stati consumati tre pasti dalla sera prima, senza contare gli spuntini.

Le tende di velluto nero all’estremità della stanza erano state tirate da parte, rivelando l’altare che Sacheverell aveva preparato per Lucky, in quella che circa un secolo prima era stata la sala da pranzo. Esso consisteva in un piccolo tavolo, o in una cassa, posta contro la parete di fondo e coperta con un drappo di velluto bruno rossiccio che scendeva in ampie pieghe fino al pavimento. Appesa al muro al di sopra dell’altare vi era l’ankh, la croce ansata degli antichi egizi con il braccio superiore fatto ad anello, simbolo della fecondità e della vita. Su dei piccoli tavoli, ai due lati si trovavano delle grandi candele spente e le statuette di molte divinità egizie: la regale Isis, Osiris armato di frusta, Anubis dalla testa di sciacallo, e Bast stesso, la dea-gatto.

Da ogni angolo spuntavano gatti, ma non erano più così tranquilli come quando Lucky era stato nella casa. Si aggiravano furtivamente, con le orecchie tirate all’indietro e la coda ritta; si tendevano imboscate da dietro e da sotto i mobili; si saltavano addosso l’un l’altro, ringhiando ogni volta che si incontravano. Quelli intenti a divorare i resti di cibo dai piatti alzavano ogni tanto la testa, soffiando minacciosamente. L’unico addormentato era empiamente raggomitolato sull’altare di Lucky.

Il tavolino con la stella a cinque punte era stato sistemato al centro della stanza, con sopra dei bicchieri e una bottiglia di brandy. Vicino ad esso sedeva Juno Jones. Indossava ancora il vestito stracciato, con la manica che le pendeva dal braccio muscoloso, ma si era calcata in testa di nuovo il cappellino a fiori. Sembrava di umore tetro e sulla difensiva.

Dall’altra parte del tavolo, chinati in avanti, sedevano Dion da Silva e Morton Opperly. Si alzarono entrambi quando Sacheverell introdusse trionfante Phil e Dytie nella stanza, dicendo: — Il nostro consiglio di guerra, o forse dovrei dire di combattiva pace, è al completo!

Opperly sorrise cortesemente. Lo scienziato sembrava del tutto a suo agio in quell’ambiente pazzo, meraviglioso e sudicio; forse una mente come la sua, avida di concretezza, apprezzava quell’atmosfera bohémienne.

Da parte sua Dion da Silva, non appena vide Dytie, posò sul tavolo il grosso bicchiere di whisky che stringeva, pronunciò due o tre parole in una lingua straniera, poi si riprese e disse: — Ciao, cara! Felice vedere. Ciao, ciao, ciao.

Nel frattempo Dytie era corsa fra le sue braccia, e lui la strinse in maniera che a Phil parve decisamente poco fraterna. Neanche lei, per la verità, si comportò molto da sorella. Finalmente lo respinse col fiato grosso. — Questo basta — disse. — Anche io felice vedere te, sciocco. Era ora.

Dion assunse un’aria offesa giusto il tempo necessario per riprendere il bicchiere di whisky. — Sai cosa fatto io? — chiese eccitato.

— Sì, tu ubriacato — disse lei, e sussurrò a Phil: — Sai Dion di cosa abbreviazione? Diònisio, dio del vino. Ben scelto, eh?

— No ubriacato — affermò Dion con una certa dignità. Poi la sua eccitazione ebbe il sopravvento, e sbottò: — Noi trovato micio!

Phil udì una risatina nota. Guardandosi attorno vide Mary Akeley che sedeva nella sua alcova, con i suoi scaffali pieni di bambole di cera, occupata a cucire vestitini sotto una grossa lente. La giovane moglie di Sacheverell dal naso di strega indossava questa volta un abito da sera che le lasciava quasi interamente scoperto il seno, e si era legata un grande fiocco verde fra i capelli.

— Quell’uomo mi strazia ogni volta che dice una parola — disse con voce rauca, senza interrompre il lavoro. — È così carino.

— Grazie, tesoro — replicò Dion facendole un cenno col bicchiere. — Io tutto carino. Pieno sorprese. Mostro te qualche volta.

Dytie soffocò una risata e sussurrò a Phil: — Ricordi io detto? Due gambe, ghiandole mammarie? — Phil annuì, anche se a suo avviso l’interesse di Dion per Mary non si avvicinava neppure lontanamente alla sua famelica adorazione per Dora Pannes. Il satiro (Phil si sentì scosso per come gli era venuta naturale quella parola) si stava tenendo solo in allenamento.

Sacheverell ignorò quello scambio di complimenti. La sua faccia abbronzata mostrava i segni di una eccitazione repressa. — Questa signorina è Dytie da Silva, la sorella di Dion — disse a Opperly e a Juno. Poi si rivolse a Phil. — Immagino vi stiate chiedendo perché il dottor Opperly e il señor da Silva sono qui. Li ho portati con me dalla Fondazione, perché entrambi sinceramente si interessano a Lui, e tutti insieme abbiamo delle buone probabilità di liberarLo dai suoi nemici.

— Cosa vuol dire lui? — chiese Dytie a Phil. — Vuol dire micio?

Phil annuì.

— Voglio dire il Gatto Verde — confermò Sacheverell, con una certa aria di rimprovero. — Voglio dire Bast reincarnata, la portatrice dell’amore e della concordia.

Dytie non gli prestò molta attenzione, e mormorò invece a Phil: — Lui detto Opperly? Opperly quell’uomo magro simpatico, faccia buona? Fammi conoscere, per favore.

Sacheverell, che si stava preparando a tenere un lungo discorso, lanciò a Phil un’occhiata un po’ addolorata quando questi presentò i due. Con grande sorpresa di Phil, il dottor Opperly baciò la mano di Dytie e poi la tenne fra le sue.

Non si comportava per niente come uno scienziato di ottant’anni passati. E Dytie, da parte sua, si dimostrò molto più carina verso di lui di quanto non lo fosse stata con Phil. Mentre i due si mormoravano l’un l’altra paroline dolci, anche se certamente molto intelligenti, Phil provò un impulso di gelosia, e gli venne voglia di dire ad Opperly: “Aspetta di vedere le sue gambe”. Ma in qualche modo sospettava che lo scienziato non sarebbe rimasto affatto sconvolto dalle gambe di Dytie, e da qualsiasi altra cosa di lei. Aveva notato un’espressione sorpresa sul viso di Opperly quando questi aveva preso la mano della ragazza, e in base alla propria esperienza poteva benissimo immaginare il perché: la sorpresa dello scienziato però non si era trasformata in repulsione, ma in un acuto interesse.

La voce di Opperly si fece d’improvviso acuta, chiara e romantica. — Ne sarei deliziato, signorina da Silva.

Dytie si rivolse agli altri con un sorriso soddisfatto. — Opperly e io dobbiamo molto discutere — annunciò. — Scusate, per favore. Dion, pensa tu affare micio.

Lei e Opperly se ne andarono sotto braccio attraverso la sala da pranzo, sorridendosi l’un l’altra e chiacchierando piacevolmente.

Sacheverell li guardò allontanarsi con espressione severa. — Non mi sembra che diano molto peso alla gravità della situazione, direi, perciò dovremo approntare da soli i piani per salvare il Gatto Verde. Signor Gish, cosa potete dirci di interessante?

In poche parole Phil raccontò come aveva trovato Lucky alla Divertimenti SpA, come l’aveva perso e poi ritrovato alla Fondazione Humberford, poco prima che se ne impadronisse Dora Pannes.

Non appena ebbe finito, intervenne Mary Akeley. Aveva finito di cucire gli abiti, ed ora li stava mettendo addosso ad una bambola piuttosto grossa, in cui Phil riconobbe l’immagine di Moe Brimstine, iniziata la sera prima. Con grande stupore Phil si accorse che Mary faceva indossare alla bambola perfino la biancheria intima e con delle pinzette infilava nelle tasche dei pantaloni degli oggetti quasi microscopici.

Disse: — Phil, avete per caso scoperto per quale ragione il nostro caro dottor Romadka ha rapito tre dei nostri gatti?

Phil spiegò rapidamente e col maggior tatto possibile quello che era capitato alle tre bestiole.

Mary prese da uno scaffale la bambola che rappresentava il dottor Romadka e la fissò col suo sguardo più crudele.

— Acido fatto colare lentamente sulla fronte — disse con una intensità che fece venire a Phil la pelle d’oca. — E spero che ci metta dei giorni prima di arrivarti negli occhi. Questo è il primo e il più lieve dei tuoi tormenti. — Poi prese la bambola che aveva appena finito di vestire e l’informò: — Questo vale anche per te. Quando l’acido ha raggiunto il primo occhio, passeremo alle altre parti del corpo. Per cominciare…

Un’improvvisa zuffa fra gatti impedì a Phil di scoprire fino a che punto di perversione giungesse l’immaginazione di Mary Akeley. Sacheverell separò i cinque contendenti con alcuni calci ben piazzati, anche se non dolorosi. Poi si aggiustò i pantaloni turchesi e guardando severamente la moglie disse: — Forse è opportuno dimenticare gli odi e tutte le altre oscure vibrazioni e pensare al da farsi. Ecco come stanno le cose, signor Gish. Questa mattina Juno ha sentito suo marito Jackie che diceva a Cookie dove sono nascosti Moe Brimstine e Billig…

— Solo Moe Brimstine — lo corresse Juno.

— Fa lo stesso — continuò Sacheverell. — Ora Jackie e Cookie stanno tranquillamente dormendo di sopra…

— Già — intervenne ancora Juno — ma non per molto.

— Dopo quello che hai messo nel loro whisky? — le chiese Sacheverell con un sorriso.

— Senti — gli disse Juno — quei due hanno bevuto tante di quelle cose nei loro whisky che tu non te le immagini neanche. Hanno la pelle dura, quei bastardi.

— Be’, anche se si svegliano sono sicuro che potrai tenerli a bada. Questa è la situazione, signor Gish, ma purtroppo la signora Jones non vuole dirci dove si trova il signor Brimstine. Aveva cominciato, poi non siamo più riusciti a cavarle una parola di bocca. L’abbiamo scongiurata, pregata, le abbiamo rivolto delle promesse. Io ho fatto del mio meglio per spiegarle quanto sia importante che il Gatto Verde venga servito e adorato come si deve, perché possa cambiare il mondo. Il señor da Silva ha cercato di adularla in ogni modo, il dottor Opperly le ha parlato con la più grande gentilezza. Ma lei si ostina a non dire niente.

— Di sicuro non dirò niente a dei balordi come voi — sbottò la lottatrice infuriata. — Se non aveste cominciato a farmi tante moine, avrei detto tutto subito. Ma io non sono mica il tipo a cui piace essere adulata o cose del genere…

— Scusate, prego — l’interruppe da Silva. — Io non adulare, davvero. Tu piaci molto a me, Juno Jones. Grande donna forte.

— E non mi piacciono i discorsi balordi — continuò Juno rivolta a Sacheverell, ignorando da Silva. — Tutte quelle stupidaggini che mi hai detto per farmi parlare mi hanno convinta ancora di più a star zitta. — Bevve un sorso e si rivolse a Phil, appoggiando i grossi gomiti sulle ginocchia, altrettanto grosse. — Ma con te è un’altra cosa. Hai delle idee un po’ strane in fatto di mangiare, ma a parte questo sei abbastanza umano. E devo ammettere che hai del fegato, perché ti ho visto metterti contro Brimstine, e da quanto ho sentito, l’hai dimostrato anche dopo. Ma la cosa più importante è che quel gatto è tuo, o almeno lo stavi cercando la prima volta che ti ho incontrato. E non mi pareva che tu allora avessi tante idee balorde su quel gatto, vero, Phil? O anche tu hai in mente qualcosa di mistico per lui?

— Io voglio solo trovarlo — disse Phil onestamente.

— Questo mi basta. È il tuo gatto, e tu hai diritto di sapere dove si trova, anche se rischi di farti ammazzare per trovarlo, e io finirò in un sacco di dannati guai per aver parlato. Vuoi che te lo dica in privato, Phil, o devo farlo sapere anche a questi svitati?

— Grazie, Juno — disse Phil quietamente. — Dillo pure a tutti.

Juno aprì la bocca… — Oh, mio Dio! — esclamò.

Phil si voltò. Jack e Cookie stavano arrivando in quel momento dall’ingresso.

— Bella moglie sei — disse Jack, avanzando verso di lei con le mani affondate nelle tasche. — Non posso lasciarti sola dieci minuti che subito cerchi di giocarmi qualche brutto tiro. — Con gli occhi cerchiati e la barba di un giorno sul mento, il piccolo lottatore dal maglione nero riusciva perfettamente a darsi un’aria offesa e derelitta. Ma Cookie, imitando automaticamente il suo eroe, aveva solo l’impressione di una ragazzina bionda sul punto di piangere.

— Mi hai spiato — affermò Jack.

— Hai tradito la sua fiducia — disse Cookie.

— Fiducia? — Juno diede un tale pugno sul tavolino intarsiato che lo fece sobbalzare e dovette affrettarsi a prendere il bicchiere e la bottiglia prima che cadessero. — Accidenti, proprio due maiali come voi mi vengono a parlare di fiducia!

— E poi non mi piace la compagnia che frequenti — continuò Jack. — Già era troppo quello scimunito — disse, degnando Phil appena di un’occhiata, prima di passare a da Silva. — Mi piacerebbe proprio sapere dove diavolo sei riuscita a scovare quest’imbecille untuoso che non sa neanche parlare inglese.

— Quella specie di gigolò — aggiunse Cookie, sprezzantemente.

Dion, che fino a quel momento aveva osservato la scena con distaccato interesse, appoggiò il bicchiere e puntò su Jack uno sguardo truce. — Non piacere te — affermò. — Vuoi calcio in faccia?

Phil ebbe un brivido, immaginandosi la scena.

— Sai con chi stai parlando? — chiese Cookie a Dion.

— Non fate confusione, ragazzi — disse Mary dalla sua alcova. — Almeno finché non ho finito. — Era intenta a dare gli ultimi tocchi al viso di Brimstine sotto la lente. — Poi mi piacerebbe vederti scalciare, Dion caro.

— Non preoccupatevi — disse Jack tristemente. — Non farei a pugni nemmeno se fossi obbligato. Sono troppo affranto per quello che mi ha fatto questa donna sventata e ignorante.

— Ignorante? — esplose Juno. — Dopo tutti questi anni di matrimonio? Hai tante di quelle idee sballate in testa tu che sei peggio di un’intera università. Be’, ormai mi sono laureata. E adesso sta’ zitto, perché devo dire a Phil dove può trovare Moe Brimstine e forse anche Billig e il gatto.

Jack si girò di scatto verso di lei. — Juno, non sai quello che stai dicendo. Non sai cosa potrebbe succedere. Vieni di sopra un minuto e ti spiegherò tutto.

— Vieni di sopra! — disse Juno, facendogli il verso. — Puoi provarci con le ragazze di campagna che cercano di entrare nel racket della lotta, non con me. Allora, sta’ a sentire, Phil…

— Juno! — gridò Jack. — Non volevo dirtelo di fronte a tutti, ma c’è un milione di dollari per noi due se Billig riesce a tirarsi fuori dai guai. E questo può farlo finché ha il gatto verde da scambiare col governo. Senti, Juno, Billig ha perso le sue guardie del corpo, il suo potere, tutto. Gli restiamo solo Brimstine, io e Cookie.

Juno lo fissò. Per un secondo o due vi fu silenzio. Poi Sacheverell tossicchiò delicatamente.

— Jack — disse senza fretta — io sono convinto che tu abbia un rispetto profondo per i valori spirituali. La tua aureola talvolta vacilla e si oscura, ma alla fine torna sempre a risplendere chiara e brillante. Ieri hai rinunciato ai diecimila dollari che Moe Brimstine ti offriva per il Gatto Verde, affinché noi potessimo adorarLo debitamente e aiutarLo a cambiare il mondo. Se eri disposto a farlo ieri…

— Lo so, lo so — lo interruppe Jack impaziente — ma questa volta sono un sacco di soldi.

Sacheverell rivolse gli occhi al soffitto, come se stesse invocando silenziosamente qualche dio a testimone della malvagità del mondo.

— Per un po’, tu e Mary mi avete incantato — continuò Jack. — Mi piaceva il vostro stile, e andavo in estasi per certe vostre idee. Ti ho dato retta sulla faccenda dei diecimila dollari, anche se a dir la verità avevo intenzione di rubarlo e di venderlo a Brimstine, dopo averti lasciato divertire un po’ con lui. Ma adesso tirati la tua aureola sopra le orecchie e ficcati bene questo nella zucca: qui sono in ballo un sacco di soldi.

Sacheverell disse: — Mary, ricordami di bruciare i maglioni neri domani mattina.

Dall’espressione di Juno, Phil capì che Jack finalmente aveva detto qualcosa che le aveva fatto piacere.

Ma ormai era troppo tardi. La soddisfazione svanì dal viso di Juno, e al suo posto rimase soltanto una dura determinazione. Disse:

— Fino a mezzo minuto fa quel milione era solo per te, Jack, o per te e Cookie. E c’è un’altra cosa: Billig non riuscirà a cavarsela, e anche se ce la fa, è il tipo capace di ammazzare quelli che l’hanno salvato. Ma ammesso che tu riesca ad avere il tuo milione di dollari, io non ne vorrei neanche un centesimo. Non credete che qualcuno mi abbia rammollita, neppure quel gatto verde. È solo che non accetterò mai qualcosa da te, Jack. Mai più. — E senza neppure una pausa, si rivolse a Phil e disse: — Billig si trova dietro il banco del Bug-Eyed Bar, al Parco dei Piaceri. Ti porterò al posto esatto.

In quell’istante, mentre tutti stavano guardando Juno, dalla sala da pranzo si udì una voce fredda: — E noi verremo con voi.

Phil volse la testa assieme agli altri. In piedi di fronte all’altare di Lucky, con espressione sprezzantemente divertita, c’era Carstairs. Alla sua sinistra, con gli occhi brillanti nel viso nero e impassibile, stava Llewellyn. Alla destra di Carstairs, appoggiato alla parete con aria indolente, ma con lo sguardo vigile, c’era Buck. I tre banditi avevano un’aria minacciosa quanto le pistole che stringevano con tranquilla sicurezza. Vicino a Buck era in piedi Mitzie Romadka.

Carstairs disse: — Abbiamo scoperto anche noi alcune cosette su questo gatto verde. — Parlava a voce molto bassa, ma le sue parole erano chiaramente distinguibili perché nella stanza non si sentiva volare una mosca. — Siamo giunti alla conclusione che sarebbe molto più piacevole se fossimo noi a vendere il gatto allo Zio Sam. E voi ci aiuterete a prenderlo. A proposito, pagliaccio — disse rivolgendosi a Phil — è stata la tua amichetta a portarci qui. Non è vero, Mitz?

Mitzie non disse niente. Era pallida come un lenzuolo e teneva le labbra strette. Aveva un’aria troppo affranta per una che stesse godendo della sua vendetta, pensò Phil.

— Sì — continuò Carstairs. — È venuta da noi piagnucolando poco fa, chiedendoci di rapirti, o qualche altra scemenza del genere. Capisci, pagliaccio, la tua ragazza è così stupida da credere che l’avremmo perdonata e perfino aiutata, dopo che l’avevamo buttata fuori dalla banda e lei ci aveva consegnato a Billig. Le illusioni della gioventù sono dure a morire. Con un po’ di persuasione, ci ha detto tutto quello che sapeva sul gatto verde, più qualche indirizzo. Incluso questo.

Phil si accorse che Mitzie lo stava guardando con espressione sconvolta, cercando di parlare, ma non riusciva ad aprir bocca. Si rese conto che le labbra dovevano esserle state incollate con qualche materiale trasparente e antiriflesso. Buck le torse un braccio, osservandole attentamente il viso.

— Non ci resta molto da dire — concluse Carstairs. — Tu, tu e tu — indicò con la canna della pistola Jack, Cookie e Sacheverell — resterete qui col mio amico Llewellyn. Anche la cara Mitz resterà qui, caso mai ti vengano delle strane idee, pagliaccio. Voialtri verrete con me e Buck in questo avventuroso viaggio al Parco dei Piaceri. Da quanto ci ha detto Mitz, potreste servirci per catturare il gatto. La macchina è qui di fronte.

Juno si alzò, stringendosi cupamente nelle spalle. Dion, una volta tanto, pareva molto tranquillo. Phil si chiese se anche Opperly e Dytie erano stati sorpresi dai banditi.

Mary Akeley prese le statuette del dottor Romadka e di Moe Brimstine, le mise in una grossa borsa, tirò a sé un bolero e annunciò con calma: — Bene, io sono pronta.

19

TUTTI I PIACERI DEL TERZO MILLENNIO!

TRECENTO METRI DI CADUTA LIBERA!

BACI E ABBRACCI A VOLONTÀ

Stringete tra le braccia

la stella preferita

Meglio della sensoradio.

OGNI MENTE SGOMBRA IN DIECI MINUTI!

Rivivete l’infanzia!

Tornate in piena forma!

MISURATEVI CON UN BEM!

AMMAZZATE UN MARZIANO!

BERSAGLIO VIVENTE: UNA BELLA RAGAZZA!

TATUAGGI FLUORESCENTI

Ecco alcune delle insegne, sfavillanti e urlanti, che accolsero Phil che entrava nel Parco dei Piaceri, camminando sul terreno di gomma elastica, cosparso di bottiglie di plastica.

La chiusura della Divertimenti SpA da parte del governo aveva prodotto pochi cambiamenti nel Parco, almeno da quel che poteva giudicare Phil facendo un confronto con la sua ultima visita. I sexy juke box burlesque erano stati chiusi con lucchetti, e le figure di gomma che si contorcevano orgiasticamente per un quarto di dollaro erano nascoste alla vista. I vestiti delle ragazze ai baracconi erano forse più alti di qualche centimetro sul petto. Non c’erano tracce, apparentemente, degli individui dallo sguardo sfuggente che reclutavano volontari per incontrare robot giocatori, o per qualche altro divertimento illegale. Di fronte a un tendone, qualcuno stava cancellando con vernice l’insegna che diceva: VENITE A VEDERE LA DONNA CON QUATTRO GHIANDOLE MAMMARIE. Phil notò che Dion osservava l’avviso con uno sguardo bramoso.

Eppure si notava un senso di disagio nel parco, e non soltanto a causa della scarsa folla. I banditori gridavano troppo e smettevano troppo presto. I clienti esitavano di fronte ai baracconi, poi se ne andavano con aria scontenta. Al tiro a segno, le ragazze non più giovani, pronte a schivare pietre di gomma o a farsi strappare gli indumenti a ogni centro, incitavano i possibili clienti con voci isteriche. Le grida che giungevano debolmente dalla torre della caduta libera non erano i soliti strilli terrorizzati ma felici, sembravano piuttosto dei lamenti.

Forse la chiusura della Divertimenti SpA aveva indotto gli interessati in cerca di emozioni, o del denaro che se ne può ricavare, a chiedersi: “Cosa succederà adesso?”. Forse i discorsi sconnessi e apocalittici del Presidente Barnes avevano finalmente avuto effetto, costringendo molti a domandarsi quale fosse il frutto dei cosiddetti piaceri della vita, specialmente di quelli più reclamizzati. Forse le direttive del governo sulla distruzione dei gatti diffuse in quel momento da tutti gli altoparlanti pubblici avevano fatto sì che la gente si sentisse più sicura a casa.

O forse il disagio del Parco era solo parte di una sensazione più generale che attanagliava l’America, prima inconsciamente e ora anche consapevolmente: la sensazione che c’era qualcosa di invisibile in agguato dietro ad ognuno, qualcosa di benigno o di maligno, che neppure il governo poteva individuare.

Per Phil, naturalmente, la minaccia era costituita da due figure ben concrete: Carstairs e Buck, che in quel momento conducevano i loro malcapitati assistenti attraverso la pupilla di uno dei molti occhi surrealistici cher servivano da entrate al Bug-Eyed Bar.

Quella sera l’appariscente taverna era ancora più vuota del Parco. Il suo famoso Highball Dieci-G e il Cocktail Paralizzatore non erano molto richiesti. Le sue entraîneuses notoriamente assetate brillavano per la loro assenza. Gli unici due clienti stavano bevendo gassose servite dal più piccolo dei due camerieri. Non fu difficile pertanto a Juno, a Phil, a Mary e a Dion trovar posto sugli sgabelli pneumatici di fronte all’altro cameriere. Carstairs e Buck si fermarono alle loro spalle.

Phil trovava difficile credere che l’uomo di fronte a loro fosse Moe Brimstine. Tanto per cominciare aveva i capelli rossi, come pure rossi erano i peli che gli spuntavano sul mento e sulle guance. Inoltre gli occhi che prima erano sempre nascosti dietro gli occhiali neri, apparivano ora piccoli e strabici come quelli di un maiale. Ma benché Moe dovesse riconoscere parecchi di loro, non lo dette a parere. Si limitò a guardarli mentre sfregava il piano immacolato del bar con il classico straccio umido. Anche il resto del locale, anzi, aveva lo stesso aspetto che avrebbe potuto avere cinquanta o cent’anni prima: i robot non potevano sorvegliare le ragazze e neppure erano mai stati legalizzati come buttafuori.

— Desiderate? — chiese il grosso cameriere dai capelli rossi.

Phil sentì la pistola di Carstairs che gli affondava fra le costole. Si inumidì le labbra.

— Signor Brimstine, vorrei il mio gatto verde — disse con voce gracchiante.

Moe Brimstine sollevò le sopracciglia. — Quello con crema di menta, chartreuse, o fuoco verde?

— Voglio dire il mio gatto, quello vivo — disse Phil.

— Non serviamo da bere agli ubriachi — rispose Brimstine senza scomporsi. — Il vostro amico ne ha bevuto uno di troppo — continuò rivolto agli altri. — E voi, signore e signori, cosa desiderate?

Mary Akeley aprì la borsa e posò la statuetta di Moe Brimstine sul bancone. L’osservò pensierosa per un momento, poi le tolse meticolosamente gli occhiali neri. La statuetta aveva gli occhi di un maialino. Mary sorrise. Rimise a posto gli occhiali ed estrasse dalla borsa uno spillone, un paio di forbici, un coltellino, un paio di pinzette, un minuscolo fornellino, un ferro con l’impugnatura isolata, una bottiglietta nera con delle incrostazioni bianche, e sistemò il tutto ordinatamente davanti a sé.

— Questa non è la toilette, signora — disse Brimstine. — Ordinate da bere.

Phil non poté fare a meno di restare impressionato dall’autocontrollo dell’uomo. Poi, improvvisamente, sentì un brivido di terrore che non aveva niente a che fare con le pistole puntate alle sue spalle, e che difficilmente poteva essere suscitato dal puerile armamentario di magia nera messo in campo da Mary Akeley.

Si accorse che il brivido aveva colpito anche Moe Brimstine, perché l’omone lasciò cadere lo straccio e si appoggiò allo scaffale pieno di bottiglie alle sue spalle.

Mary Akeley disse: — Signor Brimstine, voi avete rubato il Gatto Verde, che mio marito adora come Bast. Voi soffrirete finché non l’avrete restituito. — La sua voce, dapprima tremante, si fece fredda, crudele e monotona. — Mi spiace di non aver potuto portare il mio piccolo tavolo di tortura, ma questi attrezzi saranno sufficienti. — Accese il fornello e mise il ferro sulla fiamma.

Phil sentì Juno trattenere il respiro e Carstairs emettere un buffo grugnito. L’estremità del ferro divenne rossa. Mary Akeley rovesciò la bambolina sullo stomaco e la sfiorò col ferro, facendole fumare i pantaloni.

Moe Brimstine emise un rantolo e allungò le mani dietro di sé. Poi tremando cercò di afferrare la bambolina, ma Mary Akeley le strinse la mano intorno alle braccia. Immediatamente le braccia di Brimstine si tesero ai suoi fianchi restando immobilizzate. Poi lei spostò la bambola di qualche centimetro, allontanandola da sé. E Brimstine indietreggiò verso lo scaffale. Il sudore gli colava dalla fronte. A un tratto Mary Akeley colpì la bambolina sulla guancia col ferro rovente. Moe Brimstine emise un altro rantolo di dolore e ritrasse di scatto la testa.

— Continuerò finché non ci ridarete il Gatto Verde — disse la giovane strega, imperturbabile. Phil vide che sulla guancia scura di Moe Brimstine era apparsa una striatura rossa.

— Solo che presto diventerà molto peggio — continuò Mary, prendendo la bottiglietta. Moe Brimstine fece per dire qualcosa, ma lei appoggiò il pollice sulla bocca della bambolina.

— Fra un po’ sarò più disposta a credere alle cose che mi direte — spiegò. La faccia di Brimstine diventò rossa, mentre gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite.

Poi un’ombra apparve sul bancone. Phil si girò ritraendosi istintivamente, e vide che l’ombra era verde, vellutata e che aveva un viso saggio e amabile. In una frazione di secondo tutto gli fu chiaro. Era stato Lucky a infondere in loro quel terrore senza nome, proprio com’era successo alla Fondazione Humberford; era stato Lucky ad aprire la mente di Moe Brimstine a quella di Mary, suggestionandolo a tal punto da fargli provare su di sé tutto quello che veniva fatto alla bambola.

Poi si rese conto che a Brimstine non sarebbe accaduto nient’altro di spiacevole, e che nessuno avrebbe causato alcun guaio, neppure Carstairs e Buck. All’improvviso la sensazione di terrore era svanita, sostituita da una di amicizia e di invincibile benevolenza, che sgorgavano da Lucky come il whisky da una bottiglia. Phil si accorse che la nuova sensazione penetrava anche nelle menti degli altri. Si udirono dei sospiri e delle risatine. Le dita magre di Mary lasciarono la bottiglia incrostata di bianco, poi riposero rapidamente tutti gli strumenti nella borsa.

Lucky si fermò di fronte a Phil e si stirò, pigramente e voluttuosamente, tendendo i muscoli del collo e della schiena. Moe Brimstine sorrise al gatto verde, e le rughe che gli si formarono attorno agli occhi sembravano quelle di Babbo Natale. — Permettete? — chiese a Phil, e allungò una mano per accarezzare il pelo vellutato.

— Sei proprio arrivato al momento giusto per salvare zio Moe — disse a Lucky, grattandolo dietro le orecchie. — Mi spiace tanto per tutto quello che ti ho fatto. Non capisco neanch’io come sia successo, e sono davvero contento che tu ti sia svegliato, anche se non capisco come hai fatto.

Poi si raddrizzò e disse con voce tonante: — Cosa prendete, amici? Offre la casa! — E infatti la bottiglia fece parecchi giri, fra l’allegria generale. Anche Lucky ebbe il suo cocktail, composto di latte, bianco d’uovo, zucchero in polvere e gin. Dietro suggerimento di Phil, Moe glielo mise dietro il bancone, in modo che Lucky lo potesse leccare in pace.

Buck, con una risata infantile, porse a Brimstine le due pistole, dalla parte del calcio.

— Queste credo che sia meglio metterle via — spiegò col suo modo spiccio. Moe le prese, ne provò una sparando a un lampadario, poi le mise in un cassetto. Anche Carstairs consegnò le sue pistole, con l’ingiunzione di venderle per procurare da bere quando il bar si fosse esaurito.

Juno, con in mano un bicchiere traboccante di whisky, si chinò attraverso il tavolo per dire a Mary: — D’ora in poi crederò a ogni parola che mi diranno gli svitati, specialmente tu e Sash.

— E io ti dirò sempre quando stiamo mentendo — le rispose Mary, con voce non molto ferma, dal momento che Dion la stava sbaciucchiando.

Man mano che nuovi clienti, singoli o in coppie, entravano nel bar, Brimstine li chiamava perché si unissero alla compagnia. E non appena lo facevano, diventavano allegri e amichevoli come gli altri. Dopo un po’ si era formata una piccola folla, e Moe non faceva altro che versare, agitare, servire. Dopo un po’ non si preoccupò più neppure di agitare.

Mary si liberò di Dion e prese la bambola di Brimstine, abbracciandola e baciandola. — Tesoro mio — disse. Moe interruppe per un attimo il suo lavoro di barista e chiuse gli occhi con un brivido di piacere.

Poi Lucky uscì da sotto il tavolo e vi saltò sopra. Camminò su e giù con un’andatura maestosa, ma decisamente malsicura. Dopo un po’ balzò a terra e la folla si scostò per lasciarlo passare. La verde creatura, completamente ubriaca, si avviò zigzagando con dignità verso l’uscita.

Moe si issò sul bancone del bar rovesciando parecchi bicchieri e gridò: — Venite tutti, divertiamoci. Tutto è gratis nel Parco!

E così un corteo bacchico cominciò a snodarsi attraverso il Parco dei Piaceri, con Moe nella parte di Bacco, Lucky in quella di un leopardo (“Se solo sapessero di Dion”, pensò Phil.).

Ben presto vi fu anche una schiera di ninfe, perché Moe incitava le ragazze a lasciare i loro baracconi, dopo che tutti quelli che lo volevano avevano provato a giocare, e Moe aveva spiegato loro che erano truccati, e tutti i premi erano stati distribuiti, o almeno offerti.

Una volta o due i proprietari dei baracconi avevano protestato indignati al grido di Moe: — È tutto gratis, gente! — Ma le loro proteste si erano spente all’arrivo di Lucky.

La processione s’ingrossava sempre più. Di tanto in tanto qualche gruppetto si staccava per andarsene in giro da solo, ma questo accadeva più raramente di quanto ci si potesse aspettare, e di solito ritornavano tutti dopo breve tempo.

Moe sembrava divertirsi strordinariamente. Scorrazzava come un agnellino sulla pavimentazione di gomma. Era pronto a scherzare con tutti, e non gli mancava mai la battuta. Raggiunse forse il suo apice quando liberò una tigre e due pantere nere dallo zoo. Senza intimorire nessuno, i tre animali si aggirarono fra la gente, accettando carezze da tutti, ma ricavando apparentemente il piacere maggiore dallo strofinarsi contro Lucky.

Phil si stava divertendo un mondo, specialmente da quando aveva fatto la conoscenza di una rossa dello spettacolo I vizi di Venere. Ma di tanto in tanto il pensiero di pericoli in agguato e di doveri trascurati si affacciava alla sua mente. In una di queste occasioni Juno gli gettò le braccia al collo, staccandogli quasi la testa. — Hai delle preoccupazioni, Phil? Dille a Mamma Juno, che ci pensa lei. Ragazzo mio, come mi piace quella scimmietta verde! Possiede proprio l’elisir della felicità! Ehi, guarda là!

Stava indicando Carstairs e Buck, che avevano scoperto un padiglione dall’allettante insegna rossa fosforescente UNA BOTTA ALLA BIONDA: VI CADRÀ FRA LE BRACCIA e stavano disputandosi il possesso di un enorme martello che apparentemente aveva qualcosa a che fare con la bionda. Dopo essersi scervellato un po’, Phil riuscì a capire come funzionava il gioco: si trattava della solita prova di forza, che consisteva nel colpire col martello un bersaglio posto a terra, il quale a sua volta faceva salire una freccia su un palo. Ma al gioco era stata fatta un’aggiunta, tipica del ventunesimo secolo: se la freccia raggiungeva la cima del palo, non soltanto faceva suonare una campana e accendere delle luci, ma metteva in moto anche una grossa gamba, dotata di una scarpa imbottita, che dava un sonoro calcione a una bella ragazza, posta su un trespolo al di sopra del vincitore, e la faceva cadere fra le sue braccia, se lui era pronto a riceverla.

Su quest’ultima parte del programma non c’era troppo da contarci, dal momento che la “bella ragazza” era più sui cinquant’anni che sui quaranta. In quel momento stava guardando con aria torva Carstairs e Buck, che parevano più interessati al martellone che a lei. Non era ancora sotto l’influenza di Lucky, perché il gatto verde si era temporaneamente spostato, in compagnia delle pantere, verso la coda della processione.

I due banditi si misero finalmente d’accordo e vibrarono parecchi colpi sul bersaglio. La freccia salì molto in alto, ma si fermò sempre esitando a un capello dalla cima. Gli spettatori accolsero il risultato con grida di disapprovazione. Ormai il grosso del corteo bacchico si era radunato attorno al baraccone, piazzato strategicamente fra due bar e di fronte allo stand che prometteva castamente, con un’abbagliante insegna fluorescente, la PULIZIA MENTALE. A fianco di questo si apriva una lugubre caverna chiamata PALAZZO DI PLUTONE, che portava come insegna un’approssimativa riproduzione del Sistema Solare, con i pianeti che ruotavano in orbite pazze.

Moe Brimstine si stava ristorando con un boccale di birra che una delle sue ninfe gli aveva portato da un bar. Due forme nere, flessuose, apparvero tra la folla inseguendo una scattante sagoma verde. Era Lucky che tornava a prendere la guida del corteo, seguito dagli altri felini.

In quel momento, mentre Carstairs stava per gettar via il martello con un’amabile smorfia di sconfitta, arrivò di corsa Dion da Silva. Si strappò di dosso giacca e camicia, rivelando un petto e una schiena estremamente villosi.

— Quel Dion è davvero un tipo mascolino — mormorò Mary a Phil con ammirazione, osservando il suo eroe. — Con quelle orecchie a punta sembra proprio un satiro.

Dion tese i muscoli potenti, prese il martello e lo abbatté con tale forza che fece tremare i denti agli spettatori. La campana suonò, le luci si accesero e il grosso piede cominciò la sua discesa.

Nello stesso istante Dora Pannes, uscendo dal Palazzo di Plutone, sbucò dalla folla. Passò di fianco a Dion, senza degnare di uno sguardo né lui né alcun altro, diretta verso Lucky con la determinazione di una sonnambula.

Senza curarsi della bionda che gli era stata catapultata fra le braccia, Dion balzò addosso a Dora Pannes, se la strinse al petto e cominciò a coprirla di baci. Phil, cavalierescamente, si fece avanti e afferrò la “bella ragazza” al volo. Le ginocchia si piegarono. Lei, entrata ormai nella sfera d’influenza di Lucky, gli offrì invitante le labbra, ma Phil la posò subito a terra, atterrito da un nuovo evento.

Con un improvviso ululato d’ira, Dion aveva allontanato da sé Dora Pannes facendola cadere. Prima che qualcuno potesse fermarlo, prese il martello e diede una violenta mazzata sulla testa della stupenda biondo-viola.

— Io innamorato di cosa come questa! — gridò. — Aah! — e continuò a menare martellate sulle deliziose forme della ragazza, facendola rimbalzare sul selciato di gomma.

Phil era doppiamente stupito per il fatto che tutto questo stava accadendo alla presenza di Lucky. Anzi, il gatto verde, seduto calmo di fronte a Phil, sembrava guardare la scena con approvazione.

Dora Pannes cominciò a contorcersi lascivamente sotto i colpi, cantando Prendimi a schiaffi, amore, con una gioia raccapricciante nella voce. Poi la testa, sotto i ripetuti colpi, si spaccò. Ma invece del cervello ne uscirono frammenti di vetro, plastica e metallo, con tanti fili elettrici attaccati. La voce si impennò in un ultimo gracidìo privo di senso, e il corpo rimase immobile.

Una serie di cose si chiarirono nella mente di Phil. Dora Pannes non era un essere umano, ma il più avanzato manichino creato dalla Divertimenti SpA. Perfino il suo nome era preso dalla mitologia greca: non era che un anagramma di Pandora, la fanciulla di metallo costruita per ordine di Zeus, se ben ricordava la spiegazione del dottor Romadka.

Mentre Dion abbassava finalmente il martello, una ragazza uscì dalla folla e afferrò il braccio di Phil. Era Mitzie Romadka, ansimante e sconvolta. Alle sue spalle apparve Sacheverell Akeley.

— Jack e Cookie sono riusciti a sopraffare Llewellyn — disse — e hanno cercato di fare lo stesso con noi, ma siamo scappati. Sono andati ad avvertire Billig.

Con una rapida occhiata Phil si rese conto che l’avevano già fatto. In piedi di fronte al lugubre ingresso del Palazzo di Plutone c’era il signor Billig, affiancato da una mezza dozzina di lucenti robot venditori. Solo che dalle loro torrette spuntavano le canne di fucili. Billig portava a tracolla una cassetta.

— Se qualcuno si azzarda a fare qualche scherzo, do ordine di sparare — disse, tenendo la mano appoggiata alla cassetta. — Dora, paralizza quel gatto e portalo qui.

La folla si fece da parte, mostrando a Billig i resti di Dora Pannes e Lucky tranquillamente accovacciato vicino. Phil vide un’espressione di orrore dipingersi sul viso di Billig, mentre l’ondata di pace che emanava da Lucky lo raggiungeva. L’uomo alzò l’ortho e sparò.

Il raggio blu sollevò schizzi di gomma liquefatta a tre o quattro metri da Lucky, poi si spense senza fare altri danni. Ma mentre il raggio svaniva, Phil si accorse che la sua propaggine posteriore aveva trovato un bersaglio. Billig cadde in avanti con un grosso foro in testa.

Poi, come se la sua caduta fosse stata un segnale, un piccolo uomo grassoccio apparve dalla tenda della Pulizia mentale. Anche se indossava una specie di maschera a gas Phil riconobbe il dottor Romadka. L’uomo puntò un paralizzatore e Lucky cadde a terra, restando immobile. La bizzarra pace notturna si trasformo di colpo in un terrore scatenato, che per Phil assunse la forma di una vibrazione quasi palpabile, di un lamentoso ruggito.

Romadka scattò verso Lucky. Vicino a Phil, Mary Akeley prese qualcosa dalla borsa e l’agitò in aria. — Anton! — gridò minacciosamente; e quando lo psichiatra guardò dalla sua parte, gettò con forza la bambolina sul piede, staccandole la testa.

Per un attimo Phil credette che lei fosse davvero una strega, perché Romadka cadde a faccia in giù.

Poi si accorse che il ruggito lamentoso era quello di una dozzina di auto della polizia che stavano convergendo sulla folla, frenando con retrorazzi così vicino che vi furono parecchie grida di dolore e gambe bruciacchiate. Dalle macchine sbucarono uomini in uniforme e in borghese, che a forza di urla e di manganellate riportarono una parvenza di ordine tra la folla. L’uomo sceso dalla prima macchina abbassò il paralizzatore con cui aveva abbattuto Romadka. Era Dave Greeley.

Per un attimo Phil si chiese se per caso Billig non aveva fatto un patto col governo, indicando quel luogo per l’incontro. Poi alle spalle dell’agente dell’FBL apparve Morton Opperly, guardandosi intorno con grande interesse. Phil decise che in un mondo come quello non ci si poteva fidare neppure dei vecchi scienziati dall’aspetto nobile che facevano finta di essere grandi liberali, e raccontavano segreti di stato per guadagnarsi la fiducia della gente.

Allungò i polsi alle manette.

20

Nella mezz’ora che era trascorsa da quando le grosse mani di gomma del telemanipolatore l’avevano estratto dal suo cubicolo nel cellulare, Phil era stato sottoposto a un numero tale di controlli che ormai soltanto due posti in America potevano essere la sua destinazione: l’Eptagono o la Casa Bianca junior, a New Washington.

Trasportato da telemanipolatori apparentemente indifferenti all’alto e al basso dei comuni mortali, era stato punzecchiato, tastato, perquisito, esaminato e fatto oggetto di altre ignominie. Gli erano state prese le impronte dei piedi e quelle della retina, erano state controllate le sue caratteristiche fisiche e le sue dimensioni, presumibilmente per confrontarle con quelle contenute negli schedari dell’FBL; lo stesso era stato fatto con le impronte vocali e con la scrittura. Gli avevano esaminato il fiato e il sangue per verificare la presenza di germi e virus. Il suo tasso di radioattività era stato accuratamente misurato. Gli occhi erano stati bombardati con lampi di luci, mentre veniva sottoposto a un fuoco di fila di domande. Un paio di volte gli sembrò che l’avessero fatto addormentare. Era stato passato ai raggi X e controllato con un rivelatore magnetico per scovare bombe innestate chirurgicamente nel corpo. Durante tutte queste operazioni, aveva provato un’indignazione futile quanto avvilente.

Ma ora, mentre un’ultima mano di gomma che scorreva in una fenditura della parete lo spingeva lungo un corridoio depositandolo infine all’entrata di una grande sala, si rese conto improvvisamente che non gli importava più. Anzi, si sentiva perfettamente calmo.

Un inserviente umano lo condusse a una sedia. Si guardò intorno. Erano presenti quasi tutte le persone con cui aveva avuto a che fare negli ultimi giorni: Jack e Juno Jones, con un’aria piuttosto terrorizzata, insieme a Cookie; Moe Brimstine con i suoi assurdi capelli rossi; Mitzie Romadka con il padre pallido e confuso; Sacheverell e Mary Akeley; il dottor Garnett e il Rettore Frobister della Fondazione Humberford; Dion e Dytie da Silva, quest’ultima avvolta in un mantello; c’erano perfino Carstairs, Llewellyn e Buck. Oltre a questi, Phil scorse una quantità di visi nuovi: agenti dell’FBL, probabilmente. Altri individui, forse guardie, erano allineati lungo le pareti.

Quasi tutti stavano guardando tre uomini seduti come giudici dietro una grande scrivania: il dottor Morton Opperly, il Presidente Robert T. Barnes, e un uomo dal viso impassibile in cui Phil riconobbe il capo dell’FBL, John Emmett.

Emmett era magro come Opperly, ma molto più duro. Come quelli di Opperly, i suoi occhi dimostravano un’acuta e incessante curiosità, ma un genere di curiosità mai disinteressata, come se per lui ogni nuovo fatto rappresentasse una nuova responsabilità.

In quel momento Emmett stava parlando con Dave Greeley, il quale sorvegliava due tecnici in camice bianco impegnati a telemanipolare Lucky, floscio come uno straccio, dentro una bassa scatola circondata da valvole e transistor. Apparentemente Greeley aveva manifestato qualche dubbio circa il grado di sicurezza dell’apparecchiatura ed Emmett lo stava rassicurando: il reparto ricerche garantiva che nell’interno del campo paralizzante a bassa intensità in cui era stato posto Lucky, il gatto era inoffensivo.

Phil poté udire soltanto la fine della conversazione, mentre veniva fatto sedere fra Sacheverell e il dottor Garnett. Poi nella stanza si fece silenzio. Emmett li scrutò uno per uno.

Finalmente disse: — Penso che sappiate perché siete qui. Desidero la massima cooperazione da parte di tutti. Fra queste mura siamo completamente al sicuro, ed è possibile la più perfetta franchezza. Io stesso sarò franco come mi aspetto da voi.

Fece una pausa, poi si sporse leggermente in avanti. — Tanto per cominciare, la creatura conosciuta come il gatto verde è reale. Così pure è reale il suo potere di influenzare i pensieri e le emozioni. Esso intende veramente conquistare l’America e il mondo intero. Infine, non è né un mutante né una creatura artificiale, ma un invasore proveniente da un altro sistema planetario. Dottor Opperly, volete cortesemente esporre ai presenti le informazioni che avete ottenuto dall’essere che si maschera sotto il nome di Afrodite da Silva?

La voce del dottor Opperly era debole ma molto chiara.

— L’ottavo pianeta di Vega… ammesso che io e la signorina da Silva abbiamo identificato esattamente la stella… ha caratteristiche simili a quelle terrestri, anche se possiede una massa leggermente superiore. Il suo aspetto, a quanto mi ha detto la signorina, è quello di un’infinita distesa di pianure aride, cosparse di piccoli laghi, acquitrini, macchie di alberi ad alto fusto. Su questo pianeta l’intelligenza si sviluppò in un bipede veloce, dotato di zoccoli, che si nutriva di foglie… Le sue zampe anteriori si trasformarono in organi per afferrare i rami e per arrampicarsi sugli alberi. Questa specializzazione ebbe luogo quando la creatura era allo stato primitivo di equino, cosicché, mentre le gambe posteriori svilupparono zoccoli simili a quelli di un cavallo, quelle anteriori divennero sorprendentemente simili a mani umane. Il risultato è un essere notevolmente simile ai satiri e ai fauni della mitologia greca. Signorina da Silva, vi piacerebbe darne un’idea a questi signori?

Dytie si alzò, si tolse il mantello, e rimase di fronte a loro in tutta la sua villosa nudità. Per un attimo non vi fu alcuna reazione, poi lei batté due volte gli zoccoli a terra e la sua figura divenne reale. Si riavvolse nel mantello e si sedette.

— La signorina da Silva mi dice che i vestiti non si usano su Vega Otto — osservò Opperly. — I suoi abitanti sono molto più avanti di noi tecnologicamente: possiedono campi di forza in grado di deviare la gravità e astronavi atomiche che raggiungono velocità prossime a quelle della luce. Ma la caratteristica più importante di questa razza di satiri è che vivono in simbiosi con creature che non si sono mai evolute sulla Terra e che presentano costumi per noi assolutamente straordinari. Per il momento non dirò niente di questi compagni simbiotici, eccetto che non hanno alcuna tecnologia, non sono originari di Vega Otto, non sono molto intelligenti e sono i responsabili dell’invasione vegana della Terra.

Opperly ignorò il mormorio che accolse queste paradossali affermazioni. — Sotto la spinta dei loro compagni simbiotici — continuò — i satiri… se posso usare questo termine… mandarono un’astronave verso la Terra. Mi è sembrato di capire che i ventisei anni luce di distanza sono stati percorsi in circa trentacinque anni, anche se naturalmente il tempo relativo all’astronave è stato molto inferiore. Arrivati vicino alla Terra, misero in orbita l’astronave rendendola invisibile. Quindi restarono lassù per due anni, scendendo soltanto per alcune caute missioni esplorative su una scialuppa antigravitazionale. Ascoltando le nostre trasmissioni radio e tv hanno imparato un po’ delle nostre lingue e dei nostri costumi. I satiri, accortisi anche che sarebbe stato possibile camuffarsi da terrestri, lo hanno fatto con piacere, poiché sapevano che al momento dell’invasione sarebbe stato opportuno tenersi in stretto contatto con i propri compagni simbiotici, piuttosto scarsi di giudizio. E ora — continuò Opperly lentamente — dovrei descrivere questo compagno simbiotico, ma non sono troppo sicuro di saperlo fare bene. Signorina da Silva, non vorreste… — Dytie scosse la stessa energicamente. Opperly chiuse gli occhi un momento, poi riprese. — Voi tutti sapete come la presenza di un animale domestico o di un bambino possa talvolta portare l’armonia in una casa. Bene, immaginate ora un animale che a un certo punto della sua evoluzione abbia cominciato a specializzarsi in questa funzione di portatore di armonia. Pensate a come il gatto ha trovato un posto nella nostra cultura, soprattutto in virtù della sua grazia, e immaginate quando sarebbe più importante se non ci offrisse soltanto la bellezza, ma anche pace e armonia. Immaginate che questa creatura abbia gradualmente sviluppato la facoltà di creare e di emettere ormoni in grado di calmare l’ira e di suscitare la benevolenza nelle altre creature, qualcosa di simile ai fiori che col profumo attirano le api. E immaginate che, per autodifesa, possa inoltre emettere ormoni che incutono terrore. Supponete poi che abbia acquisito percezioni extrasensoriali e sensibilità alle onde mentali, aprendosi in tal modo un nuovo campo di possibilità per creare armonia e portare pace. Immaginate che si sia trasformato in una specie di catalizzatore extrasensoriale, funzionando come una stazione ripetitrice, che amplifica e irradia onde mentali, oppure riceve, riproduce e proietta nuvole di molecole mnemoniche. Immaginate che sia sopravvissuto e si sia moltiplicato, essendo ricercato per le sue doti di portatore di pace e di comprensione, come il gatto è ricercato per la sua bellezza e viene ripagato in cibo, amore e protezione.

“Una simile creatura non potrebbe sviluppare un’intelligenza superiore, in quanto la sua sopravvivenza dipenderà sempre dalle cure degli altri. Però avrà l’alta capacità di comprendere e manipolare le emozioni e i sentimenti di altri animali. Sarebbe insomma abilissimo nel…”

Esitò. — … recitare a soggetto — suggerì Dytie.

— Grazie — disse Opperly. — Sarebbe sempre un trasmettitore, mai un generatore. Ma benché manchi di intelligenza specifica, cercherà sempre gli esseri dotati del più alto grado di intelligenza, dal momento che questi gli offriranno la maggior sicurezza possibile. Sarebbe abilissimo nel penetrare una nuova cultura, e ricorrerebbe ad ogni inganno: ad esempio imitando animali simili a lui per mimetizzarsi. Come ogni altra specie cercherà di crescere, di moltiplicarsi, di colonizzare, per realizzare così il suo destino nel cosmo. Per mezzo delle sue percezioni extrasensoriali sarà in grado di individuare l’intelligenza in posti lontani, perfino su altri pianeti e persuaderà i suoi compagni simbiotici a portarvelo.

Fece una pausa. — E ora vi chiedo di cercare di immaginare cosa significherebbe essere il compagno simbiotico di una simile creatura portatrice di armonia, avvertire telepaticamente i sentimenti e forse i pensieri di coloro che vi circondano, disporre di un costante limite di sicurezza contro quei momenti di ira cieca e di spietato egoismo che conducono all’assassinio e alla guerra, essere sempre equilibrati senza mai essere privati delle vostre facoltà fondamentali, della vostra intelligenza, della vostra forza.

Un’altra pausa, poi disse a voce bassa: — Ma non è necessario che ve lo chieda, perché già adesso vi trovate in questa condizione. Siete in simbiosi con il gatto verde. O meglio, con uno dei gatti verdi.

Mentre diceva queste parole, un musetto color verde-oro fece capolino dal grembo di Emmett e li guardò. Allora Phil capì che la sensazione di calma che aveva provato fin dal momento in cui era entrato nella stanza era dovuta all’irradiazione di uno dei cugini di Lucky. Poi sentì l’emanazione di Lucky aggiungersi alla prima, e voltando lo sguardo verso l’apparecchiatura elettronica, lo vide alzare la testa sopra il bordo della scatola.

Nel frattempo John Emmett stava dicendo: — Vi ho detto che il gatto verde, o piuttosto i gatti verdi, intendevano conquistare l’America. Volevo che conosceste meglio i retroscena prima di aggiungere che, per quello che riguarda il Federal Bureau of Loyalty e l’Ufficio del Presidente, la conquista è completa. — E John Emmett sorrise.

— Inoltre — aggiunse — a giudicare dai messaggi che abbiamo appena ricevuto dalla loro Radioluna, insieme ad alcune straordinarie manifestazioni di buona fede, anche il Cremlino ha capitolato all’invasione vegana.

— Questo bene! — gridò Dytie balzando in piedi. — Sapete, solo quattro satiri e dieci mici venuti su nave. Noi mandato due satiri e sette mici dietro tenda ferrosa… cioè, cortina di ferro. Noi pensare a loro gatti più necessari che a voi.

A questo punto la solenne riunione si trasformò in un diluvio di domande e risposte, grida, conversazioni tronche. Cogliendo un frammento qua e là, Phil ricostruì l’intera storia. Il secondo gatto verde, quello più giallo, che da una settimana non tornava da Dytie e Dion, era improvvisamente riapparso dopo avere allietato un gran numero di cerimonie religiose; Opperly aveva allora introdotto il gatto da Barnes, e di conseguenza da Emmett. Sentì Dytie spiegare che i gatti fingevano astutamente di essere ancora addormentati dopo che l’effetto del paralizzatore era svanito, e seppe anche perché insistevano per mangiare da soli sulla Terra: perché le loro bocche emettitrici di ormoni, aprendosi per il pasto, li avrebbero rivelati come esseri radicalmente diversi dai gatti terrestri che cercavano di imitare. Sentì Dion dire al dottor Garnett che i gatti di Vega Otto avevano cominciato a puntare i musi verso la stella che era il Sole e a ululare di notte, e il dottor Garnett suggerì orgogliosamente che essi dovevano aver captato le onde mentali proiettate dalla Fondazione Humberford. Allora Dion spiegò che un tempo Vega Otto era stato un pianeta dilaniato dalle guerre, finché una razza di vermi intelligenti non aveva portato loro i gatti verdi.

Ma Phil, mentre assimilava tutte queste informazioni e scambiava una parola con questo e con quello, continuava a muoversi attraverso la folla in una direzione ben definita. Durante il tragitto continuò a captare altri frammenti di conversazione.

Sentì Sacheverell Akeley illustrare al Rettore Frobister una sua teoria secondo cui i gatti verdi erano tutti discendenti di Bast, ed erano stati gli antichi egizi, forse gli abitanti di Atlantide, che possedevano probabilmente delle astronavi, a portare per primi i gatti su Vega.

Sentì Cookie che rimproverava bonariamente Mary per essersi innamorata di un satiro, e Mary assicurargli felice che a lei piacevano gli uomini con gli zoccoli, e che in ogni caso avrebbe fatto una bambolina a sua immagine.

Sentì Jack dire al dottor Romadka che con i gatti verdi non ci sarebbe stato più tanto bisogno di psicoanalisti, di commissari e di poliziotti del pensiero, al che Romadka gli ricordò che anche la maggior parte delle merci della Divertimenti SpA, inclusa la lotta fra maschi e femmine, non avrebbe più avuto un grande mercato.

Sentì Carstairs, Llewellyn e Buck fare progetti per fondare un ordine cavalieresco denominato i Cavalieri del Gatto Verde.

Sentì Juno Jones dire a Moe Brimstine che fin da quando era una bambina le piacevano più gli animali che gli uomini, e che era molto contenta di sapere che un animale le avrebbe trasformato la mente. A proposito, dov’era finito quel topolino di Jack? Moe Brimstine, in risposta, le disse di essersi preoccupato troppo in vita sua di mettere i piedi sulla testa della gente per avere il tempo di capirla. Il povero vecchio Hans Billig, invece, saltava così in fretta da una parte all’altra che non si era mai accorto che la gente esistesse.

Sentì John Emmett e Dave Greeley discutere sulla disposizione logistica dei gatti verdi, e di come era possibile spargere in tutto il mondo le creature.

Sentì Morton Opperly e il dottor Garnett che parlavano di cose molto al di là della sua comprensione: nessi extrasensoriali, linee di pensiero e quale fosse la galassia originaria dei gatti.

Prese la mano magra e stanca di Mitzie Romadka e le disse che l’amava e che pensava che la violenza, le gelosie e perfino la vendetta fossero ammirevoli, almeno fino a un certo punto.

Ma non perse mai di vista il suo obiettivo principale. Mentre si avvicinava alla bassa cassetta dalla quale Lucky sbirciava in giro tranquillamente, il Presidente Barnes lasciò Mary Akeley, dopo averla rassicurata che gli ordini per la distruzione dei gatti erano già stati annullati, e si diresse verso Phil. Gli gettò le braccia al collo con fare paterno e disse: — Mio giovane amico, ho sentito che siete stato molto vicino a questo gatto per un paio di giorni. Mi spiace di dovervelo portare via.

Phil si irrigidì. — Neanche per sogno — disse. — Lucky è il mio gatto.

— Sentite, amico mio — protestò cortesemente Barnes — io sono il Presidente, e devo avere uno di questi gatti. Emmett ha già il suo, e certamente bisogna darne uno alla Fondazione Humberford. Ci sono solo tre gatti nel paese: avete sentito cosa ha detto la signorina di Vega.

Parecchie persone e i due satiri si avvicinarono, incuriositi dalla discussione.

— Non m’importa — disse Phil, notevolmente incoraggiato dalla stretta di Mitzie. — So benissimo che questa è una crisi cosmica, e tutto il resto, ma Lucky è il mio gatto, gli ho dato da mangiare e intendo tenermelo. Vieni, Lucky.

Lucky balzò fuori dalla scatola tra le sue braccia.

— Penso che questa sia la prova — disse Phil.

Barnes lo guardò con una certa indignazione, mentre i presenti facevano ogni genere di commenti.

Ma proprio in quel momento si sentì un flebile miagolio. Veniva dalla scatola. Tutti guardarono dentro, e videro cinque piccole copie di Lucky che allungavano il musetto triangolare verso l’alto.

Dytie disse: — Loro piccoli, ma buoni come gatti grandi, molto utili.

Barnes allargò le braccia ed esclamò: — Adesso ce ne sarà uno per l’esercito, uno per la marina, uno per il dottor Opperly, uno per me, uno per quel buffone della costa orientale che crede di diventare il prossimo presidente…

— Calma, Bobbie — disse Opperly. — Non dare via più gatti di quelli che hai.

— … e, stavo dicendo, uno per questo bravo giovane.

Phil guardò Lucky rannicchiato tra le sue braccia. — Così sei una femmina, dopo tutto — disse.

— Oh, no! — proruppe Dytie eccitata, mezza fuori dal suo mantello. — Tu non capire Vega. Su Vega sesso diverso. Su Vega è come… — fece una smorfia cercando la parola.

— Canguri — suggerì Opperly.

— Sì! — esclamò Dytie trionfante. — Solo questa differenza: moglie porta bambini un po’, poi bambini vanno in borsa padre, e lui li porta fino alla fine. Tutti aiutano. Poi bambini lasciano borsa, e mamma allatta. Levati pantaloni, Dion. Fai vedere borsa.

Ma Dion rifiutò, alquanto indignato.

— Uomini di Vega molto pudichi — disse Dytie a Phil. — Comunque, Lucky è maschio.

FINE