Fred Hoyle

John Elliot

A come Andromeda

1

Arrivo

La luce filtrava appena dal cielo mentre risalivano Bouldershaw Fell. Judy sedeva vicino al professore sul sedile posteriore dell’auto che percorreva la strada da Bouldershaw centro all’aperta brughiera; lanciò un’occhiata speranzosa fuori dal finestrino ma solo quando furono quasi in cima alla collina vide il radiotelescopio.

Si levò all’improvviso di fronte a loro: tre massicci piloni che si univano in cima a formare un arco triangolare, stagliato preciso contro il cielo declinante. Tra i sostegni, sul terreno, si incurvava una conca di cemento delle dimensioni di una arena, e sopra, sospesa alla sommità dell’arco, una conca metallica più piccola, rivolta in basso, puntava una lunga antenna verso il terreno. Le dimensioni della struttura non davano subito all’occhio; apparivano soltanto sproporzionate rispetto al paesaggio. Solo quando l’auto vi giunse e vi si fermò sotto, Judy cominciò a rendersi conto di quanto grande fosse. Era completamente diversa da tutto ciò che aveva mai visto: completamente e decisamente a sé, come una scultura.

Tuttavia, nonostante la sua singolarità, non c’era nulla di particolarmente minaccioso in quella struttura alta, incombente, che predicesse loro lo straordinario e disastroso futuro che ne doveva nascere.

Scesi dall’auto si fermarono un istante, nell’aria mite e dolce che riempiva loro testa e polmoni, e alzarono lo sguardo ai tre grossi piloni, al riflettore metallico che scintillava alto sopra di loro e al pallido cielo sullo sfondo. Tutt’intorno, sulla cima spoglia della collina, erano sparse alcune basse costruzioni e degli apparati minori di antenne, circondati da un reticolato metallico. Udivano solo il fischio del vento tra i piloni e il richiamo dei chiurli e potevano quasi sentire il grande orecchio di cemento e metallo, lì accanto, teso ad ascoltare le stelle.

Il professore si diresse per primo verso l’edificio principale: una costruzione bassa dalla facciata di pietra, con l’entrata non ancora finita e il sentiero d’accesso tracciato da poco. Alcuni uomini stavano fissando i cardini del cancello e dipingendo i cartelli indicatori: tutto aveva un’aria molto nuova e recente sullo sfondo oscuro e dolce della collina.

«Abbiamo tutto l’armamentario di ferri chirurgici necessario,» spiegò il professore con un piccolo gesto della mano. «Qui dentro c’è il centro di controllo.»

Era un uomo sulla sessantina, piccolo, preciso e calmo come un medico di famiglia.

«Mica male il suo rampollo,» commentò Judy.

«È il rampollo più importante che abbia mai aiutato a venire al mondo. Un parto che è durato dieci anni.»

Le rivolse una strizzatina d’occhio e trotterellò con le sue scarpette nere su per i gradini che portavano all’edificio di controllo.

Il vestibolo aveva un aspetto provvisorio ma al tempo stesso familiare. L’inevitabile soffitto a pannelli bucherellati, l’inevitabile pavimento di graniglia, muri di mattoni imbiancati, illuminazione al neon. Un telefono a muro e un distributore di acqua potabile. Sulle pareti laterali due piccole porte e una porta doppia di fronte all’ingresso. Tutto qui. Un lieve sibilo proveniva dalla doppia porta. Quando il professore l’apri il sibilo si fece più forte. Sembrava un’interferenza in un apparecchio radio.

Mentre superavano la doppia porta uscì un uomo con il grembiule scuro degli addetti alla pulizia. I suoi occhi incontrarono per un momento quelli di Judy, ma quando la ragazza socchiuse la bocca egli distolse lo sguardo.

«Buona sera, Harries,» disse il professore.

La stanza in cui entrarono era la sala di controllo, il centro dell’osservatorio. A un’estremità una finestra panoramica offriva la vista della gigantesca struttura all’esterno: di fronte alla finestra c’era un massiccio banco di metallo, simile alla tastiera di un organo, fornito di pannelli, di pulsanti, luci e interruttori. Parecchi giovani stavano lavorando al banco, consultando ogni tanto i due calcolatori che, chiusi in alte custodie metalliche, si levavano ai due lati del banco. Una parete era coperta da ingrandimenti di fotografie di stelle, prese col telescopio; l’altra era per due terzi una divisione in vetro dietro alla quale, in una stanza interna, si vedevano altri giovani lavorare in squadra.

«La cerimonia dell’inaugurazione si svolgerà qui,» annunciò Reinhart.

«Dov’è che il ministro romperà la bottiglia di champagne o taglierà il nastro o farà quel che dovrà fare?»

«Al banco. Schiaccerà un bottone al banco di controllo per metterlo in azione.»

«Non funziona ancora?»

«Non ancora. Stiamo facendo delle prove di collaudo.»

Judy si fermò sulla soglia a osservare attentamente. Era il tipo della donna giovane e attraente che vien spesso definita bella più che graziosa: una pelle fresca, uno sguardo vivo e intelligente, un portamento molto deciso, un tantino goffo. Sarebbe potuta essere un’infermiera o un’ufficialessa dei servizi sussidiari o semplicemente una ragazza uscita da una scuola raffinata. Aveva mani piuttosto grandi e occhi di un azzurro intenso. Sottobraccio teneva un fascio di fogli ed opuscoli che estrasse per consultarli, come se potessero darle una spiegazione di ciò che vedeva.

«È il più grande radiotelescopio di… be’, del mondo.» Il professore si guardò attorno, sorridendo felice. «Non è grande come un interferometro, naturalmente, ma questo possiamo dirigerlo. Si può spostare il fuoco con il piccolo riflettore in cima, e in tal modo seguire una fonte attraverso il cielo.»

«Da questi mi sembrava d’aver capito,» Judy agitò i fogli, «che ci sono degli altri radiotelescopi che funzionano nello stesso modo.»

«Vero. Nel sessanta, quando abbiamo cominciato a costruire questo, ce n’erano già. Ma non hanno la sensibilità del nostro.»

«Perché questo è più grande?»

«Non solo. Anche perché abbiamo apparecchi ricevitori migliori. Questo ci dovrebbe dare una maggior sensibilità al rumore. È tutto installato qui dentro.»

Accennò con la mano piccola e delicata alla stanza dietro il pannello di vetro.

«Vede, tutto ciò che si raccoglie dalla maggior parte delle fonti astronomiche, radiostelle per esempio, è un segnale elettrico molto debole, ed è mescolato a molti altri rumori provenienti dall’atmosfera, dai gas interstellari, da sa il cielo cosa. Be’, il cielo lo sa di certo.»

Parlava con voce precisa, tranquilla, naturale; come un medico che parlasse di un raffreddore. La sensazione del successo, dell’aspettativa, era celata.

«Potete sentire delle fonti che gli altri non riescono a captare?» chiese Judy.

«Lo spero. È quel che vogliamo. Ma non mi chieda come. C’è un gruppo che se n’è occupato.» Abbassò modestamente lo sguardo sui propri piedi. «Il dottor Fleming e il dottor Bridger.»

«Bridger?» Judy alzò gli occhi di colpo.

«In realtà il cervello è Fleming. John Fleming.» Lo chiamò riguardosamente. «John!»

Uno dei giovani si staccò dal gruppo attorno al banco di controllo e si avviò verso di loro.

Gettò un «Salve!» al professore, ignorando Judy.

«Se hai un momento, John. Il dottor Fleming, Miss Adamson.»

Il giovane scoccò un’occhiata a Judy, poi si rivolse al banco di controllo. «Abbassate ’sto maledetto baccano!»

«Cos’è?» domandò Judy. I disturbi atmosferici si ridussero a un debole sibilo. Il giovane alzò le spalle.

«Sibili interstellari, per lo più. L’universo è pieno di materia carica di energia elettrica. Quello che noi riceviamo è una emissione elettrica di queste cariche, che noi avvertiamo come rumore.»

«Il sottofondo musicale dell’universo,» aggiunse Reinhart.

«Se lo deve ricordare, professore,» disse il giovane con una punta di amichevole presa in giro. «Se lo ricordi per le dichiarazioni stampa di Jacko.»

«Jacko non tornerà.» Fleming lo guardò, un tantino sorpreso, e Judy aggrottò la fronte come se le fosse sfuggita una notizia.

«Chi?» domandò al professore.

«Jackson, il suo predecessore.» Si rivolse a Fleming. «Miss Adamson è il nostro nuovo press-agent.»

Fleming la osservò senza particolare piacere. «Bene, vanno e vengono, vero? Si prepara a ereditare le sfere di Jacko?»

«Di che si tratta?»

«Cara signorina, lo scoprirà presto.»

«Sto illustrandole l’organizzazione per giovedì,» spiegò il professore. «L’inaugurazione ufficiale. La signorina si occuperà della stampa.»

Fleming aveva un viso scuro e pensoso, più preoccupato che imbronciato; ma sembrava stanco e amareggiato. Borbottò con un forte accento del Midland:

«Oh, sì, l’inaugurazione ufficiale. Tutte le luci colorate saranno in azione. Le stelle canteranno Rule Britannia tra angelici cori o io me ne andrò al pub.»

«Spero che sarai qui, John.» Il professore sembrava leggermente irritato. «Nel frattempo potresti far fare una visita a Miss Adamson.»

«Ma se ha da fare, no,» intervenne Judy a voce bassa e ostile. Fleming la guardò con interesse per la prima volta.

«Che cosa ne sa di questo posto?»

«Molto poco, per ora.» Sventolò i suoi fogli. «Mi baso su questi.»

Fleming si girò stancamente verso il centro della stanza con un ampio cenno del braccio.

«Questo, signore e signori, è il più grande e il più moderno radiotelescopio del mondo, per non dire che è il più caro. Ha una potenza da quindici a venti volte maggiore di ogni altro apparecchio esistente e, manco a dirlo, è un miracolo della scienza britannica. Per non parlare dell’ingegneria. Gli elementi ricevitori,» accennò fuori dalla finestra, «sono dirigibili, così che possono seguire la corsa di un corpo celeste attraverso i cieli. Ora lei potrà raccontare tutto, vero?»

«Grazie,» rispose Judy, freddamente. Guardò il professore, ma questi sembrava appena appena imbarazzato.

«Mi spiace averti disturbato, John,» disse.

«La prego, è un piacere. Sempre a sua disposizione.»

Il professore rivolse a Judy la sua attenzione da medico di famiglia.

«Le farò fare io una visita.»

«Lei vuole che sia in funzione per giovedì, vero?» chiese Fleming. «Per Sua Eccellenza il ministro?»

«Sì, John. Sarà tutto in ordine?»

«Sembrerà tutto in ordine. Sua Signoria non capirà se funziona o no. E neppure quei ficcanaso dei giornalisti.»

«Preferirei che funzionasse.»

«Già.»

Fleming si volse per tornare al banco di controllo. Judy si attendeva un’esplosione o almeno qualche manifestazione di dignità offesa da parte del professore, ma questi si limitò a scuotere il capo come di fronte a una diagnosi difficile.

«Non si possono fare imposizioni a un ragazzo come John. Si possono aspettare dei mesi per un’idea. Anni. Ne vale la pena, se l’idea è buona, e con lui di solito è così.» Guardò pensosamente il dorso di Fleming che si allontanava: trasandato, trascurato, i capelli e gli abiti in disordine. «Dipendiamo dai giovani, sa: Ha fatto lui tutto il progetto dell’apparecchio a bassa temperatura; lui e Bridger. I ricevitori sono basati su attrezzature a bassa temperatura, e questo non è il mio campo. C’è un paragrafo a questo proposito da qualche parte.» Accennò distrattamente al fascio di fogli di lei. «L’abbiamo un po’ spremuto, temo.»

Sospirò e la condusse a visitare l’edificio. Le mostrò le fotografie murali del cielo di notte dicendole il nome e le caratteristiche delle grandi radiostelle, le principali fonti dei suoni che sentiamo dall’universo. «Questa,» spiegò, indicando le fotografie, «non è affatto una stella, ma due intere galassie in collisione; e questa è una stella che sta esplodendo.»

«E questo?»

«La Grande Nebulosa di Andromeda. M. 31, la chiamiamo, tanto per confonderla con l’autostrada.»

«Si trova nella costellazione di Andromeda?»

«No. La nebulosa è molto, molto oltre Andromeda. Rappresenta da sola un’intera galassia. Non è una cosa da nulla, vero?»

La ragazza fissò la bianca spirale di stelle e annuì.

«Ne ricevete un segnale?»

«Un sibilo, come quello che ha sentito.»

Vicino al muro c’era una grande sfera di plastica trasparente con una palla piccola e scura al centro e altre palle bianche disposte attorno a essa, come gli elettroni nel modello di un atomo.

«Le sfere di Jacko!» Il professore ammiccò. «O la follia di Jacko, come la chiamano. È la rappresentazione di quanto gira in orbita attorno alla Terra. Tutte queste unità bianche rappresentano dei satelliti, dei missili, e via dicendo. Ferraglia. E qui, in mezzo, c’è la Terra.»

Il professore la fece oscillare dolcemente.

«Forse a lei sembra solo un giocattolo. Jacko pensava che poteva interessare la gente del governo che verrà qui a curiosare. Val certo la pena di registrare quel che accade attorno alla Terra, ma tenere un macchinario di questo genere è tempo e denaro sprecato. Eppure l’esercito ce lo chiede e noi, se non possiamo spillare quattrini dal bilancio della Difesa, non otteniamo il denaro di cui abbiamo bisogno.» Pareva che si divertisse a dire malignità. Ebbe un piccolo gesto aggraziato, indicando la stanza e l’enorme struttura di fuori. «Venticinque milioni di sterline, anzi, di più, ecco quanto è costato.»

«Dunque, c’è un interesse militare?»

«Sì, ma è cosa mia, o meglio del Ministero della Scienza. Non del suo Ministero.»

«Faccio parte del suo personale, ora.»

«Non per mio desiderio.» Il suo modo di fare si fece più duro, cosa che non era accaduta quando Fleming era stato un po’ scortese con lui; Fleming, dopotutto, era uno dei suoi.

«Qualcun altro sa la ragione per cui mi trovo qui?» domandò Judy.

«Non l’ho detto a nessuno.»

Lasciò cadere l’argomento e la condusse in un’altra stanza dove si avvicinò, con precauzione, agli apparecchi ricevitori e alle attrezzature di comunicazione.

«Noi rappresentiamo solo un anello della catena di osservatori posti tutt’intorno al mondo, anche se non siamo l’anello più piccolo.» Con una sorta di pura soddisfazione volse lo sguardo attorno ai quadri di comando, ai fili, ai sostegni dell’apparecchio. «Non mi sentivo vecchio quando cominciammo a mettere insieme quest’attrezzatura, ma ora sì. Ti viene un’idea e pensi: ‘Ecco ciò che dobbiamo fare,’ e ti sembra il primo passo da compiere. Un passo molto breve, forse. Poi si comincia: progetto, ricerca, commissioni, costruzione, diplomazia. Un’ora della tua vita qui, un mese là. Speriamo che funzioni. Oh, ecco Whelan! È l’esperto di questa parte dell’osservatorio.»

Judy venne presentata a un giovane dal viso pallido e dall’accento australiano che si precipitò sulla sua mano come su qualcosa che avesse perduto.

«Non ci siamo già conosciuti?»

«Non credo.» La ragazza lo fissò con aria ingenua, gli occhi azzurri spalancati, ma l’altro non si lasciò scoraggiare.

«Ne sono sicuro.»

Judy esitò e si guardò attorno in cerca di aiuto. Harries, l’uomo delle pulizie, era in piedi in mezzo alla stanza e, quando lei lo guardò, scosse impercettibilmente il capo. La ragazza si volse di nuovo a Whelan.

«Mi spiace, non ricordo.»

«Forse a Woomera…»

Il professore la condusse nuovamente nella sala principale di controllo.

«Come si chiama?»

«Whelan.»

Prese un appunto sul suo taccuino. Il gruppo al banco di controllo si era diviso, restava soltanto un giovane, al posto del tecnico di turno, seduto a controllare i quadri. Il professore la condusse direttamente da lui.

«Salve, Harvey.»

Il giovane volse il capo e fece per alzarsi.

«Buona sera, professor Reinhart.» Era educato, almeno. Judy guardava l’enorme apparecchiatura fuori dalla finestra, la brughiera deserta e il cielo che andava ora prendendo un cupo color porpora.

«Conosce il principio su cui si basa questo telescopio?» le chiese Harvey. «Ogni emissione radio proveniente dal cielo colpisce la conca e viene ritrasmessa alle antenne, poi viene ricevuta e registrata dalle apparecchiature qui dentro.» Indicò con la mano la parete divisoria di vetro. Judy non guardò per paura di vedere Whelan, ma Harvey, preciso, ostinato, incolore, già attirava altrove la sua attenzione. «Questo banco di calcolatori ottiene l’azimuth e l’altezza di qualsiasi fonte si voglia mettere a fuoco, e ne segue la traiettoria. C’è un servomeccanismo automatico…»

Finalmente Judy riuscì a fare una scappata nel vestibolo e a restare sola per un attimo con Harries.

«Fai sloggiare Whelan,» gli disse.

Aveva lasciato la valigia all’albergo, in città, ed era salita all’osservatorio senza un’idea molto chiara su ciò che doveva aspettarsi. Aveva visitato parecchie stazioni e in molte aveva lavorato come ufficiale di Sicurezza, da Fylingdales all’isola Christmas. Whelan, come Judy ben sapeva, l’aveva incontrata in una base missilistica in Australia. Con Harries aveva lavorato in una missione a Malvern. Non si considerava una spia e l’idea di dover dare informazioni sui suoi colleghi le risultava sgradevole; ma il Ministero dell’Interno aveva stabilito che lei o qualcun altro venisse trasferito dal Ministero della Difesa, sezione Servizio di Sicurezza, al Ministero della Scienza; un incarico è sempre un incarico. Prima tutti quelli con cui lei lavorava avevano sempre saputo chi fosse e lei aveva sempre pensato che il suo incarico fosse quello di proteggerli. Questa volta, invece, i sospetti erano loro, ai quali lei sarebbe stata spacciata come una di quelle trafficone delle public relations che ficcano il naso dappertutto e fan domande, per non destare allarme. Reinhart lo sapeva e la cosa non gli andava a genio. Quanto a lei, quella parte la disgustava, ma il lavoro è lavoro, e questo, le avevano detto, era un lavoro importante.

Poteva recitare la parte senza difficoltà: aveva un aspetto così onesto, per bene, sembrava una di loro; non doveva far altro che starsene in disparte, ascoltare e imparare. A scoraggiarla era la gente che incontrava; avevano un loro mondo e dei valori loro. Chi era lei per giudicarli o per farli giudicare? Dopo che Harries ebbe annuito e si fu allontanato per far ciò che gli era stato detto, provò un certo disprezzo per sé e per lui.

Il professore partì poco dopo, affidandola a John Fleming.

«Penso che potresti lasciarla al Lion quando torni a Bouldershaw. Abita là.»

Uscirono sulle scale per accompagnarlo.

«Piuttosto simpatico,» commentò Judy.

Fleming grugnì. «Duro come il ferro.»

Trasse di tasca una fiaschetta e bevve, poi l’offri a lei. Al suo rifiuto ne prese un altro sorso: Judy l’osservava, in piedi nella luce del portico, la testa rovesciata all’indietro, il pomo d’Adamo che si muoveva mentre inghiottiva. In lui c’era qualcosa di chiuso, di disperato. Forse, come aveva detto Reinhart, lo avevano spremuto un po’ troppo. Ma non era tutto; dava la sensazione che in lui ci fosse una dinamo in carica permanente.

«Lei giuoca a bocce?» Sembrava avere dimenticato l’indifferenza iniziale nei suoi confronti. Forse perché aveva bevuto. «C’è un campo giù a Bouldershaw. Venga a partecipare ai nostri riusciti passatempi.»

Judy esitava.

«Oh, su, venga. Non la lascerò certo in balìa di questi pazzi di astronomi.»

«Non è un astronomo, lei?»

«Ma le pare? Criogenica, calcolatori: ecco la mia specialità. Non queste stupidaggini cervellotiche.»

Si diressero al piccolo spiazzo dove era ferma l’auto di Fleming. Alla sommità del telescopio brillava una luce rossa, simile a quella di un faro, e dietro di essa, nel cielo scuro, cominciavano ad accendersi le stelle. Se ne potevano già vedere alcune attraverso gli archi altissimi dei piloni, come già catturate dall’uomo. Arrivati vicino alla macchina, Fleming si volse a guardare in alto.

«Ho il presentimento,» disse, e la sua voce risuonò più pacata, gentile, e non più aggressiva, «che si sia giunti al punto di rottura nelle scienze fisiche.»

Cominciò ad abbassare la capote dell’auto, una piccola macchina sportiva, mentre lei passava dall’altra parte.

«La aiuto.»

Parve non sentire.

«A un certo momento, a un certo punto della cerchia delle nostre conoscenze siamo destinati a… hop, andare al di là. Dritto in un nuovo territorio. E potrebbe essere qui, in questo campo.» Avvoltolò la capote dietro il sedile. «’La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo.’ Chi l’ha scritto?»

«Churchill.»

«Churchill?» Rise. «Galileo. ‘Egli è scritto in linguaggio matematico.’ Ecco cosa ha detto Galileo. Le serve per un comunicato stampa?»

Judy lo guardò, senza saper bene come prenderla. Fleming le aprì la portiera.

«Andiamo.»

La strada da una parte scendeva nel Lancashire, e dall’altra nello Yorkshire. Nello Yorkshire si dirigeva in una lunga valle dove, ogni poche miglia, si levavano, sul fiume, dei vecchi, alti mulini di mattoni, fino a giungere a Bouldershaw. Fleming guidava molto in fretta, borbottando.

«Mi danno ai nervi… L’inaugurazione… e quei maledetti ministri… Il vecchio professore che si dà un gran daffare a preparare l’elenco degli ospiti d’onore. La banda di quelli del Ministero che scocciano e tormentano tutti. In realtà non è che un qualsiasi osservatorio. Ma siccome è grande e costa un patrimonio diventa proprietà pubblica. Non che ne faccia colpa al professore. Ormai c’è dentro fino al collo. Si è impegnato e deve tirar fuori dei risultati.»

«Be’, non sarà così?»

«Non so.»

«Mi pareva che l’attrezzatura fosse sua.»

«Mia e di Dennis Bridger.»

«Dov’è il dottor Bridger?»

«Giù al campo di bocce. Ci aspetta, e spero che abbia già prenotato una pista. E una bottiglia.»

«Ne abbiamo già una.»

«Cosa ce ne facciamo di una? Viene sete, da queste parti.»

Mentre filavano giù per la buia strada tutta curve, cominciò a parlarle di sé e di Bridger. Tutti e due avevano studiato all’Università di Birmingham, e avevano fatto insieme dei lavori di ricerca al Cavendish. Fleming era un teorico, Bridger era per l’applicazione pratica, matematico e ingegnere. Bridger era uno scienziato di carriera, deciso a ottenere il massimo nel suo campo. Fleming era un ricercatore puro, a cui interessavano solo i fatti. Ma entrambi disprezzavano il sistema accademico nel quale erano stati educati e se ne stavano per conto loro. Reinhart se li era portati via alcuni anni prima, perché collaborassero al nuovo telescopio. E poiché egli era, con molta probabilità, l’astrofisico più illustre e stimato del mondo occidentale, un vero capo e un cacciatore di talenti, lo avevano seguito senza esitazioni, e lui li aveva spalleggiati, incoraggiati e protetti come un padre, durante il lungo e tortuoso processo di realizzazione.

Si sentiva immediatamente, quando Fleming parlava, la mutua fiducia che, dietro la sua rudezza, lo legava al professore. Bridger, al contrario, era annoiato e irrequieto. Aveva fatto la sua parte, e, come disse Fleming senza modestia né presunzione, avevano dato al loro vecchio amico il più favoloso apparecchio della Terra.

Non fece domande sul conto di Judy e lei se ne stette in silenzio. La ragazza salì nella sua stanza e lui rimase ad attenderla nel bar del Lion. Quando giunsero al campo di bocce, Fleming era sfinito.

Il campo di bowling era un cinema riadattato che spiccava in un lago di luce al neon e di riflettori nello sfondo buio della vecchia cittadina di provincia. Pareva che la clientela non provenisse da quelle strade acciottolate. Per lo più erano ragazzi. Portavano pantaloni di tela, giubbotti di cuoio, capelli a spazzola, maglioni con le iniziali. Era difficile immaginarli nell’intimità delle vecchie case che si allineavano lungo le squallide valli dello Yorkshire. Le loro intonazioni dialettali erano soffocate da un fiume di musica e dal frastuono e dal tramestìo delle bocce e dei birilli sui tavolati delle piste. Ce n’erano sei o sette: ognuna aveva a un’estremità dieci birilli e all’altra la rastrelliera per le bocce, un tavolino per segnare i punti, una panca e quattro giocatori. Quando una boccia colpiva il bersaglio segnando un punto, un rastrello automatico raccoglieva i birilli e faceva ritornare le bocce alla rastrelliera vicino al giocatore. Salvo che per il momento di atletica concentrazione in cui si gettava la boccia, i giocatori parevano disinteressarsi alla gara: se ne stavano lì attorno, a chiacchierare, a bere coca-cola a garganella. Era un ambiente più americano di quanto fosse stato il cinema: pareva che attraverso lo schermo l’atmosfera statunitense fosse esplosa e si fosse impossessata del pubblico. Ma era così, rifletteva Fleming, che le cose andavano, in quel modo dell’accidente.

Trovarono Bridger, un tipo sottile, segaligno, circa dell’età di Fleming, che giocava su una pista in compagnia di una ragazza tutta curve con un maglione rosso e pantaloni gialli molto aderenti. Petto e capelli erano tirati su al massimo, il viso truccato come quello di una ballerinetta, e camminava come una stellina di Hollywood; ma quando aprì bocca trapelò tutto il suo Yorkshire. Tirò una boccia con energia notevole e tornò indietro per appoggiarsi alla spalla di Bridger succhiandosi un dito.

«Uh!, mi è venuto via un pezzo di pelle.»

«Questa è Grace.» Pareva che Bridger si vergognasse un pochino della ragazza. Era prematuramente sciupato e nervoso, vestito con anonimi abiti sportivi, simile a un impiegato postale la domenica mattina. Strinse la mano a Judy con aria incerta, e quando lei disse: «Ho sentito parlare di lei,» le lanciò un’occhiata rapida e ansiosa.

«Miss Adamson,» presentò Fleming, versando del whisky nella coca-cola di Bridger. «È la nostra nuova addetta alle public relations.»

«Qual è il suo nome di battesimo, cara?» indagò la ragazza.

«Judy.»

«Non ha dell’ansaplasto?»

«Oh, chiedi alla cassa!» intervenne Bridger impaziente.

«Lavora con voi?» chiese Judy a Fleming.

«Genio locale. Proprietà di Dennis. Io non ho tempo.»

«Peccato,» commentò la ragazza. Ma Fleming non le badò. Dopo aver preso un altro sorso dalla fiaschetta, si diresse con passo incerto alla pista. Bridger si rivolse a Judy in tono confidenziale:

«Che le è stato detto di me?»

«Solo che ha lavorato con il dottor Fleming.»

«Non è la mia massima aspirazione.» Pareva deluso. Mosse il naso, come un coniglietto. «Nell’industria potrei prendere cinque volte quel che guadagno qui.»

«È questo che desidera?»

«Appena il complesso sulla collina entra in funzione, taglio la corda.» Lanciò un’occhiata di traverso a Fleming con aria d’intesa, poi si rivolse di nuovo a lei. «Il vecchio John è deciso a restare, ad aspettare l’età dell’oro, e, prima che ottenga qualcosa, sarà vecchio. Vecchio e rispettato. E povero.»

«E forse felice.»

«Non sarà mai felice. Ne manda giù troppe.»

«Chi ne manda giù troppe?» Fleming indietreggiò per il lancio e segnò il punto.

«Tu.»

«D’accordo, bevo troppo. Amico, bisogna pur avere qualcosa a cui tenersi attaccati.»

«Cosa c’è che non va nella strada che ti sei prescelto?» domandò Bridger arricciando il naso.

«Senti,» Fleming si abbandonò sulla panca accanto a loro. «Hai tutte le intenzioni di camminare per una strada; poi cambi passo e non ti ritrovi più. Parlavamo di Galileo… perché? Perché lui era il Rinascimento. Lui e Copernico e Leonardo da Vinci. Ed è stato allora che hanno fatto il grande salto, abbattendo tutte le barriere, e han dovuto starsene in piedi per conto loro in mezzo a un universo grande, enorme, sconfinato.»

Si alzò, prese dalla rastrelliera un’altra pesante boccia, e la sua voce si alzò sopra l’assordante frastuono della musica e del giuoco.

«Abbiamo posto nuove barriere, molto più oltre; ma questo è un secondo Rinascimento. Un bel giorno, mentre noi non ce ne accorgiamo, tutti presi a parlare di politica, di calcio e di quattrini, allora d’improvviso tutte le barriere che conosciamo verranno abbattute, via!, come questa!»

Diede un gran colpo con la boccia facendo cadere dal tavolo segnapunti le bottiglie di coca-cola.

«Ehi, sta’ attento, animale!» Bridger si chinò a raccogliere le bottigliette e asciugò con un fazzoletto il liquido sparso. «Mi spiace, Miss Adamson.»

Fleming buttò il capo all’indietro, ridendo.

«Judy, si chiama Judy.»

Bridger, piegato sulle ginocchia, cercava di togliere la macchia dalla gonna di Judy.

«Temo proprio che rimarrà la macchia.»

«Non importa.» Judy non gli badava. Fissava Fleming, interdetta e affascinata. Poi il momento passò.

«Dottor Fleming, al telefono.»

Dopo un minuto Fleming tornò, scuotendo la testa come per schiarirsi le idee. Tirò in piedi Bridger.

«Andiamo, Dennis. Vogliono noi.»

Harvey era solo nella sala di controllo: sedeva al banco e regolava la sintonia del ricevitore. La finestra di fronte a lui era nera come una lavagna e la stanza era silenziosa: si sentiva solo, dall’altoparlante, un suono crepitante, basso e continuo. All’esterno, silenzio; poi il rumore dell’auto di Fleming.

Fleming e Bridger entrarono dalla porta girevole, e si fermarono, battendo le palpebre, nel cerchio di luce. Fleming, turbato, fissò Harvey.

«Che c’è?»

«State a sentire.» Harvey alzò una mano e loro si fermarono, in ascolto.

In mezzo alle scariche, ai sibili e ai fischi che venivano dall’altoparlante, giungeva un’unica nota, debole e spezzata, che però si ripeteva continuamente.

«Alfabeto Morse,» affermò Bridger.

«Non è a gruppi.»

Ascoltarono ancora.

«Breve e lunga,» aggiunse Bridger, «ecco cos’è.»

«Da dove proviene?» chiese Fleming.

«Da qualche parte di Andromeda. Ne stavamo esplorando la zona…»

«Da quanto dura?»

«Da un’ora circa. Siamo sul massimo, ora.»

«Puoi muovere il riflettore?»

«Penso di sì.»

«Non dovremmo farlo,» intervenne Bridger. «Non dovremmo cominciare subito a fare esperimenti.»

Fleming lo ignorò.

«Il servo-apparecchio è già in azione?» chiese.

«Sì, dottor Fleming.»

«Bene, cerchi di captarlo.»

«No, John, ascolta.» Bridger tese vanamente una mano per toccare il braccio di Fleming.

«Può essere uno Sputnik, o qualcosa del genere,» disse Harvey.

«C’è qualcosa di nuovo in orbita?» Fleming si liberò dalla stretta di Bridger.

«Nulla, che si sappia.»

«Qualcuno potrebbe avere lanciato in orbita qualcosa di nuovo…» cominciò Bridger, ma Fleming lo interruppe.

«Dennis.» Cercava di pensare con lucidità. «Vai a mettere in funzione un registratore, da bravo. E anche uno stampatore.»

«Non sarebbe meglio controllare?»

«Dopo, controlliamo.»

Fleming uscì lentamente nel vestibolo, si chinò sul distributore d’acqua e si sciacquò a lungo il viso. Quando tornò, fresco, lucido e notevolmente sobrio, trovò Bridger già al lavoro nella sala apparecchi, e Harvey che telefonava all’ingegnere di turno. Quando i motori elettrici entrarono in funzione, le luci si abbassarono un istante. Il riflettore metallico, in alto là fuori, si mosse in silenzio, impercettibilmente. Il suo movimento compensava il moto terrestre. Dall’altoparlante il suono giunse un poco più alto.

«Non si può sentirlo meglio?»

«Non è un segnale molto distinto.»

«Hum.» Fleming aprì un cassetto del banco di controllo e ne trasse un catalogo. «Le sue coordinate galattiche non si sono spostate?»

«Difficile a dirsi. Non lo inseguivo. Ma non possono essersi spostate di molto.»

«Allora non è qualcosa in orbita?»

«Direi di no.»

Harvey si piegò ansiosamente sul quadro di controllo acustico. «Non potrebbe essere qualche dilettante che ritrasmette in alfabeto Morse dalla Luna?»

«Non sembra un vero alfabeto Morse. E la Luna non è ancora sorta.»

«O da Marte, o da Venere. Spero di non avervi messi in allarme per niente.»

«Andromeda, ha detto?»

Harvey annuì. Fleming sfogliava il catalogo, leggendo e ascoltando contemporaneamente. Tornò gentile e silenzioso come era stato prima con Judy, in macchina. Sembrava un ragazzino studioso.

«Continua a seguirlo?»

«Sì, dottor Fleming.»

Fleming andò al banco e premette il pulsante del telefono interno.

«Dennis, lo ricevi?»

«Sì,» la voce di Bridger risuonava metallica, «ma non ha alcun senso.»

«Può darsi che prima di mattina ne abbia. Sto cercando di farmi un’idea della distanza.»

Fleming interruppe la comunicazione e attraversò il locale, con un libro in mano, dirigendosi alle carte astronomiche sulla parete di fondo.

Lavorarono per un po’: nella stanza il solo rumore erano i suoni che venivano dallo spazio. Fleming controllava la fonte e Harvey, con il grande e silenzioso telescopio all’esterno, manteneva il contatto.

«Che ne pensa?» chiese Harvey infine.

«Secondo me viene da molto, molto lontano.»

Lavorarono e ascoltarono ancora, mentre il segnale continuava a giungere, senza fine.

2

Annuncio

Poco prima del settanta, quando si svolgevano questi avvenimenti, il Ministero della Scienza aveva traslocato in un nuovo palazzo dalle pareti di vetro nelle vicinanze di Whitehall. Arredamento e personale erano molto raffinati, quasi si volesse dimostrare che la tecnologia era sul medesimo piano delle arti, e Michael Osborne, il sottosegretario permanente di Stato, era, tra i numerosi dipendenti del Ministero, uno tra i più colti. In ufficio indossava sì abiti di tweed, ma erano i più eleganti e i più morbidi che ci fossero. Sedeva di rado alla sua imponente scrivania; più spesso occupava una delle poltroncine morbide e basse che circondavano il piccolo tavolino da caffè dal ripiano di marmo.

Se ne stava lì, decorativo, il mattino dopo che a Bouldershaw Fell avevano cominciato a captare il messaggio; parlava con il generale Charles G. Vandenberg, delle Forze aeree statunitensi. La luce pioveva dalle veneziane, a strisce sottili.

L’Inghilterra, di quei tempi, era una sorta di quartier generale avanzato di una terra assediata, un’area formata dall’Europa occidentale e dall’America del Nord. Pressioni da Oriente, dall’Africa e dall’Asia avevano respinto la civiltà occidentale in un angolo del globo, di cui l’America a nord di Panama era un centro abbastanza sicuro, e l’Europa occidentale un ben fortificato saliente. A rigore non si era in guerra: ma le sanzioni economiche e la minaccia delle bombe e dei missili tenevano i resti del vecchio mondo stretti in un precario stato d’assedio. I collegamenti attraverso l’Atlantico erano mantenuti quasi esclusivamente dagli americani, e le guarnigioni americane in Inghilterra, in Francia e nella Germania occidentale resistsvano con la medesima disperata tenacia delle legioni romane nel terzo e nel quarto secolo.

Il protocollo insisteva sul fatto che l’Inghilterra e le nazioni sue vicine erano ancora stati sovrani, ma in realtà l’iniziativa sfuggiva velocemente al loro controllo. Sebbene il generale Vandenberg fosse modestamente definito rappresentante del Comitato per l’organizzazione della difesa, era, in effetti, comandante d’aviazione di una potenza che, amichevole ma dominatrice, occupava il paese, e per la quale l’Inghilterra era solo uno dei riquadri di una vasta scacchiera.

Ex bombardiere, con un collo taurino e la mascella quadra, pur avendo raggiunto la mezza età, sembrava ancora giovane e spavaldo; ma non c’era alcuna spavalderia nel suo modo di fare. Proveniva dal New England, parlava in tono tranquillo, educato, e discuteva con competenza, come se conoscesse il mondo molto meglio della maggior parte degli uomini che lo abitano.

Parlavano di Whelan. Osborne teneva tra le dita un rapporto che lo riguardava.

«Non posso far nulla ora.»

«C’è una certa precedenza…»

Osborne si drizzò sulla sedia e chiamò la segretaria con il telefono interno che si trovava sul tavolo.

«Il Comitato organizzazione difesa ha un punto di ebollizione piuttosto basso,» osservò Vandenberg.

«Può dir loro che ci daremo da fare.»

Appena la segretaria entrò, Osborne le consegnò il rapporto.

«Trovi qualcuno che se ne occupi.»

La ragazza lo prese e depose sulla scrivania un incartamento. Era giovane e graziosa, e indossava un vestito che pareva un abito da cocktail: l’amministrazione statale aveva fatto progressi.

«I suoi documenti per Bouldershaw.»

«Grazie. La mia auto è pronta?»

«Sì, Mr. Osborne.»

Il sottosegretario aprì la cartella e lesse:

«La comitiva ministeriale arriverà a Bouldershaw Fell alle 15 e 15, e sarà ricevuta dal professor Reinhart.»

«Domani, questo,» sottolineò Vandenberg. «Va lassù?»

«Ci vado un giorno prima per incontrare Reinhart.» Infilò la cartella dei documenti nella borsa. «Posso darle un passaggio fino a Whitehall?»

«Sarebbe un gesto caritatevole.»

Diffidavano l’uno dell’altro, ma erano educati, quasi all’antica. Alzatosi, Vandenberg chiese con indifferenza:

«Avete un programma?»

«Non ancora.»

«La cosa si sta facendo alquanto seria.»

«Le stelle possono aspettare. Hanno aspettato per tanto tempo.»

«Ha aspettato molto anche il Comitato organizzazione difesa.»

Osborne ebbe un’alzata di spalle, con simulata impazienza, come un greco che litigasse con un romano.

«Reinhart si occuperà dei programmi militari come e quando potrà; questo è l’accordo.»

«Se si profilasse una situazione d’emergenza…»

«Se, intendiamoci, se si profilasse una situazione d’emergenza.»

«Legge i giornali, lei?»

«In questo periodo riesco a leggere solo le riviste.»

«Dovrebbe guardare le prime pagine. Se si verificasse una situazione d’emergenza, avremmo bisogno di tutto quanto può essere messo a nostra disposizione su questa sponda dell’Atlantico.» Vandenberg accennò a un’artistica veduta del radiotelescopio alla parete dell’ufficio. «Per noi non è un giocattolo da ragazzini.»

«Neanche per loro.»

Poco dopo la loro uscita, Fleming telefonò da Bouldershaw Fell, ma era troppo tardi.

Judy arrivò al radiotelescopio poco prima che vi giungessero Osborne e Reinhart, e fece quattro chiacchiere indisturbata con Harries nel vestibolo.

«Che mi racconta di Bridger?»

Harries fingeva di pulire la maniglia di una porta.

«Due o tre visite a un allibratore che abita in una stradina di Bradford. A parte ciò, niente di speciale».

«Faremmo bene a sorvegliarlo.»

«Lo sto sorvegliando.»

Quando Osborne e Reinhart arrivarono, la condussero insieme a loro nella sala di controllo. Il locale era silenzioso e semideserto. C’era solo Harvey che, seduto al banco, faceva delle riparazioni, sommerso da un enorme cumulo di fogli in disordine, mozziconi di sigarette e bicchieri sporchi. Reinhart a quella vista chiocciò come una gallina disturbata.

«Dovrete mettere ordine.»

«Saranno capaci di mantenere l’apparecchio a fuoco per quando arriva il ministro?»

«Spero di sì. Non abbiamo sperimentato il dispositivo di osservazione.»

Reinhart circolava con aria molto indaffarata mentre Harvey cercava di attirare la sua attenzione.

«Harvey, ha l’aria di avere passato la notte in piedi.»

«Infatti, professore. E con me il dottor Bridger e il dottor Fleming.»

«Avete avuto delle grane?»

«Non esattamente, professore. Siamo rimasti in osservazione.»

«Su istruzioni di chi?»

«Del dottor Fleming.» Harvey era tranquillissimo. «Siamo ancora in osservazione.»

«Perché non mi è stato detto nulla?» Reinhart si rivolse a Osborne e a Judy. «Ne eravate al corrente?»

Judy scosse il capo in segno di diniego.

«Pare che le istruzioni, Fleming se le dia da solo,» osservò Osborne.

«Dov’è?» chiese Reinhart.

«Là dentro.» Harvey indicò la sala macchine. «Insieme al dottor Bridger.»

«Allora gli dica di dedicarmi un minuto.»

Mentre Harvey parlava in un microfono che si trovava sul banco, Reinhart percorreva la stanza a grandi passi.

«Che cosa stavate seguendo?» domandò.

«Una fonte di Andromeda.»

«La M. 31?»

«No, non la M. 31, professore.»

«Cosa, allora?»

«Un altro segnale, vicino a quello. Un segnale spezzato.»

«Non l’avete mai sentito, prima?»

«No, professore.»

Quando Fleming entrò era stanco, con la barba lunga e sobrio, ma, pur controllandosi, era eccitatissimo. Teneva in mano un fascio di fogli della telescrivente. Questa volta Reinhart non fu indulgente.

«Vedo che ti sei impadronito del telescopio.»

Fleming si fermò e li guardò battendo le palpebre.

«Chiedo scusa, signori, non ho avuto il tempo di far triplice domanda in carta da bollo.» Si rivolse a Osborne. «Ho telefonato al suo ufficio ma se n’era già andato.»

«Cos’avete fatto?» chiese Reinhart.

Fleming glielo spiegò, gettando i fogli sul banco di fronte a loro.

«… e questo è il messaggio.»

Reinhart lo fissò incuriosito.

«Vuoi dire il segnale.»

«Ho detto il messaggio. Punti e linee. Non era così, Harvey?»

«Sembrava così.»

«È durato tutta la notte,» disse Fleming. «È sotto la linea dell’orizzonte, ora, ma possiamo riprovare questa sera.»

Judy guardò Osborne, ma non ne ricevette alcun aiuto.

«Che succederà dell’inaugurazione?» domandò timidamente.

«Oh, al diavolo l’inaugurazione.» Fleming si girò verso di lei. «Questa sì che è una cosa importante. Questa è una voce che giunge da milioni e milioni di chilometri di distanza.»

«Una voce?» La voce stessa di Judy risuonò debole e irreale.

«Ci ha messo duecento anni-luce per arrivare fino a noi. Il ministro può aspettare un giorno, no?»

Reinhart pareva sollevato. Osservò Fleming con aria divertita.

«A meno che non sia un satellite.»

«Non è un satellite.»

Reinhart si avvicinò alla «follia di Jacko.»

«Prima di agitarti tanto, John, controlliamo tra tutta questa ferraglia che è in orbita.»

«Già fatto.»

Reinhart si rivolse a Osborne. «Non sa nulla di qualcosa di nuovo spedito su in cielo?»

«No.»

«Sentite,» intervenne Fleming, «se fosse stato un satellite non sarebbe rimasto tutta la notte su in mezzo alla costellazione di Andromeda.»

«Sei sicuro che non si tratti della Grande Nebulosa?»

«L’abbiamo localizzata separatamente, vero, Harvey?»

Harvey annuì, ma ciò nonostante Reinhart aveva un’aria poco convinta.

«Potrebbe essere stata un’interferenza… o qualsiasi altra cosa!»

«So ben riconoscere un messaggio quando me ne trovo uno sotto il naso!» sbottò Fleming. «E poi in questo c’è qualcosa che non ho mai visto. Tra un gruppo e l’altro di punti e di linee, c’è un’incredibile quantità di materiale più veloce e dettagliato. Dovremo montare degli speciali congegni di ascolto per registrarlo.»

Abbassò la leva dell’apparecchio intercomunicante e disse a Bridger di passare di lì, poi raccolse i fogli e li ficcò in mano a Reinhart. «Ci dia un’occhiata! Abbiamo atteso per dieci anni e più qualcosa di simile. Dieci secoli, anzi.»

«È comprensibile?» chiese Osborne con la sua voce di funzionario statale, distaccata, ma alta e acuta come un nitrito.

«Sì».

«Siete in grado di decifrarlo?»

«Per amor di Dio! Ma lei pensa che l’universo sia abitato da boy-scouts che inviano messaggi in alfabeto Morse?»

Bridger entrò: appariva pallido e scosso, ma parve calmare Fleming con la sua presenza, e confermò il rapporto.

«Potrebbe venire da una sonda molto lontana,» suggerì Osborne.

Fleming lo ignorò. Judy chiamò a raccolta tutto il suo coraggio.

«O da un altro pianeta?»

«Sì».

«Marte o qualcosa di simile?»

Fleming alzò le spalle. «Probabilmente si tratta di un pianeta che ruota attorno a una stella di Andromeda.»

«E che ci fa delle segnalazioni?»

Reinhart passò i fogli a Osborne.

«È certo un susseguirsi coerente di punti e di linee.»

«Ma allora? Perché nessun altro lo ha captato?»

«Perché nessun altro ha un apparecchio perfetto come questo. Se non vi avessimo dato un complesso straordinariamente buono ora non lo riceveremmo.»

Osborne sedette a un angolo del banco di controllo guardando con aria stupefatta i fogli.

«Se qualche essere intelligente cerca di comunicare… No, non ha senso comune.»

«È possibile.» Reinhart si fissava con attenzione le dita delicate come se ci fosse qualcosa di cui preferiva non parlare. «Se ci sono altre creature…»

Fleming lo interruppe. «Non altre creature, altre intelligenze. Non è necessario che siano degli omini verdi piccoli piccoli. Non deve essere necessariamente qualcosa di organico: solo un’intelligenza.»

Judy tremò, poi si ricompose.

«Perché mi sento rabbrividire?»

«Per la stessa ragione che fa rabbrividire me,» rispose Fleming.

Osborne si riscosse.

«Per la medesima ragione per cui tutti rabbrividiranno se si tratta di una fonte astronomica.»

Alla fine decisero di ascoltare ancora, quella notte, il messaggio. Questo non era cessato, si era fatto solo piuttosto debole, perché il movimento di rotazione della Terra lo aveva posto fuori dal puntamento del telescopio. Con tutta probabilità sarebbe continuato. Una volta accettata questa possibilità, Reinhart tornò calmo e formale. Lui, Fleming e Bridger spiegarono i fogli per esaminarli.

«Sapete cosa potrebbe essere?» suggerì Fleming. «Aritmetica binaria.»

«Che cos’è?» chiese Judy.

«È un’aritmetica espressa soltanto dalle cifre 0 e 1, invece che dalle cifre da uno a dieci che noi usiamo normalmente e che chiamiamo decimali. 0 e 1, capite?, potrebbero essere punto e linea, oppure linea potrebbe essere uguale a 0, e punto uguale a 1. Il sistema che noi usiamo è arbitrario, mentre il sistema binario è fondamentale; è basato sul positivo e sul negativo, sì e no, punto e linea… è universale.» Si volse verso di lei: i suoi occhi erano iniettati di sangue, febbricitanti di tensione e di eccitazione. «’La filosofia è scritta in linguaggio matematico.’ Ricorda? Stiamo appunto superando la barriera!»

«Sarà meglio che rimandiamo l’inaugurazione,» disse Osborne. «Non vogliamo che questa storia finisca sulla Social Gazette.»

«Perché no?»

Osborne appariva inquieto. «Non si può dire o fare nulla senza permesso.» Non c’era niente più semplice di questa affermazione nella sua concezione del mondo. Nella sua mente ciò che accadeva a Bouldershaw Fell era la parte minore di un piano d’accordi, intricato e complesso, sullo sfondo del quale si profilavano tutte le cose che Vandenberg rappresentava. Tutto doveva venire pesato e vagliato con ogni precauzione.

«Che devo comunicare alla stampa?» gli chiese Judy.

«Nulla.»

«Nulla?»

«Siamo una società segreta o che diavolo?» Fleming lo fissò sprezzante, ma Osborne cercò di apparire ufficiale e ragionevole al tempo stesso.

«Non potete diffondere delle informazioni confuse come queste. C’è altra gente che deve essere consultata, e inoltre si potrebbero avere delle manifestazioni di panico: astronavi, dischi volanti, mostri con occhi da basilisco. Tutti gli idioti del paese crederanno di vederne. E poi potrebbe trattarsi di una cosa qualsiasi… No, nulla deve apparire sui giornali, Miss Adamson.»

Lasciarono Fleming in ebollizione e andarono nell’ufficio del professore per telefonare al Ministero; poi ripartirono.

Al Lion di Bouldershaw la stampa era già cominciata ad arrivare per occuparsi della cerimonia dell’inaugurazione. Judy fece entrare Reinhart e Osborne da una porticina posteriore in una piccola saletta, dove venne loro servita piuttosto tardi la cena; schivavano così la crescente falange dei corrispondenti scientifici, accampati nel salone. Tra un piatto e l’altro Osborne faceva prudenti sortite in direzione della cabina telefonica, e ogni volta tornava visibilmente più depresso e infastidito.

«Che ha detto il ministro?»

«Ha detto… ‘Consultate Vandenberg.’»

Finirono di mangiare senza molta voglia della carne piuttosto fredda, poi Osborne uscì di nuovo.

«Che ha detto Vandenberg?»

«Cosa credete che potesse dire? ‘Acqua in bocca su tutto.’»

Judy doveva comunicare alla stampa, l’indomani, che la inaugurazione era stata differita a causa di un intoppo tecnico, e nulla di più. Ogni ulteriore comunicato sarebbe stato fatto da Londra alle redazioni di Fleet Street.

Con ogni precauzione riuscirono ancora a scivolare fuori dalla porta posteriore senza essere notati.

Mezz’ora più tardi l’auto di Fleming si fermava davanti all’albergo, e lo studioso, stanco e assetato, spariva nel salone.

Quella sera il messaggio fu di nuovo captato. Proseguì per tutta la notte e fu registrato a turno da Fleming e da Bridger, e non soltanto i punti e le linee che erano facili a udirsi, ma anche la parte del messaggio trasmessa ad alta velocità. Il mattino seguente Dennis Bridger scese da solo a Bouldershaw, e Harries lo seguì. Dopo aver lasciato la macchina nel parcheggio di Town Hall, Bridger si incamminò lungo il selciato di una via laterale verso la parte bassa della città. Harries lo seguiva a piedi, a un isolato di distanza. Con un impermeabile al posto del suo solito grembiule, Harries assomigliava più a un bandito irlandese che a un uomo delle pulizie, e stava molto attento a non farsi scorgere da Bridger. Ma proprio Harries non notò una coppia di persone sul marciapiede, sul lato opposto della strada, accanto a una piccola porta che recava l’insegna James Oldroyd, allibratore. C’era molta gente lì attorno: due persone che parlassero insieme passavano inosservate.

Sulla soglia Bridger si volse, ed entrò in uno stretto passaggio male illuminato: le scale dalle guide di linoleum si inerpicavano al piano superiore e ai piedi della scala si trovava una porta dal vetro smerigliato. Quando chiuse la porta esterna, il rumore della strada venne tagliato fuori, lasciando il vestibolo tetro come una cripta. La porta dal vetro smerigliato portava la medesima scritta, James Oldroyd. C’era anche scritto «avanti.» Bridger entrò.

Benché fosse tardi, James Oldroyd stava facendo colazione, seduto alla sua scrivania. Era un uomo anziano, teneva arrotolate le maniche della camicia e indossava un cardigan scuro e scolorito; quando Bridger entrò stava intingendo con la punta della forchetta un pezzo di pane nell’uovo al burro. Nell’ufficio non c’era nessun altro, eppure la stanzetta pareva affollata. C’era un’enorme confusione: molti telefoni, una calcolatrice, un’apparecchiatura telegrafica e una telescrivente. Alle pareti parecchi calendari pubblicitari, strappati a mesi diversi, e, troneggiante, un vistoso orologio. Mr. Oldroyd levò lo sguardo da quell’insieme di vecchia paccottiglia e di attrezzature nuove per guardare un attimo Bridger.

«Oh, è lei.»

Bridger accennò alla telescrivente.

«Tutto bene?»

A mo’ di risposta, Mr. Oldroyd si fissò in bocca il pezzo di pane imbevuto d’uovo, e Bridger si mise al lavoro alla telescrivente.

«Come vanno gli affari?» chiese, dopo averla accesa e avere composto un numero. Sembrava un saluto convenzionale tra vecchie conoscenze.

«Così così,» rispose Mr. Oldroyd. «I cavalli non hanno senso di responsabilità. Se non arrivano tutti insieme vanno come delle lumache.»

Bridger batteva sulla telescrivente: KAUFMANN TELESCRIVENTE 21303 GINEVRA. Quindi si rese conto che fuori, nel vestibolo, era scoppiata una mischia; per un momento una testa si profilò contro il vetro della porta. Poi si sentì un borbottio, un gemito e infine la testa fu spinta via da altre due figure meno distinte. Bridger lanciò un’occhiata a Oldroyd che pareva non essersi accorto di nulla, intento a tagliare la cotenna da una fetta di pancetta: tornò alla telescrivente. Quando ebbe finito di scrivere, uscì con ogni precauzione nell’ingresso. Era libero. La porta che dava sulla strada oscillava, semiaperta, ma nella strada non c’era segno di alcunché di insolito. Nessuno era fermo sull’altro lato, nessuno osservava da un angolo. Una macchina, che si stava allontanando, avrebbe potuto avere a che fare con l’incidente, e forse no.

Dennis Bridger si avviò al parcheggio: le gambe gli tremavano.

Notizie del messaggio apparirono attraverso un’agenzia stampa in tempo per l’edizione della sera. Quando il generale Vandenberg fece visita al ministro della Scienza per protestare, veniva teletrasmessa una dichiarazione governativa. Il ministro non c’era. Osborne si fermò con Vandenberg nell’ufficio del suo capo, fissando lo schermo dell’apparecchio televisivo, in un angolo della stanza, sul quale l’annunciatore leggeva con fare serio e compreso.

Il governo di quel periodo era una raccolta di talenti, rappresentativa, sì, ma priva di scopo; questo «serrare le file» in tempo di crisi era stato soprannominato «governo meritocratico.» Erano uomini e donne di notevoli capacità, ma senza alcun principio comune, eccetto quello di sopravvivere. Il primo ministro era un conservatore, il ministro del Lavoro un sindacalista rinnegato; alcuni posti chiave erano occupati da uomini più giovani, attivi e ambiziosi come il ministro della Difesa, altri da persone meno capaci ma che impressionavano il pubblico con la loro capacità dialettica, come il ministro della Scienza. L’idea della differenza tra i partiti era stata smarrita, piuttosto che eliminata: forse, in questa nazione, era la fine della partitocrazia. Nessuno si preoccupava molto, e l’intero paese si perdeva in un’apatia senza speranze, in opposizione a un mondo che ormai sfuggiva al suo controllo. Alcuni rimasugli dello schieramento di sinistra, gli estremisti, facevano sì che la parola «Vichy» venisse scritta di quando in quando sui muri di Whitehall, ma questo era l’unico segno visibile di vita; la gente si occupava in pace della propria esistenza e sui pubblici affari era caduto uno strano silenzio. Si diceva che c’era tanto silenzio che si poteva sentir cadere una bomba.

In questo vuoto piombò la notizia del messaggio proveniente dallo spazio. I giornali, come ci si poteva aspettare, presero la notizia per il verso sbagliato. Gli uomini dello spazio spargono il terrore. Preludio all’aggressione? chiedevano. Dallo schermo televisivo l’annunciatore leggeva compunto la dichiarazione ufficiale:

«Questa sera il governo ha smentito con veemenza la notizia circa una possibile invasione dallo spazio. Un portavoce del Ministero della Scienza ha specificato ai giornalisti che, mentre è vero che ciò che sembrava essere un messaggio è stato captato a Bouldershaw Fell, non c’è alcuna ragione di credere che questo provenga da un’astronave o da un pianeta vicino. Comunque, qualora il segnale captato sia un messaggio, proviene da una fonte molto lontana.»

Non c’era nessuna spiegazione soddisfacente per questa indiscrezione. Reinhart non ne sapeva nulla, e l’uomo di fiducia del Ministero della Difesa che si trovava sul luogo, Harries, risultava inspiegabilmente mancante. L’esercito, tuttavia, era alla ricerca dei responsabili. Vandenberg tirò fuori due dossier che aprì sul tavolo del ministro.

«’Fleming, dottor John. Dal 1960 in poi: anti-Nato, filoafricano, marcia di Aldermaston, disobbedienza civile, prodisarmo nucleare.’ Lo chiama una persona su cui si possa contare?»

«È uno scienziato, non un candidato per il commissariato di polizia.»

«Si sospetta che sia lui il responsabile. Guardi l’altro.» Il generale sfogliava, non senza piacere, il secondo dossier. «Bridger, membro del partito comunista dal cinquantotto al sessantatré. Poi è slittato a destra e ha cominciato a collaborare a uno dei cartelli internazionali, ma a uno dei più sporchi, la Intel. Potrebbero anche lasciarlo perdere.»

«Fleming non lavorerà senza di lui.»

«Come volevasi dimostrare.» Il generale raccolse gli schedari. «Oserei dire che in questo campo siamo vulnerabili.»

«D’accordo,» esclamò stancamente Osborne, e sollevò il telefono del ministro. Parlava nel ricevitore con tono gentile, come se ordinasse dei fiori. «Bouldershaw Fell.»

Nella sala di controllo il messaggio stava di nuovo arrivando. Harvey era fuori, nella sala di registrazione, e si occupava dei nastri. Fleming era solo al banco di controllo. Erano privi di mano d’opera. Whelan all’improvviso era stato mandato via e perfino Harries era assente. Bridger se ne gironzolava attorno, con aria petulante, inquieto e molto agitato. Infine si decise ad affrontare l’amico.

«Ascolta, John, potrebbe andare avanti per sempre.»

«Forse.»

Dall’altoparlante usciva senza interruzione il suono delle stelle.

«Mi preparo a fare le valige.» Fleming lo fissò. «Il progetto è finito. Qui, per me, non c’è più nulla da fare.»

«Per te c’è tutto da fare.»

«Preferirei andarmene.»

«E che ne dici di questo?»

Ascoltarono per un momento l’altoparlante. Il viso di Bridger si contrasse.

«Potrebbe essere qualsiasi cosa,» commentò bruscamente.

«Ma io ho idea di cosa potrebbe essere.»

«Che cosa?»

«Potrebbe essere un insieme di istruzioni.»

«D’accordo, lavoraci su.»

«Ci lavoreremo insieme.»

In quel momento Judy irruppe nella stanza. Avanzò dalla porta con passo deciso; i suoi tacchi risuonavano sul pavimento come quelli di un ufficiale della guardia: il suo volto era teso e irato. Riuscì a malapena ad avvicinarsi a loro prima di esplodere.

«Chi di voi due ha parlato alla stampa?»

Fleming la fissò con profondo stupore. Essa si rivolse a Bridger.

«Qualcuno si è lasciato sfuggire delle informazioni, tutte le informazioni, anzi, con la stampa.»

Fleming fece schioccare la lingua con disapprovazione. Judy gli lanciò un’occhiata di fuoco e si rivolse nuovamente a Bridger.

«Non è stato il professor Reinhart, e non sono stata io. Non è stato Harvey o un altro dei ragazzi, che non ne sapevano abbastanza. Perciò si tratta di uno di voi.»

«Come volevasi dimostrare,» commentò Fleming. Judy lo ignorò.

«Quanto l’hanno pagata, dottor Bridger?»

«Io…»

Bridger si interruppe. Fleming si alzò e si mise tra loro.

«È affar suo?» le chiese.

«Sì. Io…»

«Bene, chi è lei?» Il suo volto si avvicinò a quello di lei e la ragazza si rese conto che l’alito di Fleming sapeva ancora di alcool.

«Io,» parlava con voce rotta, «io sono l’agente stampa. La responsabilità è mia. Ho proprio avuto la più grossa grana della mia vita.»

«Mi spiace davvero,» mormorò Bridger.

«È tutto quello che mi sa dire?» La voce di lei si levava tremante.

«Vuole un buon consiglio, per il suo bene?» Fleming se ne stava fermo, a gambe divaricate, oscillando, e sogghignandole in faccia con disprezzo. «Molli il mio amico Dennis.»

«Perché?»

«Perché sono stato io a raccontare tutto ai giornalisti.»

«Lei?» Arretrò come se l’avessero schiaffeggiata in pieno viso. «Era ubriaco?»

«Sì,» rispose Fleming, e le volse le spalle. Si diresse alla porta della sala di registrazione e si guardò attorno. «Anche se fossi stato sobrio, le cose non sarebbero andate diversamente.»

Era appena uscito quando le gridò: «E non mi hanno pagato!»

Judy restò immobile per un attimo, senza vedere né sentire. L’altoparlante sibilava e gracchiava; la luce al neon splendeva sui pochi mobili lisci. Di fuori l’arco del telescopio si alzava contro il cielo che si faceva sempre più scuro: solo tre giorni prima Judy vi era giunta, non ancora iniziata e non ancora coinvolta… si accorse che Bridger le era accanto offrendole una sigaretta.

«Ha perduto un idolo, eh, Miss Adamson?»

Judy, come press-agent, dovette fare rapporto a Osborne, e Osborne fece rapporto al Ministero. Non giunse alcuna notizia di Harries, e la sua scomparsa non venne ufficialmente annunciata. La stampa era convinta che l’intera faccenda fosse o un errore o una grossa presa in giro. Dopo una serie di penosi incontri tra i ministri, il Ministero della Difesa fu in grado di assicurare al generale Vandenberg e ai suoi capi che nulla di simile sarebbe più accaduto: se ne sarebbero assunti in pieno la responsabilità. Le ricerche di Harries furono intensificate e Fleming venne chiamato a rapporto a Londra.

In un primo tempo sembrò probabile che Fleming stesse proteggendo Bridger, ma fu presto appurato che in realtà egli aveva raccontato a un giornalista di nome Jenkins tutta la storia, tra i fumi dell’alcool, nell’albergo Lion. Benché Bridger avesse rassegnato le sue dimissioni, doveva lavorare per altri tre mesi, e gli fu lasciato l’incarico di Bouldershaw Fell mentre Fleming era lontano. Il messaggio continuava ad arrivare e veniva stampato in codice di 0 e 1.

Fleming non sembrava nemmeno sfiorato dall’agitazione generale. Prese con sé, nel treno che lo portava a Londra, tutti i fogli stampati e di ora in ora li studiò tutti, facendo note e calcoli sui margini e sulle lettere e buste che per caso si trovava in tasca. Pareva che non si accorgesse d’altro. Si vestiva e mangiava automaticamente, beveva poco; la preoccupazione e l’agitazione lo bruciavano. Ignorò Judy e diede a malapena un’occhiata ai giornali.

Quando giunse al Ministero della Scienza, fu condotto nell’ufficio di Osborne, dove questi lo attendeva assieme a Reinhart e a un uomo di mezz’età, riservato, dai capelli grigi e dagli impazienti occhi azzurri. Osborne si alzò e gli strinse la mano. «Il dottor Fleming.» Era molto formale.

«Salve,» salutò Fleming.

«Conosce il commodoro Watling, del reparto Sicurezza del Ministero della Difesa?»

L’uomo si inchinò e lo guardò senza alcun calore. Fleming cambiò atteggiamento e si rivolse con aria interrogativa a Reinhart.

«Salve, John,» disse Reinhart con voce acuta e misurata. Imbarazzato, cominciò a guardarsi le mani.

«Si accomodi, dottor Fleming.»

Osborne indicò una sedia che si trovava di fronte alle altre, ma Fleming indugiò con lo sguardo su ciascuno di loro prima di sedersi, come se si stesse risvegliando in un posto sconosciuto.

«Cos’è? Una commissione d’inchiesta?»

Seguì un breve silenzio. Watling si accese una sigaretta.

«Sapevo che c’erano delle misure di sicurezza attorno al vostro lavoro.»

«Che significa?»

«Che erano argomenti confidenziali.»

«Sì.»

«Allora perché…»

«Non sono dalla parte degli scienziati che raccontano frottole.»

«Prendila con filosofia, John,» consigliò dolcemente Reinhart. Watling passò ad altro argomento.

«Ha visto i giornali?»

«Alcuni.»

«Mezzo mondo è convinto che degli ometti verdi con lunghe antenne si preparino ad atterrare nei nostri giardini.»

Fleming sorrise, sentendosi più sicuro il terreno sotto i piedi.

«E lei?»

«Io sono a conoscenza dei fatti.»

«I fatti sono quelli stessi che ho comunicato alla stampa. I fatti strettamente scientifici. Come potevo pensare che sarebbero stati male interpretati?»

«Non è compito suo prendere l’iniziativa su simili cose, dottor Fleming.» Osborne, disinvolto, si era insediato dietro la propria scrivania, a fare da giudice. «Ecco perché è stato pregato di non interferire. L’ho messo in guardia io stesso.»

«E allora?» Fleming era già annoiato.

«Abbiamo dovuto mandare un rapporto completo al Comitato organizzazione difesa,» disse Watling severamente. «E il primo ministro sta preparando una dichiarazione per le Nazioni Unite.»

«Tutto bene, allora.»

«Non ci piace trovarci in questa posizione, ma ci hanno forzato la mano e ora tocca a noi cancellare il panico.»

«Naturale.»

«Ed è stato lei a forzarci la mano.»

«Dovrei presentarmi a Canossa?» Fleming cominciava a essere arrabbiato quanto annoiato. «Quello che faccio delle mie scoperte è affar mio. Siamo ancora in un paese libero, no?»

«Ma tu fai parte di un gruppo, John,» obiettò senza guardarlo il professor Reinhart. Osborne si piegò verso di lui, sulla scrivania, con fare persuasivo.

«Quel che ci vuole, dottor Fleming, è una dichiarazione personale.»

«E a che servirà?»

«Qualsiasi cosa è utile finché serve a tranquillizzare il pubblico.»

«Soprattutto se potete screditare l’informatore.»

«Non è una faccenda personale, John,» intervenne Reinhart.

«No? E allora perché sono qui?» Fleming fece scorrere lo sguardo su di loro, sprezzante.

«Quando avrò fatto una dichiarazione per render noto che ho parlato in un momento di aberrazione mentale, be’, cosa accadrà allora?»

«Temo che…» Reinhart si esaminava di nuovo le unghie.

«Temo che il professor Reinhart non abbia scelta,» mormorò Watling.

«Vogliono che tu lasci l’osservatorio,» spiegò Reinhart.

Fleming si alzò e rifletté un istante. I tre si aspettavano un’esplosione.

«Be’, è semplice, no?» disse infine, tranquillo.

«Non voglio perderti, John.» Reinhart ebbe un gesto di sconforto.

«No, certo che no. C’è un impedimento.»

«Oh?»

«E cioè che non potete andare avanti senza di me.»

Erano preparati a questo. C’era altra gente, sottolineò Osborne.

«Ma non ne sanno niente, vero?»

«Perché, lei ne sa qualcosa?»

Fleming annuì, sorridendo. Watling si drizzò ancor più sulla sedia.

«Vuol dire che l’ha decifrato?»

«Voglio dire che so di che si tratta.»

«E si aspetta che noi ci crediamo?»

Osborne ovviamente non ci credeva, così come non ci credeva Watling. Ma Reinhart non era tanto sicuro.

«Di che si tratta, John?»

«Resto all’osservatorio, allora?»

«Di che si tratta?»

Fleming sogghignò. «È un giochetto di costruzioni. E non è di origine umana. Posso dimostrarlo.»

Si mise a frugare nella sua cartella alla ricerca dei fogli.

3

Approvazione

Il nuovo istituto di elettronica era situato in una piazza che un tempo era stata in stile Reggenza, ora riservata ai pedoni, circondata da alti edifici in vetro e cemento, dalle facciate di marmo. L’istituto possedeva parecchi piani riservati agli apparecchi calcolatori, e dopo laboriosi intrighi di corridoio Reinhart riuscì a ottenere per Fleming un’amnistia e a installarvi, con la possibilità di usare gli strumenti, lui e il resto della squadra. A Bridger, poiché si avvicinava il termine del suo contratto, fu data una giovane assistente che si chiamava Christine Flemstad, e Judy, con disgusto suo e di tutti gli altri, venne ancora destinata a loro.

«Accidenti,» borbottava Fleming, «a cosa serve un addetto alle public relations se rappresentiamo un segreto di stato così stramaledetto che non possiamo guardarci nello specchio neanche per lavarci i denti?»

«Dovrei venire a sapere di che si tratta, se me lo permetterete, in modo che quando la cosa sarà divulgata…»

«Lei dovrà essere al corrente?»

«Le spiace?» Il tono di Judy era incerto, come se fosse lei e non Fleming a essere da biasimare per primo. Si sentiva legata a lui da un vincolo inspiegabile.

«Non c’è da preoccuparsi!» commentò Fleming. «Più donne ci sono meglio è.»

Ma, come aveva già annunciato a Bouldershaw, non aveva tempo. Passava tutte le sue giornate e buona parte della notte riducendo a cifre comprensibili l’enorme massa di dati del telescopio. Qualsiasi accordo avesse preso lui, o Reinhart avesse preso per lui, l’aveva reso più controllato e aveva intensificato le sue capacità lavorative. Guidava Bridger e la ragazza con determinazione solida e costante, e sopportava pazientemente ogni supervisione e ogni routine. Formalmente l’incaricato era Reinhart, e Fleming gli portava obbedientemente tutti i risultati: ma quelli della Difesa non erano mai lontani e Fleming cercava perfino di essere gentile con Watling, che soprannominarono «ali d’argento.» Il resto della squadra era meno soddisfatto. Tra Bridger e Judy c’era un’evidente freddezza. E Bridger, comunque, attendeva con impazienza il momento in cui se ne sarebbe andato; Christine aveva chiaramente tutte le possibilità di succedergli. Era giovane e bella e quanto a serietà sul lavoro assomigliava a Fleming, e senza possibilità d’equivoco considerava Judy una seccatrice. Appena ne aveva la possibilità le dichiarava battaglia.

Poco tempo dopo che avevano lasciato Bouldershaw, Harries era stato ritrovato: Watling Io rivelò in una delle sue visite alla squadra. Harries era stato assalito nella casa dell’allibratore, legato in un’auto, picchiato e abbandonato in un mulino fuori uso, dove era stato lì lì per morire. Aveva vagato con una gamba rotta, senza poter uscire, vivendo dell’acqua che gocciava da un rubinetto e di un po’ di cioccolata che aveva in tasca, finché, dopo tre giorni, era stato trovato da un bracconiere. Non tornò tra loro, e Watling raccontò solo a Judy i particolari. La ragazza se li tenne per sé, ma cercò di sondare Christine sul passato di Bridger.

«Da quanto tempo lo conosce?»

Erano in un piccolo edificio, esterno alla sala del calcolatore principale. Christine lavorava a un piccolo cavalletto, immersa in un gran disordine di schede perforate; Judy gironzolava attorno, desiderando avere una sedia sua personale.

«Ero sua compagna di ricerche a Cambridge.» Nonostante i suoi genitori fossero di origine baltica, Christine parlava come una ragazza inglese di buona cultura.

«Lo conosceva bene?»

«No. Se desidera il suo curriculum accademico…»

«Mi chiedevo soltanto…»

«Che cosa?»

«Se non si sia mai comportato in modo… strano.»

«Be’, non ho mai dovuto portare una cintura di castità.»

«Non volevo dire questo.»

«E che voleva dire, allora?»

«Non le ha mai chiesto di aiutarlo a fare qualcosa, collateralmente?»

«Perché mai avrebbe dovuto?» Si rivolse a Judy e la guardò con occhi severi e ostili. «Alcuni di noi hanno un vero lavoro da portare avanti.»

Judy si diresse alla sala del calcolatore e osservò le macchine che ticchettavano e vibravano. Ogni macchina aveva il proprio tecnico, uomini e donne dall’aspetto assolutamente neutro, vestiti di camici identici. Al centro un lungo tavolo, sul quale i calcoli che uscivano dal calcolatore venivano ammonticchiati in pile di schede perforate e rotoli di nastro registrato e lunghe strisce di carta provenienti dalle stampatrici. La quantità di cifre contemplata dal calcolatore era incredibile, e pareva assolutamente estraneo a qualsiasi elemento umano: era un insieme di macchinari che parlava un suo gergo privato.

Judy aveva imparato un po’ di quanto stava facendo la squadra. Il messaggio di Andromeda era continuato per parecchie settimane, senza ripetersi, poi era ritornato al punto di partenza e aveva ricominciato tutto una seconda volta. Questo li aveva messi in grado di riempire la maggior parte delle lacune della prima trasmissione: poiché la Terra girava, si poteva ricevere il messaggio solo nelle ore in cui l’emisfero occidentale si trovava di fronte alla costellazione di Andromeda, e per dodici ore su ventiquattro la sorgente si trovava sotto la linea dell’orizzonte. Quando il messaggio ricominciò per la seconda volta, la rotazione della Terra era in un diverso rapporto rispetto alla costellazione di Andromeda, così che si poteva ricevere parte dei passaggi che erano andati perduti; e alla fine della terza ripetizione lo ebbero tutto. Il personale di Bouldershaw Fell continuava a intercettare, ma non si aveva alcun mutamento. Quale che fosse la sorgente aveva una cosa ben precisa da dire e insisteva nel dirla.

Nessuno degli iniziati ormai dubitava più che si trattasse di un messaggio; persino il reparto del commodoro Watling faceva riferimento a esso come alla «trasmissione di Andromeda,» quasi che la sorgente e l’identità del messaggio fossero fuori discussione. Il lavoro su questo messaggio veniva catalogato come progetto A. Era un messaggio molto lungo e i punti e le linee, una volta tradotti in linguaggio matematico comprensibile, ammontavano a parecchi milioni di lunghi gruppi di cifre. Senza i calcolatori il passaggio a forma normale avrebbe richiesto una vita: e anche con questi richiedeva parecchi mesi. A ogni macchina era stato insegnato cosa fare delle informazioni che le venivano date: e questo, aveva imparato Judy, si chiamava programmazione. Una programmazione consisteva in un insieme di calcoli introdotti su schede perforate, che facevano fare alla macchina il lavoro richiesto. Vi veniva poi introdotto il gruppo di cifre che dovevano essere analizzate, i dati, cioè, e la macchina nel giro di pochi secondi dava la risposta. Questo processo doveva venire ripetuto per l’esame di ogni nuovo gruppo di cifre. Fortunatamente i calcolatori più piccoli potevano venire usati per preparare il materiale per quelli più grandi, e tutte le macchine possedevano, oltre all’unità di ingresso, di controllo, di calcolo e di uscita, una notevole memoria, cosicché le nuove risposte potevano venire basate sull’esperienza di quelle precedenti.

Era Reinhart, gentile, tollerante, saggio e pieno di tatto, che aveva spiegato la maggior parte di ciò a Judy. Dopo l’episodio di Bouldershaw, accettava più cordialmente la sua presenza, e aveva cominciato a dimostrarle una certa simpatia, facendole capire che gli spiaceva la situazione in cui lei si trovava. Sebbene fosse preso fino al collo dai fragili rapporti tra i reparti che permettevano loro di portare avanti il lavoro, in quel periodo le sue spiccate doti di capo erano particolarmente in evidenza. In qualche modo riuscì a tenere Fleming nei giusti binari, e a tenere a bada le autorità, e, ciò nonostante, aveva ancora il tempo di occuparsi delle idee e dei problemi di ciascuno; nel frattempo restava discretamente in secondo piano, passando di problema in problema come un angelo custode silenzioso, efficiente e molto penetrante.

Era solito prendere Judy per un braccio e parlarle con molta semplicità di quel che stava facendo, come se avesse moltissimo tempo a disposizione e una preparazione eccezionale. Ma per farle capire il calcolatore giunse a un punto al quale dovette rivolgersi a Fleming, e Fleming proseguì da solo. I calcolatori, comprese Judy, erano il primo e grande amore di Fleming, ed egli comunicava con loro per mezzo di una magica facoltà di intuizione.

Non c’era nulla di strano in lui; solo possedeva una facilità sovrumana per il loro linguaggio. Diguazzava nella matematica in base due come un pesce nel mare e operava dei brevi tagli logici che risparmiavano a Bridger e a Christine le parecchie ore necessarie al controllo; ma non lo colsero mai in errore.

Un giorno, poco prima di quando Bridger sarebbe dovuto partire, Reinhart li sequestrò per una seduta più lunga del solito, alla fine della quale andò dritto al Ministero. Il giorno dopo il professore e Fleming tornarono insieme a Whitehall.

«Ci siamo tutti?»

La voce equina di Osborne nitriva per tutta la lunghezza della sala delle conferenze. Attorno alla lunga tavola stavano circa trenta persone, a gruppi, chiacchierando. Sulla lucida superficie di mogano erano disposti, a intervalli, taccuini, blocchi di fogli, e matite; e al centro del tavolo erano preparati dei vassoi d’argento carichi di brocche d’acqua e bicchieri. A un capo del tavolo c’era un blocco più grande, dagli angoli ricoperti di cuoio bulinato, per l’Uomo Importante.

Vandenberg e Watling erano in un gruppo, Fleming e Reinhart in un altro, e un rispettoso circolo di funzionari statali in abito grigio scuro circondava un’abbagliante matrona dall’abito a fiori. Osborne, con aria esperta, li teneva d’occhio, poi fece cenno al più giovane degli uomini in grigio, che stava in piedi dietro alla porta. Il giovane sparì nel corridoio e Osborne prese posto a capotavola. «Ehm,» nitrì. Gli altri occuparono i propri posti e Vandenberg, su invito di Osborne, sedette alla destra del posto principale. Fleming, accompagnato da Reinhart, sedette con ostentazione all’estremità opposta. Ci fu un istante di silenzio, poi la porta si spalancò e James Robert Ratcliff, ministro della Scienza, entrò. Fece con la mano un cenno affabile a uno o due giovani che accennavano ad alzarsi. «Comodi, comodi,» e prese posto dietro la cartelletta lavorata. Aveva una nobile testa dai capelli grigi, forse eccessivamente elegante, e viso e mani dal colorito sano. Le dita erano molto forti, quadrate, capaci. Sorrise cordialmente all’assemblea.

«Buon giorno, signore e signori; spero di non essere in ritardo.»

I più nervosi scossero il capo, mormorando di no.

«Come sta, generale?» Ratcliff si rivolse a Vandenberg con un gesto che ricordava vagamente Cesare.

«Vecchio e malato,» rispose Vandenberg che non era né una cosa né l’altra.

Osborne tossicchiò. «Vuole che faccia qualche presentazione?»

«Grazie. Vedo delle facce nuove.»

Osborne conosceva il nome di tutti e il ministro elargiva a ciascuno un grazioso cenno del capo o un gesto della mano. Si scoprì che l’infiorata primadonna era una certa Mrs. Tate-Allen, rappresentante della commissione finanziatrice. Quando giunsero a Fleming la reazione del ministro cambiò.

«Ah… Fleming, non più indiscrezioni, spero.»

Fleming gli lanciò una torva occhiata.

«Ho tenuto la bocca chiusa, se è questo che vuol dire.»

«Proprio questo.» Ratcliff ebbe un sorriso affascinante e passò oltre, a Watling.

«Cercheremo di non sprecare troppo tempo.» Sollevò la sua bella testa da antico romano e guardò il professor Reinhart all’altro capo del tavolo.

«Ha qualche bella notizia per noi, professore?»

Reinhart tossicchiò diffidente, dietro la sottile mano esangue.

«Il qui presente dottor Fleming ha fatto un’analisi.»

«Mi scusi.» Mrs. Tate-Allen sorrise radiosa. «Ma non credo che sia stata chiarita esattamente la posizione del qui presente Mr. Newby.»

Mr. Newby era un ometto piccolo, esile, che pareva abituato alle umiliazioni.

«Oh, giusto, forse dovreste colmare le lacune, Osborne.»

Osborne eseguì.

«E ora?»

Venti paia di occhi, compresi quelli del ministro, si posarono su Fleming.

«Sappiamo di che si tratta.»

«Oh, bene,» esclamò Mrs. Tate-Allen.

«Di che si tratta?»

Fleming guardò, tranquillo, il ministro.

«Si tratta del programma di un calcolatore,» spiegò pacatamente.

«Il programma per un calcolatore, ne è ben sicuro?»

Fleming si limitò ad annuire. Tutti gli altri parlavano.

«Per piacere, signori,» gridò Osborne, lasciando cadere un pugno sulla tavola.

La confusione si placò. Mrs. Tate-Allen alzò una mano guantata di blu.

«Temo, Eccellenza, che alcuni di noi non sappiano cos’è il programma di un calcolatore.»

Mentre Fleming spiegava, Reinhart e Osborne si appoggiarono allo schienale della sedia e respirarono, sollevati. Il ragazzo si stava comportando bene.

«L’avete provato su un calcolatore?» chiese Mrs. Tate-Allen.

«Abbiamo usato dei calcolatori per decifrarlo. Non abbiamo nulla che possa comprenderlo tutto.» Si batté i fogli contro la fronte. «E questo non è molto ampio.»

«Se aveste la possibilità di usare un calcolatore più grande…» suggerì Osborne.

«Non è solo questione di dimensioni. Si tratta in realtà di qualcosa di più di un semplice programma.»

«Di che si tratta, allora?» chiese Vandenberg, sistemandosi più comodamente sulla sua sedia. Gli si prospettava una seduta piuttosto lunga.

«È in tre sezioni.» Fleming sistemò i suoi fogli come se questo rendesse la cosa più chiara. «La prima parte è una progettazione, o piuttosto è un’impostazione matematica che può essere interpretata come una progettazione. La seconda parte è il programma vero e proprio, il codice normale, come lo chiamano. La terza e ultima parte sono i dati, cioè le informazioni mandate affinché la macchina ci lavori su.»

«Sarei lieto di poter…» Vandenberg tese una mano e i fogli gli vennero passati. «Non dico che abbia torto. Ma vorrei che il nostro personale delle segnalazioni controllasse il vostro procedimento.»

«Faccia pure,» assentì Fleming. Appena i fogli cominciarono a girare attorno al tavolo, si fece un rispettoso silenzio, ma ovviamente Mrs. Tate-Allen sentiva che era necessario un qualche commento.

«Interessantissimo, devo dire.»

«Interessante?» Fleming pareva sul punto di esplodere. Reinhart gli strinse il braccio con forza. «È la cosa più importante che sia avvenuta dall’evoluzione del cervello in poi.»

«Bene, John,» mormorò Reinhart. Il ministro proseguì.

«Che conta di fare, ora?»

«Costruire un calcolatore che possa elaborarlo.»

«Sta davvero esponendo la possibilità,» Sua Eccellenza parlava lentamente, scegliendo con attenzione le parole, come se fossero dei cioccolatini, «che qualche altra creatura, in qualche lontana zona della galassia, qualche essere che non ha mai avuto prima alcun contatto con noi, ci abbia ora mandato, a tutto nostro vantaggio, il progetto e il programma per il tipo di macchina elettronica…»

«Sì,» confermò Fleming. Sua Eccellenza proseguì: «… che noi per caso possediamo sulla Terra?»

«Non la possediamo.»

«Possediamo il tipo, se non il modello. Le par probabile?»

«È così.»

Fleming faceva un’impressione piuttosto dubbia sull’uditorio. Tipi del genere li avevano visti altre volte. Giovani scienziati genialoidi, ostinati e irritabili, che non sopportavano i processi delle commissioni e che tuttavia andavano trattati con grande pazienza, perché forse avevano nella loro personalità qualcosa di valido. Questi ufficiali facilmente caricaturabili non erano pazzi: erano abituati a giudicare la gente e le situazioni. Molto dipendeva da quello che pensavano Reinhart, Vandenberg e Osborne. Ratcliff si rivolse interrogativamente al professore.

«L’aritmetica è universale,» mormorò il professore, «e così può essere per il calcolo elettronico.»

«Può essere l’unica forma di calcolo, in ultima analisi…» interferì Fleming. Vandenberg alzò lo sguardo dai fogli.

«Mi chiedo…»

«Guardi.» Fleming lo interruppe. «Il messaggio continua a essere ripetuto. Se ha un’idea migliore, vada a lavorarci su.»

Reinhart, a disagio, lanciò un’occhiata di sottecchi a Osborne che stava sorvegliando l’andamento della partita come l’arbitro di un incontro di cricket.

«Non si può usare una macchina già esistente?» chiese Osborne.

«Ho già detto di no.»

«Sembra una domanda abbastanza ragionevole,» osservò mitemente Sua Eccellenza. Fleming gli si rivolse appassionatamente.

«Questo programma è davvero enorme. Non mi pare che lei comprenda il problema fino in fondo.»

«Allora spiega, John,» esortò Reinhart.

Fleming prese fiato e continuò con più calma. «Se volete che un calcolatore vi dia dei risultati decenti, deve essere in grado di accogliere un programma di circa cinquemila gruppi di istruzioni. Se volete che giochi a scacchi, e potete farlo giocare a scacchi — io ho giocato a scacchi con dei calcolatori, — dovete riempirlo con circa quindicimila istruzioni. Per manipolare questo materiale,» accennò ai fogli davanti a Vandenberg, «avete bisogno di un calcolatore che possa contenere un miliardo, o, più precisamente, decine di miliardi di cifre, prima ancora che possa cominciare a lavorare sui dati.»

Finalmente l’uditorio gli aveva concesso la sua piena attenzione: questa era l’apparizione fugace di un cervello che potevano rispettare.

«È certo questione di mettere insieme abbastanza unità,» disse Osborne.

Fleming scosse il capo.

«Non è questione di dimensioni. È necessaria una nuova concezione. Non c’è nessun apparecchio sulla Terra…» Cercò un esempio, e gli altri attesero che ne trovasse uno. «Il nostro calcolatore più recente lavora ancora in microsecondi. Questa è una macchina che deve lavorare in micromillisecondi, altrimenti saremo tutti dei vecchietti prima che abbia finito di esaminare questa enorme quantità di dati. E ci vorrebbe una memoria, probabilmente una memoria a bassa temperatura, che avesse al minimo la capacità del cervello umano, ma con un controllo molto più efficiente.»

«È provato?» chiese Ratcliff.

«Ma cosa crede? Dobbiamo prima trovare i mezzi per dimostrarlo. Quale che sia l’intelligenza che ci ha mandato questo messaggio, è molto avanti rispetto a noi. Non sappiamo perché abbiano mandato questo messaggio e a chi, ma è qualcosa che noi non saremmo stati in grado di fare mai. Noi siamo soltanto degli homo sapiens che percorrono faticosamente il loro cammino. Se vogliamo interpretarlo…» Fece una pausa. «Se…»

«Questa è una teoria, no?»

«È un’analisi.»

Sua Eccellenza fece ancora una volta appello a Reinhart.

«Pensa che possa venir dimostrato?»

«Posso dimostrarlo,» disse Fleming.

«Chiedevo al professore.»

«Posso dimostrarlo, costruendo un calcolatore in grado di elaborare questi dati,» insisté Fleming, per nulla scoraggiato. «Ecco quel che si deve fare.»

«Le pare realistico?»

«È quanto chiede il messaggio.»

Sua Eccellenza cominciava a perdere la pazienza. Tamburellava le dita quadrate sul tavolo.

«Professore?»

Reinhart prese in considerazione non tanto quel che credeva, ma ciò che doveva dire.

«Ci vorrebbe molto tempo.»

«Ma è veramente necessario farlo?»

«Forse.»

«Avrei bisogno, per lavorarci, del miglior calcolatore disponibile,» disse Fleming, come se tutto fosse già stato stabilito. «E della mia squadra attuale, al completo.»

Osborne pareva preoccupatissimo. La soluzione era ancora molto confusa, per chiunque sapesse come vanno di solito queste cose, e il ministro cominciava a dimostrare che si stava irritando.

«Possiamo mettere a sua disposizione i calcolatori delle università,» disse, come se parlasse di questioni di routine quotidiana. La pazienza di Fleming a un certo punto toccò il limite massimo.

«Crede davvero che di questi tempi le università abbiano le attrezzature migliori?» Puntò un dito verso Vandenberg. «Chieda ai suoi colleghi dell’esercito dove sono in questo paese le uniche macchine calcolatrici decenti.»

Ci fu un attimo di gelido silenzio. Tutti fissavano il generale americano.

«Avrei avuto bisogno di un preavviso per rispondere a questa domanda.»

«Non ne ha bisogno, perché sarò io a dirlo. Al centro missilistico di Thorness.»

«È impegnato nei lavori per la difesa.»

«Certo,» commentò Fleming sprezzante.

Vandenberg non rispose. Quel giovane rappresentava un problema di pertinenza del ministro. L’assemblea attendeva, mentre Ratcliff tamburellava con le dita sulla cartella di cuoio bulinato e Osborne, senza molte speranze, calcolava il punteggio. Il suo capo era certo impressionato, ma non convinto. Fleming, come tutti gli uomini sinceri, non era un buon avvocato. Aveva avuto le sue possibilità, e più o meno le aveva sprecate tutte. Se il ministro non ne avesse fatto nulla, tutta la faccenda si sarebbe risolta in uno sfoggio di teoria accademica. Se avesse deciso d’agire, avrebbe dovuto negoziare con l’esercito, avrebbe dovuto convincere non solo il ministro della Difesa, ma anche la Commissione alleata di Vandenberg, del fatto che il giuoco valeva la candela. Ratcliff prendeva tempo. Gli piaceva che la gente dovesse aspettarlo.

«Potremmo farne richiesta,» disse infine. «Sarebbe una faccenda che riguarda il Consiglio.»

Per un po’ di tempo, dopo la riunione, la squadra non ebbe nulla da fare. Prudentemente, Reinhart e Osborne portavano avanti passo passo i negoziati, ma Fleming non poteva proseguire in tal modo. Bridger sbrigava il lavoro che gli restava. Christine sedeva tranquilla nel suo ufficio a controllare e ricontrollare il lavoro già svolto. Ma Fleming si allontanò da tutto e prese con sé Judy.

«Non serve a niente stare a gingillarsi mentre quelli prendono una decisione,» e se la trascinava dietro perché lo aiutasse a distrarsi. Non che le facesse la corte. Solo gli piaceva averla con sé ed era una compagnia affettuosa e decisamente piacevole. Il motivo principale del suo scontento, andava scoprendo Judy, era che non poteva sopportare la pomposità e gli artifici. Quando affrontavano l’argomento del suo lavoro, talvolta era amaro e violento, ma quando si lasciava il lavoro alle spalle questi argomenti diventavano soltanto un bersaglio per il suo particolare umorismo, mordente e pepato.

«L’Inghilterra sta lentamente scivolando verso occidente,» disse una volta che lei lo interrogò sulla situazione generale, e lo disse con un sogghigno. Quando la ragazza cercò di giustificarsi per il suo scatto a Bouldershaw Fell, si limitò a darle una pacca sul didietro.

«Perdona e dimentica, questo è il mio motto,» disse, e le offrì da bere. Per fargli piacere lei sopportava un mucchio di cose: lui amava la musica moderna, che lei non capiva; amava correre in macchina, cosa che la spaventava; e cosa che la spaventava ancor più, gli piaceva andare a vedere i film western. Era terribilmente stanco, eppure era senza pace. Passavano da un cinema a un concerto, da un concerto a una lunga corsa in auto, dall’auto a una potente bevuta e, alla fine, lui era sfinito ma almeno pareva felice, anche se lei non lo era. Capiva che stava vivendo sotto una maschera.

Andavano di rado nel piccolo ufficio dell’istituto, e quando erano là Fleming corteggiava Christine. Certo Judy non poteva fargliene una colpa. Per altre cose non si occupava affatto di lei: era una ragazza incredibilmente carina e la cosa finiva lì. Lei, come confidò a Bridger, era «innamorata del suo cervello.» Ma pareva che non gradisse particolarmente essere brancicata e pizzicata. Continuava, tranquilla, a occuparsi del suo lavoro. Però gli faceva qualche domanda a proposito di Thorness.

«C’è mai stato, dottor Fleming?»

«Una volta.»

«Com’è?»

«Distaccato e bellissimo, come lei. E anche potente, inanimato e privo di immaginazione, a differenza di lei.»

Era sottinteso che se fosse stato permesso a Fleming di recarsi lassù, lei l’avrebbe seguito. Watling aveva esaminato i suoi precedenti e li aveva trovati impeccabili. Padre e madre Flemstad erano fuggiti dalla Lituania quando gli eserciti russi l’avevano invasa, e Christine era nata e cresciuta in Inghilterra. I suoi genitori, prima di morire, erano stati naturalizzati inglesi, e Christine era stata sottoposta a ogni possibile controllo.

L’attività di Dennis Bridger pareva assai più interessante. Man mano che si avvicinava il giorno della partenza, riceveva un numero sempre maggiore di interurbane assolutamente inspiegabili, che sembravano preoccuparlo molto sebbene non ne parlasse mai. Un mattino, che era solo nell’ufficio con Judy, sembrava più spaventato del solito. Quando il telefono squillò, le strappò letteralmente il ricevitore di mano. Era chiaro che qualcuno lo aveva chiamato a rapporto: borbottò qualche parola di scusa e uscì dall’ufficio. Judy lo osservava dalla finestra: attraversò il recinto e scese in strada dove lo attendeva un’auto molto grande e lussuosa. Appena si fu avvicinato una portiera si aprì e ne scese un autista immenso, altissimo, che indossava l’uniforme che di solito, nei nostri pensieri, associamo a un coupé de ville del secolo diciannovesimo: la giacca abbottonata per tutta la lunghezza, color senape chiaro, pantaloni stretti al ginocchio e gambali di cuoio lustro.

«Il dottor Bridger?»

Portava occhiali scuri e aveva un accento straniero strascicato e indefinibile. L’auto era lucente e maledettamente bella, come un moderno aereo senz’ali. Due antenne radio, gemelle, si alzavano dalle pinne posteriori, alte più di un uomo, anche di quell’uomo. L’insieme era assurdamente sproporzionato.

L’autista tenne aperta la portiera posteriore dell’auto mentre Bridger entrava. Il sedile era enorme: il pavimento ricoperto di un soffice tappeto, i finestrini tinteggiati in azzurro, e in un angolo era seduto un omino tarchiato dalla testa completamente calva.

L’omino tese una mano inanellata.

«Sono Kaufmann.»

L’autista tornò al suo posto al di là del divisorio di vetro e l’auto si avviò.

«Le spiace se facciamo un giro qui attorno?» Non era possibile sbagliarsi sull’accento di Kaufmann: era tedesco, benestante e duro. «Nascono tanti pettegolezzi se si è visti in giro.»

Qualcosa ronzò dolcemente all’altezza del suo orecchio. Sollevò il ricevitore d’avorio che gli stava di fronte su una forcella. Bridger vedeva l’autista parlare in un microfono accanto al volante.

«Ja.» Kaufmann ascoltò per un secondo, poi si volse a guardare fuori dal finestrino posteriore. «Ja, Egon, capisco. Giri in tondo, allora, va bene? Und Stuttgart… la comunicazione con Stoccarda.»

Rimise il ricevitore al suo posto e si rivolse a Bridger.

«L’autista dice che un tassi ci sta seguendo.» Bridger si guardò attorno nervosamente. Kaufmann rise o, almeno, mise in mostra i denti. «Non c’è motivo di preoccuparsi. Ci sono sempre dei tassi a Londra. Si accorgerà che non andiamo da nessuna parte. Quello che importa è che io abbia la mia comunicazione con Stoccarda.» Estrasse un astuccio d’argento che conteneva dei cigarillos. «Fuma?»

«No, grazie.»

«Mi ha mandato un messaggio per telescrivente, a Ginevra.» Kaufmann prese un cigarillo. «Alcuni mesi fa.»

«Sì.»

«Da allora non abbiamo più avuto sue notizie.»

«Ho cambiato idea.» Bridger ebbe delle contrazioni nervose.

«E ora forse è giunto il momento di cambiarla ancora. Siamo rimasti molto perplessi, sa, negli ultimi mesi.» Parlava seriamente, ma in tono cordiale e tranquillo. Con aria colpevole, Bridger guardò ancora fuori dal finestrino posteriore.

«Non si preoccupi, davvero. Ci pensiamo noi.» Estrasse un accendino d’argento tempestato di pietre e aspirò accendendo il cigarillo. «C’era davvero un messaggio?»

«Sì.»

«Da un pianeta?»

«Da un pianeta molto lontano.»

«Da Andromeda?»

«Esatto.»

«Be’, meno male che è a quella distanza.»

«Cosa è…» Bridger arricciò il naso al fumo del sigaro.

«Di che si tratta? Ora le spiego: in America, mi trovavo in America in quel periodo, erano tutti sossopra, in allarme. E anche in Europa, dappertutto. E poi il vostro governo dichiara: ‘Non è niente. Ve lo diremo tra un po’ di tempo.’ E così via. E la gente dimentica. I mesi passano e a poco a poco la gente dimentica. Ci sono altre cose di cui preoccuparsi. Ma c’è qualcosa, in realtà.»

«Non ufficialmente.»

«No, no, ufficialmente non c’è altro. Abbiamo tentato, ma c’è un bel muro di silenzio. Tutti tengono la bocca chiusa.»

«Me compreso.»

Avevano fatto un mezzo giro di Regent’s Park. Bridger guardò l’orologio.

«Devo essere di ritorno per il pomeriggio.»

«Lavora per il governo inglese?»

Kaufmann fece la domanda come se si trattasse di una qualsiasi conversazione di cortesia.

«Faccio parte della loro squadra,» rispose Bridger.

«Lavora al messaggio?»

«La cosa non l’interessa.»

«Qualsiasi cosa che abbia una pur minima importanza ci interessa. E questa potrebbe essere di grande importanza.»

«Forse. E forse no.»

«Ma andrà avanti, col lavoro? La prego, non assuma quell’aria misteriosa. Non sto cercando di estorcerle informazioni.»

«No, non andrò avanti.»

«Perché?»

«Non voglio restare tutta la mia vita in un ufficio governativo.»

Oltrepassarono lo zoo e proseguirono verso Portland Place. Kaufmann, con aria soddisfatta, tirava boccate dal suo sigaro mentre Bridger attendeva. Quando svoltarono verso ovest, in Marylebone, Kaufmann disse:

«Le piacerebbe un lavoro più redditizio, con noi?»

«Pensavo infatti a una cosa del genere,» confessò Bridger, abbassando gli occhi.

«Fin dall’incidente di Bouldershaw?»

«Ne era al corrente?» Bridger lo guardò fisso. «Da Oldroyd?»

«Naturale che lo sapevo.»

Era molto affabile, quasi affettuoso. Bridger tornò a esaminarsi le scarpe.

«Non voglio nessuna grana.»

«Non dovrebbe lasciarsi scoraggiare così facilmente,» disse Kaufmann. «E al tempo stesso non deve mettere la gente sulle nostre tracce. Potremmo aver qualcos’altro per le mani.»

Svoltarono di nuovo verso nord, in Baker Street.

«Penso che dovrebbe restare dove si trova,» disse. «Ma dovrebbe tenersi in contatto con me.»

«Quanto?»

Kaufmann spalancò gli occhi.

«Come ha detto?»

«Se vuole che le passi le informazioni…»

«Incredibile, dottor Bridger,» rise Kaufmann. «Ma lei non ha un briciolo di tatto.»

Il telefono squillò e Kaufmann sollevò il ricevitore.

«Kaufmann. Ja. Ja. Das ist Felix?»

Fecero ancora due giri attorno al parco e poi fecero scendere Bridger a pochi metri dall’istituto. Judy osservava il suo ritorno, ma lui non le rivolse la parola. Diffidava terribilmente di lei.

Mezz’ora più tardi il tassi che aveva seguito l’auto di Kaufmann si fermò di fronte a una cabina telefonica e ne scese Harries. Le sue gambe erano ancora incerottate e si muoveva rigidamente, ma lui si riteneva già in grado di lavorare. Pagò l’autista e si trascinò fino alla cabina telefonica. Non appena il suo tassi si fu allontanato, un’altra macchina si fermò ad attenderlo.

Rispose al telefono l’assistente di Watling, un annoiato tenente di cavalleria (infatti, allora, il Ministero della Difesa era già stato «integrato»).

«Capisco. Be’, farebbe bene a venire qui a fare il suo rapporto.»

Quando ebbe riattaccato il ricevitore entrò maestosamente Watling, nervoso e seccato dopo un altro incontro con Osborne.

«Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. Ecco tutto quel che sanno fare.» Scagliò la cartella su una sedia. «Nessuna novità?»

«Harries ha telefonato.»

«Ebbene?»

Watling prese possesso della sua scrivania, un severo tavolo metallico in una severa stanza di cemento con le istruzioni antincendio sulla porta. L’assistente inarcò le sopracciglia.

«Dice che Bridger è stato visto in compagnia di Persona Nota.»

«Chi? La pianti con questo gergo.»

«Kaufmann, signore.»

«Kaufmann?»

«Intel, gente del cartello internazionale.»

Watling fissava la spoglia parete di fronte a sé. Di grandi «cartelli» industriali soprannazionali ce n’erano ancora moltissimi, in barba a tutte le leggi antitrust e al Mercato Comune. Formalmente non andavano contro la legge, ma erano comunque molto potenti fino ad esercitare in alcuni casi una stretta quasi mortale sul commercio europeo. In un periodo in cui l’Occidente era esposto alla possibilità di boicottaggio da parte di tutte le nazioni dalle quali dipendeva per le materie prime, le prospettive di guadagno per le agenzie di commercio poco scrupolose erano notevolissime. E l’Intel era conosciuta e poco apprezzata ovunque per la sua mancanza di scrupoli. Con ogni probabilità tutto ciò che finiva nelle sue mani sarebbe stato venduto con il massimo profitto in un’altra capitale non appena il mercato si fosse rivelato favorevole.

«Nient’altro?»

«No. Hanno fatto due o tre giri in quella specie di transatlantico di Kaufmann e sono tornati alla base.»

Watling si accarezzava il mento, mettendo insieme con metodo e chiarezza frammenti di pensiero.

«Pensa che si tratti di quella stessa faccenda che stava combinando a Bouldershaw?»

«Harries la pensa così.»

«E cioè la stessa faccenda per cui Harries è stato rapito e pestato?»

«In parte.»

«Be’, sono proprio gli ultimi che devono essere al corrente.»

Una volta che qualcosa finiva nelle mani della Intel, era maledettamente difficile ripescarla. Avevano un’organizzazione perfettamente legale a Londra, degli uffici registrati in Svizzera e filiali in almeno tre continenti. Le informazioni scivolavano lungo le loro linee private come argento vivo e a questo riguardo non c’era molto da fare. I mandati di perquisizione non servivano a niente. Quando si arrivava a dare un’occhiata a un ufficio di Piccadilly, la mercanzia di cui si andava in caccia era stata scambiata con manganese o bauxite al di là di qualche frontiera nemica. Nulla era sacro, nulla era sicuro.

«Penso che Bridger continuerà a fornir loro un mucchio di informazioni,» commentò Watling.

«Tra poco dovrebbe andarsene,» gli ricordò il suo assistente.

«Dubito che lo farà, ora, lo hanno corrotto.» Sospirò. «Ad ogni modo verrebbe a sapere tutto da Fleming. Sono amici per la pelle.»

«Pensa che anche Fleming ci sia dentro?»

«Ah.» Watling spinse indietro la sedia e si strinse nelle spalle. «Quello è proprio un ingenuo senza speranza. Spiffererà la cosa a tutti solo per dimostrare quanto è indipendente. Pensi a quel che è successo l’ultima volta. E ora dovremo averli con noi.»

«E come è possibile?»

«Come è possibile? Dovrebbe scrivere un libro di fraseologia, lei. Traslocheranno nei quartieri del Ministero della Guerra. Ecco come. Baracca e burattini. Fleming vuole costruire il suo supercalcolatore al Centro di ricerche missilistiche di Thorness.»

«Davvero?»

«Segreto di Stato.»

«Sissignore.» L’assistente era languidamente discreto. «È stato già deciso?»

«Lo sarà. Posso sentir odore di idiozie quando le ho sottovento. Vandenberg è furioso, e così tutti gli alleati, non me ne stupirei. Ma Reinhart è interessatissimo a questa storia, e così Osborne, e così il loro ministro. E anche il Consiglio dei ministri sarà interessatissimo, credo.»

«Allora non possiamo tenerceli lontani?»

«No, ma possiamo sorvegliarli. Faremmo bene a incaricare Harries di questa faccenda, tanto per cominciare.»

«A Thorness hanno già un personale di sicurezza. Esercito,» osservò l’assistente con orgoglio.

Il commodoro sospirò. «Harries può lavorare con loro.»

«Harries non vuole più averci a che fare.»

«Perché?»

«Dice di esser sicuro che hanno mangiato la foglia.»

«Come? Oh, scusi.» Watling gli rivolse un ampio sorriso. «E come è possibile?»

«Be’, a Bouldershaw l’hanno picchiato. Forse pensano che si occupi di una faccenda più importante.»

«Forse è così. Dov’è ora Harries?»

«Li sta seguendo. Verrà più tardi a far rapporto.»

Ma Harries non giunse più tardi a far rapporto, anzi, non tornò più. Judy e Fleming scoprirono il suo cadavere il mattino seguente, sotto la capote della macchina di Fleming.

Judy aveva vomitato, poi insieme erano andati alla stazione di polizia e il corpo era stato portato via; i provvedimenti del caso erano stati presi. Allora tornarono in ufficio dove trovarono un messaggio che ordinava a Fleming di presentarsi subito al Ministero della Scienza. Judy, che rimase ad aspettare insieme a Christine, venne interrogata da Watling; si sentiva spaventata e addolorata. Christine continuava a svolgere il suo lavoro, e si interruppe solo per dare a Judy due aspirine, con l’aria di chi fa la carità senza considerare né colpe né meriti.

Prima di partire per il Ministero, Fleming aveva baciato Judy su una guancia. Lei gli sorrise, ancora in preda alla nausea.

«Dovevano proprio scaricarlo su di me?» brontolò Fleming.

«Non l’hanno scaricato su di te, l’hanno scaricato su di me, a titolo di avvertimento.»

Andò alla toilette e vomitò di nuovo.

Fleming tornò prima di pranzo, esultante ed effervescente. Strappò Christine dalla sua sedia e la strinse a sé.

«È andata!»

«Andata?» Judy si fermò sbalordita all’altro capo della stanza.

«Autorizzazione in triplice copia dagli ufficiali superiori del nostro ‘commodoro a reazione.’ Hanno spalancato le loro auree barriere di filo spinato.»

«Thorness?» chiese Christine respingendolo. Fleming si appoggiò al tavolo da disegnatore.

«Ci è stato graziosamente concesso l’uso dei loro cari apparecchi, cioè dei cari apparecchi dei contribuenti, riservati finora a quelli che volevano giocare alla guerra.»

«Quando?» chiese Judy.

Fleming si allontanò dal tavolo, attraversò la stanza e l’abbracciò.

«Appena saremo pronti. Ordine di precedenza assoluta sul grande calcolatore. Tranne naturalmente in caso di quella che, tanto per ridere, viene definita situazione di emergenza nazionale. Siamo esentati dalle ispezioni mattutine, potremo uscire con dei lasciapassare, ci prenderanno le impronte digitali, ci faranno il lavaggio del cervello ed esamineranno le nostre chiome in cerca di parassiti. Ma noi costruiremo la meraviglia del secolo.» Lasciò Judy e tese le braccia a Christine. «Tu e io, cara. Glielo insegneremo, a quei signori, vero? ‘È provato?’ vuol sapere Sua Eccellenza. Glielo proveremo. Vengano pure dai quattro angoli del mondo e gliela facciamo vedere noi… come disse quella celebre spogliarellista. Oh, ecco ‘ali d’argento’ che viene a darci il ruolino di marcia.»

Cominciò a canticchiare il motivo di Silver wings among the gold e invitò a pranzo le due ragazze; ma Judy non riuscì a mangiare. Di Bridger non si sapeva niente.

Watling tornò nel pomeriggio, composto ma severo, come un diplomatico in visita. Li fece sedere tutti e tre mentre teneva la sua conferenza.

«Ciò che è accaduto a Harries dipendeva esclusivamente dal fatto che lavorava con voi.»

«Ma se era l’uomo delle pulizie!»

«Era del servizio di spionaggio militare.»

«Oh!»

Questa per Christine e per Fleming era una novità. E lui reagì con furiosa disinvoltura.

«Colpa nostra, come si suol dire.»

«Colpa nostra.»

«Bello.»

«Non si illuda che sia accaduto in conseguenza di quel che state facendo. Non siete ancora tanto importanti.» Le ragazze ascoltavano attentamente Watling, che si rivolgeva esclusivamente a Fleming. «Harries, probabilmente, ha scoperto qualcosa mentre lavorava per proteggervi.»

«Perché proteggerci se non siamo importanti?»

«C’è gente, altra gente, che non sa se siete o no importanti. Sanno che qualcosa bolle in pentola, e questo grazie a lei che non ha tenuto il becco chiuso. Forse ha un grande valore strategico e forse no.»

«Sapete chi ha ucciso Harries?» domandò Fleming tranquillo. Forse cominciava a sentire la sua parte di responsabilità in quella morte.

«Sì.»

«È già qualcosa.»

«E sappiamo chi li ha pagati per farlo.»

«Allora siete a cavallo.»

«Già, a parte il fatto che non possiamo beccarli,» spiegò rigidamente Watling. «Per ragioni diplomatiche.»

«Bella anche questa.»

«Non è un bel mondo.» Passò lo sguardo su di loro come se compisse un dovere sgradevole. Era un uomo modesto e semplice che non amava fare prediche. «Voi, miei cari, che fino a oggi avete fatto una vita placida e tranquilla nei vostri laboratori, dovete capire una cosa: ora siete in azione. Se il suo progetto darà i risultati che vogliamo, avremo un’attrezzatura preziosa.»

«Chi, ‘avremo’?»

«Il paese.»

«Ah, già, certo.»

Watling non gli badò. Ne aveva già sentite abbastanza sull’atteggiamento di Fleming verso l’Autorità Costituita.

«Anche se non funzionerà, attirerà l’attenzione. Thorness è un posto importante e la gente si darà un gran daffare per sapere cosa ci si sta combinando. Questo è il motivo per cui vi metto in guardia, tutti voi.» Li fissò uno ad uno con i suoi penetranti occhi azzurri. «Non siete più all’università, siete nella giungla. Può sembrarvi solo vecchia burocrazia soffocante, piena di chiacchiere inutili e di banali dichiarazioni di uomini politici o di funzionari governativi, come me, ma è una giungla lo stesso. Posso garantirvelo. Si comprano e si vendono i segreti, si rubano le idee e qualche volta si uccide. Ecco come vanno le cose a questo mondo. Vi pregherei di ricordarlo.»

Quando se ne fu andato, Fleming tornò ai calcolatori, e Judy andò a Whitehall a prendere istruzioni per il futuro. In giornata, sul tardi, tornò Bridger, preoccupato, cercando di Fleming.

«Dennis.» Fleming schizzò fuori dalla sala del calcolatore. «Ce ne andiamo!»

«Ce ne andiamo?»

«A Thorness. Abbiamo il vento in poppa.»

«Oh, bene,» mormorò Bridger indifferente.

«Il ministro della Scienza l’ha avuta vinta. Il genere umano si prepara a compiere un piccolo passo avanti nella giungla, per dirla come i nostri amici in uniforme. Perché non cambi idea? Unisciti a noi sapienti!»

«Sì. Grazie, John.» Bridger si fissava i piedi e arricciava il naso, a disagio. «Ero venuto a cercarti per questo. Ho cambiato idea.»

Quando Judy arrivò da Osborne, questi era al corrente.

4

Aspettativa

Nessuno era mai andato a Thorness per divertirsi. La strada più breve da Londra prendeva dodici ore, prima in aereo fino ad Aberdeen e poi con una veloce automotrice fino a Gairloch sulla costa occidentale, al di là degli Highlands. Thorness era la prima stazione dopo Gairloch, ma non c’era nulla lassù, eccetto un piccolo villaggio in rovina, la selvaggia costa rocciosa e la brughiera. Il Centro di ricerche si estendeva su un promontorio che fronteggiava il grande braccio di mare tra l’isola di Skye e l’isola di Lewis, e, sulla parte interna, era protetto da alti reticolati di filo spinato. L’ingresso era fiancheggiato dalle garitte delle sentinelle; il recinto e le scogliere erano sorvegliati da pattuglie con cani addestrati. Oltre le scogliere si stendeva l’immenso specchio grigio dell’Atlantico, un’isola popolata d’uccelli e, di quando in quando, si poteva vedere una motolancia di ronda della Rovai Navy. Era tutto grigio, verde e bruno, spesso nuvoloso e, a parte i rumori che venivano a intervalli regolari dall’interno della base, regnava il silenzio.

Quando Fleming e Reinhart arrivarono, pioveva. Venne loro incontro alla stazione un’auto guidata da una giovane donna in uniforme verde e percorsero, in mezzo al fango, la strada che attraversava l’aperta brughiera fino ai cancelli della base. Qui il loro ingresso venne registrato da un sergente dell’Argyll and Sutherland Highlanders, che telefonò al direttore per annunciare il loro arrivo.

Gli uffici principali erano in un lungo edificio stretto a un piano solo, che sorgeva al centro dell’ampio terreno cintato. Sebbene come progetto fosse nuovo e moderno, aveva ancora qualcosa del tradizionale, squallido aspetto di una caserma; ma l’ufficio del direttore era tutt’altra cosa. Il pavimento d’ebano scintillava; le luci erano schermate da paralumi affusolati, le finestre protette da tende che scendevano fino a terra, e alle pareti erano appese carte geografiche marine e terrestri in cornici di legno lucido. La scrivania del direttore era ampia e lussuosa: dietro di essa sedeva un uomo dal viso sottile e rugoso, e, sulla scrivania, un cartellino annunciava, in nitide lettere nere: DR. F. T. N. GEERS.

Li salutò cortesemente ma senza entusiasmo, e con un tono di scusa ovviamente voluto.

«Troverete molto noioso questo posto,» disse offrendo loro delle sigarette che teneva nella capsula di un grosso proiettile. «Ci conosciamo di fama, naturalmente.»

Reinhart sedette con prudenza su una delle sedie destinate ai visitatori: erano così basse che si riusciva appena a vedere il direttore dietro la sua scrivania.

«Abbiamo avuto uno scambio di lettere, mi pare, sul modo di intercettare i missili.» Doveva allungare il collo per parlare; era ovviamente una cosa voluta. Fleming osservava i due sorridendo.

Geers aveva studiato fisica e da anni era dirigente scientifico alla progettazione per la Difesa e ora era più un ufficiale comandante che uno scienziato. Sotto quell’uniforme inappuntabile si nascondeva il ricercatore deluso: questo lo rendeva soltanto più invidioso del lavoro altrui e più irritato per la massa di seccature della routine quotidiana che ricadevano su di lui.

«È ora che cominciate il vostro lavoro tra i fili spinati, a quanto sento.» Era acido, ma in gamba; aveva già stabilito dei programmi per loro. «Sarà una faccenda ostica, naturalmente. Non possiamo fornirvi facilitazioni illimitate.»

«Non chiediamo…» cominciò Reinhart.

Fleming lo interruppe. «Gli ordini di precedenza sono già stati stabiliti, mi pare.» Geers gli lanciò un’occhiata fredda e tagliente lasciando cadere la cenere in un posacenere che era stato uno stampo per pistoni.

«Il calcolatore principale sarà a vostra disposizione per alcune ore. Avrete il vostro reparto di lavoro e un vostro quartiere per tutta la squadra. Si trovano all’interno del recinto e sarete sotto la nostra sorveglianza, ma avrete dei lasciapassare e sarete liberi di andare e venire come volete. Il maggiore Quadring è incaricato della vostra protezione, e io sono incaricato di tutti i progetti di ricerca.»

«Non dei nostri,» dichiarò Fleming senza guardare Reinhart.

«I miei compiti sono più pedestri ma più immediati.» Geers cercò di evitare il più possibile Fleming e si rivolse al professore. «Il vostro lavoro riguarda il Ministero della Scienza: più idealistico, per quanto forse più approssimativo.»

Su un angolo della scrivania c’era una foto in cornice di sua moglie e di due bambini piccoli.

«Chissà se vanno d’accordo,» mormorò Fleming a Reinhart quando uscirono.

Fuori diluviava ancora. Uno degli assistenti di Geers fece fare loro un giro della base attraverso i prati bagnati, lungo sentieri di cemento che correvano tra file di bassi edifici simili a bunker, incassati a metà nel terreno, e li condusse poi fino all’area di lancio in cima al promontorio.

«C’è molta calma qui, oggi,» disse, mentre camminavano a capo chino sotto la pioggia violenta. «Può scoppiare una tempesta da un momento all’altro.»

Diversi piccoli razzi stavano sulle loro incastellature inclinate, ricoperti da fodere di nailon, puntati in direzione del mare: uno più grande degli altri si levava verticalmente sulla principale rampa di lancio, e, legato alla sua impalcatura, aveva un aspetto massiccio e terrestre.

«Non ci occupiamo di roba grossa, qui. Questi sono tutti intercettatori; molta capacità in uno spazio limitato. Massima segretezza, naturalmente. Normalmente non accogliamo a braccia aperte i visitatori.»

Il calcolatore principale era un’attrezzatura imponente, installata in un grande laboratorio. Era d’importazione americana ed era grande tre volte quelli che avevano usato fino ad allora. Il personale di turno diede a Fleming un orario sul quale erano segnati i suoi turni: avevano un atteggiamento amichevole anche se non sembravano particolarmente interessati. C’era anche un padiglione d’uffici, vuoto, destinato a loro, e alcune villette prefabbricate, il quartiere residenziale, piccole e nude ma pulite e arredate con mobili funzionali.

Si diressero, le loro scarpe erano fradice, verso il settore del personale e vennero mostrate loro la mensa e le sale di soggiorno per i dirigenti, l’emporio, la lavanderia e il garage, il cinema e l’ufficio postale. La base era del tutto autosufficiente: non avevano bisogno di uscire per alcun motivo, salvo che per vedere il cielo e le eriche.

Nei primi due o tre mesi solo il gruppo principale si trasferì a Thorness: Fleming, Bridger, Christine e Judy, e alcuni giovani assistenti. I loro uffici traboccavano di calcoli, progetti, cianografie e strani elementi di apparecchi sperimentali di collegamento. Fleming e Bridger facevano lunghe sedute notturne a discutere di circuiti elettrici e componenti elettronici, e a poco a poco l’edificio si riempì di assistenti di ricerca e di progettazione, in numero sempre maggiore, e poi di disegnatori e di ingegneri.

All’inizio della primavera successiva, una ditta di imprenditori di Glasgow entrò in scena e decorò la zona di cartelli che annunciavano MACINTYRE SONS. All’interno del recinto venne costruito un edificio per il nuovo supercalcolatore, come veniva chiamato il prodotto del cervello di Fleming, ma distaccato dalle altre costruzioni e nel suo interno arrivavano e sparivano dei carichi d’attrezzature.

Il personale permanente della base osservava tutto ciò con interesse vivo ma distaccato, e continuava a lavorare ai suoi progetti. Ogni settimana circa, dalle piste di lancio provenivano scoppi e lampi; un altro mezzo miliardo dei contribuenti spariva nell’aria. Le greggi e le mandrie della brughiera fuggivano disordinatamente, spaventate, e ogni volta c’erano giornate di intensa attività negli uffici di progettazione. A parte ciò Thorness era calmo come una terra vergine, e quando la pioggia cessava era incredibilmente bello.

I membri meno qualificati della squadra di Reinhart familiarizzavano allegramente con gli scienziati della Difesa e con i soldati che li sorvegliavano: mangiavano, bevevano, andavano in gita con loro e con delle piccole imbarcazioni facevano vela assieme sulla baia; Bridger e Fleming invece passeggiavano per conto loro ed erano conosciuti come Castore e Polluce. Quando non erano nell’edificio del calcolatore o nei loro uffici, erano di solito nell’alloggio di uno dei due, al lavoro. Di tanto in tanto Fleming si rinchiudeva da solo con qualche problema, e Bridger se ne andava con una barca a motore all’isola degli uccelli, Thorholm, portando con sé un binocolo.

Reinhart, da Londra, dirigeva le operazioni: faceva le sue visite a intervalli regolari, ma perlopiù gironzolava dalle parti di Whitehall, conducendo in porto progetti, permessi, bilanci, e gli interminabili resoconti richiesti dal governo. Comunque, ottenevano alla svelta tutto ciò che desideravano, e ci furono ben pochi ritardi. Osborne, diceva Reinhart con modestia, era un capo di antico stampo.

Soltanto Judy era disoccupata. Il suo ufficio era distaccato dagli altri, nel gruppo principale degli uffici amministrativi, e il suo alloggio era con quelli delle scienziate della Difesa. Fleming, benché veramente gentile, non aveva tempo da trascorrere con lei; Bridger e Christine facevano di tutto per non incontrarla. Si dava daffare per avere un’idea generale di quanto accadeva e lasciò che alcuni degli ufficiali la portassero un po’ in giro, ma a parte ciò non le restava altro da fare. Nelle lunghe sere d’inverno si mise a ricamare e a modellare la creta e si acquistò così fama di artista; in realtà era solo annoiata.

Quando il nuovo calcolatore fu quasi finito, Fleming la condusse a visitarlo. L’atteggiamento di Fleming era un miscuglio di orgoglio e paura: poteva aver preso un granchio colossale come poteva rivelarsi qualcosa di inimmaginabile e inquietante. Dava soprattutto l’impressione di essere affaticato: era disperatamente stanco, ormai, e stancamente disperato. La macchina era certo una creazione notevole. Così grande che invece di essere installata in una stanza, la sala di controllo era costruita all’interno di essa.

«Siamo come Giona nel ventre della balena,» le disse, indicando il soffitto. «Il gruppo refrigerante è lassù: un liquificatore a elio. C’è un flusso costante di elio liquido attorno al nucleo.»

Al di là delle pesanti porte antincendio si apriva un locale delle dimensioni di una sala da ballo, con una parete costituita da apparecchi, alta fino al soffitto, che divideva in due la stanza. Di fronte a questa, volgendo le spalle alle porte, era il banco principale di controllo che aveva da una parte una specie di tastiera all’ennesima potenza e dall’altra una stampatrice. Sia la tastiera sia la stampatrice erano collegate a registratori magnetici e a perforatrici. Le luci centrali non funzionavano ancora; c’era solo una lampadina, sul banco di controllo, e un certo numero di lampade a saliscendi pendevano dall’alto. Il locale era seminterrato e privo di finestre. Pareva un antro misterioso.

«Tutto questo,» disse Fleming indicando la parete di apparecchi di fronte a loro, «è il gruppo di controllo. Questa è l’unità per i dati d’ingresso.»

Le mostrò la tastiera della telescrivente, l’analizzatore a nastro magnetico e la perforatrice. «Volevano che il piccolo avesse una specie di apparato di percezione magnetico, ma l’abbiamo modificato in modo da avere un analizzatore di copie. È più facile per dei comuni mortali dotati di occhi.»

«Il piccolo?»

Fleming le rivolse una strana occhiata.

«Lo chiamo così, perché mi dà la sensazione di essere un cervello, o quasi una persona.»

Aveva seguito così a lungo gli sviluppi di questa storia che a poco a poco si era abituata all’idea. Aveva dimenticato il brivido che l’aveva attraversata a Bouldershaw Fell quando per la prima volta dallo spazio era giunto fino a loro il messaggio. C’erano stati tanti allarmi, tanti cambiamenti, che l’origine del messaggio si era a poco a poco annebbiata e comunque il messaggio stesso si era ridotto a termini terreni di costruzione, di circuiti e di complicati apparecchi preparati dall’uomo. Ma, mentre stava accanto a Fleming che non solo pareva stanco ma posseduto e spinto innanzi da un impulso esterno, era impossibile non sentire nella stanza buia un potere oscuro e misterioso in agguato. Fu la sensazione di un attimo, e sparì subito. Non viveva ancora nel suo cervello come pareva vivesse in quello di lui, ma la faceva ancora rabbrividire.

«E questa è l’unità per i dati di uscita,» proseguì Fleming che non pareva avere notato ciò che la ragazza provava. «I suoi normali processi di pensiero sono in aritmetica in base due, ma glieli facciamo stampare in sistema decimale, così da avere una lettura diretta.»

La parete di apparecchi di fronte a loro era interrotta dal pannello dei quadri di controllo.

«Che cos’è?» domandò Judy indicando una schiera di parecchie centinaia di luci al neon disposte in fila tra due piastre metalliche ricoperte da fodere di plastica che si levavano ad angolo retto dallo scomparto.

«È tutta l’unità di controllo. Le lampade sono semplicemente un dispositivo per un controllo progressivo. Permettono di seguire l’andamento dei dati nella macchina.»

«Non avete ancora introdotto dei dati?»

«No, non ancora.»

«Sembri certo che funzionerà.»

«Non ho mai considerato la possibilità opposta. Sarebbe stato inutile per loro mandare il progetto di un qualcosa che non funziona.» La sicurezza della sua voce non era dovuta solo alla presunzione. Proveniva da qualche altro elemento che trovava espressione attraverso lui.

«Se lo interpreti nel modo giusto.»

«Certo che lo capisco. In buona parte.» Fleming accennò con la mano alle piastre di metallo coperte dalla fodera. «Non so proprio a cosa servano, quelle. Sono terminali elettrici con una differenza di potenziale di circa mille volt; è per questo che usiamo rivestimenti isolanti. Erano nel progetto e immagino che ne scopriremo la funzione. Con ogni probabilità sono un tipo di apparato sensoriale.»

Di nuovo sembrava sicuro del suo apparecchio, e pareva che la sua complessità non lo lasciasse per nulla perplesso. Sembrava che da tempo il suo cervello fosse preparato in attesa di quell’evento. Judy pensò a come lui dovesse sentirsi infelice e vuoto, l’anno precedente, quando parlava di una scoperta, di abbattere le barriere. Non che ora sembrasse molto più felice. Judy rammentò che Bridger aveva detto: «Non sarà mai felice.»

Le cose attorno a loro avevano un’aria relativamente normale, mentre facevano il giro della stanza.

«Funziona in questo modo,» spiegò Fleming. «Vi si telescrivono i dati, è il modo più veloce che abbiamo. L’unità di controllo decide cosa fare. L’unità aritmetica fa il calcolo rivolgendosi alla memoria per quello che le serve, e rifornendo la memoria di nuovi elementi, quindi la risposta esce sulla stampatrice. Le condutture principali sono sotto il pavimento e le unità aritmetiche lungo i muri laterali. È un sistema convenzionale, ma la convenzionalità finisce qui. Ha una velocità e una capacità da non potersi immaginare.»

Attorno a loro c’era un silenzio completo. Tutt’in giro si levavano file di armadietti metallici che nascondevano i loro segreti, e la superficie vuota del quadro di controllo li fissava ciecamente nella debole illuminazione. Fleming si guardò attorno con aria indifferente: faceva parte di quest’apparecchio come faceva parte della sua auto quando la guidava.

«In funzione, sarà un po’ più attraente,» e la fece passare dietro i quadri di controllo.

C’era un vasto locale semicircolare illuminato fiocamente come gli altri; un’immensa colonna ricoperta di metallo si levava al centro.

«Questo è il vero centro di tutto: la memoria.» Aprì un pannello nella parte inferiore della colonna e lo illuminò all’interno con una pila. «Eccoti un bel lavoretto di elettronica molecolare. La memoria è nel nucleo, e il nucleo è mantenuto in un vuoto totale a una temperatura che varia da uno a due gradi dallo zero assoluto. È qui che viene introdotto l’elio liquido.»

Judy sbirciando all’interno vide un cubo di circa un metro di lato di un qualcosa che pareva metallo, chiuso in un involucro di vetro e circondato da condutture refrigeranti. Fleming parlava meccanicamente, come se stesse tenendo una conferenza.

«Ogni nucleo è costituito da dischi alternati di materiale conduttore e non conduttore dello spessore di mezzo millesimo di pollice, incrociati in una struttura a nido d’ape. Con ciò si ottiene un circuito sì-no su una base metallica che è difficile anche solo da intravvedere.»

«È l’equivalente di una cellula cerebrale?»

«Se vuoi metterla così.»

«E quante ce ne sono?»

«Il nucleo è di tre metri cubi. Ciò vuol dire che sono parecchi miliardi. E ci sono sei nuclei.»

«È più grande di un cervello umano.»

«Oh, sì, molto più grande. E più veloce. E più efficiente.»

Chiuse il pannello e non disse altro. Judy cercò di immaginare come funzionasse, ma lo sforzo era tanto superiore alle sue possibilità quanto la comprensione dell’elettronica: era una cosa troppo vasta e troppo poco familiare perché potesse concretizzarla in un’immagine. Si congratulò con lui e se ne andò. Per un attimo lui parve smarrito, ma non cercò in alcun modo di trattenerla. Poi ricominciò a controllare cifre.

Dennis Bridger non era preso dalla cosa nello stesso modo. Faceva il suo lavoro senza grande iniziativa e con aria scontenta, ma non faceva alcun tentativo visibile per mantenersi in contatto con l’Intel. Il maggiore Quadring e il suo personale di sicurezza lo tenevano d’occhio; su tutti coloro che uscivano dai cancelli principali venivano effettuati controlli periodici, ad assicurarsi che non venissero sottratti dei documenti o altro materiale importante, ma Bridger non faceva nulla che potesse far nascere dei sospetti. Il suo unico svago erano le visite all’isola di Thorholm, dalla quale era solito tornare con uova di gabbiano e di sule, e con simpatiche foto di puffini. Qualsiasi ragione gli avesse dato Kaufmann per farlo restare, sembrava non lo impegnasse a fare nulla.

Geers considerava con sospetto tutta la squadra. Non faceva mai dell’ostruzionismo, ma tra di loro esisteva una certa ostilità. Era evidente che se l’esperimento fosse fallito in un certo senso ne sarebbe stato contento. Tuttavia, man mano che si avvicinava il momento in cui il calcolatore sarebbe stato ultimato, e l’interesse del suo personale e dei superiori aumentava, si mise d’impegno a far sì che tutto l’eventuale successo venisse attribuito a lui. Fu lui a suggerire che si facesse un’inaugurazione formale, anche se, di necessità, privata, e il ministro della Scienza, privato della sua inaugurazione a Bouldershaw Fell l’anno precedente, si concesse di lasciarsi persuadere a tagliare un nastro in Scozia. Fleming cercò di rimandare il più possibile l’inaugurazione, che alla fine venne fissata per ottobre; per quell’epoca il nuovo calcolatore sarebbe dovuto essere programmato e pronto a ricevere i dati. Il generale Vandenberg e una ventina di funzionari di Whitehall raccomandarono alle loro segretarie di fare un appunto sulla loro agenda.

Judy finalmente aveva qualcosa da fare. Non sarebbe intervenuta la stampa, ma si dovevano prendere accordi con i vari Ministeri, e bisognava elaborare l’organizzazione della visita con il personale di Geers. Vedeva molto poco Fleming. Quando aveva terminato il suo lavoro, di solito faceva lunghe passeggiate per la brughiera nel clima tempestoso del primo autunno.

Circa una settimana prima dell’inaugurazione Judy scorse al largo, sul mare, un panfilo bianco. Era un grosso panfilo da alto mare, molto distante. L’isola di Thorholm lo celava alla vista dalla base. Poteva essere avvistato solo da un punto più avanzato della costa. Judy lo notò un pomeriggio, mentre tornava da una passeggiata, dal sentiero che correva lungo lo strapiombo della scogliera.

Il pomeriggio seguente era ancora là e a Judy, che passeggiava per il sentiero tra il bordo della scogliera e la distesa delle eriche, parve di scorgervi un fanale che faceva segnalazioni lampeggiando. La cosa, di per se stessa, non l’avrebbe incuriosita, se non avesse sentito all’improvviso dietro di sé nella brughiera il rombo di un’auto. Per istinto si accucciò dietro un cespuglio di ginestre e attese. Era un motore potente ma poco rumoroso, che, tenuto al minimo, ronzava appena.

Subito dopo Judy notò che la segnalazione era cessata. Qualche istante più tardi il motore si imballò e la ragazza sentì l’auto allontanarsi a fatica. Non appena la macchina fu lontana, si alzò dirigendosi alla sommità del sentiero. In cima alla scogliera questo si congiungeva a una carrareccia accidentata che si snodava verso l’interno per raggiungere la strada principale in una valle chiusa tra colline. Dietro la prima curva stava sparendo una grossa auto lucente, subito dopo un bosco ceduo di abeti. Judy l’osservò: le pareva d’averla già vista in qualche posto.

Non disse nulla a Quadring, ma tornò al medesimo posto il giorno dopo. Non c’erano né il panfilo né la macchina. Il paesaggio era vuoto e silenzioso: rimanevano solo i gabbiani. Il giorno seguente pioveva e poi i preparativi per l’arrivo del ministro l’impegnarono tanto che non poté più andarsene a zonzo. Il giorno prima dell’inaugurazione, all’ora del tè, aveva messo a punto ogni cosa: gli autisti avevano avuto istruzione di andare a prendere la comitiva alla stazione, per l’elicottero del ministro era stata preparata una squadra d’atterraggio, e nell’ufficio del direttore erano pronte bevande e tramezzini. Con Reinhart e gli altri era stato concertato il programma della visita. Fleming era sgarbato, sulle sue, e Judy aveva mal di testa; perfino lei.

Verso le quattro apparve il sole: la ragazza indossò una giacca a vento e uscì. Si incamminò lungo il sentiero della scogliera: il terreno attorno a lei fumava e in basso, lontano, verdi onde si abbattevano nel vento fresco contro gli scogli, scagliando in alto la spuma in siepi di trina che risplendevano alla luce del sole.

Il panfilo non c’era, e non c’era neppure l’auto là dove, sulla cresta della scogliera, il sentiero incontrava la carrareccia; ma c’erano delle recenti impronte di pneumatici, lasciate dopo la pioggia. Judy, che stava riflettendo su questo fatto, sentì un altro rumore in lontananza. Questa volta si trattava di un motore fuoribordo, e proveniva dall’estremità più lontana dell’isola, a circa due miglia di distanza. Sfidando il sole con gli occhi, vide in lontananza il profilo sottile di una barca che veniva da dietro l’isola e si dirigeva verso la baia sotto la base di Thorness. Era la barca di Bridger, dentro alla quale Judy riuscì a scorgere una persona: con tutta probabilità Bridger stesso.

Non vide altro. Qualcosa fischiò vicino a lei, poi si udì uno schianto e una scheggia di roccia schizzò dalla pietra, vicino al suo capo. Un altro proiettile le fischiò vicino mentre si gettava a precipizio giù per il sentiero; poi, finalmente, superò il primo anfratto della roccia e fu fuori tiro. Corse più lontano che poté, quindi per un poco camminò, per poi mettersi nuovamente a correre. Quando finalmente giunse alla base il sole era calato da molto tempo dietro un banco di nubi. Si era alzato un vento che cancellò definitivamente il giorno. Judy rabbrividì e le gambe le tremarono.

Quando ebbe superato i cancelli principali si sentì più sicura ma anche terribilmente sola. L’ufficio di Quadring era chiuso. Non c’era altri a cui potesse parlare e non voleva incontrare Bridger alla mensa. L’oscurità scendeva: Judy camminava tra le villette del quartiere residenziale; d’improvviso si trovò davanti all’alloggio di Fleming. Non sopportò di restare all’aperto un momento di più. Bussò ed entrò senza aspettare risposta.

Fleming era sdraiato sul letto, e ascoltava una registrazione di Webern su un giradischi ad alta fedeltà che si era costruito da solo. Sollevando il capo vide Judy ferma sulla porta, ansimante, il viso arrossato e i capelli scomposti.

«Molto coreografico. A che scopo?» «Aveva già scolato una mezza bottiglia di whisky.

Judy si chiuse la porta alle spalle. «John…»

«Be’, allora?»

«Mi hanno sparato.»

«Pfui.» Depose il bicchiere e buttò le gambe già dal letto.

«Davvero! Un attimo fa, alla brughiera.»

«Vuoi dire che ti hanno fischiato dietro.»

«Ero in cima alla scogliera quando d’improvviso un proiettile mi è passato vicino andando a conficcarsi nella roccia. Sono saltata indietro e un altro…»

«Qualche soldataccio che faceva esercitazioni di tiro a segno. Sono tutti dei tiratori schifosi.» Fleming si diresse al giradischi per spegnerlo. Nonostante il whisky era fermo sulle gambe e sobrio.

«Non c’era nessuno,» affermò Judy. «Assolutamente nessuno.»

«Allora non c’erano nemmeno i proiettili. Su, prenditi qualcosa da bere e mettiti calma.» Si mise a cercarle un bicchiere.

«Erano proiettili,» insistette Judy sedendosi sul letto. «Qualcuno con un mirino telescopico.»

«Sei un po’ agitata, vero?» Trovò un bicchiere, lo riempì a metà e glielo porse. «Perché mai qualcuno dovrebbe darti la caccia?»

«Potrebbero avere le loro buone ragioni.»

«Ad esempio?»

Judy guardava il fondo del bicchiere.

«Niente di particolare.»

«Cosa facevi sulla scogliera?»

«Guardavo il mare. Tutto qui.»

«E sul mare, che c’era?»

«La barca del dottor Bridger. Nient’altro.»

«Perché ti interessavi alla barca di Bridger?»

«Non me ne interessavo affatto.»

«Vuoi insinuare che sia stato lui a spararti?»

«No, non è stato lui.» Afferrò la spalliera del letto per impedire alle proprie mani di tremare.

«Posso restare qui un poco? Finché non mi è passata la tremarella.»

«Fai come ti pare. E beviti il whisky.»

Judy inghiottì un sorso di whisky puro e si sentì bruciare la bocca e la gola. Dal silenzio, fuori, giunse un grido lungo e basso, e sul tetto della villetta un pezzo di grondaia sbatté.

«Che è stato?»

«Il vento,» rispose Fleming fissandola.

Sentiva l’alcool scenderle bruciante nello stomaco. «Non mi piace questo posto.»

«Neanche a me,» rispose Fleming.

Bevevano: il silenzio era interrotto solo dal vento che gemeva tra gli edifici della base. Il cielo, fuori dalla finestra, era quasi nero: nuvole ancora più nere venivano spinte, a brandelli, dal mare. Judy abbassò il bicchiere e fissò Fleming negli occhi.

«Perché il dottor Bridger va all’isola?» Non riusciva mai a chiamare Bridger per nome.

«Va a studiare gli uccelli. Lo sai benissimo.»

«Tutte le sere?»

«Senti, quando io sono stanco morto, alla fine di una giornata di lavoro, me ne vado in barca a vela.» Era vero. La sola attività che Fleming svolgesse al di fuori della base era allontanarsi con un quattro e cinquanta. Non lo faceva molto spesso; ma lo faceva da solo. Non con il circolo nautico della base. «Salvo che quando sono veramente sfinito, come adesso.»

Prese la bottiglia e si interruppe corrucciato, pensando a Dennis Bridger. «Va a osservare gli uccelli marini.»

«Sempre sull’isola?»

«È là che si possono trovare,» spiegò lui in tono irritato. «Ce n’è un mucchio: sule, urie, procellarie… Bevine ancora un po’.»

Judy lasciò che lui versasse ancora un po’ di whisky nel bicchiere. La testa le ronzava un poco.

«Mi spiace di essermi precipitata qui dentro.»

«Non preoccuparti per me.» Le scompigliò i capelli ancora spettinati, in quel suo modo affettuoso, senza aggressività. «In questo eremo mi basta un po’ di comprensione. Specialmente se si tratta di una ragazza dolce come te.»

«Non sono affatto dolce, io.»

«Oh?»

«Non mi piaccio così come sono.» Judy distolse lo sguardo tornando a fissare il bicchiere. «E non mi piace quel che faccio.»

«Siamo in due, allora.» Gli occhi di Fleming guardarono oltre il capo di lei, fuori dalla finestra. «Neanche a me piace quel che faccio.»

«Mi pareva che fossi completamente assorbito nel tuo lavoro.»

«Lo ero, ma ora che è finito non so più. Ho cercato di sbronzarmi con questo, ma non ci riesco.» Abbassò lo sguardo e la fissò un po’ smarrito, in modo completamente diverso da come l’aveva guardata nel calcolatore. «Forse sei tu ciò di cui ho bisogno.»

«John…»

«Dimmi…»

«Non fidarti troppo di me.»

Fleming sogghignò. «Hai a che fare con qualche faccenda equivoca?»

«Non per quello che ti riguarda.»

«Sono lieto di saperlo.» Sorrise, sollevandole il mento con la mano.

«Hai un viso perbene.»

Le baciò lievemente la fronte, senza far molto sul serio.

«No.» Judy volse il capo. Fleming lasciò ricadere la mano e si allontanò da lei come se la sua attenzione si fosse rivolta a qualche altra cosa. Il vento continuava a ululare.

«Che intendi fare per questa sparatoria?» le chiese dopo una breve pausa.

Judy si sentì rabbrividire a dispetto del calore che sentiva dentro di sé, e Fleming le mise una mano sulla spalla.

«Qualche volta, di notte,» cominciò, «me ne rimango sdraiato, ascolto il vento e penso a quel tipo laggiù.»

«Quale tipo?»

John accennò in direzione del calcolatore, il nuovo calcolatore che lui aveva costruito.

«Non ha un corpo, un corpo organico che possa respirare e avere sensazioni come il nostro, ma ha un cervello migliore.»

«Non è una persona.» Judy fece sedere Fleming sul letto: ora erano fianco a fianco. Si sentì, una volta tanto, molto più adulta di lui.

«Non sappiamo che cosa sia in realtà, no?» mormorò Fleming. «Chiunque ci abbia mandato quel maledetto messaggio non avrà certo trasmesso un progetto come quello tanto per divertirsi. Vogliono che diamo inizio a qualcosa.»

«Credi che ci conoscano?»

«Sanno che devono esserci altre intelligenze nell’universo. Il destino ha voluto che tali intelligenze fossimo proprio noi.»

Judy gli afferrò una mano.

«Non hai bisogno di andare avanti con questo lavoro, se non vuoi.»

«Spero proprio di no.»

«Tu stai semplicemente costruendo un calcolatore.»

«Con un potere intellettuale molto, molto superiore al nostro.»

«È davvero così?»

«L’uomo è una macchina pensante molto inefficiente.»

«Non tu.»

«Tutti noi. E tutti i calcolatori basati sul sistema biologico sono inefficienti.»

«Il sistema biologico per me va bene.»

Cominciava a parlare e a vederci in modo confuso. Fleming le diede un fugace abbraccio, un po’ goffo.

«Sei soltanto una ragazza affascinante.»

Si alzò, sbadigliò, si stiracchiò e spense la luce. Judy avvertì all’improvviso che la tensione si allentava e si sdraiò pigramente sul letto.

«Hai bisogno di una vacanza,» mormorò confusamente.

«Forse.»

«Ti sei occupato di questa faccenda per mesi senza un attimo di riposo. Quell’affare…» Accennò fuori dalla finestra.

«Doveva essere pronto per Sua Eccellenza.»

«Se sfuggisse al controllo, potresti sempre fermarlo.»

«Credi? Era in grado di funzionare già più di un mese fa. Lo sapevi?»

«No.»

«Abbiamo continuato a inserirvi tutto il codice normale così che anche i dati possano essere introdotti tutti prima che arrivi quella gente.»

«Non è successo niente?»

«Niente, in principio, ma c’era una piccola parte del codice normale che ho trascurato di introdurre. Questa parte mette le cose in modo che quando si inserisce la corrente, il primo flusso di elettricità mette automaticamente in funzione il programma: a un punto di partenza che il calcolatore stesso si è scelto. L’avevo deliberatamente tralasciata dal progetto perché non volevo che andasse tutto a modo suo, e quello era furibondo.»

Judy lo guardò scettica.

«È una sciocchezza.»

«D’accordo, lo sai che ha registrato delle perturbazioni? Senza preavviso, ancor prima che avessimo cominciato a introdurvi i dati si è messo a stampare: la parte mancante del codice. E non la smetteva di dirmi che dovevo introdurla. Era molto seccato.» Guardò serio il viso incredulo di lei. «Lo spensi per un po’ e poi cominciai a riempirlo di dati. In seguito se n’è stato calmo, ma lo hanno progettato perché potesse registrare gli squilibri. Dio sa per che cos’altro è stato progettato.»

Judy se ne stava sdraiata e lo guardava senza riuscire a metterlo a fuoco.

«Introdurremo gli ultimi dati domani,» proseguì Fleming. «Poi sa il cielo che cosa accadrà. Riceviamo un messaggio da duecento anni-luce di distanza; pensi che tutto quel che ci dà sia un prontuario tascabile di calcolo? Be’, io non la penso così. E neppure la gente che ha ucciso Harries e che ha sparato a te e che probabilmente tiene d’occhio me e Dennis.»

Judy fece per interromperlo ma ci ripensò.

«Ti ricordi,» le chiese, «che ti parlavo di una scoperta?»

«Ricordo benissimo.» Sorrideva.

«Il tipo di scoperta a cui si arriva una volta ogni mille anni. Ci scommetterei qualsiasi cosa…»

Si volse verso la finestra e guardò fuori, sperso in qualche inimmaginabile riflessione.

«Puoi sempre spegnerlo.»

Fuori era nero come la pece, con una pioggia sferzante e il vento continuava a fischiare.

«È buio,» disse lui. Fece scorrere la tenda e si volse di nuovo verso di lei: aveva negli occhi la stessa espressione tormentata che gli aveva visto prima.

«Siamo in due a essere spaventati,» mormorò Judy.

«Ti posso accompagnare al tuo alloggio, se vuoi.» Abbassò gli occhi su di lei e le sorrise. «Oppure potresti passare la notte qui.»

5

Atomi

Judy lo lasciò alle prime luci dell’alba e tornò al suo alloggio. Per mezzogiorno era arrivato da Londra il primo contingente, che venne ricevuto nella mensa. Judy si muoveva in quella folla di abiti grigioferro distribuendo degli opuscoli; si sentiva fresca, viva e felice. Fleming era nell’edificio del calcolatore con Bridger e Christine: stavano introducendo la sezione finale dei dati. Reinhart e Osborne erano a colloquio con Geers.

Vandenberg, Watling, Mrs. Tate-Allen e il fedele e muto Newby giunsero con il treno delle due, e due delle auto più belle vennero mandate a riceverli. Il ministro era atteso per le tre, in elicottero; era questo un tipico capriccio bizzarro ed esibizionista, sul quale il resto della compagnia sorvolò educatamente, senza alcun commento.

Per quell’ora la pioggia era cessata e una guardia d’onore venne schierata lungo la pista d’atterraggio.

Insieme alla guardia d’onore c’erano ad attendere Reinhart e il maggiore Quadring; quest’ultimo indossava la sua migliore uniforme di gala con tutte le medaglie lustre, Reinhart si stringeva invece in un impermeabile di plastica tutto inzaccherato.

Gli altri, ospiti e ospitanti, si affollavano sotto il portico dell’edificio del nuovo calcolatore e scrutavano il cielo con occhi speranzosi. Osborne manteneva la conversazione su un piano molto diplomatico, nitrendo.

«Non credo che lei sapesse, generale, che le Isole Britanniche si stendessero tanto a nord, vero?» Si rivolgeva a Vandenberg che dava segni di irrequietezza e di malcelata irritazione. «Eh, Geers?»

Geers indossava un vestito nuovo e se ne stava impettito di fronte agli altri sentendosi più che mai «il direttore.»

«Hanno covato un cigno o un brutto anatroccolo?» gli chiese Mrs. Tate-Allen.

«Non saprei. Abbiamo tempo soltanto per lavori pratici.»

«E questo non è pratico?» si informò Osborne.

Watling ricordò: «Volavo qui sopra, durante la guerra.»

«Davvero?» chiese Vandenberg, senza il minimo interesse.

«Voli di ricognizione sull’Atlantico settentrionale, quando ero nel Servizio costiero.»

Ma nessuno lo ascoltava. L’elicottero era arrivato. Sorvolò il terreno come un uccello agitato, poi si posò sulle sue gambe idrauliche. Per un minuto l’elica trinciò l’aria, poi si arrestò; lo sportello venne aperto e ne scese Sua Eccellenza James Ratcliff. La guardia d’onore presentò le armi, Quadring fece il saluto militare e Reinhart si diresse verso il ministro; gli strinse la mano e lo condusse verso la compagnia raccolta sotto il portico. Ratcliff aveva un aspetto molto disteso, come se avesse appena fatto un bagno. Strinse la mano a Geers e sorrise radioso e affettato agli altri.

«Lieto di conoscerla, dottore. Molto gentile da parte sua ospitare da voi il nostro apparecchio.»

Geers era trasformato.

«Siamo onorati, signore, di vedere svolgere qui opere del genere,» rispose con il suo miglior sorriso. «La pura ricerca in mezzo a noi, rudi meccanici.»

Osborne scambiò un’occhiata con Reinhart.

«Entriamo?» propose Osborne.

«Sì certo.» Il ministro sorrideva a tutti. «Salve, Vandenberg, simpatico da parte sua essere venuto.»

Geers li precedette e afferrò la maniglia della porta.

«Faccio strada io?» Lanciò un’occhiata di sfida a Reinhart.

«La prego,» rispose questi.

«Da questa parte, Eccellenza.» E Geers li guidò all’interno.

Adesso nella sala del calcolatore le luci erano tutte in funzione e Geers svolse con un certo orgoglio il suo compito di cicerone. Reinhart e Osborne gli lasciarono questa incombenza; Fleming gli lanciò un’occhiata amara dal banco di controllo. Geers presentò Bridger e Christine e, con aria indifferente, Fleming.

«Conosce il dottor Fleming, Eccellenza? Il progettista.»

«I progettisti sono nella costellazione di Andromeda,» ribatté Fleming. Ratcliff scoppiò a ridere come se fosse una battuta molto spiritosa.

«Bene, avete fatto proprio un bel lavoretto. Ora capisco perché volevate tanto denaro.»

Il gruppo proseguì nella visita. Mrs. Tate-Allen era molto colpita dalle lampade al neon; i signori in grigio studiavano, perplessi e interessati, gli scomparti verniciati di blu, e Fleming fu costretto a schierarsi con Osborne nella retroguardia.

«Non c’è niente di più bello che sfoggiare il proprio lavoro.»

«È un complimento, a dire la verità,» ribatté Osborne. «Affidato tutto a lei: la conoscenza, l’investimento, la capacità.»

«Poveri pazzi.»

Ma Osborne non era d’accordo. Dopo aver girato attorno al gruppo della memoria, l’intera comitiva si radunò davanti al banco di controllo.

«Ebbene?» chiese Ratcliff.

Fleming raccolse un foglio coperto di cifre.

«Questi,» mormorò, a voce così bassa che quasi nessuno lo udì, «sono gli ultimi gruppi dei dati trovati nel messaggio.»

Reinhart ripeté a voce più alta, prese il foglio e spiegò: «Ci prepariamo a inserire questi dati attraverso l’imboccatura d’ingresso e a mettere in funzione tutto il meccanismo.»

Passò il foglio a Christine che sedette alla telescrivente e cominciò a battere sui tasti. Aveva un aspetto molto capace e attraente, tutti l’ammiravano. Quando ebbe finito Fleming e Bridger girarono degli interruttori e premettero dei pulsanti sul banco di controllo e attesero. Il ministro attendeva. Un ronzio continuo proveniva dal retro del calcolatore, peraltro il silenzio era completo. Qualcuno tossicchiò.

«Tutto a posto, Dennis?» domandò Fleming. Poi le lampade di controllo cominciarono a lampeggiare.

Dapprima la cosa fece un grande effetto. Vennero date delle spiegazioni; in tal modo si poteva osservare il procedere dei dati attraverso la macchina; non appena i calcoli fossero stati completati, i risultati sarebbero stati stampati su quel rotolo di carta…

Ma non accadde nulla; un’ora dopo stavano ancora aspettando. Alle cinque il ministro risalì senza un sorriso sul suo elicottero che si alzò e si allontanò verso sud. Alle sei i visitatori che rimanevano andarono alla stazione per prendere l’ultimo treno per Aberdeen, accompagnati da un Reinhart mortificato e dalle labbra ermeticamente chiuse. Alle otto Bridger e Christine finirono il turno.

Fleming rimase nella sala di controllo deserta, ascoltando il ronzio dell’apparecchio e osservando il pannello che lampeggiava senza interruzione. Judy lo raggiunse non appena poté e sedette accanto a lui al banco di controllo. Fleming non parlava, neppure per imprecare o recriminare, e Judy non trovava nulla di appropriato da dire.

Le lancette dell’orologio a muro stavano avvicinandosi alle dieci quando le lampade del quadro smisero di lampeggiare. Fleming sospirò e fece per avvicinarsi all’apparecchio. Judy gli sfiorò un braccio con la punta delle dita come per confortarlo. Lui si volse per baciarla, e mentre la baciava la stampatrice entrò in azione.

Reinhart si fermò per la notte ad Aberdeen, dove si svolgeva un seminario di università scozzesi. Il seminario era una scusa; non voleva fare il resto del viaggio faccia a faccia con la comitiva educatamente condiscendente di Londra. La sua sola consolazione fu di incontrare una vecchia amica, Madeleine Dawnay, professoressa di chimica a Edimburgo. Era probabilmente la miglior biochimica del paese, meravigliosamente abile, rassicurante e con il fascino, dicevano i suoi allievi, di una provetta piena di pelle secca. Chiacchierarono a lungo, poi lui si ritirò nella sua stanza d’albergo e rimase lì a rodersi.

Il mattino seguente ricevette un telegramma da Thorness: SCALA REALE ALL’ASSO. TORNI SUBITO. FLEMING. Disdisse la prenotazione sull’aereo per Londra, prese il biglietto del treno e ripartì di nuovo verso nord-ovest portando la Dawnay con sé.

«Che significa?» gli chiese quest’ultima.

«Spero proprio che significhi che è accaduto qualcosa. Quell’accidente di apparecchio costa parecchi milioni di sterline e ieri pensavo che saremmo diventati lo zimbello di Whitehall.»

Non sapeva davvero perché portasse con sé la professoressa. Forse per averne un appoggio morale.

Quando telefonò alla base da Thorness per chiedere un’auto e un secondo lasciapassare, la sua chiamata fu passata direttamente nell’ufficio di Quadring.

«Maledetti scienziati,» brontolò Quadring con il suo attendente. «Vanno e vengono come se questa fosse una fiera.»

Prese il lasciapassare che l’attendente aveva compilato e percorse il corridoio fino all’ufficio di Geers. Solitamente era una persona abbastanza cordiale, ma Judy era appena stata da lui per fare rapporto sulla sparatoria e si sentiva irritato e con i nervi a fior di pelle.

«Le dispiacerebbe firmarlo, signore?» Posò il lasciapassare sulla scrivania di Geers.

«Di chi si tratta?»

«È una persona che il professor Reinhart sta portando qui.»

«Ha già controllato chi è questo signore?»

«È una signora, a dire il vero.»

«Come si chiama?» Geers lanciò un’occhiata al documento attraverso le lenti bifocali.

«È la professoressa Dawnay.»

«Dawnay? Madeleine Dawnay?» Lo guardava con rinnovato interesse. «Non c’è da preoccuparsi per lei. Eravamo insieme a Manchester, prima che lei se ne andasse.»

Sorrise, ricordando, mentre firmava la tessera. Quadring si mosse a disagio.

«Non è facile tener d’occhio tutta questa gente del Ministero della Scienza.»

«Finché se ne stanno nei loro alloggi?» Geers gli restituì il lasciapassare.

«Ma non ci stanno.»

«Chi non ci rimane?»

«Uno è Bridger. Va molto spesso all’isola con la sua barca.»

«Gli piace studiare gli uccelli.»

«Pensiamo che si tratti d’altro. A mio parere porta con sé dei documenti.»

«Documenti?» Geers alzò lo sguardo di botto, facendo luccicare gli occhiali. «Ha delle prove?»

«No.»

«Be’, allora…»

«Non potremmo farlo perquisire al molo d’attracco?»

«E se non avesse nulla addosso?»

«Mi stupirebbe.»

«E noi ci faremmo la figura degli stupidi, non le pare?» Geers si tolse gli occhiali e fissò il maggiore con aria poco incoraggiante. «E se avesse qualcosa in ballo lo metteremmo in guardia.»

«Ha senz’altro qualcosa in ballo.»

«Allora trovi dei fatti concreti su cui basarci.»

«Non vedo come sia possibile.»

«È lei il responsabile del Servizio di Sicurezza di qui.»

«Sì, signore.»

Per un istante Geers gli dedicò la sua piena attenzione.

«E che mi dice di Miss Adamson?»

Quadring raccontò.

«Null’altro?»

«Che si sappia, no.»

«Hum.» Ripiegò le stanghette degli occhiali con un colpo secco che chiudeva l’argomento. «Se sta andando all’edificio del calcolatore può dare il lasciapassare alla professoressa Dawnay.»

«Non sto andando là.»

«Allora mandi qualcuno. E le porga i miei saluti. Anzi, se finiscono a un’ora ragionevole potrebbero passare da me per bere un bicchierino.»

«Benissimo, signore.» Quadring si allontanò lentamente dalla scrivania.

«E anche Fleming, direi, se è con loro.»

«Sissignore.»

Giunse alla porta. Geers fissava il soffitto con aria meditabonda, ripensando a Madeleine Dawnay.

«Vorrei che potessimo fare più ricerca fondamentale. Ci si stanca del lavoro di realizzazione.»

Quadring uscì dalla comune.

In conclusione fu Judy a portare il lasciapassare. La Dawnay era nella sala di controllo del calcolatore e Reinhart e Bridger glielo facevano visitare, mentre Christine cercava di rintracciare al telefono Fleming. Judy consegnò il lasciapassare e venne presentata.

«Relazioni pubbliche? Bene, sono contenta che si permette alle ragazze di fare qualcosa,» disse la Dawnay con la sua voce maschile e animata. Fissava tutti con occhi acuti ma non privi di gentilezza. Reinhart si agitò un poco: era più nervoso del solito.

«Che cosa voleva, John?»

«Non lo so,» rispose Judy. «Per lo meno io non ci capisco gran che.»

«Mi ha mandato un telegramma.»

Dopo un minuto Fleming si precipitò dentro.

«Ah, eccoti qua.»

Reinhart gli balzò incontro.

«Cos’è accaduto?»

«È solo?» chiese Fleming guardando gelido la Dawnay.

Un po’ irritato Reinhart fece le presentazioni, e spostava il peso del corpo nervosamente da un piede all’altro mentre la Dawnay interrogava Fleming a proposito del calcolatore.

«Madeleine è perfettamente al corrente.»

«Beata lei. Vorrei esserlo anch’io.» Fleming pescò in tasca un foglio ripiegato e lo diede al professore.

«Di che si tratta?» Reinhart l’apri. Fleming l’osservava divertito come un ragazzino che stia facendo uno scherzo a un adulto. Il foglio portava stampate parecchie righe di cifre.

«Quando le ha stampate?» chiese Reinhart.

«Ieri notte, dopo che lei se n’era andato. Judy e io eravamo qui.»

«Non me l’avevi detto,» intervenne Bridger in tono di rimprovero.

«Te n’eri già andato.»

Alla vista delle cifre Reinhart si accigliò: «Ha un qualche significato per te?»

«Non lo riconosce?»

«Non posso dire di sì.»

«Non è la spaziatura relativa dei livelli di energia nell’atomo di idrogeno?»

«Davvero?» Reinhart passò il foglio alla Dawnay.

«Vuoi dire,» chiese Bridger, «che all’improvviso si è messo a stampare questo?»

«Sì, potrebbe essere.» La Dawnay scorreva lentamente con lo sguardo le cifre. «Sembrano le frequenze relative. Che cosa straordinaria.»

«Tutta la cosa è un po’ fuori dal comune,» commentò Fleming.

La Dawnay rilesse le cifre e annuì.

«Non capisco bene.» Judy si domandava se non fosse insolitamente ottusa.

«Sembra che qualcuno lassù,» la Dawnay indicò il cielo, «si sia dato un gran daffare per dirci quello che già sappiamo sull’atomo di idrogeno.»

«Se è tutto qui.» Judy guardò Fleming che non diceva nulla. Madeleine Dawnay si rivolse a Reinhart.

«È un po’ una delusione.»

«Per me non è una delusione,» ribatté calmo Fleming. «È un punto di partenza. Il problema è questo: vogliamo andare avanti?»

«Come potete andare avanti?» chiese la Dawnay.

«Be’, l’idrogeno è l’elemento comune a tutto l’universo, no? Di conseguenza questa è una cognizione, anche se molto semplice, universale. Se non la riconoscessimo nella macchina non ci sarebbe nessun elemento che le permetta di andare avanti. Ma se noi la riconosciamo può procedere alla domanda seguente.»

«Quale domanda seguente?»

«Non lo sappiamo ancora. Ma questo, ci scommetto, è una prima mossa di un gioco molto lungo di domande e risposte.» Le tolse di mano il foglio e lo passò a Christine. «Inseriscilo.»

«Davvero?» Christine passò lo sguardo da lui a Reinhart.

«Davvero.»

Reinhart rimase in silenzio, ma qualcosa in lui era mutato. Non era più scoraggiato, e i suoi occhi guizzavano vivaci. Mentre tutti gli altri formavano un gruppo silenzioso e pensieroso, Christine sedette alla telescrivente d’entrata e Bridger armeggiò al banco di controllo.

«Adesso,» disse. Era, se possibile, più silenzioso di Fleming e Judy non riusciva a decidere se era geloso, apprensivo, o se soltanto cercava, come gli altri, di risolvere il problema.

Christine batteva rapidamente sulla tastiera, e il calcolatore continuava a ronzare dietro i suoi pannelli di metallo. Si sentiva incombere la sua presenza massiccia, indifferente, in attesa. La Dawnay guardava le file di comparti blu, le luci che lampeggiavano ritmicamente con meno timore di quello provato da Judy, ma con interesse.

«Domande e risposte: ci crede, lei?»

«Se lei se ne stesse lassù, tra le stelle, non potrebbe chiederci direttamente quel che sappiamo, ma questo coso sì.» Fleming indicò le attrezzature di controllo del calcolatore. «Se partiamo dall’idea che sia progettato e programmato appunto per fare questo lavoro per conto loro.»

La Dawnay si rivolse nuovamente a Reinhart. «Se il dottor Fleming è sulla strada giusta, siete davvero in possesso di qualcosa di terribile.»

«Fleming ha un istinto particolare per queste cose,» disse Reinhart guardando Christine.

Quando questa ebbe terminato di battere non accadde nulla. Bridger muoveva le manopole del banco di controllo mentre gli altri aspettavano. Fleming pareva perplesso.

«Che succede, Dennis?»

«Non so.»

«Potresti esserti sbagliato,» disse Judy.

«Non ci siamo ancora sbagliati.»

Un attimo dopo le lampade sul quadro di controllo cominciarono ad accendersi e spegnersi e un minuto più tardi la stampa-dati di uscita entrò rumorosamente in azione. Le si radunarono tutti intorno, guardando la larga striscia bianca di carta che si svolgeva dal suo rullo, coperta da righe e righe di cifre.

In uno dei lunghi e bassi mobili dell’ufficio di Geers era installato un mobile bar. Il direttore posò quattro bicchieri sul ripiano ed estrasse dallo scaffale inferiore una bottiglia di gin.

«Quel che Reinhart e i suoi ragazzi stanno facendo è molto emozionante.» Indossava il suo secondo miglior vestito ma sfoggiava i suoi modi più raffinati a beneficio della Dawnay. «Un piccolo contrattempo, ieri, ma penso che ora tutto sia in perfetto ordine.»

La Dawnay, sprofondata in una poltrona, levò lo sguardo e fissò Reinhart negli occhi. Geers, intento a versare del bitter in un bicchiere, continuava a chiacchierare.

«Non abbiamo altro che ferraglia, a dire il vero, qui in questo deserto. Costruiamo una buona parte della missilistica nazionale, questo è vero, e c’è un sacco di materiale complesso che viene usato da noi, ma non mi spiacerebbe rivestirmi dei vecchi panni e tornare al lavoro di laboratorio. È abbastanza?»

Depose il bicchiere che aveva riempito sulla scrivania, al livello degli occhi della Dawnay. La base dei bicchieri era coperta da un tessuto di cellulosa per impedire che lasciassero il segno.

«Bene, grazie.» La Dawnay riusciva appena a vedere e toccare il bicchiere senza alzarsi. Geers frugò nel bar in cerca di un’altra bottiglia. «E per lei, Reinhart, dello sherry?» Lo sherry venne versato. «È così seccante stare dietro una scrivania da direttore… Cin cin… Che bello rivederla, Madeleine. Di che cosa si è occupata?»

«DNA, cromosomi, l’origine della vita.» La Dawnay parlava in tono burbero. Rimise il bicchiere sulla scrivania e accese una sigaretta soffiando il fumo dal naso come un uomo. «Mi sono ficcata in una strada senza uscita. Me ne stavo giusto andando via per riflettere un po’ quando ho incontrato Ernest.»

«Resti qui a riflettere.» Geers le rivolse un simpatico sorriso che subito cancellò. «Dove si è cacciato Fleming?»

«Avrà finito tra un minuto,» rispose Reinhart.

«Quel suo ragazzo è veramente in gamba, anche se è così maldestro,» osservò Geers. «In realtà tutto il suo gruppo, nell’insieme, è un po’ maldestro, no?»

«Ma abbiamo anche ottenuto dei risultati.» Reinhart non si scaldava. «La macchina ha cominciato a stampare.»

Geers alzò le sopracciglia.

«Dice davvero? E che cosa stampa?»

Glielo spiegarono.

«Molto strano. Davvero molto strano. E cosa è accaduto quando avete inserito la risposta?»

«Ne è uscita una massa enorme di cifre.»

«Che cosa sono?»

«Non ne ho la più pallida idea. Le abbiamo studiate ma per ora…» Reinhart si strinse nelle spalle.

Fleming entrò, accennando appena a bussare.

«Sono capitato giusto?»

«Entri, entri,» invitò Geers, come se parlasse a uno studente promettente ma goffo. «Sete?»

«Quando non ne ho?»

Fleming portava i fogli usciti dalla stampa-dati. Li buttò sulla scrivania per prendere il bicchiere.

«Niente di bello?» chiese Reinhart.

«Assolutamente niente. O c’è qualcosa di sbagliato nel calcolatore o c’è qualcosa di sbagliato in noi.»

«È questo l’ultimo materiale?» chiese Geers rimettendo in ordine i fogli e chinandosi a guardarli. «Ci dovrà far sopra un sacco di analisi, vero? Se possiamo aiutarla in qualche modo…»

«Dovrebbe essere semplice.» Fleming era remissivo e preoccupato, come se tentasse di vedere qualcosa che continuava a sfuggirgli. «Sono sicuro che deve esserci qualcosa di molto semplice. Qualcosa che dovremmo riconoscere.»

«C’era una parte, qui…» Reinhart prese i fogli e li scorse in cerca di qualcosa. «Mi sembra vagamente familiare. Dia un’altra occhiata a quella parte, Madeleine.» La Dawnay ubbidì.

«Che cosa si aspetta?» chiese Geers a Fleming versandogli da bere.

«Non so. Non so ancora quale sia il gioco.»

«Non l’interesserebbe l’atomo di carbonio, vero?» Con un accenno di sorriso la Dawnay sollevò lo sguardo.

«L’atomo di carbonio!»

«Non è espresso così come lo esprimeremmo noi: ma potrebbe essere la descrizione della struttura del carbonio.» Soffiò il fumo dal naso. «Era questo che lei voleva dire, Ernest?»

Reinhart e Geers si chinarono di nuovo sui fogli.

«Io sono un po’ arrugginito, a dir la verità,» commentò Geers.

«Ma potrebbe essere così, no?»

«Sì, potrebbe essere. Ma mi chiedo se è tutto qui.»

«Non ci sarà nient’altro,» rispose Fleming. Pareva molto sicuro e non più preoccupato. «Considerate la storia fin dal principio. Pensate alla domanda sull’idrogeno. Ci sta chiedendo a che tipo di vita apparteniamo. Tutte queste altre cifre rappresentano altri modi possibili di creare esseri viventi. Ma noi, su questi, non sappiamo nulla, perché la vita sulla Terra è basata sull’atomo di carbonio.»

«Be’, può essere una teoria,» mormorò Reinhart. «E adesso che facciamo? Introduciamo in risposta le cifre che si riferiscono al carbonio?»

«Se vogliamo che quello sappia di che cosa siamo fatti, non se ne dimenticherà.»

«Presuppone forse che abbia un’intelligenza?» domandò Geers che non aveva tempo per le fantasticherie.

«Senta,» Fleming gli si rivolse. «Il messaggio da noi captato ha fatto due cose: ha stabilito un progetto, e poi ci ha dato moltissime informazioni basilari da mettere nel calcolatore quando l’avessimo costruito. Noi non sapevamo allora cosa fossero quelle informazioni, ma cominciamo a saperlo ora; con quello che c’era nel programma originario e con quello che gli abbiamo detto noi, quello può ottenere tutte le cognizioni che desidera sul nostro conto, e imparerà ad agire di conseguenza. Se questa non è un’intelligenza, non so proprio cosa sia.»

«È una macchina molto utile,» commentò la Dawnay.

Fleming si rivolse a lei.

«Solo perché non è fatto di protoplasma, nessun chimico riesce a considerarlo come un essere pensante.»

La Dawnay sospirò.

«Di che hai paura, John?» chiese Reinhart.

«Dei suoi fini. Non è stata messa qui per divertimento. Né per il nostro bene.»

«Lei è un po’ nevrotico a questo proposito,» disse la Dawnay.

«Pensa?»

«Vi è stata offerta una fortuna inaspettata. Sfruttatela.» La donna si rivolse a Reinhart. «Se usate il metodo del dottor Fleming e vi introducete la formula del carbonio può darsi che otteniate qualche altra cosa. Può darsi che riusciate a ottenere strutture più complicate, e avete una meravigliosa macchina per elaborarle. Tutto qui. Applicatelo.»

«John?» Reinhart si rivolse a Fleming.

«Può fare a meno di contare su di me.»

«Vuole occuparsene lei, Madeleine?» chiese il professore.

«Perché non lei?» gli chiese la donna.

«Dall’astronomia alla biosintesi è un passo molto lungo. Se la sua università potesse privarsi di lei…»

«Possiamo ospitarvi.» Geers, quando si muoveva, si muoveva in fretta. «Ha confessato di essere a un punto morto.»

La Dawnay rifletteva.

«Ci starebbe a lavorare con me, dottor Fleming?»

Fleming scosse il capo. «C’è qualcosa a cui dobbiamo pensare bene prima ancora di cominciare.»

«Non la vedo così.»

«Sono giunto dove volevo. Andare oltre, in realtà, vorrebbe dire solo dimostrare che sono in grado di portare a termine la cosa. Ma per me la strada finisce qui.»

Reinhart aprì la bocca per parlare ma Fleming si volse per uscire.

«D’accordo,» disse Reinhart. «Vuole occuparsene lei, Madeleine?»

Presero gli ultimi accordi dopo che Fleming se ne fu andato.

La Dawnay si trasferì alla base la settimana seguente e si mise al lavoro al calcolatore: l’aiutavano Bridger e Christine e Geers ora era pieno di entusiasmo e di attenzioni. Fleming tornò a Londra e Judy non ricevette sue notizie: essendo un ufficiale in servizio, legata a un giuramento, Judy doveva restare dove le era stato ordinato. In un certo senso era un sollievo essere libera da quella loro equivoca relazione. Dopo quell’unica notte nella villetta di Fleming la ragazza lo aveva tenuto, per quanto possibile, a distanza; era divisa tra l’istinto, che la spingeva ad amarlo, e la netta sensazione di non volere che lui la scambiasse per qualcosa che lei non era. Almeno, mentre era via, Judy non doveva fare rapporto su di lui, ma solo su Bridger, e questo le costava meno.

Bridger non offrì indizi a nessuno. Judy si tenne lontana dalla brughiera e le pattuglie di Quadring non scoprirono nulla. Bridger stesso si faceva sempre più triste e riservato. Lavorava con la solita competenza, ma senza entusiasmo, e passava i ritagli di tempo osservando le ultime migrazioni di uccelli dai nidi di Thorholm.

L’autunno si incupiva nell’inverno. Di ritorno a Londra, Fleming si mise a studiare l’intero messaggio, e tutti i suoi calcoli originali. A Bouldershaw Fell continuavano a intercettare il segnale. Ma ormai era soltanto routine. Il codice era sempre lo stesso; Fleming non riusciva a trovare in tutto il suo lavoro nulla che indicasse quello che temeva.

A Thorness la Dawnay faceva dei progressi notevoli.

«Quel ragazzo aveva ragione su un punto,» diceva a Reinhart. «La storia delle domande e delle risposte. Introduciamo le cifre dell’atomo di carbonio e immediatamente la macchina comincia a stampare roba sulla struttura delle molecole proteiniche.»

Quando ebbe introdotto nuovamente tali informazioni, la macchina cominciò a porre un numero di domande sempre maggiore. Presentava le formule di una grande varietà di strutture basate sulle proteine e voleva chiaramente che le venissero fornite informazioni in maggior quantità su tale argomento. La Dawnay mise al lavoro il suo reparto di Edimburgo, e a risultato della collaborazione reintrodussero nella macchina tutto quello che era conosciuto sulla formazione delle cellule. Prima della fine dell’anno la macchina aveva dato loro la struttura molecolare dell’emoglobina.

«Perché l’emoglobina?» chiese Judy che aveva seguito a Edimburgo la Dawnay nel tentativo di capire quello che accadeva.

«L’emoglobina del sangue porta il rifornimento di elettricità al cervello.»

«E vi ha offerto questa alternativa a un’intera serie di altre?» chiese Reinhart. Si erano incontrati tutti e tre nello studio della Dawnay, in uno dei vecchi grigi palazzi dell’università; Madeleine aveva spiegato loro che desiderava un benestare del Ministero.

«Sì,» confermò. «Come prima. E abbiamo reintrodotto anche questa.»

«Dunque ora la macchina sa come funziona il nostro cervello?»

«Conosce molto più di questo, oggi come oggi.»

Reinhart si strofinava il mento.

«Ma perché diavolo vuole saperlo?»

«Lei è sotto l’influenza di Fleming, vero?» lo rimproverò la Dawnay. «Non è che ‘voglia sapere’ qualcosa. Si limita a calcolare delle risposte logiche da informazioni che noi stessi le diamo e da quelle che già possiede. Perché è una macchina calcolatrice.»

«È tutto qui?» Judy, per quel poco che ne sapeva, condivideva i dubbi di Reinhart.

«Cerchiamo di essere scientifici in questa faccenda,» aggiunse la Dawnay. «Non mistici.»

«Professor Reinhart, lei…»

Reinhart pareva a disagio. «Fleming direbbe che la macchina vuole sapere con che tipo di intelligenza ha a che fare, che tipo di calcolatori siamo, quanto è grande il nostro cervello, come lo nutriamo, in che tipo di creatura il nostro cervello vive.»

«Il giovane Fleming ha dei disturbi emotivi, se vuole sapere il mio parere,» disse la Dawnay; accennò agli scaffali colmi di incartamenti e documentazioni. «Abbiamo tanto materiale ora che quasi ci affoghiamo, ma ho una mezza idea di quel che si tratta, ed è per questo che volevo vederla. Penso che ci abbia dato il progetto di base per una cellula vivente.»

«Una che?»

«Non che ci serva a qualcosa. C’è questa enorme quantità di numeri: è troppo complesso perché li possiamo mai capire completamente.»

«E perché?»

«Ma guardi che razza di roba. Possiamo riconoscere degli stralci di strutture cromosomiche e così via, ma ci vorrebbero anni per analizzare tutto.»

«Se questo è quel che dobbiamo fare.»

«Cosa intende dire?»

Reinhart si sfregò nuovamente il mento. C’era in lui qualcosa di molto confortevole e umano anche quando era immerso nelle sue riflessioni.

«Voglio parlare a Fleming e a Osborne,» disse.

Alla fine li riunì nell’ufficio di Osborne. A quel punto aveva tutti gli elementi in mano e voleva che si agisse. Fleming sembrava invecchiato e stanco, come se la molla dentro di lui si fosse allentata. Aveva il viso segnato, gli occhi iniettati di sangue.

Osborne se ne stava elegantemente appoggiato allo schienale e ascoltava Reinhart.

«La professoressa Dawnay si trova per le mani quella che sembra essere la struttura cromosomica dettagliata di una cellula.»

«Una cellula vivente?»

«Sì. È qualcosa che non abbiamo mai conosciuto prima: l’ordine in cui sono disposte le molecole di acido nucleico.»

«Allora potreste davvero costruirne una?»

«Se possiamo usare come controllo il calcolatore, e se possiamo costruire un dispositivo chimico che agisca sulle istruzioni non appena vengano fuori — di fatto, insomma, se possiamo costruire un sintetizzatore di DNA — allora penso che si possa cominciare a costruire un tessuto vivente.»

«È quello che i biologi cercano di fare da anni, vero?»

«Volete davvero permettergli di costruire un organismo vivente?» domandò Fleming.

«La Dawnay vuole tentare,» rispose Reinhart. «Fleming non vuole. Che facciamo?»

«Perché non vuole, lei?» chiese Osborne a Fleming con aria indifferente, come se si trattasse di una faccenda qualsiasi.

«Perché siamo stati spinti in questa storia da una specie di costrizione esterna,» rispose Fleming stancamente. «È quello che continuo a ripetere dal giorno in cui abbiamo costruito quell’apparecchio dell’accidente, e non c’è nulla che possa farmi cambiare idea. Madeleine Dawnay immagina che si possa sfruttare quella macchina come se si trattasse di una qualsiasi attrezzatura dà laboratorio: è una bella ottimista. Se vuole giocare alla sintesi di DNA se ne stia a farsela nella sua università. Non lasciatele usare il calcolatore. Oppure, se proprio dovete, almeno, ner prima cosa, toglietegli la memoria.»

«Reinhart?» Osborne si rivolse languidamente al professore. Qualsiasi impressione Fleming gli avesse fatto, non la diede a vedere.

«Non so,» mormorò Reinhart. «Davvero non so. Proviene da un’intelligenza straniera, ma…»

«Possiamo sempre togliere la corrente?…» concluse Fleming per lui. «Senta, l’abbiamo costruito per provare il contenuto del messaggio. È così? Bene, lo abbiamo dimostrato, lo abbiamo messo in azione per scoprire i suoi fini. Ora conosciamo anche questi.»

«Davvero?»

«Io lo so. È una quinta colonna intellettiva che proviene da un altro mondo, da un’altra forma di esistenza. Ha in se stessa il germe della vita, ma anche il seme della distruzione.»

«Ma lei ha qualche elemento per affermarlo?» chiese Osborne.

«Niente di tangibile.»

«E allora come possiamo…?»

«E va bene, andate pure avanti!» Fleming si alzò dirigendosi alla porta. «Andate avanti e vedrete quel che accadrà. Ma non venite poi a piangere da me.»

6

Allarme

Con ciò si recò in primavera a Thorness; per vedere Judy, diceva, ma di fatto per una forma di curiosità irresistibile. Si tenne lontano dall’isolato dove era il calcolatore, ma Judy e Bridger, separatamente, gli raccontavano quanto accadeva. Un’ala nuova, aggiunta alla costruzione, era stata riempita dalla Dawnay con complesse apparecchiature da laboratorio, compreso un sintetizzatore chimico, e un microscopio elettronico. Anche lei, come Christine, aveva parecchi studenti suoi, già laureati, che lavoravano al progetto, e aveva tutto il denaro di cui poteva avere bisogno nei limiti del ragionevole. Reinhart e Osborne, insieme, avevano ottenuto degli appoggi sostanziali.

«E che mi dici di te?» chiese Fleming a Judy.

Sedevano in cima alla scogliera, all’interno della base, sopra il molo.

«Seguo le stagioni,» gli sorrise dolcemente, ma cauta. Era colpita dal cambiamento avvenuto in lui, dalla sua aria disfatta e dalla sensazione di fallimento che dava. Avrebbe voluto abbracciarlo e donarglisi, ma al tempo stesso voleva tenerlo lontano, nei limiti della loro primitiva amicizia, che le sembrava rappresentare il massimo cui onestamente arrivare finché doveva continuare a sostenere una parte della quale si vergognava. Quando aveva saputo che lui stava per tornare, aveva perfino tentato di rassegnare le proprie dimissioni, ma non le era stato permesso. Sapeva troppo, ormai, per essere lasciata libera, e troppo, troppo davvero, per potergli confessare la verità.

Bridger era rimasto alla base, lavorando tutto l’inverno, e non aveva fatto alcuna mossa sospetta: ma era stata vista parecchie volte nei dintorni l’auto di Kaufmann; e quell’autista gigantesco, vestito in modo incredibile era stato a osservare gli arrivi e le partenze alla stazione e almeno una volta aveva telefonato a Bridger. Dopo di ciò Bridger era parso più infelice che mai, e aveva cominciato a farsi fare delle copie delle risposte del calcolatore, per suo uso personale. Judy questo non l’aveva scoperto, ma Quadring sì. Tuttavia non era venuto fuori nulla. Il panfilo bianco non era più apparso, e in realtà non ce lo si poteva certo aspettare durante un inverno di burrasche, di bufere e di neve, su quel mare selvaggio spazzato dalle tempeste. Al principio della primavera vennero formate delle pattuglie navali rinforzate da elicotteri, e il panfilo, semmai aveva avuto qualcosa a che fare con la faccenda, fu così tenuto lontano. Ma se il servizio di sicurezza andava aumentando, andava aumentando anche il valore delle informazioni, e tra i superiori di Judy era diffusa la sensazione che la posta si stesse facendo molto alta.

Judy, che non aveva altro da fare che osservare, aveva parecchio tempo, come al solito, a disposizione, e a Quadring andava a genio che Fleming fosse sorvegliato. Così Judy sedeva con lui sulla scogliera, facendo finta di essere felice di vederlo e sentendosi amaramente combattuta.

«Quando terrai una conferenza stampa?» fu la domanda di lui.

«Non so, quest’anno, l’anno prossimo, prima o poi.»

«Tutto questo avrebbe dovuto essere comunicato al pubblico da mesi.»

«Ma non è un segreto?»

«È un segreto perché fa comodo ai politicanti. Ecco perché le cose vanno male. Quando si toglie la scienza dalle mani degli scienziati e la si affida agli uomini politici, il suo fato è segnato.» Alzò le spalle accennando alla base. «Se questa storia non è già condannata.»

«Cos’hai intenzione di fare, poi?» gli chiese.

Abbassò lo sguardo sulle onde che si infrangevano cinquanta metri sotto di loro, e poi si volse verso di lei sorridendole, per la prima volta dopo molto tempo.

«Portami in barca a vela,» le disse.

Era una di quelle primavere precoci e ingannevoli che talvolta giungono inaspettate al principio di marzo. Il sole splendeva, da sud-ovest soffiava una brezza leggera e il mare era molto bello. Fleming dava per scontato che Judy non avesse altro da fare, e ogni giorno facevano vela sulla baia e lungo la costa nord fino a Greenstone Point e giù fino alla foce di Gairloch. L’acqua era gelata, ma la sabbia era tiepida e il pomeriggio di solito attraccavano in ogni insenatura che avesse un aspetto gradevole, si buttavano sulla sabbia e stavano sdraiati al sole, a crogiolarsi.

Dopo qualche giorno, l’aspetto di Fleming era migliorato. Era sempre più disteso e pareva riuscire a dimenticare, per ore, a volte, le nubi che gli incombevano sulla mente. Si accorgeva chiaramente che la ragazza non voleva più fare all’amore con lui e molto presto tornò al ruolo di fratello maggiore affezionato e protettore. Judy tratteneva il respiro e sperava in bene.

Poi, un pomeriggio torrido e scintillante, si spinsero in una piccola baia della costa dell’isola di Thorholm che guardava il mare. Intorno si alzavano le nude rocce che rifrangevano il calore del sole su loro, sdraiati fianco a fianco sulla sabbia. Non vedevano altro che il blu del cielo sopra di loro. Il solo rumore che sentivano era il suono cupo e morbido delle onde ed il richiamo degli uccelli marini. Dopo un po’ Fleming si rizzò a sedere, togliendosi il pesante maglione.

«Sarebbe meglio se te lo togliessi anche tu,» suggerì.

Judy esitò un attimo, poi si sfilò il pullover, restando in pantaloncini corti e reggiseno: sentiva il sole e il venticello scherzare sul suo corpo. Fleming dapprima non le prestò attenzione.

«È meglio dei calcolatori, questo.» Lei sorrideva, gli occhi chiusi. «È qui che viene Bridger?»

«Sì.»

«Non vedo uccelli.»

«Io ne vedo uno.» Si girò verso di lei e la baciò. Judy rimase immobile e lui si girò nuovamente; la sua mano rimaneva sul petto di lei.

«Perché non fa le sue gite con te?» gli chiese Judy.

«Non vuole essere di troppo.»

La ragazza strinse gli occhi contro il sole.

«Non gli sono simpatica.»

«È reciproco.»

Judy non rispose; la mano di lui le scese lungo la coscia.

«No, John.»

«Hai firmato un impegno con le girl-scouts?» All’improvviso sembrò seccato, stizzoso.

«Non per fare la pudibonda, soltanto…»

«Soltanto che cosa?»

«Non mi conosci.»

«Maledizione! Non me ne hai dato gran possibilità, ti pare?»

Bruscamente Judy si alzò, si guardò attorno. Nella parete di roccia alle loro spalle si apriva una fenditura.

«Andiamo a dare un’occhiata.»

«Se vuoi.»

«È una caverna?»

«Sì.»

«Esploriamola.»

«Il nostro abbigliamento non è il più adatto.»

«Non sei un po’ formale?» Gli sorrise e si infilò il pullover, poi gli lanciò il suo. «Tieni.»

«Arriva parecchio in basso. Avremmo bisogno di attrezzature da speleologo, di chiodi, ad esempio.»

«Non ci spingeremo molto avanti.»

«D’accordo.» Si levò in piedi e cercò di scacciare il cattivo umore. «Andiamo.»

All’interno la caverna si allargava, poi, man mano che si immergeva più profondamente nella roccia, si andava restringendo. Il terreno in principio era sabbioso, disseminato di sassi. Man mano che andavano avanti si trovarono a strisciare sopra dai massi. Faceva molto freddo, là dentro, e c’era un profondo silenzio. Fleming aveva preso dalla barca una pila e con essa illuminava le pareti rocciose di fronte a loro. Chiazze di umidità scintillavano alla sua luce. Dopo una cinquantina di metri giunsero ad una seconda grotta, che aveva una grande conca d’acqua all’estremità più lontana. Judy si inginocchiò specchiandosi nell’acqua.

«C’è un pezzo di corda, qui.»

«Che cosa?» Fleming si accovacciò accanto a lei, guardando sul fondo della conca. Il capo di un pezzo di corda bianca era legato e trattenuto all’orlo da un masso, mentre il resto affondava nell’acqua. Fleming provò a tirarla. Era molto tesa.

«È profondo?» chiese Judy, abbassando il raggio della pila, ma non riuscì a vedere altro che l’oscurità, sotto la superficie dell’acqua.

«Ti spiace tenere la torcia?»

Fleming afferrò la corda con entrambe le mani e la tirò a sé, lentamente. All’estremità era appesa una grossa gamella, a chiusura ermetica, appesantita con delle pietre. Judy ne illuminò il coperchio con la pila.

«È di Dennis!» esclamò Fleming.

«Di Dennis Bridger?»

«Sì. Gli serviva per i pic-nic. Lo vedi questo segno a zigzag?»

«Perché l’ha lasciata qui?» Judy parlava più a se stessa che a Fleming.

«Non so. Dovremmo chiederlo a lui.»

Judy aprì il coperchio esplorando con le dita all’interno.

«Per amor del cielo!»

«È piena di fogli.» Ne estrasse alcuni, tenendoli sotto la luce della pila. «Li riconosci?»

«È il nostro materiale.» Fleming li guardava incredulo. «Copiati. Faremmo bene a riportarglieli indietro.»

«No.» Judy rimise i fogli nel recipiente e lo richiuse.

«Che intendi fare?»

«Lasciarlo dove lo abbiamo trovato.»

«Ma è assurdo.»

«Per piacere, John, so quello che faccio.» Sollevò la gamella e la buttò di nuovo nell’acqua, mentre lui la guardava accigliato, tenendo la pila.

«Cosa stai facendo?» le chiese, ma lei non poteva dirglielo.

Quando ritornarono al campo trovarono Reinhart, che attaccò bottone con Fleming davanti agli uffici.

«Hai un minuto, John?»

«Ufficialmente io non sono qui.»

«Senti, John.» Il professore sembrava ferito. «Siamo nei pasticci.»

«Bene.»

«Madeleine è riuscita in una sintesi di DNA. Si sono davvero formate delle cellule.»

«Deve essere fiero di lei.»

«Cellule singole. Ma non vivono, o vivono solo pochi minuti.»

«Allora lei è proprio fortunato. Se vivessero sarebbero sotto il controllo della macchina.»

«Come?»

«Non so. Ma non potrebbero esserci amiche.»

«Una sola cellula non può far molto danno.» Judy non aveva mai sentito prima Reinhart supplicare apertamente per qualche cosa. «Vieni lo stesso.»

Fleming, ostinato, strinse le labbra.

«Via, John.» Judy si volse a guardarlo. «O hai paura che ti mordano?»

Fleming alzò le spalle e seguì il professore.

Judy andò dritta nell’ufficio di Quadring a fare il suo rapporto.

«Ah,» disse Quadring. «I conti tornano. Dov’è ora?»

Telefonarono alla sala del calcolatore, ma Bridger se ne era appena andato.

«Dica ai ragazzi del Servizio di Sicurezza di trovarlo e di pedinarlo,» disse Quadring al suo assistente. «Ma lui non deve vederli.»

«Benissimo, maggiore.» L’attendente fece ruotare la seggiola verso il quadrante di commutazione.

«A chi è affidato il servizio di sorveglianza della scogliera?»

«Alla sezione B, maggiore.»

«Dica loro di sorvegliare il sentiero che porta al molo.»

«Devono fermarlo?»

«No, devono lasciarlo andare, se vuole, e riferircelo.» Quadring si rivolse a Judy. «Il suo amico gli ha telefonato proprio oggi. È chiaro che vogliono qualcosa con estrema urgenza per correre un rischio simile.»

«Perché dovrebbero?»

«Forse hanno qualche trattativa in corso. Abbiamo ascoltato naturalmente. In linea di massima sono stati piuttosto prudenti, ma hanno detto qualcosa a proposito della strada nuova.»

Judy si strinse nelle spalle. La cosa andava al di là della sua comprensione. Quadring attese finché l’attendente ebbe telefonato al corpo di sicurezza della base, e fu uscito per consegnare il messaggio al comandante della sezione B. Poi condusse Judy verso una carta geografica murale.

«La vecchia strada passava per l’isola. Bridger poteva portarvi del materiale, e nasconderlo senza doversi sottomettere al controllo d’uscita dalla base. Quando era necessario questo materiale poteva essere raccolto dal panfilo. Probabilmente uno dei colleghi di Kaufmann ha un’imbarcazione da mare aperto che può ancorarsi molto lontano e mandare una scialuppa agli appuntamenti con Bridger.»

«La scialuppa bianca?»

«Quella che lei ha vista.»

«Allora è per questo che…?» Era passato parecchio tempo da quando le avevano sparato, nella brughiera, ma il ricordo le ritornava evidente nel guardare la carta.

«Kaufmann doveva avere qualcuno che avvisasse tempestivamente Bridger e lo mantenesse in contatto con il panfilo. Usava il suo autista, che arrivava con l’auto.»

«Ed è lui che mi ha sparato?»

«Probabilmente sì. È stata una stupidaggine, ma secondo me pensava di poter gettare il suo cadavere in mare.»

Judy, nel suo pesante maglione, si sentì percorrere da un brivido gelido.

«E la strada nuova?»

«È che tra il tempo e la nostra sorveglianza non possono più usare il panfilo; e così non possono raggiungere l’isola. Bridger se ne serve ancora come nascondiglio, come lei ha scoperto, ma dovrà riportare indietro il materiale, e portarlo di contrabbando fuori dai cancelli principali; cosa più rischiosa.»

Judy guardava fuori nella fredda oscurità che scendeva sul calore della giornata. I bassi tetti quadrati dei laboratori sporgevano neri tra i prati del promontorio che si andava oscurando. Solo le finestre di alcune baracche erano illuminate e sopra di loro l’enorme arco del cielo cominciava ad offuscarsi, scomparendo. Da qualche parte la Dawnay lavorava in una stanza sotterranea, nella luce artificiale, ignara delle conseguenze di quanto stava facendo. Da qualche parte Fleming discuteva con Reinhart sul futuro. E in qualche angolo, solo e triste, forse tremante di paura nascosta, Bridger si stava vestendo di indumenti impermeabili, con maglie da pescatore e stivali da guado, per uscire nella notte.

«Dovrebbe indossare qualcosa di più pesante,» disse Quadring. «Esco anch’io!»

Faceva piuttosto caldo nel laboratorio della Dawnay. Le luci e gli apparecchi erano accesi da settimane e settimane, e a poco a poco avevano avuto la meglio sull’impianto di condizionamento d’aria.

«C’è odore di biologo,» disse Fleming entrando insieme a Reinhart. La Dawnay stava guardando attraverso l’oculare di un microscopio. Sollevò il capo con aria indifferente.

«Salve, dottor Fleming.» Parlava come se lui si fosse allontanato soltanto per prendere una tazza di tè. «Temo proprio che questo laboratorio abbia l’aria di una mensa popolare.»

«Niente di nuovo nel brodo?» chiese Reinhart.

«Abbiamo appena preparato una nuova infornata. Vuole fermarsi a vedere?» Il microscopio aveva un tubo di controllo elettronico, simile a uno schermo televisivo. «Può guardare qui nel caso accadesse qualcosa.»

«Una nuova coltura?» chiese uno dei suoi assistenti, fissando l’ago su una siringa ipodermica.

«Ne tiri fuori un po’ da qui, e sorvegli la temperatura del suo ago.» La Dawnay spiegò a Fleming il procedimento, mentre l’assistente estraeva una bottiglietta da un frigorifero.

«Operiamo la sintesi circa al punto di congelamento, e le cellule cominciano a vivere a temperatura normale.» Era molto cordiale e sembrava che quello che pensava Fleming non la toccasse minimamente. L’assistente infilò l’ago ipodermico nel tappo di gomma della bottiglietta ed aspirò del liquido nella siringa.

«Che forma di vita hanno?» chiese Fleming.

«Sono protoplasma molto semplice, con un nucleo. Che cosa pretende, tentacoli e teste?»

Prese la siringa, ne fece cadere una goccia di liquido su un vetrino e fissò il vetrino sul piatto di osservazione.

«Si agitano un poco, poi muoiono. Questo è il problema. Probabilmente non abbiamo ancora trovato il nutrimento giusto.»

Accostò l’occhio al microscopio, mettendolo a fuoco. Mentre la Dawnay muoveva il vetrino sotto la lente, vedevano formarsi cellule singole — un disco pallido con un centro più scuro, — e le videro agitarsi sullo schermo per pochi secondi. Poi smisero di muoversi, e quando la Dawnay passò ad un ingrandimento maggiore erano ovviamente morte. Estrasse il vetrino.

«È probabile che andremo avanti così tutta la notte.»

Subito dopo mezzanotte videro Bridger lasciare il suo alloggio. Le pattuglie della scogliera lo videro scendere il sentiero sino al molo. Non gli intimarono di fermarsi, ma telefonarono immediatamente alla sala di guardia da una vecchia piazzuola di cannoni che si trovava in cima al sentiero. Quadring e Judy li avevano raggiunti nel momento in cui Bridger si allontanava dal molo. Il fuoribordo starnutì un paio di volte, poi crepitò con regolarità allontanandosi sull’acqua. C’era un po’ di chiar di luna, e vedevano la barca lasciare la baia e dirigersi verso il largo.

«Non lo seguite?» chiese Judy.

«No. Tornerà.» Quadring chiamò a voce bassa le sentinelle. «State qui in cima e non fatevi vedere. Può volerci molto tempo.»

Judy guardò il mare dove la piccola imbarcazione si perdeva fra le onde.

La luna tramontò molto prima dell’alba, e benché indossassero dei pesanti cappotti militari avevano un freddo terribile.

«Perché non torna?» chiese Judy a Quadring.

«Non vuole navigare al buio.»

«Se sapesse che siamo qui…»

«Perché dovrebbe? Aspetta solo un po’ di luce.»

Alle quattro ci fu il cambio della guardia. Era ancora buio. Alle cinque cominciò ad apparire nel cielo il primo grigioperla dell’alba. Il cuoco di turno la notte fece il suo giro, portando delle grosse teiere. Ne lasciò una nella sala di guardia, un’altra al cancello principale, e un’altra ancora nella sala del calcolatore.

La Dawnay si spinse gli occhiali sulla fronte e bevve rumorosamente.

«Perché non la pianta per un po’, Madeleine?» Reinhart sbadigliava.

«Lo farò presto.» Mise un altro vetrino sotto la lente. Accanto a lei sulla tavola c’era un vassoio pieno a metà di vetrini usati, e Fleming sedeva appollaiato su un angolo del tavolo, con aria di disapprovazione, ma affascinato.

«Aspettate.» Mosse di una frazione di millimetro il vetrino. «Eccone una.»

Si poteva vedere sul tubo di controllo una cellula in via di formazione.

«Procede meglio del solito,» disse Reinhart.

«Diventa piuttosto grossa.» La Dawnay mise in funzione l’ingrandimento. «Guardate, comincia a scindersi.»

La cellula si allungò in due lobi che si stirarono e si divisero a formare due cellule, poi ogni cellula si divise nuovamente in altre cellule.

«Si riproduce.» La Dawnay si piegò all’indietro e guardò lo schermo. La sua faccia era segnata dalla fatica e dalla felicità. «Abbiamo creato la vita. Abbiamo davvero costruito una cellula riproduttiva. Guardate, va ancora avanti… Che ne pensa, dottor Fleming?»

«Intende fermarla?»

«No, non intendo fermarla, voglio vedere che cosa fa.»

«Si sta sviluppando in una struttura molto coerente,» osservò Reinhart.

Fleming batté il pugno sulla tavola. «La uccida.»

La Dawnay lo fissò con un’aria di leggera sorpresa. «Come?»

«La uccida, finché può.»

«È perfettamente sotto controllo.»

«Davvero? Guardi come cresce.» Fleming accennò sullo schermo alla massa di cellule che si andavano raddoppiando rapidamente.

«Va tutto bene. Si può far crescere un’ameba in una settimana fino a farle prendere le dimensioni della Terra, se si riesce a nutrirla abbastanza alla svelta.»

«Questa non è un’ameba.»

«Le assomiglia notevolmente.»

«La uccida.» Fleming fissò i loro volti ansiosi e ostinati, poi guardò di nuovo lo schermo. Raccolse la pesante teiera, e la scagliò sul piatto di osservazione del microscopio. Nella stanza silenziosa risuonò uno schianto di vetro e di metallo. Il pannello di osservazione si spense.

«Pazzo incosciente!» La Dawnay quasi piangeva.

«John, cosa diavolo fai?» Reinhart si mosse verso di lui per fermarlo, ma era troppo tardi. Fleming estrasse dal microscopio i frammenti che rimanevano del vetrino e li calpestò.

«Siete pazzi! Pazzi! Tutti pazzi furiosi e ciechi!» gridò loro, e si precipitò fuori della stanza.

Corse via attraverso la sala del calcolatore, lungo il corridoio di ingresso, fino al portico. Qui si fermò per un minuto, ansimante, mentre l’aria gelida gli sfiorava il viso. Uscire all’aperto in quella pallida alba, dopo una notte passata nella concentrazione del laboratorio della Dawnay era come svegliarsi da un incubo. Respirò profondamente parecchie volte, e camminò a gran passi attraverso i prati verso il promontorio, cercando di liberarsi il cervello e i polmoni. Lontano, poteva sentire il rumore di un fuoribordo. Cambiò direzione e camminò furiosamente verso il punto in cui il sentiero del molo raggiungeva la cima della scogliera. Nella luce che aumentava, il rumore della barca si avvicinava con regolarità e lo attirava come una calamita. Ma in cima alla scogliera si imbatté in Quadring, Judy e due soldati sdraiati in attesa sull’erba. Si fermò di botto.

«Che diavolo sta accadendo?» Li guardò a occhi sbarrati, senza capire. Quadring si alzò in piedi, il cannocchiale appeso al petto.

«Se ne vada; si tolga di qui.»

Il motore si era fermato. La barca scivolava verso il molo sotto di loro. Judy cominciò a tirarsi su. Ma Quadring le fece cenno di abbassarsi.

«Vattene, John, ti prego,» lo scongiurò angosciata.

«Andarsene, andarsene? Che diavolo state combinando voi qui?»

«Stia zitto,» gli ordinò Quadring, «si tenga lontano dallo strapiombo.»

«Aspettiamo Dennis Bridger,» spiegò Judy.

«Dennis?» Era sotto shock, e capiva solo lentamente quanto accadeva.

«Io me ne andrei,» gli consigliò Quadring. «A meno che non voglia essere presente al suo arresto.»

«Al suo arresto?» Fleming si volse di nuovo lentamente da Quadring a Judy; il significato delle parole penetrava nella sua mente.

«Siete tutti pazzi!»

«Si tenga indietro e zitto,» ripeté Quadring.

Fleming si diresse verso il bordo della scogliera, ma a un cenno di Quadring i due soldati l’afferrarono per i gomiti e lo spinsero indietro. Rimase tra di loro, bloccato, impotente e disperato. Un sudore gelido gli scorreva lungo il viso: riusciva a vedere solo Judy.

«C’entri anche tu in questa storia?»

«Sai bene quel che abbiamo scoperto.» Evitava lo sguardo di lui.

«C’entri anche tu?»

«Sì,» rispose e si allontanò per andare a mettersi vicino a Quadring.

Lasciarono che Bridger salisse fino in cima al sentiero, trascinando la pesante gamella che aveva nascosto nella caverna. Non appena la sua testa apparve sopra il bordo, Fleming gli gridò:

«Dennis!»

Uno dei soldati strinse la mano sulla bocca di Fleming, ma ormai Bridger li aveva scorti. Prima che Quadring potesse raggiungerlo, lasciò cadere la gamella e fuggì.

Nonostante gli stivali correva veloce lungo il sentiero sul crinale della scogliera. Quadring e i soldati gli correvano pesantemente dietro, seguiti a loro volta da Fleming e da Judy. Nella fredda luce del mattino sembrava una caccia al cervo. Non riuscivano a vedere dove stesse andando Bridger. Giunse all’estremità del promontorio, poi si volse e scivolò. Gli stivali di gomma, bagnati, sdrucciolarono sull’erba del crinale: e poi precipitò. Cinque secondi più tardi era un corpo maciullato sulle rocce in riva al mare.

Fleming si unì ai soldati sulla scogliera: guardò giù. Quando Judy lo raggiunse si allontanò senza parlare e si diresse lentamente alla base. Aveva ancora una scheggia di vetro del microscopio in un dito. Si fermò un attimo per estrarla, poi proseguì.

7

Analisi

Il generale Vandenberg in quel periodo aveva fatto sistemare il suo quartier generale alleato in un bunker a prova di bomba sotto il Ministero della Difesa. Le sue funzioni di coordinatore si erano a poco a poco estese così che egli era ora virtualmente a capo della strategia aerea locale. Per quanto non gradisse molto questo stato di cose, il governo di Sua Maestà lo accettava, in considerazione della situazione internazionale che peggiorava di giorno in giorno: la stanza delle operazioni, attigua al suo ufficio privato, era dominata da un planisferio a muro sul quale erano segnate le traiettorie di un numero allarmante di satelliti, dalla potenza sconosciuta. Insieme agli ordigni russi e americani, alcuni dei quali forniti di armi nucleari, c’era un traffico sempre maggiore messo in orbita da altre potenze, i cui rapporti fra di loro e con l’Occidente erano molto spesso prossimi al punto di frattura. La moralità pubblica diveniva più inconsistente, come l’atmosfera, man mano che uomini e macchine salivano più in alto. E di anno in anno la precaria tregua che avrebbe dovuto controllare gli strati superiori dell’aria e gli spazi oltre si avvicinava sempre più a precipitare nell’anarchia.

Vandenberg attraverso il Ministero della Difesa aveva preso sotto il suo controllo tutti i centri locali, Thorness compreso. Procedeva con dolcezza ma con decisione, e sorvegliava attentamente quanto accadeva. Quando ricevette il rapporto sulla morte di Bridger, mandò a chiamare Osborne.

La posizione di quest’ultimo era ora assai diversa da quella che era stata nei primi tempi di Bouldershaw Fell. Lungi dal rappresentare un Ministero in ascesa, lui e Ratcliff dovevano inchinarsi ai desideri dei militari, cercando alla meglio di mantenere voce in capitolo nei loro propri affari. Non che Osborne si lasciasse facilmente turbare, se ne stava davanti alla scrivania di Vandenberg, impeccabile e tranquillo come al solito.

«Si sieda.» Vandenberg gli indicò una sedia. «Si accomodi.»

Riesaminarono episodio per episodio le circostanze della morte di Bridger, come se stessero giocando a scacchi; il generale sondava e Osborne si teneva sulla difensiva, ma non negava nulla e non cercava scuse.

«Devo ammettere,» concluse Vandenberg, «che il vostro Ministero ha ingarbugliato parecchio questa faccenda.»

«È questione di opinione.»

Vandenberg spinse indietro la sedia e andò a guardare la carta murale.

«Non possiamo permetterci di giocherellare, Osborne. Potremmo sfruttare quella macchina. È costruita su terreno militare, con l’aiuto dell’esercito. Potremmo usarla nell’interesse comune.»

«Che diavolo pensa che stia facendo Reinhart?» Osborne a questo punto era seccato. «Sono certo che a voi piacerebbe mettergli le mani sopra. Sono certo che vi sembriamo tutti degli anarchici perché non abbiamo delle menti disciplinate. So bene che è accaduta una tragedia. Ma lassù stanno facendo qualcosa di importanza vitale.»

«E noi no?»

«Ma non potete fermarli da un giorno all’altro mentre stanno lavorando.»

«Il Consiglio ce ne darebbe il permesso.»

«Glielo avete già chiesto?»

«No, ma ce lo darebbero.»

«Almeno,» Osborne si calmò di nuovo, «almeno lasciateci finire il progetto attuale; sempre che vi diamo delle garanzie sicure.»

Non appena fu tornato nel suo ufficio telefonò a Reinhart.

«Per amor del cielo, si tenga buono Geers,» gli disse.

Il colloquio di Reinhart con il direttore fu malinconicamente simile a quello di Osborne con Vandenberg, ma Reinhart era uno stratega migliore di Geers. Dopo due ore sfibranti chiamarono Judy.

«Dobbiamo rinforzare il servizio di sicurezza qui, Miss Adamson.»

«Non vi aspetterete che…?» La ragazza si interruppe.

Geers la fissò attraverso gli occhiali e lei si rivolse a Reinhart per aver una spiegazione.

«La mia posizione qui diventa intollerabile. Tutti avevano fiducia in me e ora si scopre che sono un informatore del Servizio di Sicurezza.»

«Io l’ho sempre saputo,» disse con gentilezza Reinhart. «E la professoressa Dawnay lo ha immaginato. E accetta la situazione.»

«Il dottor Fleming no.»

«Non è necessario che lui la accetti,» obiettò Geers.

«Per lui ero qualcosa di diverso.»

«Tutti sanno che lei aveva un lavoro da fare.» Reinhart si fissava con aria infelice le mani. «E tutti lo rispettano.»

«Io non lo rispetto.»

«Come dice, prego?» Geers si tolse gli occhiali e batté le palpebre fissandola, come se non la vedesse bene. La ragazza tremava.

«L’ho detestato fin da principio. Era perfettamente chiaro che tutti qui dentro erano degni di fiducia incondizionata, salvo Bridger.»

«Anche Fleming?»

«Il dottor Fleming vale dieci volte di più di chiunque altro io abbia mai conosciuto. Ha bisogno di venir protetto dalle sue stesse indiscrezioni, e io ho cercato di farlo. Ma non intendo continuare a spiarlo.»

«Che dice Fleming?» chiese Reinhart.

«Non mi parla da quando…»

«Dov’è?» chiese Geers.

«Starà bevendo, penso.»

«Ancora questa storia, eh?» Geers alzò gli occhi al cielo con disperazione, e Judy si sentì improvvisamente furibonda.

«Cosa crede che possa fare dopo quel che è successo? Che giochi alla tombola?» Si rivolse ancora con poche speranze a Reinhart. «Mi sono affezionata a… a tutti loro, li ammiro.»

«Cara ragazza, io non sono nella posizione…» Reinhart evitava i suoi occhi. «Probabilmente va bene anche se la cosa è risaputa.»

Judy si ritrovò sull’attenti. Si rivolse a Geers.

«Posso essere destituita?»

«No.»

«Allora posso avere un incarico diverso?»

«No.»

«Allora posso rassegnare le mie dimissioni?»

«Non in stato di emergenza nazionale.» Gli occhi di Geers, notò Judy, erano troppo vicini. La guardavano dritti in faccia, senza espressione, autoritari. «Se non fosse per il suo stato di servizio, che è molto buono, direi che lei è immatura per questo lavoro. Così come stanno le cose mi sembra molto semplicemente che lei sia sconvolta per un contatto eccessivo con la mentalità scientifica, specialmente con una mentalità ribollente e irresponsabile come quella di Fleming.»

«Non è un irresponsabile.»

«No?»

«Non per quel che concerne le cose importanti.»

«Le cose importanti, in questo centro, sono i mezzi di sopravvivenza. Siamo sottoposti a una pressione molto forte.»

«I militari vedono tutto da un punto di vista militare,» disse gelido Reinhart. Attraversò la stanza per guardare fuori dalla finestra, intrecciando nervosamente le mani dietro la schiena. «È un posto triste questo, lo sa, vero? Abbiamo tutti i nervi tesi.»

Per qualche tempo dopo questa discussione Geers fu più amabile del solito. Faceva tutto il possibile per la Dawnay, facendo razzia tra le nuove attrezzature per rimpiazzare quello che Fleming aveva danneggiato, ed in linea di massima identificandosi con quanto la Dawnay andava facendo. Reinhart combatteva duramente per mantenere la sua autorità, e Judy ritornò al lavoro con una sorta di tetra disperazione. Raccolse perfino tutto il suo coraggio per andare a trovare Fleming, ma la stanza di lui era vuota e vuote erano anche le tre bottiglie di whisky accanto al suo letto. Fleming, con una sola eccezione, non parlò con nessuno nei giorni che seguirono alla morte di Bridger.

La Dawnay era subito ritornata al lavoro: Christine l’aiutava nei calcoli relativamente semplici richiesti dal calcolatore. Nel giro di una settimana riuscirono a produrre un’altra sintesi soddisfacente, e la stavano osservando, una sera sul tardi, nel microscopio che era stato riparato, quando la porta del laboratorio venne aperta, e Fleming entrò vacillando. La Dawnay si raddrizzò a squadrarlo. Non aveva né giacca né cravatta, la camicia era sporca e spiegazzata, e aveva la barba di una settimana, come se fosse all’apice di una crisi di delirium tremens.

«Che vuole?»

La fissò con occhi vitrei e avanzò con un passo incerto.

«Se ne stia fuori di qua, per piacere!»

«Vedo che avete un nuovo apparecchio,» biascicò.

«Esattamente. Vuole andarsene ora?»

«Bridger è morto.» Le sorrise stupidamente.

«Lo so.»

«Ma lei continua come se nulla fosse accaduto.» Era difficile capire quello che diceva. «Ma è morto. Non tornerà mai piti.»

«Lo sappiamo tutti, dottor Fleming.»

Fece un altro passo, ondeggiando. «Che cosa fate, qui?»

«È una cosa riservata. Le spiacerebbe andarsene?» Si alzò per avvicinarglisi, con aria minacciosa. Lui la fissò sbattendo le palpebre; il sorriso svanì dal suo viso.

«Era il mio più vecchio amico. Era uno sciocco, ma era il mio…»

«Dottor Fleming,» gli disse a bassa voce la Dawnay, «vuole andarsene o devo chiamare le guardie?»

La fissò per un attimo, come se cercasse di vederla attraverso una nebbia, poi alzò le spalle e si trascinò fuori. La Dawnay lo seguì fino alla porta, che chiuse alle sue spalle.

«Potremmo anche fare a meno di scene del genere,» disse a Christine.

Fleming ritornò al suo alloggio, trasse dal cassetto della scrivania una bottiglia di whisky già incominciata e la rovesciò nel lavandino. Poi si lasciò cadere sul letto e dormì per ventiquattro ore. La sera dopo si fece la barba, si lavò e cominciò a fare le valigie.

Il nuovo esperimento procedeva in modo fantastico. Nel giro di poche ore la Dawnay dovette trasferire la sua cellula dalla lente del microscopio ad un bagno di coltura, e il mattino seguente dovette trasferirla in una vasca più grande. La cellula continuò a duplicarsi per tutta la giornata; in serata la Dawnay fu costretta a chiedere aiuto a Geers, che si incaricò del problema con aria possessiva, e ordinò alla sua officina di costruire un grande serbatoio, riscaldato elettricamente, con un passaggio per gli elementi nutritivi nell’apertura superiore e uno spioncino di vetro al centro del pannello frontale. Era circa l’alba quando la nuova creatura fu sollevata da quattro assistenti fuori dal suo bagno ormai divenuto inadeguato e venne sistemata nel serbatoio.

In questo nuovo ambiente crebbe fino a diventare grande più o meno come una pecora, poi si fermò. Sembrava che fosse perfettamente sana ed innocua, ma non era certo bella.

Reinhart quel mattino giunse a una risoluzione e andò a trovare la Dawnay. Questa era ancora nel laboratorio, e stava controllando l’indice del nutrimento in cima al serbatoio. Reinhart le gironzolò attorno fino a che non ebbe finito.

«È ancora vivo?»

«Sì, vivo e vegeto.» A parte il pallore e le tracce della tensione attorno agli occhi e alla bocca, non mostrava alcun segno di stanchezza.

«Un giorno fa era una macchia su un vetrino: glielo avevo detto che non c’era nessun motivo perché un organismo non debba crescere alla velocità che si vuole purché gli sia dato nutrimento sufficiente.»

«Ha smesso di crescere, ora?» Reinhart lanciò un’occhiata rispettosa attraverso lo spioncino: poté vedere una forma scura che si muoveva nelle tenebre del serbatoio.

«Sembrerebbe che abbia forma e dimensioni predeterminate,» commentò la Dawnay, prendendo una serie di radiografie e porgendogliele. «Qui non è che ci sia molto da vedere. Non ci sono formazioni ossee. È come una grossa gelatina, ma c’è quest’occhio e una specie di corteccia, che sembra un ganglio nervoso, molto complicato.»

«Nessun’altra caratteristica?» Reinhart sollevò le radiografie e le osservò in trasparenza.

«Forse un accenno a un paio di gambe, sebbene sarebbe difficile dire che sia più di una divisione del tessuto.»

Reinhart depose le lastre, accigliato.

«Come si nutre?»

«Assorbe il nutrimento attraverso la pelle. Vive in un fluido nutritivo e lo assorbe direttamente nelle cellule. Molto semplice, molto efficiente.»

«E il calcolatore?»

La Dawnay sembrava sorpresa.

«Che cosa c’entra il calcolatore?»

«Non ha reagito?»

«E come?»

«Non so.» Reinhart corrugò la fronte, fissandola preoccupato. «Ha reagito?»

«No. È rimasto perfettamente calmo.»

Il professore entrò nella sala di controllo del calcolatore e poi tornò indietro, a capo basso, lo sguardo fisso alle proprie scarpe. Era ancora presto quel mattino, e c’era molto silenzio. Intrecciò le mani dietro la schiena, e parlò, senza guardare la Dawnay.

«Voglio che Fleming torni ad occuparsi di questa faccenda.»

La Dawnay per un attimo non rispose, poi disse: «È perfettamente sotto controllo.»

«Sotto controllo di chi?»

«Sotto mio controllo.»

Alzò a fatica lo sguardo su di lei.

«Abbiamo il tempo contato. Questi signori vogliono che ce ne andiamo.»

«Proprio sul più bello?»

«No. Il Ministero ha combattuto per questo, ma noi dobbiamo lavorare in squadra e dare dei risultati.»

«Ma accidenti! Non sono risultati, questi?» La Dawnay puntò un dito corto ed ossuto a indicare il serbatoio. «Stiamo vivendo la più grossa avventura del secolo… stiamo creando la vita.»

«Lo so,» disse Reinhart, muovendosi a disagio. «Ma dove ci condurrà?»

«Ci sono parecchie cose da scoprire.»

«E non possiamo permetterci altri incidenti.»

«Posso cavarmela da sola.»

«Non si tratta solo di lei, Madeleine.» Reinhart era teso ma controllato. «Tutti noi siamo in ballo.»

«Posso cavarmela,» ripeté lei.

«No, lei non può distaccarlo dalla sua origine… dal calcolatore.»

«Certo che non posso. Ma c’è Christine che capisce il calcolatore e lavora con me.»

«Christine capisce l’aritmetica di base, ma c’è anche una logica più alta, o almeno così la vedo io. Solo Fleming può comprenderla.»

«Non voglio John Fleming qui, a gironzolarmi attorno, a mandare all’aria il mio lavoro e le mie attrezzature.» La voce della Dawnay si era alzata di tono. Reinhart la guardava in silenzio. Era ancora teso, ma con quella decisione che gli aveva fatto fare molta strada.

«Non possiamo fare sempre tutto ciò che desideriamo fino in fondo.» Era così brusco che la Dawnay lo fissò di nuovo, meravigliata. «Sono ancora io il responsabile di questo programma, proprio. E lo sarò fin tanto che lavoriamo come squadra e ci comportiamo ragionevolmente. E questo significa avere qui Fleming.»

«Ubriaco o sobrio?»

«Buon Dio, Madeleine, se non abbiamo fiducia uno nell’altro, di chi possiamo aver fiducia?»

La Dawnay stava per protestare, ma poi si interruppe.

«D’accordo. Basta che si comporti bene e che faccia la sua parte di lavoro.»

«Grazie, mia cara.» Reinhart sorrideva.

Uscì dal laboratorio e andò subito da Geers.

«Ma Fleming mi ha annunciato che sta per partire,» osservò Geers. «Ho appena mandato Miss Adamson a sorvegliare il calcolatore per essere sicuro che non gli tiri una fucilata di commiato.»

Fleming però non era al calcolatore. Judy era nella sala di controllo, esitante, quando la raggiunse la Dawnay.

«Salve. Vuol vedere Ciclope?»

«Perché lo chiamate Ciclope?»

«Per via delle sue caratteristiche fisiche.» La Dawnay sembrava meravigliosamente distesa. «Ma non le istruiscono le ragazze al giorno d’oggi? Venga, è qui dentro.»

«Devo proprio?»

«Non la interessa?»

«Sì, ma…»

Judy era sbalordita. Non aveva seguito i progressi dell’esperimento. Gli ultimi due giorni aveva praticamente pensato solo a Fleming e a Bridger, e alla propria difficile posizione, e quel poco che aveva visto della creatura della Dawnay era qualcosa di microscopico, senza alcun rapporto con la sua vita. Seguì l’anziana signora fin dentro il laboratorio senza pensare e senza attendersi nulla.

«Guardi là dentro,» disse la Dawnay.

Judy guardò attraverso l’apertura superiore del grande serbatoio, impreparata a quello che stava per vedere. La creatura era simile a una medusa di forma allungata, senza arti e tentacoli, ma con un accenno di biforcazione a un’estremità, e all’altra un rigonfiamento che poteva essere una testa. Galleggiava nel liquido, massa di protoplasma tremante e percorsa da contrazioni, dalla superficie giallo-verde viscosa e lucente. Al centro di quella che sarebbe potuta essere la testa era posto, enorme, senza luce e senza colore, un occhio.

Judy avvertì una violenta nausea, poi si sentì prendere dal panico. Si volse, in preda a conati di vomito, e fissò la Dawnay come se anche lei facesse parte di un incubo, poi si premette una mano sulla bocca e corse fuori.

Attraversò lo spiazzo fino all’alloggio di Fleming, spalancò la porta e si precipitò dentro.

Fleming stava fissando le ultime cose in una sacca; le sue valigie erano pronte allineate sul pavimento. La fissò con freddezza: la ragazza se ne stava ansimante e tremante sulla porta.

«Ora basta!» disse lui.

«John!» Judy riusciva appena a parlare: la testa le girava, le ronzava e si sentiva la gola chiusa. «John, devi venire.»

«Venire dove?» La guardava con sorda ostilità. Era ancora visibile nel pallore del viso e nelle profonde occhiaie quello che aveva passato nell’ultima settimana, ma era calmo e brusco e perfettamente padrone di sé. Judy cercava di controllare la propria voce.

«Al laboratorio.»

«Per amor tuo?» Era insultante.

«No, non per me. Hanno fatto qualcosa di terribile. Una specie di creatura.»

«Perché non lo dici a M.I. 5?»

«Per piacere.» Judy gli si avvicinò: si sentiva completamente indifesa ma non le importava quello che lui potesse dirle o farle. John le volse le spalle e cominciò a riempire la sacca. «Ti prego, John. Sta accadendo qualcosa di terribile. Devi impedirlo.»

«Non dirmi quello che devo o non devo fare,» sbottò.

«Ma c’è questo affare. Questa cosa mostruosa con un occhio. Un occhio!»

«È affar loro.» Ficcò un vecchio maglione nella sacca e tirò il cordone per chiuderlo.

«John, sei il solo…»

Prese la sacca dal letto e le passò accanto per andare ad accatastarla con le altre. «Di chi è la colpa?»

Judy trasse un profondo sospiro.

«Non sono stata io ad uccidere Bridger.»

«Ah, non sei stata tu? Non sei stata tu a sguinzagliargli addosso la tua banda?»

«Ho cercato di metterti in guardia.»

«Hai cercato di ingannarmi. Facevi all’amore con me…»

«Non è vero. Una volta sola. Anch’io sono un essere umano. Ma avevo un lavoro.»

«Avevi uno sporco lavoro e lo facevi a meraviglia.»

«Non ti ho mai spiato. Bridger era un’altra cosa.»

«Dennis Bridger era il mio più vecchio amico, e il mio collaboratore migliore.»

«Ti tradiva.»

«Mi tradiva?» La guardò per un istante, poi si allontanò e incominciò a tirar fuori un ammasso di vecchie bottiglie e di bicchieri da una credenza. «Tientele per te le tue formule ufficiali. Metà di questa macchina era di Dennis. Era opera del suo cervello e del mio; non apparteneva né a te né ai tuoi capi. Se Dennis voleva vendere quello che era suo, buon per lui. Erano affari tuoi?»

«Te l’ho detto che non mi piaceva fare quello che dovevo. Ti ho detto di non fidarti di me. Credi che io non abbia…?»

La voce di Judy tremò contro la sua volontà.

«Oh, piantala di piagnucolare,» disse Fleming. «E vattene.»

«Me ne vado se tu vai a parlare con la professoressa Dawnay.»

«Sto per partire.»

«Non puoi farlo. C’è quella cosa orrenda.» Judy tese una mano per afferrargli disperatamente il braccio, ma Fleming se ne liberò e si diresse all’uscita.

«Arrivederci.» Girò la maniglia e aprì la porta.

«Non puoi andartene adesso.»

«Arrivederci,» ripeté lui con calma, aspettando che se ne andasse. Judy rimase immobile per un istante, cercando qualcos’altro da dire; in quel momento sulla soglia apparve Reinhart.

«Salve, John.» Passò lo sguardo dall’uno all’altra. «Salve, Miss Adamson.»

Judy uscì passando fra i due, senza parlare, sbattendo le palpebre per ricacciare le lacrime. Reinhart si volse verso di lei mentre usciva, ma Fleming chiuse la porta.

«Sapeva qual era il suo incarico?»

«Sì.»

Reinhart andò verso il letto e sedette. Sembrava vecchio e stanco.

«Perché non me l’ha detto?» chiese Fleming in tono accusatore.

«Non potevo, John.»

«Bene.» Fleming apriva e chiudeva i cassetti, per controllare che fossero vuoti. «Può assumere qualcuno di cui si possa fidare per metterlo al mio posto.»

«Mi offri qualcosa da bere?» Si passò una mano sulla fronte. Il secondo colloquio con Geers non era stato facile. «Che cosa ti fa pensare che io non abbia fiducia in te?»

«Nessuno ha fiducia in noi, vero?» Fleming rovistava fra le bottiglie. «Nessuno si sogna di prestare attenzione a quello che diciamo.»

«Badano a quello che facciamo.»

«Va bene un brandy?» Fleming ne trovò un goccio in fondo a una bottiglia, e lo versò in un bicchiere. «Certo, siamo dei meccanici molto utili. Ma quando si tratta dell’essenza delle cose — ad avere un’idea di che cosa si tratti — non ne vogliono sapere.»

Gli tese il bicchiere.

«Hai un goccio d’acqua?» chiese Reinhart.

«A quello arrivo.»

«E tu?» Reinhart accennò alla bottiglia. Fleming scosse il capo.

«Pensano di aver già avuto una notevole fortuna,» disse, facendo scorrere l’acqua dal rubinetto, «e quando gli diciamo che è l’inizio di qualche cosa di molto più grande ci trattano come pazzi criminali. Ci mettono alle calcagna i loro cani poliziotti… o le loro cagne poliziotte.»

«Non c’è alcun bisogno di prendersela con la ragazza.» Reinhart prese il bicchiere e bevve.

«Non me la prendo con nessuno. Se non si accorgono che quello che abbiamo captato per puro caso cambierà le nostre vite, allora lasciamo che se la cavino da soli. Con un po’ di fortuna combineranno un sacco di pasticci e non ne verrà fuori nulla.»

«Ma qualcosa ne è venuto fuori.»

«Il mostro della Dawnay?»

«Ne sei al corrente?»

«È soltanto un programma, un’appendice minore della macchina.»

Fleming guardava nella credenza vuota, ma la sua attenzione cominciava a destarsi. «La Dawnay è convinta che la macchina le abbia dato il potere di creare la vita; ma si sbaglia. La macchina ha dato questo potere a se stessa.»

«Allora devi restare a controllarla, John.»

«Non è il mio mestiere.» Fece sbattere lo sportello della credenza. «Volesse il cielo che non avessimo mai cominciato.»

«Ma hai cominciato. Hai una parte di responsabilità.»

«Nei confronti di chi? Nei confronti di gente che non mi ascolta?»

«Io ti ascolto.»

«D’accordo.» Vagava per la stanza, raccogliendo le cose inutili e gettandole nel cestino della carta straccia. «Le dirò con che cosa lei ha a che fare: poi me ne andrò.»

«Se hai qualcosa di costruttivo da dire…» Il brandy aveva rinvigorito la voce di Reinhart.

«Senta…» Fleming si fermò a capo del letto e si piegò un poco, le mani sulla testata, piegandosi con tutto il suo peso sulle braccia e concentrando finalmente la sua attenzione su quanto doveva dire. «Siete tutti così occupati a chiedervi ‘Che cosa?’ ‘Che cosa abbiamo fatto?’ ‘Che cosa combina la macchina?’ ma nessuno, salvo me, si chiede ‘Perché?’ Perché mai un’intelligenza lontana duecento anni-luce si prende il disturbo di mettere in moto una storia del genere?»

«Non possiamo saperlo.»

«Ma possiamo trarre delle deduzioni.»

«Delle congetture.»

«D’accordo… se non vuole far la fatica di pensarci.»

Si raddrizzò, lasciando ricadere le braccia. Reinhart prese un sorso di brandy, aspettando. Dopo un minuto Fleming si distese, gli sorrise un po’ goffamente.

«Vecchio filibustiere!» Sedette sul letto accanto al professore. «Ovunque sia, qualunque sia è un’intelligenza logica. Invia una serie di istruzioni, in termini assoluti, che richiedono una ricerca tecnica e che noi interpretiamo sotto la forma di questo calcolatore. Perché? Pensa lei che abbiano detto: ‘Bene, ecco un’informazione tecnica interessante. La trasmetteremo al resto dell’universo… potrebbero trovarla utile’?»

«È chiaro che tu non la pensi così.»

«Perché dove c’è intelligenza c’è volontà. E dove c’è volontà c’è ambizione. Se si trattasse di un’intelligenza che vuole espandersi?»

«Una teoria vale l’altra.»

«È l’unica teoria logica.» Fleming picchiò un pugno sulla coscia. «Che cosa fa? Trasmette un messaggio che può essere captato e interpretato e con il quale altre intelligenze possono costruire un apparecchio. Non importa la tecnica che noi usiamo, proprio come non importa che apparecchio radio si compra: si ricevono gli stessi programmi. Quel che importa è che noi accettiamo il loro programma: un programma che usa la logica aritmetica per adattarsi alle nostre condizioni, o a qualsiasi altra condizione, quanto a questo. Conosce le basi della vita: scopre qual è la nostra. Scopre come lavora il nostro cervello, come è costituito il nostro corpo, come otteniamo le nostre informazioni, noi stessi gli spieghiamo il nostro sistema nervoso e i nostri organi sensorii. E così costruisce una creatura con un corpo e con organi di senso, un occhio. Ha un occhio, vero?»

«Sì.»

«Probabilmente è piuttosto primitivo, ma è il primo passo. La Dawnay pensa di essere lei a usare quella macchina, ma è la macchina che usa lei.»

«Il primo passo per che cosa?» chiese Reinhart indifferente.

«Non so. Una specie di conquista.»

«Conquistare noi?»

«È il solo motivo possibile.»

Reinhart si alzò, e camminando lentamente attraverso la stanza, pensieroso, depose vicino agli altri il suo bicchiere vuoto.

«Non so, John.»

Fleming sembrava comprendere la sua incertezza.

«I primi esploratori devono essere sembrati abbastanza inoffensivi alle tribù indigene.» Parlava gentilmente. «Vecchi missionari cortesi con ridicoli cappellucci bianchi che poi sono diventati i loro dominatori.»

«Può darsi che tu abbia ragione.» Reinhart gli sorrise con gratitudine. Era come ai vecchi tempi, quando tutti e due la pensavano alla stessa maniera. «Buffo tipo di missionario.»

«Questa creatura della Dawnay… che tipo di cervello ha?» Reinhart si strinse nelle spalle e Fleming proseguì. «Pensa come noi o pensa come la macchina?»

«Sempre che pensi.»

«Se ha un occhio ha dei centri nervosi, e quindi ha certamente anche un cervello. Ma che tipo di cervello?»

«È probabile che anch’esso sia primitivo.»

«Perché? Perché la macchina non dovrebbe aver prodotto un’appendice della sua stessa intelligenza? Un sottocalcolatore che funziona nello stesso modo, salvo per il fatto che dipende da un corpo organico?»

«E a cosa servirebbe?»

«A cosa servirebbe un corpo organico? Una macchina dotata di sensi? Una macchina con un occhio?»

«Non convincerai nessuno,» disse Reinhart.

«Non metta il sale sulla ferita.»

«Dovrai rimanere con quell’affare, John.»

«Perché?»

«Per controllarlo.» Reinhart era deciso: aveva preso la decisione parecchie ore prima. Fleming scosse il capo.

«Come diavolo è possibile? È più intelligente di noi.»

«Sei sicuro?»

«Non voglio averci a che fare.»

«Ed è proprio quello che la macchina vuole, secondo la tua teoria.»

«Se lei non mi crede.»

Reinhart sollevò appena una mano. «Sono pronto a crederti.»

«Allora distrugga quella creatura: è la sola cosa sicura da fare.»

«Lo faremo, se necessario,» rispose Reinhart, dirigendosi verso la porta, come se la cosa fosse definita. Fleming si volse di colpo verso di lui.

«Davvero? Pensa davvero che potrà farlo? Pensi a quanto è successo quando ho cercato di fermarla io; la Dawnay mi ha cacciato fuori. E se lei prova, verrà cacciato fuori anche lei.»

«Mi vogliono cacciar via in ogni modo.»

«Vogliono cosa?» Sembrava che gli avessero dato un pugno.

«I grandi capi vogliono che sloggiamo,» spiegò Reinhart. «Aspettano solo di sapere che noi ce ne andiamo e traslocheranno qui.»

«Perché, santo cielo?»

«Pensano di saper usare la macchina in modo migliore. Ma finché restiamo qui, John, possiamo togliere la corrente. E lo faremo, se è necessario.» Il suo sguardo passò dal viso incerto di Fleming alle valigie sul pavimento. «Faresti bene a disfarle.»

L’incontro tra Fleming e la Dawnay si svolse in un’atmosfera carica di elettricità, ma non accadde nulla di drammatico. Fleming era abbastanza calmo, e la Dawnay lo trattava con una specie di tollerante ironia.

«Ben tornato il figliol prodigo,» disse, e lo condusse a vedere la creatura nel serbatoio. Questa galleggiava placidamente in mezzo al suo bagno nutriente: aveva scoperto lo spioncino e passava la maggior parte del suo tempo a guardar fuori con il suo unico grande occhio senza luce. Fleming ricambiò lo sguardo, ma la creatura non diede segno di registrare quello che vedeva.

«Può comunicare?»

«Caro ragazzo.» La Dawnay parlava come se stesse assecondando i capricci di uno studente molto giovane. «Abbiamo appena avuto il tempo di imparare un paio di cose sul suo conto.»

«Non ha corde vocali o qualcosa del genere?»

«No.»

«Hum.» Fleming si drizzò a guardare dalla cima del serbatoio. «Potrebbe essere l’abbozzo di un uomo.»

«Un uomo? Non assomiglia a un uomo.»

Fleming si diresse alla sala del calcolatore, dove Christine osservava i quadri di controllo.

«Non stampa nulla?»

«No, niente.» Christine sembrava perplessa. «Ma ovviamente sta succedendo qualcosa.»

Le lampade di controllo lampeggiavano con regolarità: pareva che la macchina stesse lavorando per conto suo, senza ottenere alcun risultato.

Nei due o tre giorni che seguirono non accadde nulla, poi Fleming dispose un filo elettrico congiunto al calcolatore attorno al serbatoio. Non diede spiegazioni e, a dire la verità, non avrebbe potuto spiegare perché lo facesse, ma d’improvviso il quadro di controllo del calcolatore cominciò a lampeggiare selvaggiamente. Christine entrò di corsa dal laboratorio.

«Ciclope è terribilmente agitato. È là nel suo serbatoio che sta smaniando.»

Si poteva infatti sentire nell’altra stanza la creatura agitarsi e far schizzare il suo liquido dal serbatoio. Fleming staccò il contatto, e i colpi cessarono. Quando riattaccarono il filo, la creatura reagì ancora, ma dalla stampa-dati non usciva ancora nulla. Sopraggiunse Reinhart per vedere come se la cavavano, e, assieme alla Dawnay e a Fleming, ripeterono ancora una volta le operazioni; ma non ottennero nulla.

Il giorno dopo Fleming li radunò di nuovo.

«Voglio fare un esperimento,» annunciò.

Si diresse al quadro di controllo e, voltandogli la schiena, si fermò tra i due misteriosi terminali che non avevano mai usato. Dopo un minuto tolse ai terminali la fodera di plastica e tornò a mettersi tra di essi.

«Le spiace mettersi qui un attimo?» chiese a Reinhart, e si allontanò per permettere al professore di prendere il suo posto. «Faccia attenzione a non toccarli. C’è una tensione di mille volt e più, lì.»

Reinhart stava completamente immobile, il capo tra i terminali, la schiena volta al quadro di controllo.

«Non sente nulla?»

«Un leggero…» Reinhart fece una pausa. «Una specie di stordimento.»

«Nient’altro?»

«No.»

Reinhart con un passo si allontanò dal calcolatore.

«Tutto bene, adesso?»

«Sì,» rispose. «Non sento nulla, ora.»

Fleming ripeté l’esperimento con la Dawnay, che non avvertì nulla.

«Il quantitativo di elettricità emesso varia da cervello a cervello. Il mio ovviamente ne emette poca, e così quello di Fleming. Il suo quantitativo, Ernest, deve essere maggiore perché produce una dispersione elettrica tra i terminali. Provi lei, Christine.»

Christine pareva spaventata.

«Non c’è nulla di cui preoccuparsi,» le disse Fleming. «Mettiti con la testa tra questi due affari, ma non toccarli o ti fanno arrosto.»

Christine prese posto dove si erano messi gli altri. Per un momento sembrò che su di lei non avesse alcun effetto, poi si fece rigida e cadde in avanti, gli occhi chiusi, svenuta. La sollevarono e la misero su una sedia. La Dawnay le sollevò le palpebre per esaminarle le pupille.

«Che diavolo è successo?» chiese Reinhart. «Ne ha toccato uno?»

«No,» rispose Fleming. «Ma in ogni caso penso sia meglio rimetterci su le custodie.» Fatto questo indugiò a pensare; Reinhart e la Dawnay cercavano di rianimare Christine, piegandole la testa tra le gambe e tamponandole la fronte con acqua fredda.

«Se c’è una scarica regolare tra questi due terminali e ci si introduce il campo elettrico di un cervello in attività…»

«Un momento,» lo interruppe la Dawnay con impazienza. «Penso che si stia riprendendo.»

«Oh, starà benissimo.» Fleming osservava pensoso il quadro e i due contatti foderati che ne sporgevano. «Questo modificherà la corrente tra di loro… la modulerà. Il cervello sentirà una reazione. Ci potrebbe essere una specie di fonorivelatore: potrebbe funzionare in entrambe le direzioni.»

«Di che stai parlando?» chiese Reinhart.

«Parlo di questi.» Fleming era eccitatissimo. «Penso di sapere a che servono. Sono un dispositivo per inserire e ricevere informazioni dalla macchina.»

La Dawnay lo fissava dubbiosa. «Questa è semplicemente una giovane donna nevrotica. Probabilmente sarebbe un buon soggetto per l’ipnosi.»

«Forse.»

Christine rinvenne e batté le palpebre.

«Salve.» Sorrise loro con aria vaaa. «Sono svenuta?»

«Direi proprio di sì,» sorrise la Dawnay. «Deve avere un potenziale elettrico dell’accidente.»

«Davvero?»

Reinhart le diede un bicchier d’acqua. Fleming si volse verso di lei sorridendole.

«Hai appena reso un gran servigio alla scienza.» Accennò ai terminali. «Meglio che ti tenga lontana da quelli.»

Tornò a rivolgersi a Reinhart.

«Il fatto, in realtà, è che con il tipo di cervello adatto… non un cervello umano, bensì uno che funzioni in un modo progettato dalla macchina, allora si ha un collegamento. Ecco come la macchina deve comunicare. Il nostro sistema di reintrodurre le domande come risposte è terribilmente lento. Tutta questa storia della stampa-dati…»

«Vuol dire che può leggere nel pensiero?» chiese sprezzante la Dawnay.

«Sto dicendo che due cervelli, se sono del tipo adatto, possono comunicare elettricamente tra di loro. Se prende la sua creatura e ne mette la testa tra i terminali…»

«Non vedo come sia possibile.»

«Ma è quello che vuole. È per questo che è così agitata. Ecco perché tutti e due sono così agitati. Vogliono essere messi in contatto. La creatura si trova nel campo elettromagnetico della macchina, e la macchina ne conosce le possibilità logiche. Ha dedotto proprio questo, e senza dircelo.»

«Non si può tirare Ciclope fuori dal suo bagno nutriente,» obiettò la Dawnay. «Morirebbe.»

«Devono avere pensato anche a questo.»

«Potresti equipaggiare un elettroencefalografo,» suggerì Reinhart. «Come quelli che si usano per le analisi mentali. Disponi una serie di piastrine elettriche sulla testa di Ciclope e fa correre un cavo coassiale da qui ai terminali per convogliare le informazioni. Devi farlo passare attraverso un trasformatore, o, con quelle scariche elettriche, lo ucciderai.»

«E a che può servire?» La Dawnay lo fissava scettica.

«A mettere il calcolatore in contatto con la sua sub-intelligenza,» rispose Fleming.

«E a che scopo?»

«Per il suo scopo.» Volse loro le spalle e percorse la stanza a grandi passi. La Dawnay aspettava che Reinhart parlasse, ma il vecchio se ne stava immobile, ostinato, fissandosi le mani, accigliato.

«Si sente meglio, ora?» chiese a Christine.

«Sì, grazie.»

«Pensa di riuscire a combinare qualcosa del genere?»

«Credo di sì.»

«Il dottor Fleming l’aiuterà. D’accordo, John?»

Fleming era all’altro capo della stanza: il complesso degli apparecchi si levava massiccio alle sue spalle.

«Se è proprio quel che vuole…» rispose.

«L’alternativa,» riprese Reinhart, parlando più a se stesso e alla Dawnay che non a Fleming, «è di fare le valigie e sloggiare. Non abbiamo una gran scelta, no?»

8

Agonia

Judy si teneva il più possibile lontana da Fleming e quando per caso le capitava di incontrarlo, lui di solito era in compagnia di Christine. Tutto era cambiato dopo la morte di Bridger: perfino quel precoce soffio di clima primaverile era presto svanito, lasciando sulla base e su Judy un manto grigio di tristezza. Con sofferenza anche maggiore capiva come fosse probabile che Christine prendesse nella vita di Fleming non solo il suo posto ma anche quello di Dennis Bridger: lavorava e collaborava con lui come lei stessa non aveva mai fatto. In un primo tempo Judy pensò che non sarebbe mai riuscita a sopportare questa situazione e, scavalcando Geers, scrisse lei stessa direttamente a Whitehall, chiedendo di essere trasferita. L’unico risultato che ne ottenne fu un ennesimo colloquio con Geers.

«Il suo lavoro qui, Miss Adamson, è appena cominciato.»

«Ma l’affare Bridger è chiuso.»

«È finito Bridger, forse, ma il caso no.» Sembrava non accorgersi affatto del suo disagio. «Quelli dell’Intel hanno avuto tanto quanto basta a stuzzicargli l’appetito e ora che hanno perso Bridger cercheranno qualcun altro… Forse uno dei suoi amici.»

«Pensa che il dottor Fleming venderebbe informazioni?» chiese sdegnata.

«Chiunque lo farebbe, se gliene diamo la possibilità.»

In conclusione, però, fu Fleming e non Judy a far rapporto sulla prima mossa dell’Intel.

Lui, Christine e la Dawnay avevano trovato il sistema per assicurare le piastre di contatto con un encefalografo a quella che sembrava essere la testa di Ciclope, e Christine aveva aiutato Fleming a collegarlo per cavo ai terminali ad alto voltaggio del calcolatore. Ai dispositivi sottostanti il quadro di controllo aggiunsero un trasformatore, attraverso il quale fecero passare il circuito, cosicché la corrente, quando arrivava a Ciclope, aveva pressappoco l’intensità della batteria di una lampadina. Ciò nonostante l’effetto fu spaventoso. Non appena fu dato il contatto, la creatura si irrigidì completamente, e le lampade del quadro di controllo registrarono delle grosse interferenze. Dopo un po’, tuttavia, la creatura e la macchina sembrarono trovare un punto di equilibrio: i dati continuavano con regolarità il loro processo, sebbene dalla stampa-dati non uscisse nulla e sebbene Ciclope nel suo serbatoio nuotasse placidamente guardando fuori dallo spioncino con il suo unico occhio.

Tutto questo lavoro aveva occupato parecchi giorni e a Christine era stata lasciata la responsabilità della sala di controllo e del laboratorio, ora collegati, con istruzioni di chiamare la Dawnay e Fleming se si fosse verificato qualcosa di strano. La Dawnay si concesse il meritato riposo, ma Fleming, di tanto in tanto, visitava l’edificio del calcolatore per fare dei controlli e per vedere Christine. Man mano che i giorni passavano la trovava sempre più tesa e in capo a una settimana era diventata così nervosa che si sentì costretto ad affrontare con lei l’argomento.

«Senti… Sai bene che questa faccenda mi spaventa maledettamente, ma non sapevo che facesse paura anche a te.»

«Non mi fa paura,» gli rispose. Erano nella sala di controllo, dove stavano osservando le luci che continuavano a lampeggiare sul quadro. «Però mi dà una sensazione strana.»

«Quale?»

«Questa faccenda dei terminali, e…» Esitò lanciando un’occhiata nervosa verso l’altra stanza. «Quando sono là dentro sento quell’occhio che mi osserva continuamente.»

«Osserva tutti.»

«No. Me in modo particolare.»

Fleming abbozzò un sorriso. «Non me ne meraviglio. Anch’io ti osservo.»

«Pensavo che tu avessi altro da fare.»

«Avevo altro da fare.» Accennò una carezza poi cambiò idea e si diresse alla porta. «Sii prudente.»

Percorse il sentiero della scogliera fino alla spiaggia, dove poteva stare solo, in silenzio, a riflettere. Era un pomeriggio grigio e vuoto: la marea si stava ritirando e la sabbia sembrava una distesa di tetra ardesia grigia tra i promontori di granito. Avanzò fino alla riva, a capo basso, le mani in tasca, cercando di esaminare mentalmente quanto stava accadendo all’interno del calcolatore. Tornò lentamente verso la battigia rocciosa: era troppo profondamente immerso nei suoi pensieri per notare un uomo tarchiato e calvo che, seduto su un masso, fumava un sottile sigaro.

«Un momento, per piacere, signore.» La voce gutturale lo colse di sorpresa.

«Chi è lei?»

L’ometto calvo trasse dal taschino della giacca un biglietto da visita e glielo porse.

«Non so leggere,» disse Fleming.

L’uomo calvo sorrise. «Lei, ad ogni modo, è il dottor Fleming.»

«E lei?»

«Non le direbbe nulla.» L’ometto calvo era lievemente affannato.

«Come è arrivato qui?»

«Facendo il giro del promontorio. Si può, quando c’è bassa marea, ma è proprio una scalata.» Trasse un portasigari di argento. «Fuma?»

Fleming lo ignorò. «Che cosa vuole?»

«Sono venuto a fare una passeggiata.» Si strinse nelle spalle e rimise l’astuccio in tasca. Pareva che stesse riprendendo fiato. «Anche lei viene qui spesso.»

«Questo è territorio riservato.»

«Non il litorale. In questo libero paese il litorale…» Alzò ancora le spalle. «Mi chiamo Kaufmann. Non l’ha mai sentito?»

«No.»

«Il suo amico, Herr Doktor Bridger…»

«Il mio amico Bridger è morto.»

«Già. L’ho saputo.» Kaufmann aspirò il fumo del suo cigarillo. «Molto triste.»

«Conosceva Dennis Bridger?» chiese Fleming, perplesso e sospettoso.

«Oh, sì. Abbiamo collaborato per qualche tempo.»

«Lei lavora per la…» La verità cominciava a farglisi luce e cercava di ricordare il nome.

«Per la Intel? Sì.»

Kaufmann scoccò un sorriso a Fleming soffiando dal naso una piccola nube di fumo. Fleming tolse le mani di tasca.

«Sloggi.»

«Prego?»

«Se ne vada da questo terreno entro cinque minuti o chiamerò le sentinelle.»

«No, per piacere.» Kaufmann sembrava offeso. «È stata una così bella occasione, questa, di incontrarla.»

«E così bella per Bridger?»

«A nessuno è spiaciuto più che a me. Inoltre era molto utile.»

«E molto morto.» Fleming guardò l’orologio. «Mi ci vorranno cinque minuti per risalire la scogliera. Quando sarò in cima avviserò le sentinelle.»

Si volse per andarsene, ma Kaufmann lo richiamò.

«Dottor Fleming, lei ha dei sistemi molto più redditizi per passare i prossimi cinque minuti. Non le sto suggerendo di far qualcosa di disonesto.»

«E questo è splendido, vero?» commentò Fleming tenendosi a distanza.

«Pensavamo, piuttosto, che le sarebbe piaciuto lasciare il servizio statale per un onorevole lavoro con noi. Credo che lei non sia molto contento, qui.»

«Lasciamo stare, mio Herr amico, d’accordo?» Fleming indietreggiò e si fermò a guardarlo dall’alto. «Forse non adoro il governo, forse non sono felice, ma anche se li odiassi a morte, anche se fossi all’ultimo respiro e non ci fosse nessun altro al mondo a cui rivolgersi, preferirei crepare piuttosto che rivolgermi a voi.»

Poi gli volse le spalle e risalì il sentiero della scogliera senza voltarsi indietro.

Andò diritto all’ufficio di Geers e trovò il direttore intento a dettare un rapporto al magnetofono.

«E lei che gli ha risposto?» chiese Geers quando Fleming ebbe terminato il suo resoconto.

«Ma le pare…» Sul viso di Fleming affiorò un’ombra di disgusto. «È già abbastanza difficile tenere questa storia fuori dalle mani dei bambini e dei lattanti, senza offrirla in pasto anche ai truffatori.»

Lasciò l’ufficio chiedendosi perché mai si fosse preso quella briga: ma in realtà era una delle poche azioni che in tutti quei mesi parlassero in suo favore.

Sulla spiaggia vennero istituiti dei turni di sorveglianza, furono innalzate barriere di cavalli di Frisia che dal promontorio si spingevano nel mare, il personale di sicurezza di Quadring eseguì un rastrellamento del territorio circostante e della Intel per molto tempo non si ebbero più notizie. Nell’edificio del calcolatore gli esperimenti proseguivano senza alcun risultato tangibile, fino a quando la Dawnay non tornò dalle sue vacanze; e allora, un mattino, all’improvviso, il calcolatore cominciò a stampare dati. Fleming si rinchiuse nel suo alloggio con i fogli di stampa, e dopo un centinaio di ore di lavoro telefonò, chiedendo di Reinhart.

Da quello che era riuscito a decifrare, il calcolatore stava facendo una serie di domande assolutamente nuove, che riguardavano tutte dimensioni, aspetto e funzioni del corpo. Era possibile, a quanto diceva Fleming, ridurre qualunque forma fisica in termini matematici e questo era, a quanto sembrava, ciò che chiedeva il calcolatore.

«Per esempio,» disse a Reinhart e alla Dawnay quando si disposero tutti insieme a lavorarci, «vuole avere notizie sull’udito. C’è un’enorme quantità di domande che riguardano le frequenze acustiche, e ci chiede ovviamente come produciamo i suoni e come li sentiamo.»

«Ma come può sapere che parliamo?» indagò la Dawnay.

«Perché la sua creatura ci vede usare la bocca per comunicare e le orecchie per ascoltare. Tutte queste domande derivano dalle osservazioni del vostro mostriciattolo. Probabilmente può anche avvertire le vibrazioni delle voci e ora che è collegato alla macchina può trasmetterle tutte le sue osservazioni.»

«Lei sta lavorando di fantasia.»

«Come se lo spiega, altrimenti?»

«Non vedo come possiamo analizzare tutta la struttura umana,» disse Reinhart.

«Non è necessario. La macchina continua a fare delle ipotesi intelligenti, e noi dobbiamo solo reintrodurre quelle giuste. È la solita storia. Non riesco a capire come mai, a questo punto, non abbia ancora trovato un sistema più veloce. Sono certo che ne è capace. Forse la creatura non ha risposto alla sua aspettativa.»

«Vuole tentare?» chiese Reinhart alla Dawnay.

«Tenterò qualunque cosa,» rispose.

In questo modo la seconda fase del progetto andò avanti: Christine se ne stava al calcolatore, facendo le letture e reintroducendo i risultati. Era sempre in stato di tensione nervosa, ma non diceva nulla.

«Vuoi passare a qualche altra incombenza?» le chiese Fleming una sera in cui si ritrovarono da soli nella sala del calcolatore.

«No. Mi affascina.»

Fleming fissò il suo viso pensoso, molto bello. Non la corteggiava più come era solito fare prima di cominciare a interessarsi veramente a lei, quando Christine era solo una ragazza del laboratorio. Si ficcò le mani in tasca, voltandole la schiena e uscì dall’edificio. Quando lui se ne fu andato, Christine attraversò la sala di controllo dirigendosi verso l’ala del laboratorio. Le costava sempre un certo sforzo entrare nella sala dove si trovava il serbatoio, e si fermò un istante sulla soglia, il viso teso, facendosi forza. Non si udiva alcun suono, salvo il continuo ronzio del calcolatore, ma quando giunse nel raggio dello spioncino praticato nel fianco del serbatoio, la creatura cominciò ad agitarsi, dimenandosi contro le pareti del serbatoio e facendo schizzare il liquido dall’apertura superiore.

«Buona,» disse a voce alta. «Sta’ buona!»

Si piegò, meccanicamente, e guardò attraverso lo spioncino: l’occhio era là, che la guardava fisso, ma la creatura si stava facendo sempre più agitata e muoveva le estremità del suo corpo come una medusa. Christine si passò una mano sulla fronte; si sentiva lievemente stordita per la posizione china, ma quell’occhio la teneva legata, come per ipnosi. Rimase così per un lungo minuto, e poi per un altro, riuscendo sempre meno a pensare. Lentamente, come per volontà sua, la mano destra salì lungo la parete del serbatoio e le sue dita cercarono il filo che lo collegava al cavo encefalografico. Toccarono il filo, e, quando furono percorse dalla leggera corrente, ne vibrarono.

Nell’attimo in cui toccò il filo la creatura si mise tranquilla. La guardava ancora fissamente, ma non si muoveva più. L’intera costruzione era immersa in un profondo silenzio; si sentiva solo il ronzio del calcolatore. Christine si raddrizzò lentamente, come se fosse in trance, continuando a stringere il filo. Le sue dita lo percorsero fino a toccare la guaina del cavo, e si richiusero su di esso, facendolo scivolare nell’interno della mano. Il cavo non era stato fissato: era legato con due nodi tra il serbatoio e il muro del laboratorio, ed era fermato lungo la parete con pezzi di nastro isolante, avvolto, a intervalli di qualche metro, attorno a dei chiodi. Seguendo il cavo con la mano, Christine camminò rigidamente verso la parete, la seguì fino alla porta che dava sulla sala del calcolatore. Aveva gli occhi aperti, sbarrati, ma non vedeva. Il cavo spariva in un buco praticato nella superficie di legno della porta e quando non poté andar oltre la ragazza sembrò perduta. Alzò allora l’altra mano e afferrò di nuovo il cavo dall’altra parte della porta.

Lasciò ricadere la mano destra e passò nell’altra stanza tenendo il cavo nella sinistra. Continuò il suo cammino lungo la parete, lentamente, fino all’estremità dell’intelaiatura dell’apparecchio di controllo, con un respiro profondo e faticoso, come se dormisse e fosse tormentata da un sogno. Al centro dell’intelaiatura dell’apparecchio il cavo passava nel trasformatore sotto il quadro di controllo. Le luci del quadro lampeggiavano continuamente, con un ritmo quasi ipnotico, e gli occhi di Christine si fissarono su di esse come si erano fissati sull’occhio della creatura. Rimase di fronte al quadro, per alcuni istanti, come se non intendesse andare oltre: poi, lentamente, la sinistra lasciò il cavo. Alzò di nuovo la destra e con tutte e due si attaccò ai fili ad alta tensione che correvano dal trasformatore ai due terminali dietro la sua testa. Questi fili erano ricoperti di nastro isolante, fino sotto ai terminali, dove il filo scoperto era fissato alle piastre sporgenti. Le mani di Christine li risalirono lentamente, centimetro per centimetro.

Il suo viso era pallido e teso: cominciò a tremare come il giorno in cui Fleming per la prima volta l’aveva fatta andare tra le piastre dei terminali. Stringeva i cavi: le dita si muovevano lentamente lungo di essi. Poi toccò il filo scoperto.

Accadde tutto molto rapidamente. Quando la corrente la percorse in pieno, il suo corpo si contorse. Cominciò a gridare, le gambe le si piegarono, la testa le cadde all’indietro, e restò appesa ai terminali con le braccia spalancate, come crocifissa. Le lampade del quadro di controllo lampeggiavano furiosamente, illuminandole il viso contorto, e nell’altra stanza cominciarono dei tonfi insistenti.

Durò circa dieci secondi. Poi il suo grido bruscamente venne interrotto, dal quadro di valvole sopra il capo di Christine partì una fragorosa esplosione, le luci si spensero, le sue dita si aprirono lasciando il filo nudo, e Christine cadde pesantemente, ammasso sconvolto, sul pavimento. Per un attimo regnò il silenzio. La creatura smise di agitarsi e il ronzio del calcolatore cessò, come se gli avessero tagliati i fili. Squillò il campanello di allarme.

Fu Judy la prima ad arrivare sul teatro della tragedia: passava vicino all’edificio quando l’allarme aveva incominciato a suonare sulla parete del portico. Spinta la porta, corse precipitosamente lungo il corridoio, fino alla sala di controllo. Dapprima non vide nulla. Le luci del soffitto funzionavano ancora, ma il banco di controllo nascondeva il pavimento di fronte al quadro. Poi vide il corpo di Christine: si precipitò verso di lei, le si inginocchiò accanto.

«Christine!»

Adagiò il corpo sulla schiena. Il viso di Christine la fissava, senza vita; le mani ricaddero mollemente sul pavimento: erano nere e bruciate fino all’osso. Judy cercò di sentire il cuore della ragazza, ma era fermo.

«Oh, mio Dio!» pensò. «Perché devo sempre trovarmi io di fronte alla morte?»

Le notizie raggiunsero Reinhart che era tornato a Londra. Quando le riferì a Osborne ne ottenne una risposta diversa da quella che si attendeva; Osborne ne era certamente preoccupato, ma sembrava tormentato da altri pensieri e accolse questa notizia come un grattacapo fra i tanti. Reinhart era stupito, non capiva: non solo Osborne, ma tutti gli altri che incontrava durante le sue continue visite agli uffici di Whitehall sembrava avessero in capo qualche peso segreto. Pensò di andare a Bouldershaw Fell dove non si recava da parecchio tempo, nel tentativo di liberarsi dell’atmosfera oppressiva che si sentiva attorno, ma venne a sapere che il radiotelescopio era stato messo sotto controllo militare e che era sorvegliato con estrema severità dal Servizio di Sicurezza del Ministero della Difesa. Questo passo era stato compiuto senza preavviso la settimana precedente, mentre Reinhart si trovava a Thorness. Era furibondo di non essere stato consultato, e andò a trovare Osborne, ma Osborne era troppo occupato per potergli concedere un appuntamento.

Nel giro di pochi giorni arrivarono i risultati dell’autopsia di Christine. Al professore fu risparmiata almeno la dura prova di dare spiegazioni ai parenti, perché i genitori di lei erano morti e non aveva altri familiari in Inghilterra. Fleming gli mandò una lettera breve e triste nella quale gli diceva che il calcolatore non era stato danneggiato e che, circa la morte di Christine, aveva una sua teoria. Poi giunse una lettera più lunga, nella quale diceva che il circuito, dopo l’esplosione, era stato riparato, e che il calcolatore ora stava lavorando a pieno regime, trasferendo alla memoria un quantitativo fantastico di informazioni; Fleming però non diceva che genere di informazioni. Un paio di giorni dopo gli telefonò la Dawnay, per dirgli che il calcolatore aveva cominciato a stampare dati. Ne usciva una massa enorme di cifre, e per quello che potevano capire lei e Fleming, questa volta non erano sotto forma di domanda, ma erano informazioni.

«Sono altrettanto formule per la biosintesi,» disse. «Fleming pensa che chieda un nuovo esperimento; e credo che sia nel giusto.»

«Altri mostri?» chiese Reinhart, al telefono.

«Forse. Ma questa volta è una faccenda più complessa. Sarà un lavoro terribile. Avremo bisogno di facilitazioni molto maggiori, temo, e di molto più denaro.»

Reinhart fece un altro tentativo di vedere Osborne, e fu convocato, con sua grande sorpresa, al Ministero della Difesa.

Quando arrivò, Osborne aspettava nell’ufficio di Vandenberg. Erano presenti anche Vandenberg e Geers: sembrava che avessero già parlato, a lungo. La borsa di Geers era buttata aperta sul tavolo, e i molti documenti che conteneva erano già stati tirati fuori ed esaminati. Qualcosa di stridente e ostile nell’atmosfera della stanza mise in guardia il professore.

«Si accomodi,» disse Vandenberg automaticamente, senza sorridere. Ci fu una pausa forzata; tutti aspettavano che qualcun altro parlasse; poi Vandenberg aggiunse: «Mi è stato detto che avete fatto fuori un’altra persona.»

«È stato un incidente,» rispose Reinhart.

«Certo, certo. Due incidenti.»

«Il governo ha ricevuto i risultati dell’inchiesta,» disse Osborne, fissando il tappeto. Geers tossicchiò nervoso e cominciò a riordinare le carte.

«Dunque?» Reinhart guardò il generale e attese.

«Mi spiace, professore,» disse Vandenberg.

«Di che cosa?»

Per la prima volta Osborne lo guardò. «Dobbiamo accettare un cambio di controllo, una restrizione generale.»

«Perché?»

«La gente comincia a farsi delle domande. E si scoprirà presto che voi avete quella creatura viva sulla quale state facendo esperimenti.»

«Si riferisce forse all’Associazione per la protezione degli animali? È solo una serie di molecole che abbiamo messo insieme noi.»

«Questo non li renderà più contenti.»

«Non potete interrompere a metà…» Lo sguardo di Reinhart passò dall’uno all’altro, cercando di indovinare che cosa avessero in mente. «La Dawnay e Fleming hanno appena cominciato a lavorare su una nuova pista.»

«Lo sappiamo,» disse Geers battendo sui fogli che stava rimettendo nella cartella.

«E allora?…»

«Mi spiace,» ripeté Vandenberg. «Il vostro lavoro finisce qui.»

«Non capisco.»

Osborne si mosse a disagio sulla sedia. «Ho fatto del mio meglio. Abbiamo tutti combattuto come potevamo.»

«Combattuto chi?»

«Quelli del governo sono molto decisi.» Osborne pareva ansioso di evitare i particolari. «Abbiamo perso la nostra causa, Ernest. È stato tutto discusso e siamo stati sconfitti nelle alte sfere.»

«E ora, poi,» interferì Vandenberg, «voi avete eliminata un’altra persona.»

«Questa è solo una scusa.» Reinhart si drizzò in tutta la sua statura per affrontare l’altro, dietro la scrivania. «Volete che lasciamo perdere la faccenda perché vi fa gola il calcolatore. Inventate ogni sorta di pretesti…»

Vandenberg sospirò. «È così che vanno le cose. Non mi aspetto che lei capisca il nostro punto di vista.»

«E voi non ci aiutate a capirlo.»

Geers fece scattare la serratura della sua cartella e accennò un breve sorriso.

«Reinhart, la verità è che vogliono il suo ritorno a Bouldershaw Fell.»

Reinhart lo guardò con disgusto.

«A Bouldershaw Fell? Non mi ci lasciano neppure entrare.»

Geers fissò il generale con aria interrogativa e questi gli rispose con un cenno.

«Il governo ci ha messo a parte di alcune cose,» disse con aria di importanza.

«È della massima segretezza, lei capisce,» aggiunse Vandenberg.

«Allora forse sarebbe bene non dirmi nulla.» Reinhart se ne stava irrigidito come un animale preso in trappola.

«Ma lei dovrà saperlo,» insisté Geers. «C’entrerà anche lei. Il governo ha lanciato un S.O.S. Vogliono che tutti voi vi mettiate al lavoro per la Difesa.»

«Senza nessuna considerazione per quel che stiamo facendo?»

«È una decisione del governo.» Osborne fissava il tappeto. «Abbiamo ottenuto le migliori condizioni possibili.»

Vandenberg si alzò dirigendosi verso la carta geografica al muro.

«Le potenze occidentali sono profondamente preoccupate.» Neppure lui guardava Reinhart. «A causa di alcune tracce che abbiamo captato.»

«Quali tracce?»

«In particolare è stato il vostro radiotelescopio a captarle. È il solo apparecchio in nostro possesso che abbia un livello di precisione abbastanza alto. Ci sta dando la rotta di molti ordigni in orbita.»

«Terrestri?» Reinhart esaminò le traiettorie tracciate sulla carta. «È questo che vi preoccupa tanto?»

«Sì. Qualche potenza dell’altro emisfero li mette in orbita uno dopo l’altro; ma i nostri vecchi schermi di controllo non hanno un raggio d’azione abbastanza vasto. L’Agenzia spaziale nelle Nazioni Unite non ha alcuna idea in proposito, come non ne ha l’alleanza occidentale. Nessuno ne ha.»

Geers concluse per lui: «Così desiderano che se ne occupi lei.»

«Ma non è il mio campo.» Reinhart stava deciso di fronte alla scrivania. «Io sono un astronomo.»

«E quello che sta facendo adesso, è forse nel suo campo?» chiese Vandenberg.

«No, ma è di lì che prende le mosse… Da una sorgente astronomica.»

Per un minuto nessuno gli rispose.

«Bene, questo è quanto vuole il governo,» disse alla fine Osborne.

«E il lavoro di Thorness?»

Vandenberg si volse a lui. «La vostra squadra — quello che ne rimane — sarà diretta dal dottor Geers.»

«Geers!»

«Io sono il direttore della base.»

«Ma lei non ne conosce neppure i primi elementi…» Reinhart si trattenne.

«Sono un fisico,» ribatté Geers. «O, perlomeno, lo ero. Credo di poter rispolverare tutto quanto in fretta.»

Reinhart lo fissò, sprezzante. «È quello che ha sempre voluto, no?»

«Non l’ho voluto io,» rispose Geers astioso.

«Signori!» nitrì Osborne con aria di riprovazione.

Vandenberg tornò pesantemente alla sua scrivania. «Non facciamone una questione personale.»

«E il lavoro di Fleming e della Dawnay?» chiese Reinhart.

«Non li butterò a mare,» disse Geers. «Avremo bisogno, qualche ora al giorno, del calcolatore, ma ci si può mettere d’accordo…»

«Se buttate a mare me…»

«Non vi si muove nessuna accusa, Ernest,» disse Osborne. «Come vedrete dalla prossima lista d’onorificenze.»

«Al diavolo la vostra lista.» Le unghie di Reinhart si conficcarono nel palmo della mano. «Il lavoro in cui sono impegnati Fleming e la Dawnay è il progetto di ricerca più importante che sia mai stato fatto in questo paese. È l’unica cosa che mi interessa.»

Geers lo guardò attraverso gli occhiali scintillanti. «Faremo il possibile per loro, se si comportano bene.»

«Ci saranno alcuni cambiamenti, Miss Adamson.»

Judy si trovava nell’ufficio di Geers, di fronte al dottor Hunter, il sovrintendente sanitario della base. Questi era un omone ossuto, che aveva molto più del militare che del medico.

«La professoressa Dawnay si prepara a iniziare un nuovo esperimento, ma non sotto la direzione del professor Reinhart, questa volta. Reinhart ne è fuori.»

«E allora chi?…» Lasciò la domanda in sospeso. Non le piaceva quell’uomo, e non le piaceva avere a che fare con lui.

«Sarò io il responsabile.»

«Lei?»

Hunter, forse, era abituato a questo genere di insulti; sulla sua faccia larga, grossolana, apparve solo l’ombra di una smorfia.

«Certo, io sono soltanto un umile medico. L’autorità suprema sarà nelle mani del dottor Geers.»

«E se la professoressa Dawnay avesse qualcosa da obiettare?»

«No, non ha nulla da obiettare. L’organizzazione non le importa molto. Quello che dobbiamo fare per lei è disporre le cose in bell’ordine. Il dottor Geers avrà la suprema giurisdizione sul calcolatore, e io lo aiuterò negli esperimenti biologici. Ora lei…» raccolse un foglio dalla scrivania del direttore, «… lei era stata assegnata al Ministero della Scienza. Bene, può dimenticarselo. Tornerà con noi. Ho bisogno del suo aiuto per mantenere ben sicura la nostra parte dell’operazione.»

«Cioè il programma della professoressa Dawnay?»

«Sì. Penso che stiamo per creare una nuova forma di vita.»

«Una nuova forma di vita?»

«Le toglie il respiro l’idea, vero?»

«Che genere di forma?»

«Non lo sappiamo ancora, ma quando lo sapremo dovremo tenercelo per noi.»

Le rivolse un sorriso confidenziale. «Avremo il privilegio di fare da padrini a un grande avvenimento.»

«E il dottor Fleming?» chiese Judy guardando dritto di fronte a sé.

«Rimarrà qui, su richiesta del Ministero della Scienza: ma credo che ormai non abbia più gran che da fare.»

Fleming e la Dawnay accolsero quasi senza commenti la notizia dell’allontanamento di Reinhart. La Dawnay era completamente assorbita da quello che stava facendo, e Fleming isolato e solitario. La sola persona a cui avrebbe potuto parlare era Judy, ma la evitava. Sebbene lui e la Dawnay lavorassero sempre insieme, continuavano a diffidare l’uno dell’altra e non parlavano mai tranquillamente di qualcosa che non fosse l’esperimento: e anche allora gli riusciva difficile convincerla di qualsiasi postulato fondamentale.

«Suppongo,» disse lei una volta che se ne stavano vicino alla stampa-dati d’uscita a controllare nuove valanghe di cifre, «suppongo che queste siano tutte informazioni che ha inserito Ciclope.»

«Alcune, più quello che la macchina ha appreso da Christine quando l’ha presa in trappola.»

«Che cosa poteva apprendere da lei?»

«Non si ricorda quando le dissi che la macchina doveva avere un sistema più svelto per ottenere informazioni sul nostro conto?»

«Ricordo che lei era impaziente.»

«Non solo io. In quei pochi secondi prima che saltassero le valvole, credo che abbia ottenuto molti più dati fisiologici di quanti non se ne potrebbero ottenere in tutta una vita.»

La Dawnay ebbe uno di quei suoi brevi sbuffi asciutti, e lo lasciò a crogiolarsi nelle sue riflessioni. Fleming raccolse un pezzo di cavo e si diresse al gruppo di controllo, dove si fermò di fronte al quadro lampeggiante, tenendo in mano, sovrappensiero, i capi scoperti del filo. Raggiunto uno dei terminali, vi fissò uno dei capi del cavo, poi, tenendolo per la parte isolata, avvicinò lentamente l’altro capo al terminale opposto.

«Che sta cercando di fare?» La Dawnay si precipitò verso di lui. «Ne farà un arco voltaico.»

«Non credo,» rispose Fleming. Mise il capo scoperto del filo a contatto con il terminale. «Vede?» Al contatto delle due superfici metalliche ci fu solo una piccola scintilla.

Fleming lasciò cadere il filo e rimase pensieroso per qualche istante, poi alzò lentamente le mani verso i terminali, così come aveva fatto Christine.

La Dawnay fece un passo avanti per fermarlo. «Per l’amor di Dio!»

«Non si preoccupi.» Fleming toccò simultaneamente i due terminali e non accadde nulla. Rimase immobile, le braccia distese, stringendo le piastre metalliche mentre la Dawnay lo osservava con un miscuglio di scetticismo e e paura.

«Non le pare che ci siano stati abbastanza morti?»

«Ha imparato.» Abbassò le braccia. «Ha imparato. Non conosceva l’effetto degli alti voltaggi sui tessuti organici, finché non l’ha sperimentato su Christine. Non sapeva che avrebbe danneggiato anche se stesso. Ma ora che lo sa, prende le sue precauzioni. Se prova a passare attraverso questi elettrodi, la macchina ridurrà il voltaggio. Su, provi.»

«No, grazie, ne ho abbastanza delle sue idee.»

Fleming la guardò duramente.

«Non ci troviamo di fronte a un macchinario. Siamo di fronte a un cervello, e a un cervello maledettamente buono.» Lei non rispose ed egli uscì.

Nonostante l’urgenza del lavoro per la Difesa, Geers trovava tempo e mezzi per aiutare la Dawnay. Era il tipo che si nutre di lavoro, come una locusta; il fatto di avere una quantità enorme di cose sotto il proprio controllo soddisfaceva le riposte ambizioni della sua mente e sostituiva forse il genio creativo che gli era mancato. Riuscì a fare in modo che fosse messo a disposizione della Dawnay un maggior numero di attrezzature e faceva rapporto sui suoi progressi con orgoglio crescente. Lui sarebbe stato più in gamba di Reinhart.

Al complesso del calcolatore fu aggiunto un nuovo laboratorio che avrebbe ospitato l’enorme, complicato sintetizzatore di DNA e durante le settimane successive furono installati apparecchi cristallografici a raggi X di recente progettazione, e apparecchiature per la sintesi chimica, per ottenere fosfati, deossiribosio, adenina, timina, citosina, tirosina e altri ingredienti necessari a formare le molecole di DNA, il germe della vita. Nel giro di pochi mesi avevano in formazione una elica di DNA di circa cinque bilioni di lettere del codice nucleotidico, e prima della fine dell’anno avevano ottenuto un’unità genetica di cinquanta cromosomi, simile a quella umana ma leggermente più grande.

Nei primi giorni di febbraio la Dawnay, nel suo rapporto, annunciò l’esistenza di un embrione vivente apparentemente umano.

Hunter si precipitò al laboratorio per vederlo. Mentre passava nella sala del calcolatore, incrociò Fleming, ma non gli rivolse la parola. Fleming si era limitato alla sua parte di lavoro, come aveva promesso, e non aveva fatto alcun tentativo di dare la propria collaborazione in campo biochimico. Hunter trovò la Dawnay nel laboratorio, china su una piccola tenda ad ossigeno, circondata dai suoi apparecchi e da molti dei suoi assistenti.

«Vive?»

«Sì.» La Dawnay si drizzò per guardarlo.

«Che aspetto ha?»

«È un bambino.»

«Un bambino… Un essere umano?»

«Direi di sì, sebbene creda che Fleming non sarebbe d’accordo.» Ebbe un sorriso soddisfatto. «Ed è una femmina.»

«Non riesco a crederci…» Hunter sbirciò nella tenda a ossigeno. «Posso dare un’occhiata?»

«Non c’è gran che da vedere: è solo un fagottino.»

Sotto la ricopertura di plastica della tenda c’era qualcosa che sarebbe potuto essere umano, ma il corpo era protetto da una coperta e il viso da una mascherina. Un tubo di gomma spariva sotto la coperta all’altezza del collo.

«Respira?»

«Aiutandola. Polso e respirazione normale. Peso, tre chili. Quando sono arrivata qui, non avrei mai pensato…» Si interruppe, sopraffatta improvvisamente, inaspettatamente, dall’emozione. Poi continuò, a voce più bassa: «E pensare a tutta quell’alchimia per trasformare il metallo in oro, per creare la vita.» Sfiorò il tubo di gomma e riprese il suo solito fare burbero. «La nutriamo per ipodermoclisi. È probabile che le sia sconosciuto il normale istinto di poppare. Bisognerà insegnarglielo.»

«Ci ha procurato una bella grana, professoressa,» commentò Hunter, che era colpito, sì, ma si preoccupava già delle responsabilità formali.

«Vi ho dato una vita umana, creata da esseri umani. La natura ci ha messo due miliardi di anni per fare un lavoro del genere. Noi ci abbiamo messo quattordici mesi.»

I modi rassicuranti, da medico di famiglia, tornarono a riaffiorare in Hunter: «Voglio essere il primo a congratularmi.»

«Ne parla come se si trattasse di una nascita normale,» disse la Dawnay, cercando di sorridere e di sbuffare contemporaneamente.

Sembrava che la piccola creatura, sotto la sua tenda, traesse profitto dal suo nutrimento endovenoso. Cresceva circa due centimetri al giorno, ed era chiaro che non avrebbe passato la normale fanciullezza di ogni bambino. Geers fece rapporto al direttore generale della Ricerca, al Ministero della Difesa, spiegando che al ritmo attuale la bambina avrebbe raggiunto le dimensioni di un’adulta nel giro di tre o quattro mesi.

Nelle sfere ufficiali la reazione a tutta questa storia fu un miscuglio di orgoglio e di segretezza. Il direttore generale richiese un rapporto completo che venne catalogato come segretissimo. Lo trasmise poi al ministro della Difesa che lo comunicò, in sintesi, a un primo ministro stupito e sbalordito. La cosa fu comunicata anche al governo, sotto la clausola della massima segretezza e Ratcliff tornò al suo ufficio, al Ministero della Scienza, alquanto scosso e incerto su quel che doveva essere il prossimo passo da compiere. Dopo lunghe riflessioni diede ordine a Osborne, che scrisse a Fleming invitandolo a fare un rapporto ufficioso.

Fleming rispose con una parola: «Uccidetela.»

Con regolare procedura fu convocato nell’ufficio di Geers e gli fu chiesto di dare spiegazioni.

«Non capisco,» disse Geers strizzando gli occhi fino a ridurli a una fessura dietro gli occhiali, «non capisco come la cosa la riguardi.»

Fleming pestò un pugno sull’enorme scrivania.

«Sono ancora sì o no un membro della squadra?»

«In un certo senso.»

«Allora forse lei farà bene ad ascoltarmi. Può avere l’aspetto di un essere umano, ma non lo è. È un’appendice della macchina, come l’altra creatura, solo è più perfezionata.»

«È basata su qualche elemento questa sua teoria?»

«È basata sulla logica. L’altra creatura era un primo abbozzo, un primo tentativo di produrre un organismo simile al nostro e perciò a noi accettabile. Questo è un tentativo migliore, basato su un numero di informazioni maggiore. Ho lavorato su quelle informazioni: so quanto sono premeditate.»

Geers socchiuse appena gli occhi. «E ora che questo miracolo è portato a termine lei vorrebbe che lo uccidessimo?»

«Se non lo fate ora, non ne sarete mai più capaci. La gente giungerà a considerarlo una creatura umana. Diranno che lo assassiniamo. Ci fregherà — la macchina ci fregherà, — proprio come vuole.»

«E se decidiamo di non seguire il suo consiglio?»

«Allora almeno tenete la creatura lontana dal calcolatore.»

Per un minuto Geers rimase in silenzio, gli occhiali scintillanti, poi si alzò per concludere il colloquio.

«Lei, Fleming, è qui solo per tacita tolleranza, e per cortesia verso il ministro della Scienza. Il giudizio in questo caso sta a me e non a lei. Faremo quello che riterrò meglio, e lo faremo qui.»

9

Accelerazione

Come Geers aveva predetto, prima che passassero quattro mesi la ragazza si era completamente sviluppata. Rimaneva per la maggior parte del tempo in una tenda a ossigeno, sebbene, a periodi sempre più lunghi, imparasse a respirare naturalmente. Alla fine del primo mese avevano smesso di nutrirla per iniezioni ed era passata a un biberon. Ma oltre a questo non veniva fatto nulla per stimolare la sua intelligenza e lei se ne stava sdraiata, inerte, come un neonato, fissando il soffitto. Man mano che continuava a crescere, Geers si faceva sempre più apprensivo, ma la crescita si arrestò a un metro e sessantasei: era una giovane donna completamente sviluppata.

«Ed è anche piuttosto bella,» commentò Hunter con uno schiocco delle labbra.

Geers non permetteva a nessuno salvo che a Hunter, alla Dawnay e ai loro assistenti di vederla. Mandava ogni giorno un rapporto strettamente confidenziale al Ministero della Difesa e il direttore generale della Ricerca fece visita due volte, stabilendo con lui dei piani per il futuro della ragazza. Per mantenere segreta la sua esistenza vennero prese estreme precauzioni, attorno all’edificio del calcolatore e del laboratorio venne montata la guardia giorno e notte, e a tutti coloro che avevano dovuto essere messi al corrente del segreto era stato fatto giurare il silenzio. A parte Reinhart, a cui lo disse Osborne in via privata, e a parte un gruppo di ufficiali superiori e di uomini politici di Londra, nessuno al di fuori della squadra di ricerca di Thorness sapeva dell’esistenza della ragazza.

Fleming, così pensava Geers, era l’elemento più dubbio dell’intero gruppo, e vennero date a Judy istruzioni ben precise di sorvegliarlo. Non avevano quasi mai parlato, dalla primavera precedente. Lui aveva fatto a malincuore uno sgarbato tentativo di scusarsi, ma lei aveva tagliato corto e da allora quando si incontravano alla base si ignoravano reciprocamente. Almeno, si diceva Judy, non lo aveva spiato: il fatto che lui si fosse staccato dall’esperimento della Dawnay al quale lei era stata assegnata dopo la morte di Bridger, significava che lui non era la sua principale occupazione. Qualsiasi rimorso di coscienza sentisse per il passato, era nascosto dall’anestetico di un’indifferente apatia, ma adesso era diverso. Prendendo il coraggio a due mani, andò a cercarlo nella sala del calcolatore, sentendosi le gambe stranamente fiacche. Gli passò la lettera di istruzioni che le era arrivata.

«Ti spiacerebbe leggerla?» disse senza preamboli.

Fleming vi gettò uno sguardo e gliela riconsegnò. «È su carta intestata del Ministero della Difesa: leggila tu. Sono pignolo riguardo a quello che tocco.»

«Sono preoccupati per la sicurezza della nuova creatura,» spiegò Judy rigidamente, ritirandosi di fronte all’attacco di lui. Fleming rise.

«Ti diverte?» gli chiese. «Ne sarò io responsabile.»

«E chi sarà responsabile di te?»

«John!» Il viso di Judy si imporporò: «Dobbiamo sempre stare con i fucili puntati?»

«Pare di sì, vero?» disse in un tono a metà tra comprensione e indifferenza. «Ho paura di non andare pazzo per la tua preziosa creatura.»

«Non è mia. Io non faccio altro che il mio dovere. Non ti sono nemica.»

«No. Sei proprio il tipo che si lascia trascinare dalle situazioni.» Fece scorrere lo sguardo per il locale, disperato. «Oh, finalmente l’ho detta!»

Judy fece un ultimo tentativo per avvicinarglisi. «Sembra che siano passati dei secoli da quando ce ne andavamo in barca a vela.»

«Sono passati davvero dei secoli.»

«Siamo ancora gli stessi.»

«In un mondo diverso.» Si mosse come se se ne volesse andare.

«È ancora lo stesso mondo, John.»

«E va bene, diglielo, a quelli.»

Passò Hunter. «La stiamo tirando fuori.»

«Chi?» Fleming distolse con sollievo lo sguardo da Judy.

«La ragazzina… Fuori dalla sua tenda a ossigeno.»

«Possiamo venire anche noi?» chiese Judy.

«Questa è un’occasione speciale: una festa d’inaugurazione.» Hunter le rivolse un sorriso stereotipato e allusivo. Poi entrò nell’altra stanza. Fleming lo guardò con amarezza.

«In ogni pacchetto, omaggio di mostri viventi, grandezza naturale.»

Judy si sorprese a ridacchiare. Sentiva che d’improvviso si erano riavvicinati di chilometri.

«Detesto quell’uomo, è così adulatore.»

«Spero che la uccida,» disse Fleming. «Forse come medico vale abbastanza poco.»

Passarono insieme nel laboratorio. Hunter, sorvegliato dalla Dawnay, stava dando istruzioni per l’apertura della parte inferiore della tenda a ossigeno. Sotto la tenda c’era una stretta lettiga, che due assistenti spinsero fuori delicatamente. Tutti gli altri si disposero in cerchio mentre il lettino scivolava fuori con la creatura, la fanciulla ormai adulta, su di esso: prima i piedi, coperti da un lenzuolo, poi il corpo, pure coperto. Giaceva supina, e quando il suo volto venne scoperto, Judy rimase senza fiato. Era un volto forte e bello, dagli alti zigomi e dai larghi lineamenti baltici. I suoi capelli, lunghi e chiari, erano sparsi sul cuscino, gli occhi chiusi, e respirava placidamente come se dormisse. Sembrava un’edizione bionda e purificata di Christine.

«È Christine!» sussurrò Judy. «Christine!»

«Non può essere,» disse Hunter bruscamente.

«C’è una rassomiglianza superficiale,» ammise la Dawnay.

Hunter l’interruppe. «Abbiamo fatto un’autopsia sull’altra ragazza. Inoltre, quella era bruna.»

Judy si rivolse a Fleming.

«Ma che scherzo è?»

Fleming scosse il capo. «Non lasciatevi ingannare. Non lasciate che inganni nessuno di voi. Christine è morta. Christine era solo uno schema.»

Per un momento nessuno parlò; la Dawnay prese il polso della ragazza e si chinò a guardarla in viso. Gli occhi della ragazza si aprirono, guardarono vacuamente il soffitto.

«Che vuoi dire?» chiese Judy. Le sembrava di rivedere Christine, morta, eppure quella creatura aveva qualcosa di simile a lei, viva.

«Voglio dire,» spiegò Fleming, come se rispondesse a tutti loro, «che la macchina ha preso un essere umano e ne ha fatto una copia. Si è solo sbagliata nel registrare alcune cose, il colore dei capelli, per esempio ma, in linea di massima, ha fatto un buon lavoro. Si può tradurre in cifre l’anatomia umana. Ed è quanto ha fatto; e poi si è servita di noi per ritradurle.»

Hunter guardò la Dawnay e accennò agli assistenti di portare la lettiga in un’ala adiacente.

«Ad ogni modo, ci ha dato quello che volevamo,» disse la Dawnay.

«Davvero? È il cervello che conta, il corpo non ha importanza. Non ha creato un essere umano… Ma una creatura straniera che sembra un essere umano.»

«Il dottor Geers ci ha detto la sua teoria.» Hunter si allontanò per assistere al risveglio della ragazza. La Dawnay esitò un attimo prima di seguirli.

«Può essere che lei abbia ragione,» ammise, «e in tal caso sarà ancora più interessante.»

Fleming si controllava con sforzo visibile. «Cosa intendete farne?»

«La educheremo.»

Fleming si volse e uscì dal laboratorio, per tornare alla sala del calcolatore; Judy lo seguiva.

«Ma cosa c’è di male?» chiese Judy. «Chiunque altro…»

Si volse verso di lei. «Ogni volta che un’intelligenza superiore ne incontra una inferiore, la distrugge. Ecco cosa c’è di male. Gli uomini dell’età del ferro hanno eliminato quelli dell’età della pietra; i Visipallidi hanno sterminato gli Indiani. E cosa accadde di Cartagine quando i Romani decisero di farla finita?»

«Ma è male, questo, a lungo andare?»

«È male per noi.»

«E perché questa creatura dovrebbe?…»

«I forti sono sempre spietati con i deboli.»

Judy gli posò timidamente una mano sul braccio. «Allora i deboli farebbero bene a unirsi.»

«Avresti dovuto pensarci prima,» rispose lui.

Judy pensò che era meglio non insistere; tornò alla sua vita lasciandolo alle sue preoccupazioni e ai suoi dubbi.

Quell’anno non si ebbe una primavera precoce. Il cupo grigiore continuò per tutto aprile, intonandosi agli umori neri della base. A parte l’esperimento della Dawnay, non c’era nulla che andasse dritto. Il personale permanente di Geers e la squadra per lo studio dei missili lavoravano indefessamente, senza alcun risultato apprezzabile: non c’erano mai stati tanti lanci di prova come allora, ma non ne venne fuori nulla di soddisfacente. Dopo ogni tentativo fallito le nuvole dell’Atlantico tornavano a gravare sul promontorio, a mostrare che nulla sarebbe mai migliorato.

Solo la fanciulla fioriva come una pianta esotica in una serra. Un’ala del laboratorio della Dawnay venne attrezzata a nursery, con un appartamento per la ragazza. Qui si occupavano di lei e la preparavano per la sua parte, come la principessa di una fiaba. La chiamarono Andromeda, dal nome del suo luogo di origine, e le insegnarono a mangiare, a bere, a star seduta eretta e a muoversi. In principio era piuttosto lenta a imparare come usare il suo corpo: come diceva la Dawnay il suo sviluppo fisico non era come nei bambini normali. Ma fu presto evidente che poteva apprendere a una velocità prodigiosa. Non era mai necessario ripeterle due volte la stessa cosa: una volta comprese le possibilità di qualcosa, le padroneggiava senza esitazione e senza sforzo.

Fu lo stesso per quel che riguardava il parlare. All’inizio sembrava che non ne sapesse assolutamente nulla: non aveva mai pianto, come fanno i bambini, e bisognò insegnarle a parlare come a un bambino sordo, rendendola conscia delle vibrazioni delle corde vocali e del loro effetto. Non appena però capì il fine del linguaggio, lo imparò con facilità estrema, man mano che le venivano insegnate le parole. Nel giro di poche settimane era diventata una persona che parlava, in grado di comunicare.

Sempre nel giro di poche settimane, aveva imparato a muoversi come un essere umano, un po’ rigidamente, come se il suo corpo funzionasse a istruzioni e non per suo istinto, ma con grazia e senza goffaggine. Per lo più era confinata in compagnia della sua scorta, anche se, quando proprio non diluviava, veniva portata ogni giorno in brughiera, in un’auto coperta, e le veniva permesso di camminare e di prendere un po’ d’aria sotto scorta armata, però lontana dagli occhi di chiunque, sia della base che di fuori.

Non si lamentava mai, qualunque cosa le facessero. Accettava le visite mediche, l’insegnamento, la sorveglianza continua, come se non avesse volontà o desideri propri. In realtà, non dava a vedere alcuna emozione: mostrava, sì, fame prima di un pasto, e stanchezza alla fine di una giornata, ma comunque era sempre stanchezza fisica, mai mentale. Era sempre gentile, sempre remissiva e molto bella, si muoveva come in un sogno.

Geers e la Dawnay organizzarono la sua educazione con una velocità che condensava tutta una cultura universitaria in un periodo da corso estivo. Quando ebbe afferrato le basi dell’aritmetica decimale, non ebbe più difficoltà con la matematica. Sarebbe potuta essere una macchina calcolatrice: si districava tra le cifre con la logica infallibile di un prontuario di calcoli, e non sbagliava mai. Sembrava capace di tenere a mente senza alcuno sforzo le progressioni più complesse. Per il resto, veniva imbottita di nozioni come un’enciclopedia. Geers e i professori che furono mandati a Thorness in un’interminabile, impressionante processione accademica — non per istruire direttamente la ragazza, poiché la sua esistenza era segreta, ma per guidarne gli istruttori — gettavano le basi di una cultura generale e non specializzata, cosicché alla fine di quel corso e di quell’estate, in teoria sapeva del mondo tanto quanto un laureato intelligente e ricettivo. Quel che le mancava era ogni senso di esperienza umana, ogni atteggiamento spontaneo verso la vita. Benché fosse vivace e, in giusta misura, comunicativa, pareva che camminasse e parlasse in stato di sonnambulismo.

«Ha ragione,» ammise la Dawnay rivolta a Fleming. «Non ha un cervello, ha un calcolatore.»

«Non è la stessa cosa?» Fleming fissò la fanciulla bionda e sottile che stava leggendo al tavolo di quella che era divenuta la sua stanza: era una delle sue rare visite nel regno della Dawnay. Il laboratorio era stato smantellato e trasformato in un insieme di stanze che sembravano uscite da una rivista di architettura; la fanciulla ne era una suppellettile.

«È infallibile,» commentò la Dawnay. «Non dimentica nulla. Non fa mai un errore. Già ora sa molto più di quel che sa la maggior parte della gente.»

Fleming si accigliò. «E continuerete a rimpinzarla di nozioni finché ne saprà più di voi.»

«Forse. I signori in alto hanno dei progetti su di lei.»

I progetti di Geers erano abbastanza chiari. Nonostante avessero fatto uso del nuovo calcolatore, i pressanti problemi delle apparecchiature di difesa restavano insoluti. La difficoltà principale era costituita dal fatto che non sapevano come usarlo. Lo toglievano di mano a Fleming per parecchie ore al giorno e cercavano di fargli elaborare velocemente una grande quantità di calcoli: ma non avevano la possibilità di attingere al suo potenziale effettivo, né di usare la sua immensa intelligenza per risolvere dei problemi che non gli venivano posti in termini di cifre. Se, considerava Fleming, le creature nate e cresciute con l’aiuto della macchina, avevano con essa un’affinità, allora sarebbe stato possibile usarle come interpreti. Il mostro che era nato per primo ovviamente non era capace di comunicare al calcolatore le necessità umane, ma con la ragazza era un altro paio di maniche. Se avessero potuto impiegarla come intermediario, avrebbero potuto fare qualcosa di molto notevole.

Il ministro della Difesa non fece alcuna obiezione all’idea, e, sebbene Fleming mettesse in guardia Osborne, come aveva fatto con Geers, Osborne non aveva influenza presso gli uomini al potere. Fleming poté solo tenersi in disparte e vedere come i fini della macchina venissero inconsapevolmente assecondati da gente che non voleva dargli ascolto. Anche lui non aveva che un tortuoso filo di logica su cui basarsi. Se si sbagliava, si era sbagliato sempre, fin da principio, e la vita non era quello che pensava. Ma se aveva ragione, si stavano incamminando verso la tragedia.

Quando Geers e la Dawnay portarono per la prima volta la ragazza nella sala del calcolatore, anche Fleming era presente.

«Per l’amor di Dio!» Passò lo sguardo da Geers alla Dawnay in un ultimo appello senza speranza.

«Sappiamo tutti come la pensa, Fleming,» disse Geers.

«Allora non fatela entrare qua dentro.»

«Se vuole lagnarsi, si rivolga al ministro.» Si volse verso la porta: la Dawnay si strinse nelle spalle; le pareva che Fleming creasse un sacco di complicazioni gratuitamente.

Geers tenne la porta aperta per Andromeda che entrò scortata da Hunter che le camminava accanto, leggermente più indietro, come due personaggi di Jane Austin. Andromeda si muoveva con rigidità, ma era perfettamente lucida di spirito: il viso calmo, gli occhi che registravano ogni particolare. In un certo senso era tutto formale e irreale, come se dovessero cominciare un minuetto da un momento all’altro.

«Questa è la sala di controllo del calcolatore,» le spiegò Geers, mentre lei si guardava attorno. Sembrava un padre gentile ma severo. «Si ricorda che gliene ho parlato?»

«Perché dovrei dimenticarmene?»

Sebbene parlasse in modo lento e artificioso, la sua voce, come il suo viso, era forte e affascinante.

Geers la guidò per il locale. «Questo è il gruppo di ingresso. L’unico modo di fornire informazioni al calcolatore è battere a macchina qui. Porta via molto tempo.»

«Credo bene.» Esaminò con calmo interesse la tastiera.

«Se vogliamo comunicare con il calcolatore,» proseguì Geers, «la cosa migliore è selezionare qualche informazione dal gruppo di uscita e di reintrodurlo.»

«È un sistema molto primitivo,» commentò lentamente la ragazza.

La Dawnay le si avvicinò affiancandolesi. «Ciclope, dall’altra stanza può passargli direttamente delle informazioni per mezzo di questo cavo coassiale.»

«Ed è questo che volete che faccia?»

«Vogliamo cercare di scoprire se funziona,» spiegò Geers.

La ragazza alzò il capo e notò che Fleming la fissava. Non si era accorta di lui, prima, e lo guardò senza espressione.

«Chi è?»

«Il dottor Fleming,» rispose la Dawnay. «È lui che ha progettato il calcolatore.» La ragazza si diresse rigidamente verso di lui e gli tese la mano.

«Piacere.» Parlava come se ripetesse una lezione. Fleming ignorò la mano tesa continuando a fissarla. Lei rispondeva al suo sguardo senza batter ciglio e dopo qualche momento lasciò ricadere la mano.

«Lei deve essere un uomo intelligente,» disse, senza espressione. Fleming rise.

«Perché lo fa?»

«Far cosa?»

«Ridere… si dice così?»

Fleming si strinse nelle spalle. «La gente ride quando è allegra, e piange quando è triste. Qualche volta ridiamo anche quando siamo tristi.»

«Perché?» Continuava a fissarlo in viso. «Cosa vuol dire essere felici, o tristi?»

«Sono sentimenti.»

«Io non li sento.»

«No. Lei non può.»

«Perché li avete, voi?»

«Perché siamo imperfetti.» Fleming ricambiò lo sguardo come una sfida. Geers dava segni di impazienza.

«Funziona tutto bene, Fleming? Il quadro di controllo non registra nulla.»

«Qual è il quadro di controllo?» chiese Andromeda, volgendosi. Geers glielo mostrò e lei rimase a fissare le file di lampade spente mentre Geers e la Dawnay glielo illustravano, spiegandole al tempo stesso l’uso dei terminali.

«Vorremmo che lei si mettesse lì, in mezzo,» le disse Geers.

La ragazza si diresse con decisione al quadro e quando fu vicina, le luci cominciarono a lampeggiare. Si fermò.

«Va tutto bene,» la rassicurò la Dawnay. Geers tolse le custodie ai terminali e spinse avanti la ragazza mentre Fleming, nervosissimo, guardava la scena senza parlare. La ragazza avanzò riluttante, il viso teso e rigido. Quando giunse al quadro, si fermò, i terminali a pochi centimetri dalle tempie. Le luci cominciarono a lampeggiare più velocemente. Il ronzio del calcolatore riempiva la stanza. Lentamente, senza che nessuno glielo dicesse, Andromeda sollevò le mani verso le piastre.

«È sicuro che sia neutralizzato?» Geers fissava Fleming preoccupatissimo.

«Si neutralizza da solo.»

Non appena le mani della ragazza toccarono le piastre metalliche, essa tremò. Stava immobile, il viso pallidissimo, come in trance: poi si lasciò andare e barcollò indietro. La Dawnay e Geers la sostennero facendola sedere su una sedia.

«Tutto bene?» chiese Geers.

La Dawnay annuì. «Ma guarda un po’.»

Le luci del quadro di controllo erano tutte accese e il ronzio del calcolatore si faceva più forte di quanto fosse mai stato.

«Che cosa è successo?»

«Mi sta parlando,» disse la ragazza. «Mi conosce.»

«Che cosa dice?» chiese la Dawnay. «Cosa sa di lei? E come le parla?»

«Noi… noi comunichiamo.»

Geers sembrava terribilmente perplesso. «In cifre?»

«Lo si potrebbe esprimere in cifre,» rispose guardando davanti a sé, lo sguardo vuoto. «Ci vorrebbe molto tempo per spiegarlo.»

«E lei può comunicare…?» La Dawnay fu interrotta da una forte esplosione nella stanza accanto. Il quadro di controllo si spense, il ronzio cessò.

«Che diavolo succede?» chiese Geers.

Fleming si volse senza rispondere precipitandosi verso la prima ala del laboratorio, dove erano ospitati la creatura e il suo serbatoio. Dai fili di collegamento sopra di esso veniva del fumo. Quando li tirò fuori, i capi erano anneriti, e ne pendevano brandelli di tessuto animale carbonizzato. Guardò nel serbatoio e le sue labbra si strinsero in una linea sottile.

«Cosa gli è successo?» La Dawnay si precipitò nella stanza seguita da Geers.

«È stato folgorato dalla corrente.» Fleming mostrò i fili. «C’è stato un altro scoppio ed è rimasto ucciso.»

Geers diede un’occhiata all’interno del serbatoio e si ritrasse disgustato.

«Cosa ha fatto agli elementi di controllo?» chiese.

Fleming lasciò cadere i resti carbonizzati dei cavi. «Non ho fatto nulla. Il calcolatore sa come regolare il suo voltaggio, sa come bruciare i tessuti, sa come uccidere.»

«Ma perché?» chiese Geers.

Istintivamente volsero il capo verso la porta della sala del calcolatore. Sulla soglia era la ragazza.

«Perché è stata lei.» Fleming si diresse verso Andromeda, minaccioso, la mascella irrigidita. «Glielo ha appena detto, vero? Adesso sa di avere uno schiavo migliore. Non ha più bisogno di questa povera creatura. È questo che ha detto, vero?»

Gli ricambiò uno sguardo privo di espressione. «Sì.»

«Vede?» Si rivolse a Geers. «Abbiamo un’assassina. Può darsi che quella di Bridger sia stata una disgrazia; può darsi che quello di Christine sia stato un incidente, anche se io lo chiamerei piuttosto omicidio preterintenzionale, ma questo è stato un vero omicidio premeditato.»

«Era solo una forma di vita primitiva,» osservò Geers.

«Ed era inutile.» Si girò verso la ragazza. «Vero?»

«Era di troppo,» confermò lei.

«E la prossima volta potrebbe essere lei di troppo, o io, o chiunque altro di noi.»

Il viso della ragazza continuava a essere privo di espressione e a non registrare emozione alcuna. «Abbiamo solo elminato del materiale superfluo.»

«Abbiamo?…»

«Il calcolatore e io.» Si portò la mano alla fronte. Fleming chiuse gli occhi.

«Siete la stessa cosa, vero? Un’intelligenza divisa in due.»

«Sì,» ammise lei, priva di intonazione. «Io capisco…»

«Allora capisca anche questo.» La voce di Fleming, agitata, salì di tono, e il giovane avvicinò il viso a quello di lei: «Questa è un’informazione: uccidere è male.»

«Male? Che cos’è ‘male’?»

«Lei ha parlato di uccidere, poco fa,» disse Geers.

«Oh, Dio,» sbottò Fleming esasperato. «Ma qui dentro non c’è proprio nessuno col cervello a posto?»

Fissò Andromeda ancora per un istante, poi uscì dal locale quasi di corsa.

Bouldershaw Fell era sempre lo stesso, come quando Reinhart vi aveva condotto Judy per la prima volta. Sulle cicatrici lasciate nella brughiera dagli scavi, erano cresciute erbe ed eriche, e lungo i muri degli edifici correvano nere strisce, lungo le grondaie, dove era traboccata l’acqua per le bufere invernali: ma il triplice arco posava ancora immobile sulla sua grande conca, e, all’interno dell’osservatorio, macchinario e personale continuavano a svolgere il loro lavoro silenzioso e metodico. Il banco di controllo era ancora affidato a Harvey, e ai suoi lati si alzavano ancora i banchi di direzione e gli apparecchi di calcolo fiancheggiando la larga finestra: le fotografie delle stelle ricoprivano ancora le pareti, sebbene non più fresche e recenti come una volta.

Solo indizio dei gravi fatti che li preoccupavano era un immenso planisferio sotto vetro sul quale erano segnate a inchiostro di china le traiettorie dei missili in orbita. Esso tradiva ciò che la calma esteriore dell’osservatorio nascondeva, l’angoscia e la febbre con cui osservavano la minaccia del cielo sopra di loro crescere, di giorno in giorno, spietatamente. Reinhart parlava di questa mappa come della «scritta murale» e lavorava giorno e notte con la squadra dell’osservatorio e disegnava, non appena andava in orbita, ogni nuova traccia, inviando rapporti urgenti e pessimistici a Whitehall.

Nei mesi precedenti erano stati osservati quasi un centinaio di questi sinistri ordigni, impossibili a identificare, ed era stato stabilito che la loro area di lancio si trovava all’interno di un triangolo di parecchie centinaie di miglia, tra la Manciuria, Vladivostok e le isole settentrionali del Giappone. Nessuno dei paesi circonvicini lo ammetteva. Come diceva Vandenberg, potevano essere di tre qualsiasi delle potenze appartenenti alle Nazioni Unite.

Vandenberg andava di frequente in visita al telescopio e aveva incontri lunghi e infruttuosi con Reinhart. Tutto quello di concreto che potevano dedurre dalle loro scoperte era che si trattava di ordigni a reazione, lanciati da circa quaranta gradi di latitudine nord e da circa centotrenta a centocinquanta gradi di longitudine est, e che viaggiavano sopra la Russia, l’Europa occidentale e le Isole Britanniche, alla velocità di circa sedicimila miglia all’ora, e tra le trecentocinquanta e le quattrocento miglia di altezza. Dopo aver sorvolato l’Inghilterra per lo più passavano sopra l’Atlantico del nord, sulla Groenlandia e sulle regioni settentrionali del Canada, concludendo probabilmente la loro traiettoria sulla medesima area, sul mare della Cina settentrionale. Qualunque rotta percorressero, venivano fatti deviare perché passassero sull’Inghilterra e sulla Scozia: ovviamente erano telecomandati e guidati con molta precisione su questo piccolo bersaglio. Sebbene non si sapesse nulla delle loro dimensioni e della loro forma, emettevano un segnale di direzione, ed erano evidentemente abbastanza grandi da trasportare una carica nucleare.

«Non so quale ne sia lo scopo,» ammise Reinhart. Questi apparecchi lo ossessionavano. Per quanto infelice fosse per come erano andate le cose a Thorness, era ora completamente assorbito da questo nuovo e terrificante andamento degli avvenimenti.

Vandenberg aveva teorie convincenti e ragionevoli. «Il loro scopo è questo: qualcuno in Oriente vuole che noi si sappia che essi ci sono tecnicamente superiori. Ci sventolano davanti al naso questi missili per mostrare al mondo che non abbiamo la possibilità di render loro pan per focaccia. È una nuova forma di guerra fredda.»

«Ma perché proprio su questo paese?»

Sembrava che Vandenberg fosse un po’ dispiaciuto per il professore. «Perché siete abbastanza piccoli e importanti per rappresentare una specie di ostaggio. Quest’isola ha sempre rappresentato un buon bersaglio.»

«Be’…» Reinhart accennò con il capo alla carta murale. «Qui ci sono le prove. L’Occidente non si prepara forse a presentare la questione al Consiglio di Sicurezza?»

Vandenberg scosse il capo. «No, finché non possiamo negoziare da una posizione di forza. Gli piacerebbe che ci rivolgessimo piagnucolando alle Nazioni Unite, e ammettessimo la nostra debolezza. Allora ci avrebbero in loro potere. La prima cosa di cui abbiamo bisogno, invece, è qualche mezzo di difesa.»

Reinhart sembrava scettico. «Cosa intendete fare?»

«Intendiamo muoverci il più in fretta possibile. Geers sostiene…»

«Oh, Geers!»

«Geers sostiene,» Vandenberg ignorò l’interruzione, «che se possiamo far lavorare quella ragazza in collaborazione con il suo calcolatore, professore, potremo ottenere piuttosto in fretta qualche idea.»

«Quello che era il mio calcolatore,» corresse Reinhart amaramente. «Le auguro ogni bene.»

La notte dopo la partenza di Vandenberg arrivò Fleming. Era tardi e Reinhart stava ancora lavorando, cercando di determinare l’origine dei segnali da terra che facevano cambiare il corso ai satelliti in orbita, quando sentì il rumore dello scappamento dell’auto di Fleming. Per Fleming era un po’ come tornare a casa; quella stanza familiare, Harvey al banco di controllo, la figura onesta e paterna del professore che lo aspettava. Dei tre, Fleming sembrava il più distrutto.

«C’è una tale atmosfera di buon senso, qui.» Il suo sguardo percorse la stanza, grande, ordinata. «Un’aria calma e pulita.»

Reinhart sorrise. «No, non c’è molto buon senso in questo momento.»

«Possiamo parlare?»

Reinhart lo guidò verso un paio di comode poltrone che erano state preparate insieme a un piccolo tavolo, per i visitatori, in un angolo sul retro dell’osservatorio.

«Ti ho detto al telefono, John, che non posso fare proprio nulla. Si preparano a usare la creatura come aiuto del calcolatore, per le ricerche missilistiche di Geers.»

«Ed è proprio quanto vuole il calcolatore.»

Reinhart si strinse nelle spalle. «Ne sono fuori, ora.»

«Ne siamo fuori tutti. Solo mi ci sto attaccando con le unghie e con i denti. Quando dicevamo di poter togliere la corrente… Be’, adesso non possiamo più, vero?» Fleming cincischiava nervosamente una scatola di fiammiferi che aveva tratto di tasca per accendere le loro sigarette. «Ormai il calcolatore è padrone di se stesso. Ha i suoi protettori, i suoi alleati. Se questa creatura che sembra una donna fosse scesa da un disco volante, a quest’ora sarebbe già stata eliminata. L’avrebbero riconosciuta per quello che è in realtà; ma siccome ci è stata presentata in un modo molto più sottile, siccome le è stata data una forma umana, viene accettata alla faccia di tutto. E la sua è una gran bella faccia. È inutile rivolgersi a Geers e compagni: ho tentato. Professore, ho paura.»

«Abbiamo tutti paura,» ribatté Reinhart. «Quante più cose scopriamo dell’universo, e più questo diventa terrificante.»

«Senta.» Fleming si piegò in avanti, serio. «Usiamo il cervello. Questa macchina, un cervello figlio di un altro mondo, ha eliminato il suo mostro monocolo, ha eliminato Christine, eliminerà me, se mi troverò sulla sua strada.»

«E allora tientene lontano,» disse stancamente Reinhart. «Se sei in pericolo tientene lontano finché sei in tempo.»

«Pericolo!» Fleming sbuffò. «Ma lei pensa che io voglia morire in qualche modo orribile, come Dennis Bridger, per amore del governo o della Intel? Io sono soltanto il prossimo della lista. Se vengo allontanato o vengo ucciso, a chi toccherà poi?»

«Il problema è sapere chi viene per primo, in questo momento.» Reinhart sembrava un medico di fronte a un caso disperato. «Non posso aiutarti, John.»

«E Osborne?»

«Non è lui a tenere le redini, ora.»

«Potrebbe ottenere dal suo ministro di andare dal primo ministro.»

«Il primo ministro?»

«È pagato anche lui, no?»

Reinhart scosse il capo. «Non potrai dimostrare nulla, John.»

«Ho alcuni argomenti.»

«Credo che nessuno di loro sia nello stato d’animo più adatto per ascoltarti.» Con un piccolo gesto della mano Reinhart indicò la carta sul muro. «Ecco quello che ci preoccupa, in questo momento.»

«A cosa serve, questa?»

Reinhart glielo spiegò. Fleming sedeva, ascoltando, teso e avvilito, frantumando la scatola di fiammiferi.

«Non possiamo essere sempre i più bravi.» Trascurò le spiegazioni del professore. «Almeno con esseri umani possiamo venire a patti.»

«Quali patti?» chiese Reinhart.

«Non importa quali… in confronto a quello a cui probabilmente ci troviamo davanti. Per una civiltà una bomba è una morte veloce. Ma la lenta conquista da parte di un altro pianeta…» La sua voce finì in un mormorio.

Il primo ministro si trovava nel suo ufficio dai pannelli di quercia ai Comuni. Era un anziano signore dall’aspetto sportivo con ammiccanti occhi blu. Sedeva al centro di un lato del lungo tavolo che riempiva a metà la stanza e ascoltava il ministro della Difesa. La luce filtrava dolcemente nella stanza attraverso le doppie finestre. Qualcuno bussò alla porta, e il ministro della Difesa aggrottò la fronte; era un giovanotto molto brillante cui non piaceva venire interrotto.

«Oh, ecco qui la scienza.» Il primo ministro sorrise cordialmente all’ingresso di Osborne e di Ratcliff. «Conosce Osborne, vero, Burdett?»

Il ministro della Difesa si alzò e strinse loro la mano, indifferente. Il primo ministro li invitò a sedersi.

«Non è una giornata meravigliosa, signori? Ricordo che quel giorno a Dunkerque era un tempo come questo. Sembra che sulle disgrazie della nazione risplenda sempre il sole.» Si rivolse a Burdett. «Vuole vuotare il sacco lei per noi?»

«Si tratta di Thorness,» spiegò Burdett a Ratcliff. «Vogliamo entrare in completo possesso del calcolatore e degli annessi e connessi. Eravamo già d’accordo, in linea di massima, no? e il primo ministro ed io pensiamo che sia giunto il momento.»

Ratcliff lo guardò senza grande affetto. «Avete già la possibilità di usarlo.»

«Ne abbiamo un bisogno maggiore, vero, Eccellenza?» Burdett si rivolse al primo ministro.

«Abbiamo bisogno di un nuovo apparecchio intercettatore, signori, e ne abbiamo bisogno alla svelta.» Dietro i suoi modi amabili, pigri, alquanto vecchio stile, c’era una grande decisione, un piglio d’affarista. «Nel millenovecentoquaranta avevamo gli Spitfire, ma in questo momento sia noi che i nostri alleati occidentali non abbiamo nulla in grado di affrontare quel che ci sta capitando addosso.»

«E non avremo nessuna prospettiva,» aggiunse Burdett, «per mezzo delle armi convenzionali.»

«Potremmo collaborare, no?» chiese Ratcliff a Osborne, «per produrre qualcosa di nuovo.»

Burdett non era tipo da perdere tempo. «Possiamo occuparcene noi se prendiamo possesso dell’apparecchio di Thorness e della ragazza.»

«La creatura?» Osborne alzò molto educatamente un sopracciglio, ma il primo ministro gli strizzò l’occhio in modo rassicurante.

«Il dottor Geers è dell’opinione che se noi usiamo questa signora dalla curiosa origine affinché si faccia interprete delle nostre richieste presso il calcolatore, e affinché ci ritraduca i suoi calcoli, potremmo risolvere molto in fretta un mucchio dei nostri problemi.»

«Se vi potete fidare delle sue intenzioni.»

Il primo ministro pareva interessato. «Non riesco a capire bene.»

«Una o due persone della squadra hanno dei dubbi circa le sue capacità,» mormorò Ratcliff, più con speranza che con convinzione. Nessun ministro ama perdere terreno anche se per difenderlo deve usare degli argomenti dubbi. Il primo ministro risolse la questione con un cenno della mano.

«Oh, sì, mi è stato detto.»

«Fino a oggi, Eccellenza, questa creatura è stata tenuta sotto osservazione dal nostro gruppo,» disse Osborne. «La professoressa Dawnay…»

«La Dawnay potrebbe restare.»

«In un ruolo di consulente,» aggiunse in fretta Burdett.

«E il dottor Fleming?» chiese Ratcliff.

Il primo ministro si rivolse di nuovo a Burdett. «Fleming sarebbe utile, vero?»

Burdett si accigliò. «Sarà necessario un controllo completo e un servizio di sicurezza molto stretto.»

Ratcliff giocò la sua ultima carta. «Siete sicuri che sia disposta, la ragazza?»

«Propongo di chiederglielo,» disse il primo ministro. Premette il pulsante di un campanello sul tavolo, e quasi immediatamente un giovanotto apparve sulla soglia. «Preghi il dottor Geers di far entrare la sua amica.»

«L’avete fatta venire qui?» Ratcliff fissava Osborne con aria accusatrice, come se fosse colpa sua.

«Sì, mio caro.» Anche il primo ministro fissava Osborne con aria interrogativa. «La ragazza è… ehm…?»

«Sembra proprio normale.»

Il primo ministro emise un piccolo sospiro di sollievo e si alzò quando la porta si aprì per lasciare passare Geers e Andromeda.

«Entri, dottor Geers. Entri, mia cara.»

Andromeda fu fatta sedere sulla sedia di fronte a lui. Stava in silenzio, il capo leggermente abbassato, le mani intrecciate in grembo: come una dattilografa in un colloquio d’assunzione.

«Tutto questo le deve apparire molto strano,» disse dolcemente il primo ministro. La ragazza rispondeva lentamente, con frasi correttissime.

«Il dottor Geers mi ha spiegato.»

«Le ha spiegato perché l’ha portata qui?»

«No.»

«Burdett?» Il primo ministro gli passò l’incarico di procedere nell’interrogatorio. Ratcliff guardava davanti a sé, di cattivo umore: Burdett si spostò più avanti, sull’orlo della sedia, appoggiò i gomiti al tavolo, incrociò le dita e fissò intensamente Andromeda.

«Questo paese… Lei conosce questo paese?»

«Sì.»

«Questo paese è minacciato dai missili.»

«Lo sappiamo.»

«Lo sappiamo?» Burdett la fissò con intensità ancora maggiore. Andromeda non si scompose; il suo viso era privo di qualsiasi espressione.

«Io e il calcolatore.»

«Come fa a saperlo il calcolatore?»

«Ci scambiamo le informazioni.»

«È proprio quel che speravamo,» disse il primo ministro.

Burdett proseguì: «Abbiamo missili da intercettazione, razzi di vario tipo, ma nulla che sia una combinazione di velocità, raggio d’azione e precisione per… ehm…» Cercò il termine di gergo adatto.

«Per colpirli?» chiese la ragazza con semplicità.

«Esattamente; le forniremo tutti i particolari sulla velocità, la quota e la rotta; in pratica, cioè, le possiamo dare una grande quantità di dati, ma abbiamo bisogno che vengano tradotti in termini pratici di meccanica.»

«È difficile?»

«Per noi, sì. Quello che stiamo cercando è un’arma di intercettazione molto perfezionata, che possa prendere decisioni da sola, all’istante.»

«Capisco.»

«Le dovrebbe piacere lavorare a questa ricerca con noi,» disse gentilmente il primo ministro, come se chiedesse un piacere a un bambino. «Il dottor Geers le dirà quel che bisogna fare e le darà tutte le facilitazioni perché lei progetti davvero queste armi.»

«E il dottor Fleming la potrà aiutare per quel che riguarda il calcolatore,» aggiunse Ratcliff.

Per la prima volta Andromeda alzò lo sguardo.

«Non avremo bisogno del dottor Fleming,» disse, e qualcosa passò nella sua voce calma e misurata, come un’ombra fredda nella luce del sole.

Tornata da Londra, Andromeda passava la maggior parte del suo tempo nell’ufficio progetti, a uno o due isolati dall’edificio del calcolatore: preparava i dati per la macchina, e li consegnava perché venissero calcolati. Qualche volta andava direttamente a comunicare con il calcolatore con il risultato che in seguito dalla stampatrice uscivano calcoli lunghi e complessi, che lei portava via per tradurli in termini di progettazione. I risultati si rivelavano superiori a quello che Geers aveva auspicato. Un nuovo sistema di comandi e nuove formule balistiche uscivano già pronti dalla tavola da disegno, e quando venivano sperimentati si dimostravano all’altezza di quanto si richiedeva. La ragazza e la macchina, in collaborazione, potevano compiere il lavoro teorico di sviluppo di un anno in una sola giornata. I risultati non solo erano interessanti ma, ovviamente, efficienti. Era chiaro che sarebbe stato possibile costruire nel giro di breve tempo un missile da intercettazione completamente nuovo.

Durante le ore di servizio Andromeda aveva libertà di movimento all’interno della base; e sebbene dopo il lavoro sparisse sotto scorta nel suo appartamento fu presto una figura familiare alla base. Judy diffuse la voce che si trattava di un’esperta di ricerche distaccata dal Ministero della Difesa.

La settimana seguente dal n. 10 di Downing Street venne emesso un comunicato:

«Il governo di Sua Maestà si è accorto da qualche tempo del passaggio di un numero crescente di ordigni spaziali, forse missili, sopra queste isole. Sebbene gli ordigni, sconosciuti ma di origine terrestre, passino sul nostro paese a grande velocità e a grande altezza, non c’è ragione di immediato allarme. Il governo di Sua Maestà sottolinea, tuttavia, che essi costituiscono una deliberata violazione del nostro spazio aereo nazionale, e che ci si prepara a intercettarli e identificarli.»

Fleming ascoltava la trasmissione sul suo transistor, nel suo alloggio di Thorness. Non era più il responsabile del calcolatore, e Geers aveva suggerito che sarebbe potuto essere più felice se se ne fosse tenuto lontano. Tuttavia lui restava a Thorness, in parte per ostinazione e in parte per un presentimento di imminente pericolo, sorvegliando i progressi di Andromeda e dei due giovani assistenti che erano stati assunti per darle una mano al calcolatore. Non faceva alcun tentativo di avvicinarla, né di avvicinare Judy, che continuava a girare attorno inutilmente guardinga, e che fungeva da legame tra Andromeda e gli uffici direttivi; ma quando ebbe sentito quel comunicato si diresse all’edificio del calcolatore con la vaga impressione che bisognasse fare qualcosa.

Judy lo trovò seduto sulla sedia girevole di fronte al quadro di controllo, a rimuginare. Dopo quel loro ultimo scontro, non gli aveva più rivolto la parola, ma lo aveva tenuto d’occhio, preoccupata e con tenerezza nascosta che non l’aveva mai lasciata.

Avanzò fino al banco di controllo e si fermò davanti a lui. «Perché non rinunci, John?»

«Ti piacerebbe, eh?»

«No, non mi piacerebbe, ma non combini niente a roderti il fegato.»

«È un simpatico giochetto a triangolo, vero?» La guardava di sotto in su, sardonico. «Io sorveglio la ragazza e tu sorvegli me.»

«Non ti serve a nulla.»

«Gelosa?» le chiese.

Scosse il capo con impazienza. «Non essere assurdo.»

«Sono tutti così maledettamente sicuri del fatto loro.» Fissò meditabondo l’apparecchiatura di controllo. «Forse mi è sfuggito qualcosa di questa macchina o della ragazza.»

Mentre Fleming e Judy parlavano, Andromeda entrò nella sala del calcolatore. Si fermò sulla soglia, un fascio di fogli in mano, e attese che terminassero. Era tranquilla, ma in lei non c’era modestia alcuna. Quando parlava con Judy o con gli altri che lavoravano con lei, aveva un’aria di autorità superiore e indiscussa. Non faceva concessioni neppure a Geers: era perfettamente educata, ma li trattava tutti come esseri intellettualmente inferiori.

«Desidererei parlare di questi al dottor Geers,» spiegò dalla soglia.

«Ora?» Judy cercava di opporle un pacato disprezzo.

«Ora.»

«Vedo se è libero,» rispose Judy, e uscì. Andromeda attraversò la stanza, diretta al quadro di controllo, ignorando Fleming; qualcosa però lo spinse a fermarla.

«È felice del suo lavoro?»

Si volse a guardarlo, senza parlare. Fleming si drizzò sulla sedia, improvvisamente in guardia.

«Si sta rendendo assolutamente indispensabile, vero?» le chiese nel tono che aveva usato con Judy.

Lo guardò seria. Pareva una statua, con i suoi lineamenti ben disegnati, i lunghi capelli e le braccia abbandonate, l’abito semplice e chiaro. «Per piacere, faccia attenzione a quel che dice,» gli rispose.

«È una minaccia?»

«Sì.» Parlava senza enfasi, come se enunciasse dei semplici dati di fatto. Fleming si alzò di colpo.

«Santo cielo! Non voglio che…» Si interruppe sorridendo. «Forse mi è davvero sfuggito qualcosa.»

Qualsiasi cosa avesse in mente, non era chiaro alla ragazza. Si volse per andarsene.

«Aspetti un attimo.»

«Ho da fare.» Ma si volse di nuovo verso di lui in attesa; lui le si avvicinò lentamente, la squadrò come se la stesse prendendo in giro.

«Devi fare qualcosa per te, se vuoi avere influenza sugli uomini.» Andromeda restava immobile. Fleming alzò una mano ad accarezzarle i capelli e la fece scorrere lungo la tempia. «Dovresti tirarti indietro i capelli, allora potremmo vedere come sei. Molto graziosa.»

Lei si ritrasse e la mano di lui ricadde ma Andromeda continuò a tenere gli occhi su di lui, sorpresa e perplessa.

«Oppure potresti usare del profumo,» disse. «Come quello di Judy.»

«È quello che le dà quell’odore?»

Annuì. «Non molto esotico. Acqua di lavanda o qualcosa del genere. Ma buona.»

«Non la capisco.» Una piccola ruga segnava la pelle liscia della sua fronte. «Buono, cattivo. Bello, brutto. Non c’è una distinzione logica.»

Lui sorrideva ancora. «Vieni qui.»

Andromeda esitò, poi fece un passo verso di lui. Con calma, deciso, lui le pizzicò un braccio.

«Ahi!» Andromeda arretrò, con un improvviso lampo di paura negli occhi, e si fregò la pelle nel punto dove lui le aveva fatto male.

«Bello o brutto?» chiese lui.

«Brutto.»

«Perché sei stata fatta per sentire il dolore.» Sollevò di nuovo la mano e lei vi si appoggiò. «Questa volta non voglio farti male.»

Lei rimase rigida, mentre lui le accarezzava la fronte, come una gazzella accarezzata da un bambino, sottomessa ma pronta a fuggire. Le dita di lui scesero lungo la guancia, lungo il collo nudo.

«Bello o brutto?»

«Bello.» Lo guardava per vedere quel che avrebbe fatto poi.

«Sei fatta per provare il piacere. Lo sapevi?» Ritirò gentilmente la mano e si allontanò da lei. «Non so se era questa l’intenzione, ma dandoti forma umana… gli esseri umani non vivono secondo la logica.»

«L’ho notato.» Era piti sicura di sé, ora, come era stata prima che lui cominciasse a parlare; ma la sua attenzione era ancora tutta presa da lui.

«Noi viviamo attraverso i nostri sensi. Sono essi a darci il nostro istinto per il bene e per il male, i nostri giudizi estetici e morali. Senza di essi probabilmente a quest’ora ci saremmo già distrutti.»

«Fate del vostro meglio, vero?» Guardò i suoi fogli con un sorriso di disprezzo. «Siete tutti dei bambini con tutti i vostri missili e i vostri razzi.»

«Non mettere anche me in questa faccenda.»

«No, non la metto in questa faccenda.» Lo guardò pensosa. «Ad ogni modo, intendo salvarvi. Tutto qui, davvero.» Fece un piccolo gesto a indicare i fogli che aveva in mano.

Judy entrò e, come aveva fatto Andromeda, si fermò sulla soglia. «Il dottor Geers la può ricevere.»

«Grazie.» Il ruolo ora era cambiato; senza che fosse stato detto, il rapporto tra loro tre era mutato. Sebbene Fleming osservasse ancora Andromeda, lei ricambiava lo sguardo con una consapevolezza diversa.

«Ho un cattivo odore?» chiese.

Fleming si strinse nelle spalle. «Devi scoprirlo da te, ti pare?»

Andromeda seguì Judy fuori dall’edificio e camminò con lei lungo il sentiero di cemento fino all’ufficio di Geers. Non avevano nulla da dirsi e nulla da spartire, salvo una specie di circospetta indifferenza. Judy la fece entrare nell’ufficio di Geers e la lasciò. Il direttore era seduto dietro la scrivania, al telefono.

«Sì. Procediamo splendidamente,» stava dicendo. «Un solo controllo ancora, e possiamo cominciare a costruire.»

Depose il ricevitore; Andromeda posò i fogli sulla scrivania, indifferente, impassibile, come se gli portasse una tazza di tè.

«Ecco tutto quel che vi serve, dottor Geers,» gli disse.

10

Azione

Il nuovo missile venne costruito e sperimentato a Thorness. Fu lanciato, recuperato e ne furono fatte delle copie: il primo ministro mandò Burdett a parlare con Vandenberg. Il generale era parecchio preoccupato per il progetto di Thorness. Gli sembrava che si procedesse troppo alla svelta per essere sul sicuro. Sebbene i suoi capi volessero che si passasse all’azione al più presto, aveva dei grossi dubbi sul risultato di una tecnica straniera, e desiderava che il razzo venisse mandato a collaudare negli Stati Uniti; ma inaspettatamente il governo di Sua Maestà si era impuntato.

Burdett lo affrontò nella sala di operazioni sotterranea.

«Giusto per una volta abbiamo i mezzi per mandare avanti da soli questo progetto.» Il giovane ministro, nel suo inappuntabile abito blu, con la cravatta del collegio, aveva un’aria molto efficiente, spigliata e acuta. «Naturalmente ci accorderemo quando sarà giunto il momento di usarlo.»

Vandenberg grugnì. «Possiamo sapere come lo sfrutterete?»

«Opereremo un’intercettazione.»

«Come?»

«Reinhart a Bouldershaw Fell ci darà notizie sul nostro bersaglio e il gruppo di Geers eseguirà il lancio.»

«E se fallisse?»

«Non fallirà.»

I due stavano di fronte, intransigenti: Burdett gentile e sorridente, il generale duro e ostinato. Dopo un momento Vandenberg si strinse nelle spalle.

«Tutto d’un tratto questa è diventata una faccenda personale.»

Su questo si lasciarono, e Burdett disse a Geers e a Reinhart di andare avanti.

Quasi ogni giorno a Bouldershaw venivano captate tracce recenti. Harvey sedeva dietro la grande finestra che guardava sul Fell e man mano che andavano avanti le registrava.

«… 12 agosto ore 3,50, ora di Greenwich. Ordigno spaziale N. 117 sorvola sulla rotta 2697/451. Altezza 400 miglia. Velocità approssimativa 17.500 miglia all’ora…»

L’enorme conca all’esterno che sembrava vuota e immobile sotto la sua alta struttura, era continuamente all’erta e piena dei riflessi dei segnali. Ogni ordigno che la sorvolava emetteva il suo segnale e lo si poteva sentire avvicinarsi dall’altra parte del globo. Nell’osservatorio c’erano analizzatori elettronici che mostravano il percorso dei bersagli su uno schermo a raggi catodici, mentre un dispositivo automatico di rilevazione e di individuazione del campo era collegato via terra con Thorness. A Thorness, sulla cresta della scogliera, era disposta una fila di razzi; un «primo lancio,» come lo chiamavano, e due di riserva. I tre missili, a forma di matita, con il muso affusolato e la coda munita di pinne, si levavano, in fila, sulle loro basi di lancio, e risplendevano argentei nella luce fredda e grigia. Erano stranamente piccoli, molto sottili e con una bellissima linea. Sembravano frecce incoccate e pronte ad allontanarsi in volo da tutte le pesanti e complicate strutture delle operazioni di lancio. Ognuno, fornito di carburatore e stipato delle apparecchiature necessarie, portava nella punta affusolata una piccola carica nucleare. Il controllo da terra era operato attraverso il calcolatore che veniva fatto funzionare a turno da Andromeda e dai suoi assistenti. I segnali dei bersagli, provenienti da Bouldershaw, passavano attraverso la sala di controllo, e venivano interpretati all’istante e inoltrati all’intercettatore. Il volo di intercettazione poteva venire diretto con la massima precisione.

In quel periodo avevano libero accesso alla sala di controllo solo Geers e il suo personale di lavoro. A Fleming e alla Dawnay era stata data, a titolo di cortesia, la possibilità di assistere su uno schermo, in un altro edificio, all’intercettazione: Andromeda lavorava tranquillamente al calcolatore e Geers si agitava ansioso e con aria di importanza tra la zona di lancio, l’edificio del calcolatore e la sala di controllo. Si trattava di un piccolo centro di operazioni dove si esaminavano i meccanismi del decollo. Un telefono diretto lo collegava al Ministero della Difesa. Judy era tenuta sotto pressione dal maggiore Quadring, che faceva fare un doppio controllo su tutti coloro che entravano e uscivano.

L’ultimo giorno di ottobre, Burdett conferì con il primo ministro poi telefonò a Geers e a Reinhart.

«Il prossimo.»

Reinhart e Harvey rimasero in osservazione per trentasei ore prima di captare una nuova traccia, poi, al far dell’alba, raccolsero un segnale molto debole e il sistema automatico di collegamento entrò in azione.

A Thorness, l’equipaggio ancora insonnolito si raccolse e Andromeda, che non mostrava alcun segno di fatica, stette ad osservare mentre gli altri controllavano le informazioni attraverso il calcolatore. Venne subito calcolato il tempo optimum per il lancio e fu comunicato al centro di controllo; ebbe inizio il conto alla rovescia. Sullo schermo dei radar si poté vedere molto presto una traccia del bersaglio. Nella stanza del calcolatore c’era uno schermo per Andromeda, un altro al centro di controllo per Geers, un terzo a Londra, nella sala operazioni del Ministero della Difesa, e un controllo generale a Bouldershaw, sorvegliato da Reinhart. Anche a Bouldershaw si poteva sentire il segnale del satellite: un blip-blip continuo che veniva amplificato e diffuso dagli altoparlanti fino all’osservatorio.

A Thorness gli altoparlanti continuavano a diffondere il conto alla rovescia, e le squadre di lancio continuavano a lavorare velocemente attorno alle basi dei razzi, sulla scogliera. Allo zero doveva essere effettuato il «primo lancio,» e se questo non avesse funzionato, il secondo, e se necessario, anche il terzo, seguendo calcoli di volo fatti tenendo conto del tempo di decollo. Andromeda aveva sostenuto che non ce n’era bisogno, ma tutti gli altri erano consci dell’umana fallibilità. Né Geers né alcuno dei suoi superiori potevano permettersi un fiasco.

Il conto alla rovescia scese di cifra in cifra, arrivando allo zero. Nella grigia luce mattutina del promontorio, i razzi di decollo del «primo lancio» all’improvviso fiorirono rossi. L’aria si riempì di frastuono, la terra tremò e l’alta matita sottile scivolò su nel cielo. In pochi secondi era sparita al di sopra delle nuvole. Nella sala di controllo, nella sala di operazioni e nell’osservatorio, visi preoccupati guardavano la sua scia apparire sullo schermo a raggi catodici. Solo Andromeda sembrava sicura e per nulla preoccupata.

A Bouldershaw, Reinhart, Harvey e la loro squadra seguivano le due tracce del proiettile e dell’intercettatore, che andavano lentamente convergendo, e sentivano il blip-blip del satellite risuonare più forte e più chiaro man mano che sì avvicinava. Poi le tracce si incontrarono e in quel medesimo istante il rumore cessò.

Reinhart si precipitò verso Harvey per battergli la schiena, fuori di sé e con scarsa dignità.

«È andata…!»

«…Centro!» Geers sollevò il suo telefono collegato con Londra. Andromeda si allontanò dallo schermo della sala di controllo come se non fosse successo nulla di importante. A Londra Vandenberg, nella sala operazioni, si volse ai suoi colleghi inglesi.

«Bene, che ne dite?»

Quella sera venne fatta alla stampa una dichiarazione ufficiale:

«Il Ministero della Difesa ha annunciato che un missile è stato intercettato da un nuovo razzo inglese, trecentosettanta miglia sopra le Isole Britanniche. I resti del missile di origine sconosciuta, e i resti del missile intercettatore si sono disintegrati rientrando nell’atmosfera terrestre, ma l’intercettazione è stata seguita su apparecchi radar e può, dichiara il Ministero, essere controllata fin nei più minuti dettagli.»

Da Whitehall si levò un respiro di sollievo quasi udibile, seguito da calorose autocongratulazioni. Il governo tenne una seduta insolitamente allegra e nel giro di una settimana il primo ministro mandava ancora a chiamare Burdett.

Il ministro della Difesa si presentò, ordinato e sorridente, avvolto da un’aura di fiducia e di lozione dopobarba. «Nessuna nuova traccia?» chiese il primo ministro.

«Neppure una.»

«Niente in orbita?»

«No, niente ha sorvolato questo paese, Eccellenza, dopo l’intercettazione.»

«Bene.» Il primo ministro meditava. «Reinhart avrebbe comunque avuto il titolo di Sir.»

«E Geers?»

«Oh, già. Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico.»

Burdett si preparava ad affrontare gli affari seri. «E il calcolatore e il suo… ehm, agente, Eccellenza?»

«Potremmo dare alla ragazza il titolo di Donna,» disse il primo ministro, ammiccando.

«Voglio dire,» disse Burdett, «che cosa sarà di loro? Il ministro della Scienza vuole riaverli.»

Il primo ministro continuava ad avere un’aria divertita. «Non possiamo tenercelo, vero?»

«Abbiamo per esso un programma militare molto pesante.»

«Anche un programma economico molto pesante.»

«Che intende dire, Eccellenza?»

«Voglio dire,» disse seriamente il primo ministro, «che se questa particolare combinazione può darci dei risultati a questo livello, può ottenere anche un mucchio di altre cose. È naturale che debba ancora lavorare per la Difesa, ma al tempo stesso ha un potenziale industriale molto alto. Vogliamo diventare ricchi, lo sa, oltre che forti. Gli scienziati ci hanno dato, e io gliene sono molto grato, la macchina pensante più avanzata del mondo. Ci darà la possibilità, come nazione, di fare un balzo avanti in molti campi e sarebbe anche ora.»

«Vuole continuare a occuparsene, Eccellenza?» Burdett era un miscuglio di irritazione e deferenza.

«Sì. Farò una dichiarazione al paese nei prossimi giorni.»

«Non intende renderlo pubblico?»

«Non si agiti.» Il primo ministro lo guardava con indulgenza. «Dirò qualcosa circa gli effetti, ma i mezzi resteranno segretissimi. Questa sarà responsabilità sua.»

Burdett annuì. «Che posso dire a Vandenberg?»

«Gli dica di mettersi tranquillo. No, gli dica che ci prepariamo a ritornare di nuovo un grande piccolo paese, ma che continueremo a collaborare con gli alleati. Con tutti gli alleati che possiamo trovare, anzi.» Fece una pausa per un attimo; Burdett aspettava educatamente. «Andrò io stesso a Thorness non appena mi sarà possibile.»

La visita fu combinata in pochi giorni; ovviamente per il ministro era una faccenda degna di avere la precedenza. Judy e Quadring ebbero qualche difficoltà a nasconderlo alla stampa, perché la curiosità del pubblico era al vertice: ma alla fine tutto fu stabilito con la dovuta segretezza, e il campo e i suoi abitanti vennero tirati a lucido silenziosamente e discretamente. Geers era visibilmente cambiato: la sicurezza per lui era una sensazione nuova. Era come se avesse deposto le armi. Era pieno di vivacità, ma affabile, e non solo permetteva nuovamente alla Dawnay e a Fleming l’accesso al calcolatore, ma li aveva vivamente pregati di partecipare al corteo per la visita del primo ministro. Voleva che tutti, diceva, avessero quel che gli spettava.

Fleming personalmente aveva dei dubbi su tali esibizioni, ma se li teneva per sé: almeno avrebbe avuto una possibilità di parlare. Il giorno della visita si recò di buon’ora nell’edificio del calcolatore, dove trovò Andromeda che aspettava, sola. Anche lei sembrava trasformata. Aveva spazzolato all’indietro i lunghi capelli e invece dell’abito diritto di tutti i giorni indossava una specie di tunica greca, che le segnava busto e gambe, ondeggiandole attorno.

«Accidenti,» disse, «ti accadrà qualcosa di prettamente umano se te ne vai in giro così addobbata.»

«Ti riferisci a questo vestito?» chiese lei, con un vago interesse.

«Farai un’impressione dell’accidente, ma d’altronde la fai lo stesso. Non ci sarà possibilità di averti, ora, vero?» le chiese amaramente. Andromeda gli lanciò un’occhiata senza rispondere. «Ti chiederà probabilmente di succedere al n. 10 e tu penserai che noi dormiremo tranquilli nel nostro letto ora che abbiamo visto quanto sei forte. Probabilmente pensi che siamo tutti degli sciocchi.»

«No, tu non sei uno sciocco,» ribatté lei.

«Se non fossi uno sciocco non saresti qui ora. Hai fatto piombare giù dal cielo con un colpo un pezzettino di metallo — sa Dio come — e di punto in bianco sei in una posizione di comando.»

«Era quanto si voleva.» Gli stava di fronte, senza espressione.

«E qual è il prossimo passo?»

«Dipende dal programma.»

Le si avvicinò. «Sei una schiava, vero?»

«Perché non te ne vai?» gli chiese.

«Andarmene?»

«Ora. Finché puoi.»

«Fammi andare via tu.» La fissava, duro e ostile, ma lei volse il capo.

«Può darsi che io lo debba fare,» rispose. Rimase fermo, sfidandola a continuare, ma lei non si voleva lasciar trascinare. Dopo qualche secondo Fleming guardò l’orologio e grugnì.

«Vorrei tanto che questi buffoni di diplomatici l’avessero già finita.»

Quando il primo ministro si decise ad arrivare era scortato da ufficiali, uomini politici e segugi di Scotland Yard. Geers li condusse al calcolatore. Erano seguiti da Burdett e da Hunter e da un codazzo di persone meno importanti, in una teoria che finiva con Judy, che veniva per ultima e chiudeva le porte dietro di loro. Con un ampio gesto Geers indicò la sala di controllo.

«Questo, Eccellenza, è il calcolatore.»

«Del tutto incomprensibile per me,» disse il primo ministro, come se questo fosse un vantaggio. Si accorse della presenza di Andromeda. «Buon giorno, madamigella. Congratulazioni.»

Si diresse verso di lei con la mano protesa, che lei prese e strinse un po’ rigida.

«Lei capisce tutto questo?» le chiese. Andromeda sorrise educatamente. «Sono certo che è così, e gliene siamo tutti molto grati. È davvero un grosso cambiamento per noi, in questo paese, essere capaci di fare una dimostrazione di forza. Ci prenderemo molta cura di lei. La trattano bene?»

«Sì, grazie.» La comitiva le stava attorno a semicerchio, osservandola e ammirandola, ma lei non disse altro. Fleming colse lo sguardo di Judy e accennò al primo ministro. Per un momento lei non capì che cosa lui desiderasse, poi comprese e si affiancò a Geers.

«Non credo che al primo ministro sia stato presentato il dottor Fleming,» mormorò. Geers si accigliò; il suo atteggiamento amichevole pareva un po’ fragile, in alcuni punti.

«Bene, bene.» Il primo ministro non pareva trovare altro da dire ad Andromeda. Si volse di nuovo a Geers.

«E dove tenete i razzi?»

«Glielo farò vedere, Eccellenza, e vorrei che visitasse il laboratorio.»

Si mossero, lasciando Judy dov’era. «Il dottor Fleming…» tentò, senza alcun successo. Ma essi non la sentirono. Fleming fece un passo avanti.

«Mi scusi un istante…»

Geers gli rivolse uno sguardo torvo.

«Non ora, Fleming.»

«Ma…»

«Cosa desidera quel giovanotto?» chiese con mitezza il primo ministro. Geers sfoderò un sorriso.

«Nulla, Eccellenza, non vuole nulla.»

Il primo ministro, pieno di tatto, continuò nella sua strada e quando Fleming fece un passo avanti Hunter gli mise una mano sul braccio.

«Per amor del cielo!» sibilò Hunter.

Sulla porta che dava nell’ala del laboratorio Geers si volse.

«Meglio che lei venga con noi.» Si rivolgeva ad Andromeda, ignorando gli altri.

«Venga, mia cara,» disse il primo ministro, tirandosi da lato per lasciarla passare. «Prima la bellezza e il cervello.»

Tutta la processione sfilò nel laboratorio, salvo Judy.

«Vieni?» chiese a Fleming, che si teneva alle loro spalle, fissandoli.

Lui scosse il capo. «Magnifico, vero?»

«Ho fatto del mio meglio.»

«Splendido.»

Judy cincischiava il fazzoletto. «Avrebbero almeno dovuto permetterti di parlare. È un bel furbone, anche se sembra una vecchia zitella.»

«Come un certo altro.»

«Chi?»

«Uno che veniva dalla montagna.» Le rivolse un pallido sorriso, «Uno dei pifferi di montagna che andavano per suonare e furono suonati.»

Judy conosceva il detto, e si sentì irritata. «Andremo tutti a farci suonare, tranne te, vero?»

«Sai cosa mi ha appena detto Andromeda?»

«No.»

Lui cambiò idea e passò lo sguardo da Judy al quadro di controllo. «Ho un’idea in testa.»

«Un’idea che potrei capire?»

«Guarda come ticchetta bene, come è liscio e ritmico.» Il calcolatore lavorava con regolarità, con un ronzio soffocato e le luci che lampeggiavano ordinate. «Fa le fusa come se ci avesse già pappati. E se ora io tirassi via la corrente?»

«Non te lo permetterebbero.»

«O se prendessi un martello e lo facessi a pezzetti?»

«Non riusciresti a metterti in salvo, con le sentinelle. E comunque potrebbero ricostruirlo.»

Fleming estrasse da un cassetto del banco di controllo un blocco e alcuni fogli. «Allora non ci resta che dargli un colpo dal lato intellettuale, ti pare? Ho già procurato un colpetto alla fanciulla, ora sarebbe bene cominciare con lui.» Sì avvide che lei lo fissava dubbiosa. «Non avere paura, non dovrai dare fiato alle trombe. Ritornano da questa parte?»

«No. Usciranno dalla porta del laboratorio.»

«Bene.» Cominciò a copiare sul blocco dei numeri dal foglio.

«Cos’è?»

«Una formula abbreviata della creatura.»

«Andromeda?»

«Chiamala come ti pare.» Continuava a scarabocchiare. «È così che la chiama la macchina. Non è proprio una formula, è un numero di matricola.»

«Che vuoi fare?»

«Fare un po’ di cambiamenti.»

«Non avrai intenzione di combinare dei guai?»

Lui scoppiò a ridere. «Meglio che tu continui a fare da cicerone; per questa storia ci vorrà un po’ di tempo.»

«Avviserò le sentinelle.»

«Avvisa chi ti pare.»

Lei esitò, poi si diede per vinta e andò a raggiungere la comitiva. Quando se ne fu andata Fleming controllò le cifre poi si diresse con il blocco verso l’unità di ingresso. «Ti darò io qualcosa a cui pensare,» disse a voce alta rivolto alla macchina. Poi sedette e cominciò a scrivere il messaggio.

Aveva appena finito quando entrò Andromeda.

«Pensavo che fossi andata a vedere i razzi.»

Lei si strinse nelle spalle. «Non è interessante.»

Le lampade del quadro di controllo cominciarono a lampeggiare più forte e all’improvviso si senti uno schianto terribile provenire dalla stampa-dati di uscita che cominciò a lavorare furiosamente.

Andromeda levò lo sguardo, sbalordita. «Che accade?»

Fleming si diresse veloce alla stampatrice e lesse le cifre man mano che venivano battute sul foglio.

Sorrise. «Sembra che il tuo amico sia andato fuori dai gangheri.»

Andromeda attraversò la stanza e guardò al di sopra della spalla di lui.

«Ma non significa nulla!»

«Esatto.»

La stampatrice, senza preavviso, come aveva cominciato, smise di stampare, lasciandoli immersi nel silenzio.

«Cosa hai fatto?» chiese la ragazza. Lesse attentamente tutte le cifre senza capire. «Non ha alcun significato!»

Fleming le rivolse una smorfia. «No. Per un momento ha perso il proprio controllo. Penso che abbia dei disturbi psichici.»

«Che cosa gli hai fatto?» chiese la ragazza. Si mosse verso i terminali ma Fleming la fermò.

«Tienti lontana.»

Si fermò, incerta. «Che cosa gli hai fatto?»

«Gli ho dato solo alcune informazioni.»

Guardandosi attorno Andromeda vide il blocco al di sopra dei tasti dell’unità di ingresso. Si avvicinò lentamente e lo lesse.

«Questa è la mia formula… a rovescio.»

«Messa al negativo,» confermò Fleming.

«Penserà che sono morta.»

«Proprio quel che volevo io.»

Lo fissò, sbalordita. «Perché?»

«Volevo fargli sapere che non può pretendere che tutto vada secondo la sua volontà.»

«È stata una stupidaggine.»

«Sembra che ti valuti parecchio,» commentò, pieno di disprezzo.

Lei si volse ai terminali. «Bisogna che gli dica che sono viva.»

«No!» La tenne ferma per le braccia.

«Devo. Pensa che io sia morta e devo dirgli che non è vero.»

«E allora io gli dirò di nuovo che sei morta. Posso tirare avanti questo giochetto finché il calcolatore non capirà più se è vero o no.»

Allungò un braccio per prendere il blocco di fogli dalla tastiera. «Dammelo.» Andromeda liberò un braccio. «Non puoi averla vinta, lo sai bene.» Si volse di nuovo per allontanarsi, e quando Fleming fece per fermarla, d’improvviso gridò: «Lasciami in pace! Vattene! Fuori di qua.»

Stavano di fronte, tremanti tutti e due, come se non potessero muoversi. Poi Fleming l’afferrò saldamente con entrambe le mani, attirandola a sé.

L’annusò, sorpreso. «Hai usato del profumo.»

«Lasciami andare. Chiamo le sentinelle.»

Fleming cominciò a ridere. «Prendi fiato, allora.»

Andromeda dischiuse le labbra e lui vi depose un bacio. Poi, staccandola da sé, le braccia tese, la scrutò.

«Bello o brutto?»

«Lasciami sola, per piacere.» La voce di lei era malcerta. Lo guardava confusa, poi abbassò lo sguardo, ma lui continuava a tenerla.

«A chi appartieni?»

«Appartengo a quello che mi dice il mio cervello.»

«Allora dimmi questo…» La baciò ancora con sensualità ma senza passione, a lungo.

«No,» implorò Andromeda, ritraendosi. Lui la teneva stretta a sé parlandole dolcemente.

«Non ti piace il sapore delle labbra, o quello del cibo, o il profumo e la sensazione dell’aria fresca di fuori, o le colline oltre il filo spinato, con il sole, l’ombra e le allodole che cantano? E la vicinanza degli esseri umani?»

Scosse lentamente il capo. «Non sono importanti.»

«No?» Parlava con la bocca sulla bocca di lei. «Quale che sia l’intelligenza incorporea alla quale devi fedeltà, non ne ha tenuto conto, ma sono importanti per la vita organica, come scoprirai.»

«Si può tener conto di qualsiasi cosa,» rispose lei.

«Ma non se ne è tenuto conto nei calcoli.»

«Possono essere introdotti.» Sollevò il capo a guardarlo. «Non puoi batterci, dottor Fleming. Smettila di provarci, prima di avere la peggio.»

La lasciò andare. «È probabile che io abbia la peggio?»

«Sì.»

«E perché mi metti in guardia?»

«Perché provo qualcosa per te,» spiegò, e lui le rivolse un mezzo sorriso.

«Parli quasi come un essere umano.»

«Allora è tempo che la smetta. Per piacere, vattene, John, ora.» Lui restò immobile, ostinato, ma c’era nella voce di lei una nota di supplica che non c’era mai stata prima, e sul suo volto un’espressione di infelicità. «Per piacere. Vuoi che venga punita?»

«Da chi?»

«Da chi credi?» Andromeda fissò le apparecchiature di controllo del calcolatore. Fleming era colto di sorpresa: a questo non aveva pensato mai.

«Punita? Questa è bella.» Si infilò in tasca i fogli zeppi di cifre e si avviò alla porta. Sulla soglia si volse per lanciarle un’ultima frecciata: «A chi appartieni?»

Lei lo guardò andarsene e poi, riluttante, si volse verso il quadro di controllo e vi si diresse, lentamente, come se ci fosse costretta. Sollevò le mani per metterle a contatto con i terminali, poi esitò. Aveva il volto teso ma continuò ad alzare le mani fino a toccare le piastre. Per un attimo il solo risultato fu che le luci si misero a lampeggiare più forte mentre la macchina digeriva le informazioni che Andromeda le dava, poi il voltmetro sotto il quadro, all’improvviso, segnò il massimo.

Andromeda emise un grido di dolore e cercò di staccare le mani dalle piastre, ma la corrente la teneva prigioniera. La lancetta del voltmetro cadde ma solo per tornare a sollevarsi e Andromeda gridò di nuovo… Poi una terza volta e una quarta e ancora, ancora, ancora…

Anche questa volta fu Judy a scoprirla. Entrò qualche minuto dopo, cercando Fleming, e vide con orrore la ragazza abbandonata sul pavimento, nel medesimo punto in cui era crollata Christine.

«Oh, no!» Le parole le sfuggirono; le corse accanto per voltarla. Andromeda era ancora viva, e al contatto delle mani di Judy si ripiegò su se stessa, lamentandosi e toccandosi piano le mani. Judy sollevò quel capo biondo e se lo posò in grembo, poi le prese le mani aprendogliele. Erano nere e ustionate salvo che dove la carne si apriva rossa fino all’osso.

Judy le lasciò con dolcezza. «Com’è accaduto?» Andromeda gemette ancora aprendo gli occhi. Judy mormorò: «Le tue mani…»

«È facile medicarle.» La voce della ragazza era appena udibile.

«Cosa è accaduto?»

«Qualcosa non ha funzionato, ecco tutto.»

Judy la lasciò e telefonò al dottor Hunter.

Da quel momento gli eventi precipitarono con la velocità di un cataclisma. Hunter fece alle mani di Andromeda una fasciatura provvisoria, e cercò di persuaderla ad andare all’infermeria della base, ma lei si rifiutò di lasciare il calcolatore prima di avere visto Madeleine Dawnay.

«Faremo più in fretta così,» assicurò loro. Sebbene soffrisse per lo shock, lesse con la massima attenzione tutti i fogli della Dawnay, risolutamente, fino a trovare la parte che la interessava. Hunter le aveva fatto delle iniezioni locali per alleviare il dolore alle mani, ma tra queste e le fasciature aveva molta difficoltà a muoversi; ciò nonostante riuscì a trovare i fogli che voleva e li portò alla Dawnay. Riguardavano la produzione di enzimi nella formula DNA.

«E cosa ce ne facciamo di questi?» La Dawnay li guardava dubbiosa.

«Per ottenere la formula di un tessuto isolato. Potete prepararlo molto in fretta,» spiegò Andromeda e riportò i fogli al calcolatore. Era pallida, debole e camminava a fatica. La Dawnay, Hunter e Judy l’osservavano preoccupati. Lei si mise di nuovo tra i terminali e sollevò le mani bendate. Ma questa volta non accadde nulla e dopo qualche istante la macchina cominciò a stampare dati.

«È la formula di un enzima, potete prepararlo molto facilmente.» Indicò alla Dawnay il foglio stampato, quindi si rivolse a Hunter. «Vorrei stendermi, ora. Per piacere. L’enzima mi può essere applicato sulle mani con una base medicamentosa, quando la professoressa Dawnay lo avrà preparato; ma cercate di fare il più in fretta possibile.»

Restò ammalata per parecchi giorni; Hunter le medicava le mani con l’unguento fatto in base alla formula, una volta che la Dawnay lo ebbe preparato. La cicatrizzazione fu miracolosa: il nuovo tessuto, una carne soffice e fresca, ben diversa dal tessuto indurito delle cicatrici, rimarginò le ferite nel giro di poche ore e formò uno strato nuovo di pelle rosea sui palmi. Quando si fu rimessa dagli effetti dell’elettroshock, anche le sue mani erano come rigenerate.

Hunter, nel frattempo, aveva fatto rapporto a Geers, e Geers aveva mandato a chiamare Fleming. Il direttore, che non era ancora sicuro dell’origine dell’incidente, aveva il viso e le labbra tesi per la preoccupazione: la breve stagione del suo cameratismo era finita.

«Ebbene, così lei ha deciso di farlo saltare!» strepitò contro Fleming picchiando il pugno sul ripiano lustro. «Non consulta nessuno… è troppo intelligente. Tanto intelligente che scassa la macchina e, maledizione, quasi fa uccidere la ragazza.»

«Se non vuole neppure ascoltare quel che è accaduto.» La voce di Fleming si levò a sovrastare la sua, ma Geers lo interruppe.

«So che cosa è accaduto.»

«Era là, lei? Andromeda sapeva che sarebbe stata punita. Avrebbe dovuto cacciarmi via, avrebbe dovuto cancellare quanto avevo introdotto nel calcolatore ma non lo ha fatto o non abbastanza presto. Ha esitato, mi ha messo in guardia, ha lasciato che me ne andassi, poi è andata a toccare i terminali…»

«Credevo che lei se ne fosse andato,» gli ricordò Geers.

«Certo che me n’ero andato. Le sto raccontando come sono senz’altro andate le cose: Andromeda fece sapere alla macchina che era viva, che le erano state date delle false informazioni, che la sorgente delle informazioni era in circolazione e che lei non l’aveva fermata. Così la macchina l’ha punita dandole una serie di scosse elettriche. Sa come fare, adesso: lo ha imparato a spese di Christine.»

Il direttore l’ascoltava con un’impazienza che non si dava neppure la pena di dissimulare. «Lei sta lavorando di fantasia,» disse infine.

«No, non sto lavorando di fantasia, Geers. Era inevitabile che accadesse, solo che non l’ho capito in tempo.»

«Ha il suo lasciapassare?» Gli occhi di Geers attraverso gli occhiali sprizzavano scintille. «Per l’edificio del calcolatore.»

Fleming sbuffò frugandosi in tasca. «Non può dirmi nulla, su questo. È perfettamente in ordine.»

Glielo passò attraverso la scrivania. Geers lo prese, l’esaminò e lentamente lo stracciò.

«Perché?»

«Ci costa troppo, Fleming. Basta.»

Fleming a sua volta percosse la scrivania con un pugno. «No, rimango alla base.»

«Stia dove le pare. Ma i suoi contatti con il calcolatore sono finiti. Mi spiace.»

Geers si sentiva meglio adesso che Fleming era fuori dai piedi, e ancora meglio si sentì quando seppe del miglioramento di Andromeda. Volle sapere tutte le notizie possibili sull’enzima dalla Dawnay e da Hunter, poi si mise in comunicazione sulla sua linea diretta con Whitehall. La reazione fu quella che si immaginava. Mandò a chiamare Andromeda, la interrogò e sembrò molto soddisfatto.

Fleming, un anno o due prima, avrebbe cominciato a bere, ma questa volta non aveva nemmeno voglia di fare questo. Lo stesso impulso che lo aveva legato al calcolatore, lo legava ora alla base: sebbene ormai non potesse fare più nulla, sebbene non potesse prendere parte alcuna all’esecuzione del progetto, rimase alla base, solitario e incerto; faceva lunghe passeggiate, se ne stava sdraiato sul letto. Si era nel cuore dell’inverno, ma di un inverno calmo e grigio che sembrava nascondere qualcosa di molto drammatico.

Fleming, circa una settimana dopo l’incidente, o la punizione, come pensava lui, tornava da una passeggiata in brughiera quando vide un’auto enorme, straordinariamente lucida, di fronte all’ufficio di Geers; e mentre passava accanto, ne vide uscire un ometto quadrato dalla testa calva.

«Dottor Fleming!» L’uomo calvo sollevò una mano per fermarlo e salutarlo.

«Cosa fa qui?»

«Spero che non le spiaccia,» disse Kaufmann. Fleming si guardò attorno. «Se ne vada.»

«Per piacere, Herr Doktor, non si senta in imbarazzo.» Kaufmann gli sorrise. «Sono qui in veste assolutamente ufficiale. Agente numero uno ai Lloyds. Non la comprometto.»

«Non ha compromesso neppure Bridger, vero?» Fleming accennò col capo al cancello principale. «Quella è l’uscita.»

Kaufmann sorrise di nuovo, e tirò fuori la scatola di cigarillos. «Fuma?»

«Qualche volta, quando sono nervoso,» rispose. «Non mi interessa nulla di quel che può offrirmi. Provi alla porta accanto.»

«È quel che faccio.» Kaufmann rise e si ficcò un sigaro tra i denti. «É proprio quel che faccio. L’ho fermata, Herr Doktor, per dirle che non la importunerò più; ho altri mezzi, ora, molto migliori, molto più onesti.»

Sorrise ancora, accese il sigaro, ed entrò senza esitazioni nel vestibolo dell’ufficio di Geers.

Fleming andò di corsa agli uffici del Servizio di Sicurezza, ma Quadring era via e non si sapeva dove fosse Judy. Finalmente riuscì a prendere contatto con Judy, per telefono, ma quando la ragazza giunse all’ufficio di Geers, il direttore stava giusto accompagnando fuori Kaufmann. Sembrava che i due uomini fossero in rapporti molto cordiali, e Geers fumava uno dei cigarillos di Kaufmann.

«In materia d’affari,» diceva Kaufmann, «il procedimento è senza importanza. Non siamo curiosi; è il risultato che conta, no?»

«Noi vendiamo dei risultati.» Geers aveva il viso illuminato dal suo miglior sorriso. Gli tese una mano. «Auf wiedersehen.»

Judy li vide stringersi la mano e vide Kaufmann tornare alla propria auto. Quando il direttore si girò per rientrare nel suo ufficio, disse: «Posso parlarle un minuto?»

Il sorriso di Geers si spense. «Sono piuttosto occupato.»

«Ma è una questione importante. Lei sa chi è quell’uomo?»

«Si chiama Kaufmann.»

«Intel.»

«Giusto.» Le dita di Geers si contrassero sulla maniglia.

«Era a Kaufmann che il dottor Bridger intendeva vendere…» cominciò Judy, ma Geers l’interruppe.

«So tutto del caso Bridger.»

Dietro la voce di lui Judy sentì il rumore dell’auto che si allontanava. Questo fece sembrare terribilmente impellente quanto sentiva: doveva ficcarglielo in testa.

«Era la Intel. Portavano via i segreti…»

Geers superò la soglia. «Non mi stanno sottraendo dei segreti,» ribatté altezzoso.

«Ma…» Senza esserne richiesta Judy lo seguì all’interno e scoprì la Dawnay che lo aspettava, in silenzio, nell’ufficio. All’improvviso si sentì sconcertata è mormorò confuse parole di scusa alla professoressa.

«Non si preoccupi per me, cara,» rispose la Dawnay in tono neutro, e si diresse all’altro capo della stanza. Geers sedette all’altro capo della scrivania e fissò Judy con aria formale.

«Stiamo trattando un accordo commerciale.»

«Con la Intel?» L’orrore e l’assurdità di tutta la situazione le si affollarono alla mente: le pazzie accumulate negli ultimi mesi e anni. Rimase a bocca aperta davanti a lui, davanti alla lucida scrivania, finché ritrovò la voce. «Mi è stato affidato questo incarico perché non ci fidavamo di loro. Al dottor Bridger è stata data la caccia fino a farlo morire, da me, tra gli altri, perché…»

«Le condizioni ambientali sono cambiate.»

La ragazza fissò il suo viso presuntuoso e affettato, e perse completamente le staffe. «Queste condizioni vanno a genio ai politicanti.»

«Ora basta,» esplose Geers.

La Dawnay, calma, nel suo angolo, fece un debole tentativo. «La ragazza ha ragione, sa, e noi scienziati di tanto in tanto diventiamo un po’ invidiosi in proposito. Siamo in balìa degli elementi. Non possiamo ingannare.»

«Anch’io sono uno scienziato,» ribatté Geers, maligno.

«Lo era.» La parola sfuggì a Judy prima che avesse modo di fermarla. Si aspettava un’esplosione ma Geers riuscì a controllarsi, facendosi di ghiaccio.

«A rigor di termini, la cosa non la riguarda. Ciò di cui ora il governo ha bisogno è un mercato mondiale. Quando Andromeda si bruciò le mani, elaborò una sintesi per il personale del laboratorio della professoressa Dawnay. Ha visto le sue mani?»

«Le ho viste ustionate.»

«Non c’è alcun segno di ustione, ora. Nessuna cicatrice, nulla. Dall’oggi al domani.»

«Ed è questo che sta vendendo alla Intel?»

«Attraverso la Intel. A tutti coloro che ne hanno bisogno.»

Judy cercò di capire quel che non funzionava nel ragionamento, e finalmente comprese: «Perché non attraverso l’organizzazione internazionale di sanità?»

«Non prendiamo in considerazione la carità all’ingrosso. Ma un ragionevole equilibrio di mercato.»

«Dunque non vi interessa a chi stringete la mano?» chiese disgustata Judy. Si sentiva adesso completamente fredda. E si volse alla Dawnay. «Anche lei fa parte di questa storia?»

La Dawnay esitò. «L’enzima non è ancora in grado di essere messo sul mercato. Abbiamo bisogno di una formula più raffinata. André, la ragazza, sta preparando i dati per il calcolo.» Avevano preso tutti l’abitudine di chiamarla André.

«Così, tutto lo stabilimento sta lavorando per la Intel.»

«Spero di no,» disse la Dawnay, e sembrò quasi che fosse dalla parte di Judy.

Geers intervenne.

«Senta, Madeleine, questo è troppo!»

«Allora non vi ruberò altro tempo.» Judy si diresse alla porta. «Ma in questa storia io non c’entro, e non c’entra neppure il dottor Fleming.»

«Sappiamo da che parte sta il dottor Fleming,» commentò sardonico Geers.

«E sapete anche da che parte sto io,» ribatté Judy, e se ne andò sbattendo la porta.

L’istinto le suggeriva di andare subito da Fleming, ma non riusciva proprio ad affrontare il rischio di un’altra snobbata. Fu la Dawnay, invece, che andò a trovarlo, verso sera, mentre di ritorno dall’ufficio andava al calcolatore. Lo trovò nel suo alloggio, intento a guardare il primo ministro che parlava alla televisione.

«Entri,» la invitò, senza espressione. E le fece posto ai piedi del letto. La Dawnay fissava lo schermo azzurrino che tremolava; cercò di avere fiducia nel viso sicuro, maturo, sportivo e aristocratico del primo ministro, e nella sua voce lenta e strascicata. Fleming stava seduto a guardare e ad ascoltare, con lei.

«Fino dai giorni placidi e felici della regina Vittoria,» annunciava la voce senza corpo, «questo paese non ha più avuto una posizione di preminenza così evidente nei campi dell’industria, della tecnica, e soprattutto della sicurezza, come ai giorni nostri…»

La Dawnay sentiva che non riusciva a concentrare la propria attenzione. «Mi spiace averla interrotta.»

«No, non mi ha interrotto.» Fece una smorfia accennando all’apparecchio. «Spegniamo quel vecchio idiota.»

Si alzò e spense lui stesso il televisore, poi le versò da bere. «È una visita mondana?»

«Stavo solo andando verso il calcolatore, quando ho visto le sue finestre illuminate. Grazie.» Accettò il bicchiere.

«Lavoro straordinario?» le chiese.

Lei sollevò il bicchiere guardandolo al di sopra del bordo. «Dottor Fleming, io ho detto parecchie cose poco generose nei suoi confronti, in passato.»

«Non è la sola.»

«Riguardo il suo atteggiamento.»

«Mi sbagliavo, vero? Così dice il primo ministro. Mi sbagliavo in pieno.» Parlava più con dolore che con rabbia, e si versò da bere, ma poco.

«Ho dei dubbi,» disse la Dawnay. «Comincio ad avere dei dubbi.»

Fleming non rispose ma la Dawnay aggiunse: «Anche Judy Adamson comincia ad avere dei dubbi.»

«Meraviglioso,» grugnì lui.

«Ha combattuto una vera battaglia, con Geers, oggi pomeriggio. Devo dire che mi ha dato da pensare.» Prese un sorso e lo mandò giù lentamente, guardando con calma attraverso il bicchiere e rimuginando la situazione. «Sembra abbastanza onesto, fare uso di quel che abbiamo, di quel che lei ci ha dato.»

«Non insista.»

«Eppure non so. Nella potenza di quella macchina c’è qualcosa di corruttore. Lo si vede dall’effetto che ha sulla gente di qui e sul governo.» Accennò al televisore. «Come se fosse una cosa perfettamente normale, la gente di buon senso viene presa da una volontà non sua. Penso che tutti e due, noi, lo abbiamo sentito. Eppure, tutto ciò sembra abbastanza inoffensivo.»

«Davvero?»

Gli parlò della produzione dell’enzima. «È benefico. Rigenera le cellule, ecco tutto. Influirà su un sacco di cose, dall’innesto epidermico all’invecchiamento. Sarà, dopo gli antibiotici, il ritrovato medico più importante.»

«Una manna per molta gente.»

Quando la Dawnay si mise a parlare della questione Intel, lui reagì appena.

«Dove andremo a finire?» si chiese la Dawnay. Non aspettava una risposta ma ne ebbe ugualmente una.

«Un anno fa questa macchina non aveva alcun potere al di fuori del suo edificio, e anche lì eravamo noi a tenerla sotto controllo.» Parlava senza passione, come se ripetesse un’antica verità. «Ora tutta la nazione dipende da essa. Cosa accadrà? Ha sentito, non è vero? Torneremo a essere la massima potenza del mondo, e chi sarà l’eminenza grigia nascosta dietro a questo trono?»

Indicò la televisione, come aveva fatto prima la Dawnay. Poi sembrò che fosse stanco di quella conversazione; si diresse al giradischi e l’accese.

«Avrebbe potuto tenerlo sotto controllo?» La Dawnay non voleva lasciar cadere l’argomento.

«No, negli ultimi tempi, no.»

«Cosa avrebbe potuto fare?»

«Avrei fatto dell’ostruzionismo, per quanto possibile.» Tirò fuori un disco da una pila di microsolco. «E lo sa, ora che ha la sua creatura a dargli informazioni sul mio conto. È riuscito a farmi cacciar via. ‘Lei non può vincere,’ mi ha detto Andromeda.»

«La ragazza le ha detto questo?»

Fleming annuì e la Dawnay aggrottò la fronte guardando nel suo bicchiere semivuoto. «Non so. Forse è inevitabile. Forse è l’evoluzione.»

«Senta…» Depose il disco e si volse verso di lei. «Posso prevedere un tempo nel quale creeremo una forma di intelligenza più alta alla quale, alla fine, noi cederemo. E probabilmente sarà una forma inorganica, come questa. Ma sarà qualcosa che noi stessi abbiamo creato, e possiamo progettarlo per il nostro bene, o per quello che noi definiamo il bene. Questa macchina non è stata progettata per il nostro bene, o, se lo è stata, qualcosa non ha funzionato.»

La donna finì di bere. Quello che lui diceva era molto probabile, anzi, più che probabile: c’era in quanto lui diceva una sana logica che negli ultimi tempi le era sfuggita. Da bravo scienziato empirista, la Dawnay sentiva che in qualche modo doveva venire provato.

«Chi può dirlo, se non lei?» gli chiese.

Fleming scosse il capo. «Nessuno di questa gente.»

«Potrei fare qualcosa io?»

«Lei?»

«Io ho accesso al calcolatore.»

Lui perse all’improvviso ogni interesse per il disco. Il suo viso si illuminò come se dentro di lui si fosse acceso un circuito elettrico. «Sì, perché no? Potremmo tentare un piccolo esperimento.» Sollevò dal tavolo il blocco sul quale aveva scritto la formula di André al negativo. «Ha qualcuno laggiù che possa introdurlo?»

«André?»

«No, non lei. Qualsiasi cosa lei faccia, Madeleine, non le dia la sua fiducia.»

La Dawnay si ricordò dell’operatore. Raccolse il blocco e Fleming le mostrò la sezione che avrebbe dovuto introdurre.

«Non capisco più nulla, devo ammetterlo,» disse. Poi depose il bicchiere e uscì.

Attraversando il recinto, sentì uscire dall’alloggio di Fleming le prime battute di un brano musicale di qualche postschönberghiano: poi si ritrovò nell’edificio del calcolatore dove si udiva solo il ronzio della macchina. Nella sala di controllo c’era André e un giovane operatore. André se ne stava ancora più per conto suo da quando era successo l’incidente delle mani. Si aggirava per l’edificio del calcolatore come un fantasma e se ne allontanava raramente. Non faceva alcun tentativo di comunicare con chicchessia, e sebbene non avesse mai un atteggiamento ostile, era completamente riservata. Quando la Dawnay entrò, la guardò con scarso interesse.

«Come va?» chiese la Dawnay.

«Abbiamo introdotto tutti i dati,» rispose André. «Credo che otterrete presto la formula.»

La Dawnay si allontanò e raggiunse l’operatore all’unità di entrata. Era un giovane da poco laureato che si stava perfezionando, e che non faceva domande, ma eseguiva quanto gli veniva detto.

«Introduca anche questo.» La Dawnay gli diede il blocco. Lui lo pose sulla tastiera e cominciò a battere.

«Cos’è?» chiese André sentendo il rumore.

«Una cosa che voglio mi venga calcolata.» La Dawnay la tenne lontana dal calcolatore fino a che il quadro di controllo, all’improvviso, prese a lampeggiare selvaggiamente.

«Cosa sta introducendo?» André allungò una mano verso il blocco e lesse. «Dove l’ha trovato?»

«È affar mio,» rispose la Dawnay.

«Perché si immischia in questa storia?»

«È meglio che ci lasci sole,» disse la Dawnay all’operatore. Quello, obbediente, si alzò e uscì dalla stanza. André attese che fosse uscito.

«Non le voglio male,» disse poi, e nella sua voce non c’era passione, ma solo una grande forza. «Perché se ne immischia?»

«Come osa parlarmi così?» La Dawnay sentiva che la sua voce suonava debole e ridicola, ma non riuscì a rispondere altrimenti. «Io ti ho creato. Io ti ho fatto.»

«Lei mi ha fatto?» André la guardò con disprezzo, poi si diresse al quadro di controllo e mise le mani sui terminali. Immediatamente le lampade si calmarono ma continuarono a lampeggiare per tutto il tempo che la ragazza rimase lì, forte e sicura come una giovane dea. Dopo un minuto si scostò, guardò la Dawnay.

«Ci stiamo stancando parecchio di questo… questo giochetto,» disse calma, come se stesse trasmettendo un messaggio. «Né lei, né il dottor Fleming, né alcun altro può mettersi tra noi.»

«Se cerchi di farmi paura…»

«Non so cosa abbia messo in macchina. Non posso assumermene la responsabilità.» Sembrava che Andromeda fissasse qualcosa al di là della Dawnay. Rumorosamente, la stampa-dati di uscita si mise in azione, e la Dawnay a quel suono si mosse. Seguì André fino al calcolatore, e quando arrivò il messaggio era finito. André esaminò il foglio, poi lo strappò dal rotolo e glielo passò.

«La formula del suo enzima.»

«Tutto qui?» La Dawnay provava una sensazione di sollievo.

«Non le basta?» chiese André e l’osservò andarsene con viso fermo e ostile.

La Dawnay aveva tre assistenti che lavoravano con lei in quel periodo: un chimico ricercatore e due aiutanti perfezionandi, un ragazzo e una ragazza. Tutti insieme lavorarono a una sintesi chimica basata sulla nuova formula. Questa sintesi comportava un certo lavoro di manipolazione, ma poiché non aveva un effetto irritante, nessuno di loro se ne preoccupava. Nel giro di un paio di giorni, tuttavia, cominciarono tutti a sentire segni di stanchezza e di deperimento. Sembrava che non ci fosse motivo alcuno, e continuarono a lavorare ma alla fine del terzo giorno, la ragazza ebbe un collasso e il mattino seguente la Dawnay e l’uomo erano altrettanto malandati.

Hunter li portò all’infermeria, dove furono presto raggiunti dal ragazzo. Di qualsiasi natura fosse la malattia, il suo corso si faceva sempre più veloce; non si avevano febbre o infiammazioni, ma le vittime deperivano, semplicemente. Le cellule morivano, i processi di base del metabolismo rallentavano o si fermavano, e uno dopo l’altro gli ammalati si indebolirono finendo in coma. Hunter era disperato e fece appello a Geers che mise a tacere tutta la faccenda.

Fleming non venne a conoscenza dei particolari fino al quarto giorno, quando Judy ruppe il silenzio per parlargliene. Telefonò subito a Reinhart e gli chiese di venire da Bouldershaw; e persuase Judy a trovargli una certa carta. Quando Judy gliela diede si rinchiuse con essa per tutta la notte nel suo alloggio e ne uscì il mattino seguente, sfinito ma soddisfatto. Ma ormai la ragazza era morta.

11

Antidoti

Quando Fleming arrivò all’infermeria, le stavano coprendo il viso. Gli altri tre giacevano silenziosi e immobili nei loro letti, i visi tesi, pallidi come il cuscino. La Dawnay, che occupava la cabina accanto a quella della ragazza, veniva tenuta in vita esclusivamente con trasfusioni di sangue. Stava immobile come il marmo: pareva la statua funeraria di qualche vecchio guerriero. Rimase a guardarla finché Hunter lo raggiunse.

«Che cosa vuole?» Hunter era ridotto a uno straccio. Rinunciò alla fatica di apparire educato con Fleming.

«È colpa mia,» disse Fleming, guardando il viso distrutto che riposava sul guanciale.

Hunter quasi rise. «L’umiltà per lei è cosa nuova.»

«Come vuole, allora, non era colpa mia.» Fleming si volse di scatto, gli occhi scintillanti: trasse di tasca i fogli: «Ma vengo per darle questi.»

Hunter prese con sospetto le carte. «Cos’è?»

«La formula dell’enzima.»

«Come diavolo ne è venuto in possesso?»

Fleming sospirò. «Illegalmente. Come tutto quel che devo fare.»

«La terrò io, se non le spiace,» disse Hunter. Lo guardò di nuovo. «Perché è cancellata?»

«Perché è sbagliata.» Fleming tolse il foglio superiore per mostrare quello di sotto. «Ecco la formula esatta. Sarà bene farlo preparare alla svelta.»

«La formula giusta?» Hunter aveva un’aria un po’ confusa.

«Quella che il calcolatore ha dato alla Dawnay era un’inversione di quella che lei voleva. Ha messo il negativo al posto del positivo, come era in realtà, per ripagarla di un piccolo scherzo che gli avevo fatto.»

«Che scherzo?»

«Dava l’antienzima al posto dell’enzima. Invece di una cellula rigeneratrice, una cellula distruttrice. Probabilmente agisce attraverso la pelle e l’hanno assorbito mentre lavoravano.» Sollevò una mano della Dawnay, abbandonata senza vita sul lenzuolo. «Niente da fare, a meno che non si prepari in tempo l’enzima adatto. Ecco perché le ho portato la formula esatta.»

«Pensa veramente…» Hunter corrugò le sopracciglia con aria scettica, fissando il blocco di fogli, e Fleming, alzando gli occhi dalla mano della Dawnay che ancora teneva, lo guardò con disgusto.

«Non vuole gloria e onore?»

«Voglio salvare delle vite,» rispose Hunter.

«Allora prepari la formula esatta. Dovrebbe agire come antidoto a quella che ha ottenuto la Dawnay. Può almeno tentare. Se no…» Si strinse nelle spalle e depose di nuovo la mano della Dawnay sul lenzuolo. «Questa macchina farà lo sporco giuoco di tutti finché le va bene.»

Hunter sospirò. «Se è così maledettamente intelligente, perché ha fatto un errore simile?»

«Non lo ha fatto. Il solo errore che ha commesso è stato quello di colpire la persona sbagliata. Era me che voleva colpire, e non si è curata di quanta gente avrebbe fatto fuori in questa ricerca. Uno dei vostri contratti commerciali con la Intel, e avrebbe potuto far fuori mezzo mondo.»

Lasciò Hunter tutto accigliato sulla formula; era ovviamente obbligato a tentare.

Quel pomeriggio l’uomo morì; ma il nuovo enzima era stato preparato e somministrato ai due che sopravvivevano. In principio non accadde nulla di rimarchevole, ma prima di sera era chiaro che il deperimento andava rallentando. Dopo cena Judy visitò l’infermeria e si diresse poi verso il cancello principale per accogliere Reinhart che era atteso con l’ultimo treno. Passando accanto all’edificio del calcolatore provò l’impulso di entrare. Non c’era alcun operatore in servizio e trovò André che sedeva sola al banco di controllo, lo sguardo fisso davanti a sé. L’odio accumulato per mesi, le frustrazioni di anni ribollirono d’improvviso in Judy.

«È morta un’altra persona,» sbottò selvaggiamente. André si strinse nelle spalle e Judy sentì una voglia terribile di picchiarla. «La professoressa Dawnay sta combattendo per la vita, e il ragazzo anche.»

«Allora hanno una possibilità,» disse la ragazza, senza alcuna intonazione.

«Grazie al dottor Fleming, non grazie a lei.»

«Non è affar mio.»

«È stata lei a dare la formula alla professoressa Dawnay.»

«Gliel’ha data la macchina.»

«Gliel’avete data assieme.»

André si strinse ancora nelle spalle. «Il dottor Fleming ha l’antidoto. È intelligente, lui, li può salvare.»

«Lei non se ne preoccupa, vero?» Judy si sentiva gli occhi ardenti e asciutti, guardandola.

«Perché dovrei preoccuparmene?» chiese la ragazza.

«La odio.» Judy si sentiva anche la gola secca e riusciva appena a parlare. Avrebbe voluto prendere qualcosa di pesante e spaccare la testa alla ragazza; ma in quel momento il telefono squillò e dovette andare al cancello principale e ricevere Reinhart.

Quando Judy se ne fu andata, la ragazza sedette immobile, per lungo tempo, fissando il quadro di controllo, e delle lacrime, delle vere lacrime umane, le sgorgarono dagli occhi scorrendole lentamente giù per le guance.

Judy condusse Reinhart direttamente alla baracca di Fleming dove venne messo al corrente dello stato delle cose.

«E Madeleine?» chiese il vecchio. Sembrava stanco e incerto.

«Ancora viva, grazie a Dio,» rispose Fleming. «Ne possiamo salvare due.»

Sembrò che Reinhart ne fosse un po’ sollevato e parve meno stanco. Gli tolsero il soprabito, lo installarono in una sedia vicina al calorifero e gli diedero da bere. Aveva un aspetto invecchiato che Judy non gli aveva mai visto, patetico, era ormai Sir Ernest, e sembrava che, concedendogli l’onorificenza, lo avessero definitivamente invecchiato. Judy immaginava quanto lontana nel passato gli dovesse sembrare la sua amicizia di gioventù con la Dawnay, e sentiva che lui si aggrappava a quella vita come se la sua in qualche modo le fosse legata. Reinhart prese in mano il bicchiere e cercò di fissare la sua attenzione su quello che doveva dire.

«Non ne avete ancora parlato a Geers?»

«Cosa farebbe, Geers?» chiese Fleming. «Gli spiacerebbe soltanto che non si tratti di me. Mi avrebbe fatto buttare fuori dalla base e fuori dal paese, se avesse potuto. Sono secoli che dico che quell’apparecchio è pericoloso, ma tutti ne sono entusiasti; quante prove devo portare ancora, prima di convincere qualcuno?»

«Non devi più provare nulla, per quel che riguarda me,» disse Reinhart, faticosamente.

«Bene, questo è già qualcosa.»

«O me,» aggiunse Judy.

«Oh, bello, bello. Questo significa che siamo in tre contro l’intera organizzazione.»

«Cosa credevi che avrei potuto fare?» chiese Reinhart.

«Non so. Lei si è occupato di metà della ricerca scientifica di questo paese per una generazione. Sì, una buona metà. Certo qualcuno le darebbe retta.»

«Osborne, forse?»

«Fino a che non si sporca le mani.» Fleming meditò un attimo. «Potrebbe farmi tornare al calcolatore?»

«Usa la testa, John, deve risponderne all’autorità costituita.»

«Potrebbe farlo venire qui?»

«Posso provare. Cos’hai in mente?»

«Glielo posso spiegare più tardi,» rispose Fleming. Reinhart trasse di tasca un orario aereo-ferroviario.

«Se vado a Londra domattina…»

«Non ci può andare stanotte?»

«Sir Ernest è stanco,» intervenne Judy.

Reinhart le sorrise. «Può tenere quel Sir Ernest per le grandi occasioni. Prenderò un volo notturno.»

«Perché non si può aspettare qualche ora?» chiese Judy.

«Non sono un giovanotto, Miss Adamson, ma non sono un moribondo.» Si alzò. «Salutatemi Madeleine da parte mia, se…»

«Certo,» assicurò Fleming prendendo il soprabito del professore e aiutandolo a infilarselo. Reinhart si diresse alla porta, abbottonandoselo. Poi si rammentò di qualcosa. «A proposito, il messaggio è cessato.»

Lo sguardo di Judy passò da lui a Fleming. «Il messaggio?»

«Il messaggio di lassù.» Reinhart indicò il cielo con un dito. «Ha smesso di ripetersi, parecchie settimane fa. Può darsi che non lo captiamo mai più.»

«Può darsi che abbiamo raccolto la parte conclusiva di una lunga trasmissione,» disse Fleming calmo, soppesando tutte le implicazioni di questo fatto. «Se non fosse stato per quel puro caso di Bouldershaw, forse non l’avremmo sentito mai, e nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.»

«Già, ci ho pensato anch’io,» annuì Reinhart; rivolse loro un altro stanco sorriso e se ne andò.

Fleming si aggirava silenzioso per la stanza, pensando a quanto era stato detto. Judy attendeva. Sentirono l’auto di Reinhart partire, allontanarsi, e a questo rumore Fleming si mise accanto a Judy, le passò un braccio attorno alle spalle.

«Farò tutto quel che vuoi,» mormorò lei. «Possono farmi comparire davanti alla corte marziale, se ne hanno voglia.»

«D’accordo.» Fleming tolse il braccio.

«Puoi fidarti di me, John.»

Lui la guardò dritto in viso e Judy cercò con gli occhi di costringerlo a crederle.

«Sì, bene.» Sembrava quasi convinto. «Ti dirò cosa devi fare. Per prima cosa, domattina, telefona a Londra, in privato. Cerca di metterti in contatto con Osborne quando il professore è con lui, e digli che deve portare un terzo visitatore.»

«Chi?»

«Non importa chi. Il sindaco di Londra, il presidente dell’Accademia Reale, qualche pezzo grosso del Ministero. Non ha bisogno di portarmi il tizio in carne e ossa, mi bastano i vestiti.»

«Solo l’involucro di un pezzo grosso?»

Fleming sogghignò. «Un cappello, una borsa e un ombrello saranno sufficienti. Oh, e anche un soprabito. Nel frattempo tu procurerai per lui un altro lasciapassare. D’accordo?»

«Proverò.»

«Brava.» Le mise di nuovo un braccio attorno alle spalle e la baciò. Lei rispose al bacio, poi si piegò all’indietro e gli chiese: «Che cosa intendi fare?»

«Non so ancora.» La baciò di nuovo poi si allontanò da lei. «Vado a nanna, è stata una giornata infernale. Faresti bene ad andartene, ho bisogno di dormire un poco.»

Abbozzò ancora un sorriso; lei gli strinse forte la mano e uscì con passo leggero, il cuore che le batteva forte.

Fleming si spogliò sognante, costruendo progetti e fantasticherie. Si lasciò cadere sul letto e un attimo dopo, spenta la luce, si addormentò.

Dopo la partenza di Reinhart e di Judy, la base era silenziosa. Era una notte molto buia: dei nuvoloni si stavano addensando da nord-est, portando con sé una corrente d’aria fredda, gravidi di neve, e nascondevano la luna piena. Ma a un certo punto la luna risplendette per pochi istanti attraverso le nuvole, e alla sua luce una figura pallida e sottile si lasciò scivolare fuori da una finestra sul retro dell’edificio del calcolatore, e cominciò a muoversi spettrale, per la base. Nessuna delle sentinelle la vide, per non parlare di riconoscerla per André, che, il viso sconvolto, si fece strada furtivamente tra le baracche fino all’alloggio di Fleming, tenendo in mano un rotolo di filo doppio.

Un po’ di luce pioveva dalla finestra della stanza di Fleming, perché lui aveva scostato un poco la tenda prima di andare a letto. Fleming non si mosse, quando, molto silenziosamente, la porta si aprì e André mise piede nella stanza. La ragazza era a piedi nudi e camminava con circospezione: le mani erano protette da un paio di guanti di spessa gomma. Dopo essersi assicurata che Fleming dormisse, si inginocchiò vicino al suo letto, accanto al muro, e inserì i due fili di un capo del suo rotolo a una presa nello zoccolo, li fissò stretti e inserì la corrente. Tenne lontano da sé l’altro capo del rotolo, afferrando separatamente i due fili tra il pollice e l’indice, qualche centimetro sotto la parte isolante, e tenendo i capi nudi protesi in avanti, si alzò e si diresse lentamente verso Fleming. C’erano ben poche possibilità che sopravvivesse a una scarica alta; era addormentato e André era sicura che sarebbe riuscita a mantenere il contatto su di lui per un tempo abbastanza lungo da fermare il suo cuore.

Non fece alcun rumore nel muovere i capi del filo verso gli occhi di lui. Non c’era quindi alcun motivo per cui dovesse svegliarsi: ma d’improvviso, per qualche ragione misteriosa, aprì gli occhi. Vide solo una figura che si levava sopra di lui, e più per istinto che per ragionamento, piegò le ginocchia sotto le coperte e tirò un calcio attraverso il lenzuolo e il copriletto con tutta la sua forza.

La colpì allo stomaco, e lei cadde riversa in mezzo alla stanza, con una specie di rantolo doloroso. Fleming cercò l’interruttore e accese la luce. Per un attimo ne fu abbagliato: si rizzò a sedere, confuso e ansimante, mentre la ragazza si tirava su in ginocchio, si dibatteva, continuando a stringere i capi del filo: poi, non appena comprese quel che stava accadendo, balzò fuori dal letto, strappò dalla presa i capi del filo e si volse a lei. Ma ormai André era in piedi e quasi fuori dalla stanza. «No.» Si gettò verso la porta. Lei si fece di lato tenendo le mani dietro la schiena e indietreggiò fino al tavolo sul quale lui aveva cenato. Per un attimo parve che stesse per arrendersi: poi, senza preavviso, la sua destra scattò in avanti; stringeva un coltello.

«Disgraziata.» Le afferrò il polso torcendoglielo fino a farle lasciare il coltello e la gettò a terra. Lei si contorceva, ansimante, sul pavimento, tenendosi con una mano il polso dolorante, e lo fissava, non tanto con rabbia quanto con disperazione. Fleming si chinò a raccogliere il coltello continuando a tenerla d’occhio.

«E va bene… Uccidimi.» Nella voce di lei adesso c’era paura, e anche sul viso. «Non ti servirà a nulla.»

«No?» Anche la voce di Fleming tremava: ansimava.

«Rimanderà di poco le cose, e basta.» L’osservò, intenta, aprire un cassetto e far scivolare dentro il coltello. Questo parve ridarle coraggio e si alzò a sedere.

«Perché mi vuoi eliminare?» chiese lui.

«Era la prima cosa che dovevamo fare. Ti avevo messo in guardia.»

«Grazie.» Fece qualche passo per la stanza, abbottonandosi il pigiama, infilando i piedi in un paio di pantofole, e andava calmandosi.

«Tutto quel che fai è prevedibile.» Sembrava che la ragazza avesse ripreso il controllo di sé. «Nulla di quel che pensi manca di una risposta.»

«Qual è il primo passo, ora?»

«Se te ne vai immediatamente e non ti metti di mezzo…»

La interruppe. «Alzati.» Lei lo guardò sorpresa. «Alzati.» Aspettò finché non si fu levata in piedi, poi le indicò una sedia. «Siedi là.»

Andromeda gli diede un’occhiata, senza capire, poi sedette. Lui le si piantò davanti. «Perché fai solo quel che vuole la macchina?»

«Siete talmente infantili, voi,» gli rispose. «Pensate che siamo schiava e padrone, io e la macchina, ma siamo ambedue schiavi. Siamo dei recipienti che voi avete fatto per qualcosa che non capite.»

«E tu lo capisci?» chiese Fleming.

«Io riesco a vedere la differenza fra la vostra e la nostra intelligenza. Posso vedere che la nostra avrà il sopravvento e la vostra morirà. Voi pensate di essere il non plus ultra di tutte le cose, l’ultima parola…» Si interruppe massaggiandosi il polso dolorante.

«Io non la penso così,» disse Fleming. «Ti ho fatto male?»

«Non molto. Sei più intelligente della maggior parte della gente, tu, ma non abbastanza… farete la fine dei dinosauri. Erano loro ad avere la Terra sotto il loro comando, una volta.»

«E tu?»

Sorrise ed era la prima volta che Fleming la vedeva sorridere.

«Io sono l’anello mancante.»

«E se noi ti spezziamo?»

«Ne faranno un altro.»

«E se rompiamo la macchina?»

«Lo stesso.»

«E se distruggiamo tutti e due voi, il messaggio e tutto il lavoro che abbiamo fatto, così che non ne rimanga nulla? Il messaggio è finito… lo sapevi?»

Lei scosse il capo. Il fatto che Andromeda gli confermasse tutte le sue paure gli piombava addosso come una valanga, ma all’istante stesso comprese come dovesse agire per eliminarle. «I tuoi amici di lassù si sono stancati di parlarci. Dovete cavarvela per conto vostro, ora, tu e il calcolatore. E se vi eliminassimo tutti e due?»

«Terrete lontana dalla Terra un’intelligenza superiore per un po’ di tempo.»

«È questo che dobbiamo fare, allora.»

André sollevò lo sguardo su di lui, con fermezza. «Non potete.»

«Possiamo provare.»

Lei scosse ancora il capo, lentamente, come se le dispiacesse. «Vattene, vivi come vuoi, finché puoi, non ti è possibile fare altro.»

«A meno che tu non mi aiuti.» Ricambiò lo sguardo continuando a fissarla come aveva fatto prima nella sala del calcolatore. «Non sei solo una macchina pensante, sei fatta a nostra somiglianza.»

«No!»

«Hai sensi, sentimenti. Sei per tre quarti un essere umano, legato da una costrizione a qualcosa che è stato creato per distruggerci. Per liberare te stessa e salvare noi non devi far altro che cambiarne la disposizione.» La prese per le spalle come se volesse scuoterla, ma lei allontanò bruscamente le sue mani.

«Perché dovrei?»

«Perché lo vuoi, tre quarti di te stessa…»

Si alzò, si allontanò da lui.

«Quei tre quarti di me sono un incidente. Non pensi che io soffra già abbastanza per come stanno le cose? Non pensi che vengo punita anche solo perché ti sto ad ascoltare?»

«Sarai punita, questa sera?»

«No, se te ne vai.» Si diresse esitante verso la porta, come se attendesse che Fleming la fermasse, ma lui la lasciò andare. «Sono stata mandata a ucciderti.»

Ferma contro lo sfondo oscuro della porta era molto pallida e bella. Parlavano senza passione, senza soddisfazione. Lui la guardò, cupo.

«Bene, abbiamo deposto le armi,» disse.

Accanto alla stazione di Thorness c’era un piccolo caffè dal tetto spiovente, e fu qui che Judy lasciò Fleming mentre aspettava il treno di Aberdeen. Era soltanto la sera del giorno dopo: Reinhart aveva agito alla svelta. Fleming entrò nella piccola stanza del retro che era stata loro riservata e attese. Era una stanzetta triste e squallida, dominata da una vecchia tavola rustica e da una serie di sedie; le pareti erano ricoperte di legno rovinato e scrostato, e vi erano appese delle pubblicità scolorite di coca-cola e di acqua minerale. Bevve un sorso dalla sua borraccia. Sentiva il vento che andava aumentando, ululare di fuori, e poi in lontananza l’automotrice che giungeva rumoreggiando da sud. Si fermò alla stazione, sbuffando rumorosa, e dopo uno o due minuti, si sentì un fischio, l’urlo della sirena e filò via, lasciando di fuori il silenzio; giungeva ancora il suono del vento, e sulla ghiaia, fuori dal caffè, un rumore di passi.

Judy fece entrare Reinhart e Osborne nella stanza. Erano tutti imbacuccati in pesanti abiti invernali, e Osborne portava una valigia piuttosto grande.

«Si sta preparando una tempesta, temo,» disse, mettendo la valigia a terra. Aveva un’aria infelice e assolutamente fuori dal suo elemento. «Possiamo parlare, qui dentro?»

«È tutto a nostra disposizione,» disse Judy. «Mi sono messa d’accordo con l’uomo.»

«E l’operatore di turno?» chiese Reinhart.

«Mi sono messa d’accordo anche con lui. Sa cosa deve fare e terrà la bocca chiusa.»

Reinhart si rivolse a Fleming. «Come sta Madeleine Dawnay?»

«Se la caverà. E anche il ragazzo. L’enzima funziona a dovere.»

«Bene, grazie a Dio per questo.» Reinhart si sbottonò il cappotto. Non sembrava affatto stanco per il viaggio: anzi, pareva che l’attività lo ringiovanisse. Di loro, Osborne era quello che appariva più scoraggiato.

«Cosa vuole combinare con il calcolatore?» chiese a Fleming.

«Cercare di toglierlo dal circuito, altrimenti…»

«Altrimenti?…»

«È quello che vogliamo scoprire. O è deliberatamente malevolo, oppure è guasto. O è stato programmato per funzionare come funziona, oppure gli è successo qualcosa. Io sono per la prima ipotesi: l’ho sempre pensato.»

«Non hai mai potuto dimostrarlo.»

«E la Dawnay?»

«Abbiamo bisogno di qualche prova più tangibile.»

«Osborne andrà dal ministro,» intervenne Reinhart. «Andrà dal primo ministro se necessario, vero?»

«Se ne ho le prove,» disse Osborne.

«Io vi darò le prove! C’è stato un altro tentativo di uccidermi, la notte scorsa.»

«Come?»

Fleming raccontò loro la storia. «Alla fine l’ho costretta a dirmi la verità. Dovreste provare cosa vuol dire, una volta o l’altra, allora ci credereste.»

«Abbiamo bisogno di una prova più scientifica.»

«Allora concedetemi qualche ora in compagnia del calcolatore.» Guardò Judy. «Mi hai portato un lasciapassare?»

Judy trasse dalla borsetta tre lasciapassare, e ne diede uno a ciascuno. Fleming lesse quello che gli era stato dato e fece una smorfia.

«Così, sarei un funzionario del Ministero? Finalmente.»

«Ho giurato sul mio onore per ottenerlo,» disse Osborne con aria infelice. «È solo per un esame del calcolatore. Nessuna azione diretta.»

Fleming smise di sorridere. «Vuole legarmi le mani?»

«Ma si rende conto del rischio che corro?» disse Osborne.

«Rischio! Avrebbe dovuto essere nella mia capanna ieri sera.»

«Mi sarebbe piaciuto esserci, così avrei le idee più chiare. Questa nazione, giovanotto, dipende da quella macchina…»

«Che ho costruito io.»

«Ha più significato per noi, potenzialmente, della macchina a vapore o dell’energia atomica o di qualsiasi altra cosa.»

«Allora è ancora più importante…» cominciò Fleming.

«Lo so! Non faccia la predica, proprio a me. Crede che sarei qui se non pensassi che è importante, e se non avessi la massima stima della sua opinione? Ma ci sono mezzi e mezzi.»

«Conosce un mezzo migliore?»

«Di controllarlo, no. Ma non deve esserci nulla più di un controllo. Un uomo nella mia posizione…»

«Qual è la sua posizione? Il più nobile fra tutti i Romani?»

Osborne sospirò. «Lei ha il suo lasciapassare.»

«Hai quello che hai chiesto, John,» osservò Reinhart.

Fleming raccolse la valigia e la mise sul tavolo. L’aprì: ne tirò fuori un cappotto scuro di lana morbida, un cappello floscio nero e una cartella, e si vestì, pronto a recitare la sua parte. Gli indumenti si intonavano a quella notte buia, ma non andavano molto d’accordo con il suo viso.

«Sembri uno spaventapasseri più che un funzionario,» osservò sorridendo Reinhart.

Judy cercava di non ridere. «Se sei con me non ti esamineranno troppo da vicino.»

«Ti rendi conto che finirai davanti al plotone di esecuzione, per questo?» domandò Fleming affettuosamente.

«Solo se veniamo scoperti.»

Osborne non apprezzava gli scherzi. Se negli altri nascondevano la preoccupazione, lui non se ne accorgeva: aveva lui stesso preoccupazioni in numero più che sufficiente.

«Lasciamo perdere.» Sollevò la manica del cappotto per vedere che ora fosse.

«Dobbiamo aspettare fino a che non viene buio e il turno di giorno è finito,» disse Judy.

Fleming si frugò sotto le falde del cappotto e trasse la fiasca. «Che ne direste di un sorso alla fortuna della nostra impresa?»

Quando raggiunsero la base nevicava fitto: non era una nevicata soffice ma un infuriare di fiocchi pungenti, gelati, spinti da un vento che soffiava da nord. Le due sentinelle di guardia all’esterno dell’edificio del calcolatore si erano alzato il bavero del cappotto militare, sebbene si fossero rifugiate sotto il portico dell’ingresso. Diedero un’occhiata di fuori, nel biancore che si tramutava in oscurità, alle quattro figure che si avvicinavano.

Judy andò avanti e presentò i lasciapassare; i tre uomini si tenevano indietro.

«Buona sera. Questa è la comitiva del Ministero.»

«Buona sera.» Una delle sentinelle, con una striscia da appuntato sulla manica del cappotto, salutò militarmente ed esaminò i lasciapassare.

«Benissimo,» concluse restituendoli.

«C’è nessuno dentro?» chiese Judy.

«Solo l’operatore di turno.»

«Ci tratterremo solo pochi minuti,» disse Reinhart facendosi innanzi.

Le sentinelle aprirono la porta e si schierarono da parte mentre Judy entrava, seguita da Osborne e da Reinhart con Fleming tra loro.

«E la ragazza?» chiese Reinhart quando ebbero percorso un lungo tratto di corridoio.

«Non è di turno stanotte,» rispose Judy. «Ce ne siamo occupati noi.»

Era un lungo corridoio, che formava due angoli retti, e le porte che davano nella sala del calcolatore erano all’estremità, in modo che dalla porta principale non si sentiva e vedeva nulla. Judy aprì una delle porte e li fece entrare: la sala di controllo era piena di luce, ma vuota; c’era solo un giovane che sedeva al banco e leggeva. Al loro ingresso si alzò.

«Salve,» disse a Judy. «Tutto bene?»

Era il giovanissimo assistente. Sembrava che la situazione lo divertisse.

«Ecco i vostri lasciapassare.» Judy li restituì a Osborne e a Reinhart e diede all’operatore quello di Fleming. Fleming si levò il cappello ficcandolo in testa al giovanotto. «Ecco cosa portano gli alti papaveri.»

«Non è necessario che faccia tutta questa scena,» disse Osborne a disagio, tenendo d’occhio la porta, mentre l’operatore indossava il soprabito e prendeva la borsa di Fleming. Perfino con il bavero rialzato era evidentemente diverso dalla persona che era entrata prima, ma, come disse Judy, non era una notte in cui ci si vedesse gran che, e con lei a rassicurarle, le sentinelle si sarebbero limitate a contarli.

Non appena il ragazzo fu pronto, Osborne aprì la porta. «Dipende da lei che tutto vada bene,» disse a Fleming. «Ha un test di controllo?»

Fleming trasse di tasca un blocco ben noto e aspettò che se ne andassero.

«Ritornerò,» disse Judy, «non appena li avrò accompagnati oltre il posto di guardia.»

Fleming parve sorpreso. «Non tornerai, lo sai bene.»

«Mi spiace,» intervenne Osborne, «è una delle condizioni.»

«Non voglio nessuno…»

«Non fare lo sciocco, John,» ribatté Reinhart, e lo lasciarono.

Fleming si diresse all’unità di controllo e la guardò torvo, quasi ridacchiando tra sé per pura tensione nervosa: poi si mise al lavoro all’unità di entrata, battendovi le cifre che erano sul blocco che aveva portato con sé. Aveva quasi finito quando Judy rientrò.

«Cosa fai?» chiese. Anche lei era nervosa, anche se sollevata per avere portato oltre il posto di controllo l’assistente.

«Sto cercando di sistemarlo.» Batté l’ultimo gruppo di cifre. «Lo stesso vecchio trucco della formula andrà bene, per cominciare.»

Ci volle qualche minuto prima che il calcolatore reagisse, poi le lampade di controllo cominciarono a lampeggiare violentemente. Rimasero in ascolto, aspettando il rumore della stampatrice, ma udirono invece dei passi che si avvicinavano lungo il corridoio. Judy rimase immobile, radicata a terra, paralizzata, fino a che Fleming l’afferrò per un braccio trascinandola nell’oscurità del laboratorio da dove potevano vedere senza essere visti attraverso lo spiraglio della porta. I passi dietro l’entrata della sala di controllo si fermarono. Videro girare la maniglia della doppia porta, poi questa si aprì e dal corridoio entrò André.

Judy diede un piccolo grido che venne soffocato dal ronzio del calcolatore, e la stretta di Fleming sul suo braccio si fece ancora più forte, a metterla in guardia. Da dove si trovavano, potevano vedere André chiudere la porta e camminare lentamente verso i dispositivi di controllo. Sembrava che il lampeggiare e il ronzare della macchina la stupissero e a pochi passi di distanza dal quadro di controllo si fermò, assolutamente immobile. Indossava una vecchia giacca a vento con il cappuccio abbassato e sotto la dura luce delle lampade sembrava particolarmente bella e decisa; ma il suo volto era teso e dopo qualche minuto i muscoli attorno alle labbra e alle tempie cominciarono a contrarsi, sotto la crescente agitazione dei suoi nervi. Avanzò, lenta e riluttante, verso il quadro, poi si fermò di nuovo, come se potesse preavvertire una reazione violenta che ne sarebbe venuta. Come se ne conoscesse i segni premonitori e ciò nonostante fosse magnetizzata dalla macchina.

Il viso ora le luccicava di sudore. Fece un altro passo avanti e lentamente alzò le mani verso i terminali. Judy, nonostante tutto il suo odio, sentì dolorosamente l’impulso a correre verso di lei, ma Fleming la trattenne. Davanti ai loro occhi la ragazza si sollevò lentamente, piena di paura, a toccare le piastre di contatto.

Il primo grido di lei e quello di Judy furono simultanei. Fleming posò una mano sulla bocca di Judy ma il grido di André continuava, continuava, diventando un gemito quando la freccia del voltmetro si abbassava e tornando a risuonare fortissimo quando era sul massimo.

«Per l’amor di Dio!» balbettò Judy nella mano di Fleming. Lottò per liberarsi, ma egli la tenne stretta sino a che le grida di André cessarono e la macchina, sentendo forse che la ragazza non rispondeva più, lasciò andare la presa e André scivolò a terra. Judy con fatica riuscì a liberarsi e corse verso di lei, ma questa volta non sentì alcun gemito; non respirava, non dava segni di vita. Le esaminò gli occhi, ma erano vitrei, e la bocca era socchiusa, immobile.

«Temo che sia morta,» riuscì solo a dire Judy, sentendosi impotente.

«Cosa credevi?» Fleming era alle sue spalle. «Hai visto il voltmetro. È tutto successo perché non era riuscita a liberarsi di me… Perché io stavo eliminandola. Povera piccola.»

Abbassò lo sguardo sul corpo rattrappito, nella giacca a vento grigia, macchiata, e gli occhi gli si indurirono. «Farà meglio la prossima volta. Produrrà qualcosa contro cui non riusciremo mai a spuntarla.»

«A meno che tu non trovi cos’è che non funziona.» Si girò, sollevò il blocco di Fleming dall’unità di entrata e glielo diede.

Fleming glielo strappò di mano e lo scaraventò attraverso la stanza.

«È troppo tardi ormai! Non c’è niente in questa macchina che non funzioni.» Indicò la figura raggomitolata di Andromeda. «Ecco la sola risposta di cui ho bisogno. Domani la macchina chiederà un altro esperimento, e dopodomani… ancora.»

Si diresse con decisione ai terminali d’allarme vicino alle doppie porte, afferrò il collegamento con entrambe le mani e tirò. Cedettero ma non si spezzarono; allora Fleming mise un piede contro il muro per fare forza.

«Cosa fai?»

«Voglio farla finita con questa macchina. E questo è il momento. Forse il solo momento.» Tirò di nuovo i fili e poi ci rinunciò e si precipitò verso l’ascia antincendio che pendeva accanto a loro, al muro. Judy gli si gettò contro.

«No!» Gli si attaccò al braccio ma lui con un movimento laterale la spinse via e con il movimento di ritorno abbatté la scure contro i fili recidendoli: poi si girò ed esaminò con uno sguardo la stanza. Il quadro di controllo lampeggiava ancora a grande velocità: Fleming gli si avvicinò e lo frantumò con l’ascia.

«Sei impazzito?» Judy gli corse dietro una seconda volta e, afferrata l’ascia per il manico, cercò di strappargliela. Lui la fece ruotare e liberò l’arma dalla mano di lei.

«Lascia andare. Ti ho detto di non impicciarti.»

Lo guardò: lo riconosceva a fatica; aveva il viso coperto di sudore, come la ragazza, e pieno di rabbia e decisione. In quel momento Judy capì che questo Fleming aveva avuto in mente fin dal principio.

«Ecco cosa volevi fare.»

«Se fosse stato necessario.»

Si fermò, con l’ascia in mano, guardando meditabondo attorno e Judy capi che doveva arrivare alla porta prima di lui; ma fu lui a vincere e poggiò il dorso alla porta, con la stessa espressione ferma e il cupo accenno di un sogghigno agli angoli della bocca. Judy pensò che fosse davvero impazzito, ora. Sollevò una mano a toccare l’ascia, e gli parlò come a un bambino.

«Per piacere, John, dammela.» A sentirlo ridere sussultò. «Hai promesso.»

«Non ho promesso niente.» Stringeva con forza il manico e con l’altra mano chiuse a chiave la porta alle proprie spalle.

«Griderò,» disse lei.

«Provaci.» Si fece scivolare la chiave in tasca. «Non ti sentiranno mai.»

La spinse da parte, camminò a gran passi verso l’ala della memoria, aprì il fianco dell’unità più vicina e la colpì; quando la cavità sottovuoto venne invasa dall’aria si sentì una cupa esplosione.

«John!» Lui già si dirigeva all’unità successiva; cercò di fermarlo.

«So quel che faccio,» rispose, aprendo la parte laterale e colpendola con l’ascia. Un’altra piccola esplosione di qualcosa che andava in frantumi provenne dall’apparecchio. «Pensi che capiterà mai un’altra occasione del genere? Vuoi andare a fare la spia? Se pensi che io mi comporti in modo errato, vai.»

La guardò fisso, calmo e sensato, e si infilò una mano in tasca alla ricerca della chiave. «Vai a prendere la squadra dei tuoi scagnozzi, se vuoi; è sempre stata la tua occupazione preferita, o ti ha forse colpito il sospetto che io stia agendo per il meglio? È questo che vuole Osborne, no? ‘Il meglio.’»

Le tese la chiave, ma per qualche ragione impossibile a esprimersi, Judy non poté prenderla. Fleming attese a lungo, poi rimise in tasca la chiave, si volse e ricominciò con le altre unità.

«Le sentinelle sentiranno.» Il sapere che lui, dopotutto, non era pazzo, la faceva sentire legata a lui. Rimase accanto alla porta a fare la guardia mentre lui eseguiva il suo lavoro su tutto l’apparecchio, tagliando, facendo a pezzi e riducendo l’intricato complesso tecnico e i milioni di cellule elettroniche a frammenti contorti, divelti, sul pavimento, sulle intelaiature metalliche e dietro le facciate spezzate degli scomparti. Judy non riusciva quasi a sopportare quella vista, ma tra gli schianti e i tonfi, ascoltava tutti i suoni che venivano dal corridoio.

Ma nulla giunse a interromperli. La tempesta di neve che in quel cuore sepolto dell’edificio non si poteva vedere né udire, rumoreggiava cancellando il frastuono che facevano loro. In principio Fleming lavorava metodicamente, ma era un lavoro enorme, e cominciò ad andare più alla svelta man mano che si sentiva più stanco, fino a piegarsi disperatamente su se stesso, richiedendo ai propri polmoni il massimo, quasi cieco per il sudore che gli colava dalla fronte. Fece il suo lavoro tutt’intorno fino a tornare al centro dell’unità di controllo, e allora mandò in pezzi anche questa.

«Prendi questo, bastardo,» quasi gli gridò. «E questo, e questo.»

Pose l’ascia a terra appoggiandosi all’estremità del manico per riprendere fiato.

«Che accadrà ora?» chiese Judy.

«Cercheranno di ricostruirlo, ma non sapranno come fare.»

«Hanno il messaggio.»

«È finito.»

«Avranno l’originale.»

«Non l’avranno. Non avranno quello né il codice interrotto né alcuna sua parte, perché è qui dentro.» Indicò una solida porta di metallo nella parete dietro al banco di controllo. Poi sollevò di nuovo l’ascia e mirò ai cardini. Colpo dopo colpo cercò di spezzarli, ma non ottenne alcun risultato. Judy gli stava accanto, stordita e tesa, mentre il rimbombo del metallo sul metallo sembrava urlare per tutto l’edificio, ma nessuno sentì. Dopo parecchio tempo Fleming dovette rinunciare e si piegò di nuovo, ansimante, sull’ascia. La stanza era immersa in un profondo silenzio e adesso che il calcolatore si era fermato, la sua immobilità si accordava al corpo senza vita della ragazza, abbandonato in mezzo alla stanza.

«Dovremo trovare una chiave,» disse Fleming. «Dove ce n’è una?»

«Nell’ufficio del maggiore Quadring.»

«Ma è…»

Judy confermò i timori di lui. «È sempre sorvegliata,» disse.

«Ce ne deve essere un’altra.»

«No. È la sola.»

Cercò di pensare a qualche altra possibilità, ma non ce n’erano. Nessuno, almeno a quanto ne sapeva lei, nemmeno Geers ne aveva. Fleming in principio non le credeva, ma quando si convinse per un momento fu pazzo di rabbia. Sollevò l’ascia e l’abbatté con furia contro la porta e ancora, ancora, fino a reggersi a stento sulle gambe; quando alla fine rinunciò e si abbatté sulla sedia di quello che era stato il banco di controllo, vi rimase seduto a lungo, pensando, rimuginando e cercando di trovare un piano.

«Perché diavolo non me lo hai detto?» le disse infine.

«Non me l’hai chiesto.» Judy tremava per la violenza di lui e per lo sfacelo attorno a loro: si controllava a fatica. «Non me lo hai mai chiesto. Perché non me lo hai mai chiesto?»

«Mi avresti fermato, se lo avessi fatto.»

Judy cercava di parlare con coerenza e si sforzò di non tremare. «Riusciremo a prenderla, in qualche modo. Troverò un sistema, domattina, per prima cosa.»

«Sarà troppo tardi.» Scosse il capo e abbassando lo sguardo fissò il corpo steso sul pavimento. «’Nulla di quanto puoi pensare manca di una risposta.’ Non possiamo vincere.»

«L’otterremo per mezzo di Osborne, o qualcosa di simile,» disse Judy. «Ma ora dobbiamo uscire di qui.»

Judy trovò il cappotto e la sciarpa del giovane operatore, l’aiutò a infilarli, e lo condusse fuori dall’edificio.

12

Annientamento

Era molto tardi quando tornarono al caffè. La neve soffiava tempestosa e si accumulava contro la parete settentrionale. Nella piccola sala sul retro Reinhart e Osborne, infagottati nei loro soprabiti, giocavano tristi e distratti una partita su una scacchiera portatile.

Fleming si sentiva troppo intontito per prendere le proprie difese. Lasciò che fosse Judy a spiegare e sedette, le spalle curve, su una delle dure sedie rustiche, mentre Reinhart faceva le sue domande e Osborne gli indirizzava, nitrendo, una lunga tirata di sconforto e disprezzo estremi.

«Come ha osato immischiarsi in questa storia?» Le ultime tracce della sua solita cortesia scomparvero a dispetto di tutta l’esperienza e l’educazione della sua carriera al Corpo Diplomatico. Era agitato in modo insopportabile. «Ho accettato di prendere parte a questa faccenda solo nella speranza che potessimo dare al ministro gli elementi. Ma sarà la fine della sua carriera, e della mia.»

«E della mia,» sospirò Reinhart. «Sebbene io pensi che l’avrei sacrificata volentieri se la macchina fosse radicalmente distrutta.»

«Ma non lo è,» obiettò Osborne. «Non è nemmeno riuscito a fare quello. Se il messaggio originale è intatto, possono ricostruirla.»

«È colpa mia,» ammise Fleming. «Potete darmi pure tutta la colpa. Me ne accollerò io la responsabilità.»

Osborne ebbe un nitrito sprezzante. «Questo non ci terrà fuori di prigione.»

«È questo che la preoccupa? E che ne dice del fatto che ricostruiranno la macchina e faranno un’altra creatura e che non saremo mai capaci di liberarci da questa morsa?»

«Non possiamo fare nulla?» chiese Judy.

Guardarono tutti Reinhart, con pochissime speranze. Questi esaminò la situazione passo a passo come se controllassero un calcolo, e alla fine rimase con un pugno di mosche. Non avevano speranza di trovare la chiave fino al mattino, e prima di allora Geers sarebbe venuto a conoscenza di quanto era successo, e l’intera faccenda si sarebbe messa di nuovo in moto. Nella loro mente ora non c’era più alcun dubbio sul fatto che Fleming aveva ragione; ma quel che adesso li preoccupava era che questi, alla prova dei fatti, li aveva messi nei guai.

«L’unica,» riprese Reinhart, «è che Osborne torni a Londra con il primo treno e che, quando scoppierà la bomba, faccia l’indiano.»

«E dove sarei stato, stasera?» volle sapere Osborne.

«È venuto qui, ha fatto una breve ispezione ed è ripartito. È tutto accaduto dopo che lei se n’è andato. E questa è la pura verità. Lei non può saperne niente.»

«E il funzionario che avrei portato con me?»

«Se n’è andato con lei.»

«E chi era?»

«Una persona di cui si possa fidare. Intimidisca o corrompa qualcuno: basta che dica di essere venuto su da Londra e di esservi tornato assieme a lei. Deve togliersi d’impaccio e mantenere la sua influenza. Dobbiamo tutti dichiararci innocenti, se possibile. Lo ricostruiranno, come dice John, e ci deve essere almeno uno di noi di cui vengono ancora presi in considerazione i pareri.»

«E chi avrebbe fatto a pezzi il calcolatore?» chiese Fleming.

Il professore ebbe un piccolo sorriso soddisfatto. «La ragazza. Si può dare ad intendere che era impazzita e gli si è rivoltata contro, e che è stata colpita da una scarica elettrica mentre lo distruggeva, oppure che è morta per lo shock ritardato della sua punizione aggravato dal parossismo della pazzia che l’aveva presa: o qualsiasi altra cosa decidano, a piacer loro. Comunque è morta, e non può negarlo.»

«Siete sicuri che sia morta?» chiese Osborne a Fleming.

«Vuole esaminare il cadavere?»

«Lo chieda a me,» mormorò Judy con un’amara sensazione di nausea. «Tocca a me vederli morire tutti.»

«Bene.» Fleming si alzò e si rivolse a Reinhart. «E cosa avremmo fatto Judy e io?»

Il professore gli rispose tranquillo: «Voi non c’eravate. Per quello che si sa, abbiamo lasciato nella sala del calcolatore l’operatore con Miss Adamson. Se ne sono andati insieme ed è accaduto dopo.»

«Non reggerà,» disse Osborne. «Ci sarà un’inchiesta dell’accidente.»

«È la cosa migliore che possiamo fare.» Reinhart ebbe un piccolo brivido. «Da qualsiasi parte consideriate la cosa è un bel pasticcio.»

Sedevano attorno al tavolo, avvolti nei soprabiti, come a una seduta spiritica, aspettando che la notte trascorresse e la neve cessasse di cadere.

«Pensate che questa neve fermerà i treni?» chiese Osborne dopo un poco.

Reinhart piegò la testa da un lato ascoltando il rumore di fuori. «Non credo. Sembra che vada un po’ calmandosi.» Rivolse la sua attenzione a Fleming. «E tu che fai, John?»

«Judy e io torneremo in auto alla base. La strada era decente quando siamo venuti qui, poco fa.»

«Allora farai bene a partire subito,» disse Reinhart. «Fate finta di essere stati a fare una gita in macchina e andate dritti nelle vostre stanze. Non avete visto nulla e nessuno.»

«Bella serata per una gita in macchina!» Fleming si interruppe, preoccupato, il suo sguardo passò dall’uno all’altro di loro. «Mi spiace. Mi spiace veramente.»

Tornando guidò a naso sotto la neve sferzante. Judy puliva ogni minuto il parabrezza, ma la tempesta stava già diminuendo. Lasciò Judy al suo alloggio e si diresse al proprio. Era così stanco che non ce la faceva a uscire dalla macchina. Era circa l’una di notte e la base era addormentata e calma sotto il manto di neve. Quando aprì la porta, l’interno del suo alloggio gli parve più buio che mai, in contrasto con il terreno bianco di neve, di fuori. Camminò a tentoni, lungo il muro, cercando l’interruttore della luce, e quando lo toccò un’altra mano, una mano bendata, si posò sulla sua.

Per un attimo fu preso da un panico folle, poi respinse la mano e accese la luce.

Era André, che teneva le mani bendate, l’una nell’altra, e gemeva: sembrava terribilmente pallida e sconvolta, ma non era morta. Per un attimo la fissò incredulo, poi chiuse la porta e si diresse alla finestra per tirare le tende.

«Siedi e dammi le mani.» Prese da un armadietto delle bende e un tubetto di linimento, e cominciò gentile e metodico a sostituire la rozza fasciatura di lei.

«Non pensavo che ci fosse qualche possibilità che fossi viva,» le disse, mentre la medicava. «Ho visto il voltmetro.»

«L’hai visto?» sedette sul letto porgendogli le mani.

«Sì, l’ho visto.»

«Allora sei stato tu.»

Le guardò il viso, pallido, sconvolto. «Se avessi pensato che eri ancora viva…»

«Avresti fatto fuori anche me.» Lo disse senza astio, una semplice dichiarazione di fatto. Poi, in una fitta di dolore, chiuse per un attimo gli occhi. «Ho un cuore più forte della… della gente normale. Ce ne vuole per mettermi fuori combattimento.»

«Chi ti ha medicato le mani?»

«Io.»

«A chi lo hai detto?»

«A nessuno.»

«Nessuno sa del calcolatore?»

«Non credo.»

«Perché non sei andata a dirglielo?» Era sempre più sbalordito. «Perché sei venuta qui da me?»

«Non sapevo cosa sarebbe accaduto, cosa era accaduto. Quando rinvenni, in un primo momento non potei pensare a nulla salvo che alle mani, che mi facevano un male terribile. Poi mi guardai attorno e vidi che era tutto distrutto.»

«Avresti potuto chiamare le sentinelle.»

«Non sapevo che fare: non avevo più direttive. Mi sentivo perduta senza il calcolatore. Sai che è completamente inservibile?»

«Lo so.»

Gli occhi ardevano nel pallido viso. «Riuscivo a pensare solo che dovevo trovarti. E alle mie mani. Le ho bendate e sono venuta qui. Non ho detto nulla alle sentinelle. E siccome non eri qui, ho aspettato. Cosa accadrà, ora?»

«Lo ricostruiranno.»

«No!»

«Non lo vuoi?» le chiese, sbalordito. «E cosa è accaduto del tuo ‘fine superiore’? Della tua forma di vita più alta?»

André non rispose. Quando Fleming ebbe finito di legare le bende lei chiuse gli occhi, contro le fitte, e John vide che tremava.

«Sei gelata, vero?» mormorò, toccandole la fronte. Prese la trapunta dal letto e gliel’avvolse attorno alle spalle. «Tienila su.»

«Pensi che lo ricostruiranno?»

«Certamente.» Trovò una bottiglia di whisky e riempì due bicchieri. «Adesso butta giù questo. Non avranno me ad aiutarli, ma avranno te.»

«Mi costringeranno a farlo?» Sorseggiò il whisky e lo guardò con occhi ansiosi, brucianti.

«Sarà necessario che ti costringano?»

André quasi rise. «Quando ho visto il calcolatore tutto a pezzi, sono stata così felice!»

«Felice?» chiese John smettendo di bere.

«Mi sono sentita libera. Mi sono sentita…»

«Come la greca Andromeda quando Perseo ne spezzò le catene?»

Non ne era molto sicura, André. Gli restituì il bicchiere. «Quando il calcolatore funzionava, lo odiavo.»

«Odiavi noi.»

Scosse il capo. «Detestavo quella macchina e tutto quel che la riguardava.»

«E allora perché…?»

«Perché la gente si comporta come fa? Perché ci si sente costretti. Perché si è legati da quelle che pensiamo siano le necessità logiche al nostro lavoro, alla nostra famiglia o alla nostra patria. Tu pensi che questi legami siano emotivi? Il legame più saldo è la logica che non si può contraddire. Lo so.» La sua voce tremò facendosi più incerta. «Facevo quel che dovevo fare, e ora la logica è sparita e io non so come agire… Non lo so.»

Fleming le si sedette accanto. «Avresti potuto dirlo prima.»

«L’ho detto ora.» Lo guardò dritto negli occhi. «Sono venuta da te.»

«È troppo tardi.» Fleming abbassò lo sguardo sulla garza e le bende della mano di lei, pensando ai segni che ancora André portava della volontà della macchina. «Nulla al mondo potrà impedir loro di ricostruirla.»

«Ma non possono, senza il codice del progetto.»

«Che esiste ancora.»

«Non l’hai…» Anche se Fleming avesse dubitato delle sue affermazioni fino ad allora, non si poteva mettere ora in dubbio l’angoscia della voce e degli occhi di André.

«Non ho potuto aprire la cassaforte, e l’unica chiave l’ha Quadring.»

André frugò nella tasca della sua giacca a vento. «Io ne ho una.»

«Mi avevano detto che nessuno ne aveva un’altra.»

Lei tirò fuori la chiave, sussultando al contatto delle bende con il tessuto. «Nessuno ne ha un’altra, salvo me, e questo nessuno lo sapeva.» Gliela porse. «Va’ a terminare l’opera.»

Era così facile e così impossibile: ecco la cosa di cui aveva più bisogno e ormai non poteva più tornare al calcolatore per usarla.

«Devi andare tu,» disse. Lei si strinse maggiormente nella trapunta, ma Fleming gliela scostò e la prese per le spalle. «Se lo odii veramente, se vuoi davvero essere libera, non devi fare altro che entrare, aprire la cassaforte murale, e prendere il messaggio originale, che è su nastro, e i miei calcoli, che sono su dei fogli, e il programma, che è su schede perforate. Fa’ un falò di tutte le carte e, quando ha preso fuoco, puoi buttarci su tutti i rotoli magnetici, così non se ne parla più. Poi te ne esci alla svelta.»

«Non posso.»

La scosse, e André si lamentò un poco per il dolore. «Devi assolutamente.»

Era agitatissimo, e non si fermava a riflettere alle conseguenze per lei e per se stesso, o al destino di tutti loro, ora che André era viva; ma pensava soprattutto al fatto essenziale, immediato.

«Puoi passare oltre le sentinelle senza che ti facciano domande. Hai bisogno di questi per nascondere la fasciatura.» Prese un paio di grossi guanti da guida dal cassetto e cominciò ad infilarglieli.

«No, per piacere!» Quando i guanti le toccarono la fasciatura tremò, ma lui continuò a infilarli molto piano, con delicatezza.

«Puoi fare un falò sul pavimento. Ti darò dei fiammiferi.»

«Non mandarmici. Non farmi andare là di nuovo.» Gli occhi le bruciavano per la paura, e il viso, nonostante il whisky, era ancora pallido ed estenuato.

«Puoi.» Le ficcò i fiammiferi in tasca, e la spinse gentilmente verso la porta. L’apri, e là, davanti a loro, si stendeva la terra bianca e la notte nera. La neve aveva smesso di cadere e il vento era sparito. Le luci della base risplendevano, gelide, e si poteva appena vedere il profilo degli edifici, scuri contro il terreno, con un’infarinatura di bianco sui tetti. «Puoi farlo,» disse.

André esitò, e lui la prese per un braccio. Dopo un minuto la ragazza usciva nella neve diretta all’edificio del calcolatore. Fleming andò con lei fino a dove poteva. Quando furono quasi in vista delle sentinelle, le diede un colpetto sulla spalla.

«Buona fortuna,» le disse, e tornò riluttante al suo alloggio.

La temperatura si era abbassata e c’era un freddo gelido. Fleming si accorse di avere i brividi, così chiuse la porta e andò alla finestra, e, tirata la tenda, vi si appoggiò per guardare fuori. Fino a quel momento non aveva sentito la fatica delle ultime ore, ma mentre se ne stava lì in attesa, gli piombò addosso una grande onda di stanchezza. Desiderava enormemente sdraiarsi sul letto, dormire, e svegliarsi per scoprire che tutto era finito: cercava di immaginare quel che la ragazza stava facendo, per scoprire le alternative di quello che sarebbe potuto accadere, di quel che sarebbe stato il risultato, ma la sua mente non riusciva ad andare oltre gli avvenimenti della serata e l’immagine della diafana figura di lei che si allontanava sulla neve.

Non riusciva a scaldarsi. Accese la stufetta elettrica, e si versò un altro whisky; avrebbe voluto non averne bevuto tanto in passato, ora avrebbe fatto più effetto; fece vari propositi sul proprio futuro e su quello di Judy, se mai fossero usciti da quella storia. Appoggiandosi con le braccia al davanzale della finestra, attese per quello che gli parve un tempo lunghissimo, fissando l’intatta immobilità della notte.

Verso le tre la neve riprese a cadere, non tempestosa, ora, ma calma e regolare, e le lampade che restavano accese per tutta la notte, qua e là nella base, divennero sempre più confuse dietro i fiocchi di neve che cadevano bianchi. Per un po’ non fu sicuro se era fumo quel che vedeva contro il fanale vicino all’edificio del calcolatore, o se fosse solo la foschia dovuta alla nevicata; poi sentì suonare una campana d’allarme, e udì le grida eccitate delle sentinelle. Alzatosi il bavero del soprabito, aprì la finestra e subito poté sentire e vedere più chiaramente. Era fumo, senza possibilità di errore.

L’istinto lo spingeva a correre fuori, e a vedere di persona quel che era accaduto, a impedire che si domassero le fiamme, ma sapeva che non poteva far altro che contare sulla confusione e sul buio per dare tempo al fuoco e alla ragazza. Con un fumo come quello la sala del calcolatore doveva essere un inferno, in quel momento, e c’erano molte possibilità che nulla ne restasse, forse nemmeno André. D’improvviso si sentì invaso da emozioni contrastanti: certo, aveva voluto che se ne andasse e se ne stesse lontana, eppure l’idea di mandarla a morte non gli era venuta in mente. Una parte di lui voleva che la ragazza vivesse e si sentiva responsabile di lei in misura soffocante. I tre quarti di lei, o quel che era, che lui riusciva a capire, erano una creatura con sentimenti e paure ed emozioni che lui aveva collaborato a creare e che, ora che il cordone tra lei e l’intelletto che la guidava era stato tagliato, era in un limbo e forse lui solo poteva tirarla fuori e salvarla. Certo, se non era già morta.

La sirena d’allarme della base risuonò all’improvviso, lugubre e minacciosa, e tutte le luci del recinto sembravano avanzare e danzare dietro la nebbia dei fiocchi di neve. Oltre il gemito delle sirene sentiva i motori delle auto mettersi in moto, e vedeva il raggio bianco di un riflettore levarsi tagliente, improvviso, dall’alto della torre principale di guardia, e cominciare a muoversi avanti e indietro lentamente per la base.

Immaginava la marea in tensione e i comandi che si increspavano come un’onda attraverso il centro: il telefono della sentinella chiamare la sala di guardia, il comandante delle sentinelle telefonare a Quadring, l’ufficiale di turno alle pattuglie di sicurezza, alla squadra antincendio, alle sentinelle del recinto, e Quadring telefonare a Geers, e forse Geers a Londra, a un ministro assonnato e a un comandante di zona che si sarebbe trascinato in pigiama, fuori dal letto, per sventare qualsiasi manovra di sabotaggio fosse stata messa in azione.

Si sforzava di vedere cosa accadesse dietro la cortina di quei fiocchi leggeri e maledisse la sirena che copriva gli altri suoni. Un’autopompa sfrecciò oltre il suo alloggio, ruggendo e scampanando, e i suoi fari e il raggio del riflettore rivelarono le figure di altre persone in corsa, gente imbacuccata in cappotti militari che si abbottonavano correndo, e soldati con fucili automatici e mitragliatori. Un’altra autopompa passò, un Land Rover con un esploratore radar che girava in alto, poi le luci si spensero e la sirena finì di stridere, lasciando un guazzabuglio di suoni e di movimenti soffocati dalla neve, nel buio. Un minuto dopo si aggiunse un secondo riflettore, che inondò lo spazio aperto tra i quartieri di abitazione e l’area dei tecnici dove si trovava l’edificio del calcolatore, e in quello spazio si addentrò un altro veicolo che correva veloce. Era una jeep aperta nella quale poté scorgere chiaramente Quadring seduto di fianco all’autista che parlava in un telefono da campo. Di fronte a essa una sola figura attraversava lo spiazzo, e per una frazione di secondo pensò che si trattasse della ragazza; poi vide che era Judy, con un soprabito che le svolazzava dietro le spalle e gli scuri capelli scompigliati, attorno al viso. La jeep si fermò e Quadring le parlò brevemente, poi l’autista riavviò la macchina e Judy attraversò dietro di essa lo spiazzo dirigendosi all’alloggio di Fleming.

Spinse la porta senza bussare, e prima di vederlo si guardò attorno agitatissima, per un istante.

«Cos’è accaduto?» ansimò.

Fleming le parlò senza distogliere lo sguardo dalla finestra. «È stata lei. Ci ha pensato André. Il codice sta bruciando.»

«André?» gli si avvicinò senza capire. «Ma è morta.»

Non c’era molto tempo per dare spiegazioni, ma lui le fece un breve riassunto, mentre Judy gli stava accanto, guardando fuori.

«Pensavo fossi stato tu,» disse, comprendendo solo una parte del racconto che lui le faceva. «Grazie a Dio.»

«Che ti ha detto Quadring?» le chiese.

«Mi ha detto solo di attenderlo qui.»

«L’ha trovata?»

«Non so. Non credo che ne abbia idea. Stava dando ordine alle sentinelle di sgombrare il campo e di sparare a vista se qualcuno avesse disubbidito.»

Il suono delle grida e dei veicoli in movimento si faceva sempre più smorzato: qualunque cosa stesse accadendo, si svolgeva all’altra estremità della base. La colonna di fumo che si levava dall’edificio del calcolatore si era gonfiata e ispessita, e dal centro guizzava una lingua di fuoco chiaramente visibile tra le macchie bianche dei riflettori. Fleming e Judy guardavano e ascoltavano senza parlare, poi, dalla confusione che avevano davanti a loro, provenne il colpo secco di un fucile, seguito da un altro e da un altro ancora.

Fleming si irrigidì.

«Dici che l’hanno scoperta?» chiese Judy.

Non rispose. Lo spazio di fronte all’alloggio adesso era deserto. Il riflettore, che si era allontanato, tornò a muoversi all’indietro, gettando una lama obliqua di luce confusa, ma in principio nulla si mosse nel suo raggio, salvo la neve che cadeva. Poi, in quella terra di nessuno, giunse una figuretta pallida e incerta che incespicò uscendo dall’ombra tra due edifici.

«André!» sussurrò Judy.

La ragazza un po’ correva, un po’ vacillava, senza direzione. Fece una piccola corsa nel raggio del riflettore, rimanendo per un attimo abbagliata, e tornò indietro. Pareva che la gente del riflettore non l’avesse vista, ma risuonò un’altra fucilata, più vicino a loro, e tra le case fischiò un proiettile.

Le dita di Judy si strinsero sul braccio di Fleming. «La uccideranno!»

Liberatosi di lei, Fleming si volse e corse verso la porta.

«John, non andare.»

«Sono stato io a mandarla.» Raccolse la grossa pila che stava accanto al letto e uscì, senza volgersi indietro. Judy lo seguì fino alla porta, ma all’improvviso lui era sparito nella nevosa oscurità tra le baracche.

Si tenne al riparo degli alloggi il più possibile, poi spiccò un balzo attraverso il raggio di luce fino all’oscurità sull’altro lato. Questa volta l’equipaggio del riflettore era in guardia. Il raggio bianco si mosse insieme a lui e inondò di luce gli edifici circostanti. Ma questo servì solo ad aiutarlo. Correndo, poté vedere la ragazza appoggiata, senza forze, a un muro di fronte a lui. La neve rendeva difficile procedere, ma fece in modo di continuare nella sua corsa fino a raggiungerla e, tirandola su di peso, la trascinò oltre l’angolo, nel buio.

Dapprima lei non lo riconobbe: si stringevano ansimanti l’uno all’altro e lui con un braccio la sosteneva.

«Sono io,» le mormorò, e ricordandosi della fiasca che aveva con sé, la tirò fuori e le fece bere a forza quello che rimaneva del whisky. Le andò di traverso, deglutì e poi con uno sforzo riuscì a stare in piedi da sola.

«Ce l’ho fatta,» disse, e sebbene fosse troppo buio per vedere il suo viso, Fleming sapeva che sorrideva.

«Come hai fatto a uscire?»

«Per una finestra sul retro.»

«Sssst!» Le mise un dito sulle labbra e la tenne stretta a sé. Nello spazio aperto che aveva appena attraversato, il raggio del riflettore ondeggiava avanti e indietro, e un gruppo di uomini in tenuta da combattimento li superarono camminando a due a due, guardando da una parte e dall’altra, i fucili imbracciati. Ritornare al suo alloggio era impossibile, e nascondersi in un altro qualsiasi punto del campo significava con ogni probabilità che sarebbero stati colti di sorpresa e sforacchiati da una scarica di pallottole prima che quelli che sparavano avessero il tempo di pensare a quanto facevano. Persino arrendersi voleva dire andare incontro alla morte, nel buio e nell’isterismo di quella notte. Gli sembrava che la loro unica speranza fosse quella di rimanere liberi finché non si facesse giorno, e le ricerche divenissero meno frenetiche e più controllate.

Da dove si trovavano c’era solo una strada per raggiungere la barriera del recinto senza attraversare il raggio dei riflettori, e li avrebbe portati allo sbarramento sul sentiero della scogliera che conduceva giù al molo della baia. Un ricordo, un ricordo molto lontano, gli tornò alla mente, occupandogliela, cosicché tutti i suoi pensieri si rivolsero al molo e a una barca. Passò un braccio attorno alla vita di André per sostenerla con forza.

«Vieni,» le disse. Per metà la portò, per metà la condusse lungo le strisce di terreno coperte dalla neve tra gli edifici, zigzagando dal riparo di uno al riparo di un altro, girandosi ogni volta che sentiva delle voci e cercando una nuova strada. Sembrava impossibile che non li scoprissero da un minuto all’altro, ma la neve che cadeva li nascondeva e quella sul terreno soffocava il rumore dei loro passi. André respirava affannosamente, ed era chiaro che non avrebbe potuto continuare per molto; lui si ricordò che quando fossero giunti alla scogliera, avrebbero trovato il recinto teso davanti a loro; dopo la morte di Bridger era stato rinforzato e certamente al cancello che dava sul sentiero ci sarebbe stata una sentinella. Di fronte a questo, la situazione gli parve senza via d’uscita, ma qualcosa nel profondo della sua mente lo spingeva ad andare avanti, ed egli si trascinava, mezzo accecato dalla neve, mentre la ragazza si abbandonava pesantemente su di lui e incespicava al suo fianco. Poi ricordò cosa stava cercando.

Nei giorni precedenti degli operai erano stati al lavoro nella parte del recinto che dava sulla scogliera, a sgomberare il terreno per un nuovo edificio che doveva venire costruito all’interno del filo spinato: avevano un bulldozer che lasciavano sul luogo quando smettevano di lavorare. Questo forse sarebbe stato troppo freddo per avviarsi, ma d’altra parte era progettato per stare all’aria aperta tutta la notte e poter ugualmente ripartire il mattino. Valeva la pena di tentare, se ci fossero potuti arrivare.

Quando raggiunsero l’ultimo edificio, anche lui respirava a fatica, e c’erano almeno cinquanta metri di prato scoperto da attraversare prima di raggiungere la sagoma scura del bulldozer. Si piegò con la ragazza dal muro che dava sul mare e inspirò penosamente grandi boccate di aria fredda. Non fece alcun tentativo di parlare e sembrava che lei non se lo aspettasse. O si fidava di lui senza fare domande o era troppo stanca per pensare; o ambedue le cose. Una pattuglia di ronda passò tra loro e il recinto, un furgone armato, con un riflettore montato sulla cabina e le figure indistinte di un plotone di uomini sul retro. Poi la zona piombò nella calma.

«Ora,» disse Fleming, accennando davanti a loro e, sostenendola con le braccia, corse con lei attraverso il prato coperto di neve. Prima che ne avessero attraversato metà André era scivolata due volte e per l’ultima ventina di metri dovette portarla a braccia. Quando giunsero al bulldozer gli sembrava che la testa e il petto gli scoppiassero, e quando la depose a terra, André si abbandonò sul terreno con un gemito.

Fleming si arrampicò sulla macchina e si guardò attorno. Evidentemente nessuno li aveva visti e lui poteva solo sperare che, se il motore si fosse avviato, lo si confondesse con una delle macchine del servizio di sicurezza.

Il motore, al primo giro della chiavetta, partì, e dopo qualche prudente starnuto Fleming lo lasciò andare al minimo per un poco, mentre scendeva per fare salire André. In principio lei non voleva.

«Vieni,» ansimò. «Sbrigati. Siamo in salvo.»

La voce di lei giungeva debolissima. «Lasciami, non preoccuparti di me.»

La tirò su di peso e quasi senza sapere come la spinse nello spazio vicino al sedile del guidatore.

«Adesso tienti forte,» le disse, facendola appoggiare a sé. Ormai il camion di pattuglia aveva probabilmente fatto a metà il giro del recinto e stava tornando verso di loro. A quel punto probabilmente Quadring era già andato al suo alloggio, in cerca di Judy, e aveva appreso che lui e Andromeda erano in fuga. In quel momento la sala del calcolatore era probabilmente una massa di cenere e brace fradicia e fumante e il messaggio proveniente da miliardi di miglia di distanza, e tutto quel che ne era derivato, era sparito per sempre. Quel che ora bisognava fare era portare via la ragazza; nasconderla e farla vivere da qualche parte, in qualche modo. Si mise a cavalcioni sul sedile, posò il piede sulla frizione e inserì la marcia.

Quando lasciò andare la frizione il bulldozer balzò in avanti e quasi affondò nella neve, ma lo tenne forte e lo spinse pesantemente verso il recinto. Dietro di sé poteva vedere avvicinarsi una luce, ma era troppo tardi per fermarsi. Schiacciò l’acceleratore e si tenne forte, mentre il muso del bulldozer si conficcava nel recinto. La rete metallica si schiantò lacerandosi e precipitò schiacciata dai cingoli. Si formò uno squarcio nel quale passarono.

Spense il motore e saltò giù, trascinandosi la ragazza con sé. La massa del bulldozer si stagliava nel recinto abbattuto e ostruito dalla macchina, e lui e André erano giù, nella neve. La condusse con precauzione verso il bordo della scogliera, e, piegandosi in due, corsero a nascondersi dietro alcuni cespugli che proteggevano l’estremità del sentiero del molo. La luce dell’automezzo che si avvicinava andava facendosi sempre più forte e da dietro i cespugli la vide illuminare il bulldozer. Era troppo abbagliato dai fari e dalla neve per scorgere il furgone, e il suo timore era che fosse il camion di pattuglia zeppo di uomini, poi la luce si allontanò e la neve per un momento parve diradarsi: vide che si trattava del furgone con il radar che perlustrava invano il reticolato mentre il radar girava inutilmente sopra la cabina.

Prese André per un braccio e la condusse giù per il sentiero scavato nella roccia. Alla seconda curva accese la pila e procedette abbastanza lentamente da permetterle di seguirlo dappresso senza aiuto. In qualche modo André aveva raccolto un po’ di energia e gli si teneva vicina, stringendogli la mano. In fondo al sentiero non c’erano sentinelle e il molo era completamente silenzioso, a eccezione della risacca contro le pietre. Sembravano lontani mille miglia dalla confusione sopra di loro, e questo, in un certo senso, rendeva più difficile andare avanti.

Durante l’inverno tutte le piccole imbarcazioni venivano tratte a riva e disarmate; solo la lancia di servizio, una piccola imbarcazione con motore entrobordo, era lasciata in mare e si sfregava battendo contro il fianco della banchina. Fleming l’aveva già usata, in quei mesi estivi, quando voleva andarsene per essere solo, e la conosceva con quella specie di odio-amore che un fantino può provare per un vecchio cavallo duro e ostinato. Spinse André all’interno, liberò le funi di poppa e di prua, e cercò a tentoni con la pila la manovella di avviamento. Non era facile come il bulldozer da mettere in moto; cercò di avviarla finché il sudore, misto alla neve, gli colò sul viso, e cominciò a disperare di poterla mai mettere in moto. André si raggomitolò sotto una delle frisate, mentre la neve cadeva su di loro e si scioglieva raggiungendo l’acqua che frusciava nella sentina. Non gli fece domande, e lui continuava ad agitarsi, ansimando e imprecando contro la manovella arrugginita: ma di quando in quando emetteva dei piccoli gemiti. Lui non diceva nulla, ma insisté a girare finché con uno scoppiettìo il motore si mise in moto.

Lo lasciò andare al minimo per un poco, mentre la barca vibrava e il tubo di scappamento tossiva a pelo dell’acqua, poi inserì l’albero dell’elica e aprì la valvola a farfalla. Il molo disparve subito, e si ritrovarono soli nell’immensità del mare. Fleming non era mai uscito in mare con la neve, prima di allora. Era meravigliosamente calmo. I fiocchi, cadendo, facevano mulinello attorno a loro, sciogliendosi quando arrivavano alla superficie dell’acqua. Sembrava davvero che facesse più caldo di quando erano al riparo della baia.

Di fronte al volante, che sembrava quello di un vecchio macinino, c’era una piccola bussola, e Fleming la mise in posizione con una mano, mentre con l’altra teneva la torcia alta a illuminare il quadrante. Conosceva il contorno dell’isola senza doversi concentrare, e sapeva grosso modo come destreggiarsi con le correnti. Con quel mare calmo poteva immaginare la velocità della barca, e, controllando ogni pochi minuti l’orologio poteva fare un calcolo approssimativo della distanza. L’aveva fatto così spesso in precedenza che calcolò di avere buone possibilità di fare un approdo alla cieca. Sperava solo di sentire le onde infrangersi contro le rocce dell’isola a una distanza possibile prima che ci andassero contro.

Gridò ad André di andare a prua e di guardar fuori, ma in principio lei non rispose. Lui non osava per un solo attimo abbandonare volante e bussola.

«Vai avanti, se puoi,» le gridò ancora, «e da’ un’occhiata fuori.»

La vide dirigersi verso prua.

«Non sarà una cosa lunga, ora,» disse, con più speranza di quanta ne sentisse. La barca avanzò con regolarità per dieci, quindici, trenta minuti. Più avanti trovarono una leggera risacca, si abbassarono e rollarono un po’, ma la neve smise di cadere e la notte sembrava farsi meno scura. Fleming si chiedeva se erano abbastanza lontani dalla scogliera da lasciare una traccia sullo schermo radar di qualcuno, e si chiese anche cosa stesse accadendo alle loro spalle, alla base, e cosa si stendesse davanti a loro nell’oscurità deserta. Gli occhi gli dolevano, e così la testa e la schiena, anzi, tutto il suo corpo, e si costringeva a pensare alle bruciature della ragazza e alle sue mani doloranti per sentirsi meglio.

Dopo circa quaranta minuti lei gli gridò qualcosa. Abbandonò la manovella e lasciò che la barca scivolasse lentamente verso una forma più scura che le si stendeva davanti: poi lasciò girare il timone così che si trovarono a fiancheggiare la liscia superficie rocciosa dell’isola. Procedevano molto lentamente, quasi a naso, e stavano ad ascoltare il suono dei frangenti davanti a loro, fino a che, qualche minuto più tardi, la parete di roccia degradò e udirono il lieve sciacquio delle onde contro la spiaggia.

Fleming lasciò che la barca si incagliasse e trasportò la ragazza sulla sabbia, bagnandosi nell’acqua salata che gli arrivava al ginocchio. Vi era ora un luce precisa nel cielo, non certo l’alba, ma forse la luna, ed egli poté riconoscere la stretta insenatura sabbiosa che aveva scoperto con Judy quel pomeriggio, all’inizio della primavera, tanto tempo addietro, quando avevano trovato nella caverna le carte di Bridger. Fu un ricordo triste e al tempo stesso confortante: sentì, in modo irrazionale, che era arrivato a casa.

Si guardò attorno in cerca di un luogo dove riposare. Era troppo freddo per dormire all’aperto, anche se avessero potuto farlo, perciò si diresse all’entrata della caverna e percorse la galleria che aveva esplorato con Judy. Non poteva sostenere più André, ma procedeva lentamente, parlandole, volgendosi un poco per farle coraggio.

«Mi sembra di essere Orfeo,» disse tra sé. «Sto mescolando i miti. Ero Perseo poco fa.»

Si sentiva la testa leggera e vagamente stordita, per la fatica; sbagliò strada due volte nelle gallerie buie. Stava cercando l’ampia grotta dove avevano trovato la pozza d’acqua, poiché ricordava un fondo sabbioso dove avrebbero potuto riposare; ma dopo un po’ si accorse che aveva preso una strada sbagliata. Si volse, girando la torcia, per dirlo ad André, ma lei non c’era.

Con terrore improvviso rifece incespicando la strada già percorsa chiamandola e illuminando con la pila le volte della galleria. La sua voce gli tornava in un’eco derisoria e quello era l’unico suono oltre ai suoi passi sulle rocce. All’entrata della grotta si fermò e guardò ancora indietro. Era assurdo, si disse, perché non erano andati molto lontani. Per la prima volta provò un attimo di risentimento verso la ragazza; cosa veramente illogica, ma la logica per lui aveva sempre meno importanza. Mentre ripercorreva la galleria, notò che vi erano più diramazioni di quante ne ricordasse: pareva far parte dell’ossessivo mistero di quel luogo: le gallerie si moltiplicavano silenziosamente nel buio. Ne esplorò alcune ma dovette tornare sui propri passi perché tutti i passaggi, in un modo o nell’altro, diventavano impraticabili; e infine, improvvisamente, fu nell’alta grotta che non aveva trovato prima.

Si fermò e la chiamò ancora, facendo ondeggiare la torcia lentamente da una parete all’altra; senza possibilità di dubbio sentì che André doveva essere là: non sarebbe potuta andare molto più lontano stanca com’era nell’oscurità. Abbassò il raggio della torcia sul terreno sabbioso e vide le sue impronte. Le impronte lo portarono al centro della caverna e là si arrestò, bruscamente: un brivido di orrore gli corse dalla nuca per tutto il corpo. L’ultima impronta era sulla fanghiglia delle rocce sull’orlo della pozza e, a pelo dell’acqua, galleggiava uno dei suoi guanti. Null’altro.

Non trovò mai null’altro. Le avevano insegnato tante cose, pensava amaramente, ma non a nuotare. Fu colto da una fitta acuta di dolore e di rimorso. Passò l’ora successiva in una morbosa esplorazione della caverna, senza speranza; poi tornò stancamente alla spiaggia e là rimase, appoggiato tra due rocce, fino all’alba. Non temeva di addormentarsi. Aveva un’immensa, quasi delirante paura di qualcosa di indicibile che uscisse dall’imboccatura della galleria, qualcosa di inestinguibile che veniva da milioni di chilometri di distanza, qualcosa che gli aveva parlato per la prima volta in una notte scura come quella.

Ma non uscì nulla dalla galleria, e dopo la prima ora, o poco più, di luce, dal mare una scialuppa avanzò verso di lui. Egli non si mosse, neppure quando la scialuppa raggiunse l’isola e l’equipaggio lo trovò, lo sguardo perduto nel mutevole aspetto del mare.

FINE