Fredric Brown

Vieni e impazzisci

1

Quel mattino l’aveva sentito svegliandosi. E ora, mentre stava guardando fuori dalla finestra della redazione, nella luce del primo pomeriggio che scendeva obliqua tra gli edifici formando un disegno di luci e ombre, lo sentiva con intensità anche maggiore. Presto, forse quel giorno stesso, sarebbe accaduto qualcosa d’importante. Non avrebbe saputo dire se piacevole o spiacevole… ma aveva oscuri sospetti. Giustificati. Infatti è raro che qualcosa di piacevole capiti inaspettatamente, mentre i guai piovono da tutte le direzioni nei modi più impensati.

— Salve, signor Vine — disse una voce. Si voltò lentamente, strappandosi alla sua contemplazione. Anche questo era strano, perché non aveva l’abitudine di muoversi adagio: ad un giovanotto piccolo e nervoso, con i riflessi scattanti di un gatto.

Ma quella volta qualcosa lo aveva costretto a voltarsi con lentezza. Era come se sapesse di contemplare quel chiaroscuro pomeridiano per l’ultima volta.

— Sì, Red.

— Sua grazia vuole vedervi — disse l’impiegato lentigginoso della redazione.

— Adesso?

— No. Quando vi fa comodo. Magari un giorno della settimana prossima. Se avete da fare, fissategli un appuntamento.

Lui premette il pugno contro il mento di Red, che barcollò, fingendosi terrorizzato.

Poi si alzò e si avvicinò all’apparecchio refrigerante. Premette il pulsante e l’acqua scese gorgogliando nel bicchiere di carta.

Harry Wheeler passava di lì. — Come va la vita, Napo? — domandò. — Che succede? Vai a prenderti una ramanzina?

— So come cavarmela, io.

Bevve, appallottolò il bicchiere e lo gettò nel cestino della carta straccia. Poi si diresse verso la porta con la scritta PRIVATO, ed entrò.

Walter J. Candler, il direttore del giornale, alzò la testa dalle carte che aveva davanti a sé sulla scrivania e disse affabilmente: — Sedete, Vine. Un attimo, e sono da voi. — Poi abbassò di nuovo lo sguardo.

Lui si accomodò sulla sedia di fronte a Candler, sfilò una sigaretta dal taschino della camicia e l’accese. Lanciò un’occhiata al retro del foglio che il capo stava leggendo, ma non c’era scritto niente.

Finalmente l’altro posò il foglio e lo guardò. — Vine, ho qualcosa di assurdo per voi. Siete in gamba, in cose del genere.

Lui sorrise, con aria perplessa. — Se questo è un complimento, grazie.

— Lo è senz’altro. Avete svolto servizi molto difficili per il nostro giornale. Ma questo è diverso. Finora non ho mai obbligato nessun reporter a fare qualcosa che non mi sentissi di fare io stesso. Io questo servizio non lo accetterei, così non ve lo impongo.

Candler raccolse il foglio che prima stava leggendo, poi lo posò di nuovo, senza nemmeno guardarlo. — Mai sentito parlare di Ellsworth Joyce Randolph?

— Il primario dell’ospedale psichiatrico? Sì, l’ho conosciuto. Per caso.

— Che impressione vi ha fatto?

Si rese conto che il direttore lo stava fissando attentamente. Quella non era una domanda superficiale. — In che senso? — disse, cercando di prendere tempo. — Volete sapere se è un tipo di buon cuore, se è un buon politicante, se tratta bene i pazienti… o che altro?

— Se vi sembra sano di mente.

Lui guardò Candler, e vide che non scherzava. La sua faccia era del tutto inespressiva.

Cominciò a ridere, poi si trattenne e si protese sopra la scrivania del direttore. — Ellsworth Joyce Randolph? — domandò. — State parlando di Ellsworth Joyce Randolph?

L’altro annuì. — Il dottor Randolph è stato qui stamattina e mi ha raccontato una strana storia. Non ha voluto che la pubblicassi. Mi ha pregato di farne prima controllare l’attendibilità dal nostro miglior reporter. Ha detto anche che se l’avessimo trovata credibile, avremmo potuto pubblicarla a caratteri cubitali, e in rosso per di più. — Candler sorrise con aria misteriosa e concluse: — Non ha tutti i torti.

Lui schiacciò il mozzicone della sigaretta ed osservò l’espressione del direttore. — Ma la storia è così assurda, che vi siete domandato se lo stesso Randolph non sia malato di mente.

— Proprio così.

— Perché si tratta di un servizio tanto difficile?

— Perché, secondo Randolph, il reporter dovrà compiere gli accertamenti nell’interno del manicomio.

— Travestito da infermiere o… da qualcos’altro?

— Da qualcos’altro.

— Oh!

Si alzò e si avvicinò alla finestra, voltando le spalle al direttore. Il sole era suppergiù nella medesima posizione, ma il gioco delle ombre nelle strade ora sembrava diverso. Ed anche il suo stato d’animo era diverso. Era quello che doveva capitare, l’aveva sentito. Si girò e disse: — No, porco Giuda! No.

Candler alzò impercettibilmente le spalle. — Non posso darvi torto. Non vi ho neppure chiesto di andarci. Al vostro posto, non ci andrei.

— Che cosa crede che stia accadendo nel suo manicomio, Ellsworth Joyce Randolph? Deve essere qualcosa di veramente assurdo, per farvi dubitare che abbia il cervello a posto.

— Non posso dirvelo, Vine. Gli ho promesso il segreto, sia che voi accettaste sia che rifiutaste l’incarico.

— Volete dire che se anche io accettassi… non saprei che cosa andrei a fare là dentro?

— Esatto. Altrimenti non sareste obiettivo. Potreste cercare qualcosa di preciso e credere di averlo trovato, anche se non ci fosse niente. Oppure potreste essere talmente prevenuto da rifiutare di riconoscerne l’evidenza.

Lui si staccò dalla finestra, si avvicinò alla scrivania e ci picchiò sopra un pugno.

— Al diavolo, Candler, perché proprio io? Lo sapete che cosa mi capitò tre anni fa!

— Certo. Un’amnesia.

— Un’amnesia! Proprio così. Ma non ho mai nascosto di non essere riuscito a superarla. Ho trent’anni, no? Ebbene, la mia memoria ne abbraccia solo tre. Sapete che effetto fa, sentirsi alle spalle un muro liscio?

«Oh, naturale… Io so benissimo che cosa sta dietro a quel muro, perché me lo dicono tutti. So di aver cominciato a lavorare qui come semplice impiegato dieci anni fa. Conosco la data e il luogo della mia nascita e so come ho perso entrambi i genitori e che faccia avevano, perché li ho visti in fotografia. So anche di non essere ammogliato e di non avere figli; tutti quelli che mi conoscevano me l’hanno confermato. Notate la finezza… tutti quelli che mi conoscevano, non tutti quelli che conoscevo! Io non conoscevo nessuno.

«Sì, mi sono sempre comportato bene. Uscito dall’ospedale (non ricordo neppure l’incidente che mi mandò a finire là!) potei tornare al mio lavoro, perché sapevo ancora scrivere articoli, anche se fui costretto a imparare di nuovo i nomi dei colleghi. Come se fossi un reporter appena assunto che entra per la prima volta nella redazione di un giornale, in una città straniera. E tutti erano maledettamente gentili con me.

Candler alzò una mano per fermare quel torrente di parole. — D’accordo, Napo — disse. — Non parliamone più. Non vedo proprio che cosa c’entri tutto questo con questa storia, ma avete detto di no e basta così. Non pensateci più.

Lui ormai si era calmato. — Non capite che cosa c’entri questo con la vostra storia? Mi chiedete, o meglio, ve lo concedo, mi suggerite di farmi dichiarare pazzo con tanto di certificato medico e di entrare in un ospedale psichiatrico in qualità di paziente. Quando… che fiducia può avere nella propria mente un individuo che non ricorda di essere andato a scuola, né quando ha conosciuto le persone con cui lavora quotidianamente, né quando ha iniziato a lavorare nel posto attuale… Insomma che non ricorda niente di quello che gli è accaduto prima degli ultimi tre anni?

Sferrò un altro pugno sulla scrivania, poi si sentì sciocco per averlo fatto. — Scusate — disse — non volevo inquietarmi così.

— Sedetevi — disse Candler.

— La risposta è sempre no!

— Sedetevi ugualmente.

Sedette, tirò fuori di tasca un’altra sigaretta e l’accese.

— Non avrei neppure voluto accennarvi — disse — ma ora devo farlo. Ora che avete parlato così. Non sapevo che vi crucciaste tanto per la vostra amnesia. Credevo che fosse acqua passata.

«Quando il dottor Randolph mi ha domandato qual era il nostro miglior reporter per affidargli quel servizio, io gli ho fatto il vostro nome. Gli ho parlato anche del vostro passato. Lui ricordava di avervi conosciuto, per caso. Ma non sapeva affatto dell’amnesia.

— È per questo che avete proposto me?

— Aspettate, Napo, lasciatemi spiegare. Ha detto che durante il vostro ricovero nell’ospedale psichiatrico vi avrebbe potuto sottoporre a un’applicazione di un nuovo tipo di elettroshock, in grado forse di rendervi la memoria. Ha assicurato che vale la pena di tentare.

— È sicuro della sua efficacia?

— No, ma ci sono buone probabilità; comunque non potrebbe farvi alcun male.

Lui schiacciò il mozzicone della sigaretta da cui aveva tirato non più di tre boccate e lanciò un’occhiataccia a Candler. Non c’era bisogno di parole, l’altro capì perfettamente che cosa volesse dire.

— Calmatevi, vecchio mio — disse il direttore — e non dimenticate che io ve ne ho parlato soltanto quando mi avete confessato che quel muro nella memoria è un tormento per voi. Non era un’arma segreta. Ve ne ho accennato solo per un senso di lealtà nei vostri confronti, e dopo che voi siete entrato in argomento.

— Lealtà!

Candler sì strinse nelle spalle. — Avete rifiutato, io mi sono dichiarato d’accordo. Allora ve la siete presa con me, mettendomi con le spalle al muro e costringendomi a dire qualcosa a cui avevo appena pensato. Dimentichiamo tutto. Come va quel caso di corruzione politica? Nessun indizio nuovo?

— Affiderete a qualcun altro il servizio nel manicomio?

— No. Voi eravate la persona adatta.

— Ma di che storia si tratta? Dev’essere davvero assurda per avervi fatto dubitare della sanità mentale di Randolph. È forse del parere che i pazienti dovrebbero mettersi al posto dei medici o qualcosa del genere? — Scoppiò a ridere, e riprese: — Naturalmente, non potete parlarmene. Davvero una splendida doppia esca! La curiosità… e la speranza di abbattere quel muro. Dunque, continuate. Se acconsentissi, per quanto tempo dovrei restare là dentro, e a che condizioni? Che probabilità avrei di uscirne, poi? E come farei ad entrare?

— Vine, ora non sono affatto sicuro di volervi affidare l’incarico. Lasciamo perdere tutto — disse Candler.

— Neanche per sogno. Comunque prima dovete rispondere alle mie domande.

— Come volete. Dovreste farvi ricoverare sotto falso nome, perché non rimanga alcuna traccia nel caso la faccenda non funzionasse. Se tutto andasse bene, potrete poi raccontare tutta la verità, compresa la complicità di Randolph nel farvi entrare e uscire dall’ospedale. Ormai il segreto sarebbe di dominio pubblico. La cosa potrebbe risolversi in pochi giorni. Comunque non restereste là più di due settimane.

— E quante persone, là dentro, oltre a Randolph, saprebbero chi sono io e perché mi trovo in quel posto?

— Nessuna. — Candler si protese sulla scrivania e allungò la mano sinistra, con quattro dita tese. — Quattro persone soltanto sarebbero al corrente della cosa — disse. Voi — e indicò il primo dito. — Io — e indicò il secondo. — Il dottor Randolph — toccò il terzo — e un cronista del nostro giornale — concluse abbassando l’ultimo.

— Non che abbia niente in contrario, ma perché ci vuole un altro reporter?

— Per fare da intermediario. In due modi. Prima vi accompagnerebbe da uno psichiatra, Randolph ve ne indicherà uno che potrete imbrogliare con discreta facilità, fingendo di essere vostro fratello, e lo pregherebbe di esaminarvi e rilasciarvi un certificato medico con la richiesta di internamento. Voi dovreste convincere lo specialista che vi ha dato di volta il cervello. Naturalmente ci vuole la dichiarazione di due medici per il ricovero. Ma Randolph firmerebbe la seconda. Il vostro sedicente fratello si rivolgerebbe poi a lui.

— E tutto questo sotto finto nome?

— Se preferite. Naturalmente, non c’è ragione perché sì debba usare questa precauzione.

— Ecco come la penso io. Naturalmente, niente pubblicità. Dire a tutti qui dentro che… Tranne a mio… ehm, in tal caso non potremmo sfoggiare un fratello perché Charlie Doerr del reparto tiratura, è mio primo cugino, il mio parente più stretto tuttora vivente. Potrebbe andare, no?

— Certo. E dovrebbe fare poi da intermediario. Venire a trovarvi in ospedale e portarne fuori tutto quello che potreste avere da mandarmi.

— E se dopo un paio di settimane non avessi trovato niente, chi mi farebbe uscire?

— Informerei Randolph. Lui vi esaminerebbe di nuovo, vi dichiarerebbe guarito e voi sareste libero. Tornerete qui, raccontando di esservi preso una vacanza. Ecco tutto.

— E che tipo di malattia mentale dovrei fingere di avere?

Gli sembrò che Candler mostrasse un certo imbarazzo. Finalmente si decise a parlare: — Be’, quel soprannome di Napo, non potrebbe sembrare naturale? Insomma, la paranoia, a detta di Randolph, è una psicosi caratterizzata dallo sviluppo di un delirio cronico sistematizzato e coerente, che si evolve lentamente, lasciando intatte le restanti funzioni psichiche. Il paranoico potrebbe essere sanissimo sotto ogni altro aspetto.

Lui guardò Candler, le labbra contratte in un debole sorriso. — Intendete dire che dovrei credere di essere Napoleone?

L’altro fece un gesto vago. — Scegliete la mania che preferite. Ma quella non andrebbe bene? Tutti in ufficio vi canzonano, chiamandovi Napo. E… — concluse debolmente — e tutto il resto.

Poi Candler Io guardò, deciso. — Allora, accettate o no?

Lui si alzò. — Credo di sì. Ve lo farò sapere domattina, dopo averci dormito sopra. Ma esigo la massima discrezione. Viva?

Candler annuì.

— Mi prendo un pomeriggio di libertà — disse lui. — Me ne vado in biblioteca a leggermi qualcosa sulla paranoia. E stasera andrò a parlare con Charlie Doerr. Va bene?

— Bene. E grazie.

Lui rise e si protese sopra la scrivania. — Vi confiderò un piccolo segreto — disse sottovoce — ora che le cose sono arrivate a questo punto. Ma non ditelo a nessuno. Io sono davvero Napoleone!

2

Prese giacca e cappello e uscì nel sole caldo, lasciando dietro di sé l’aria condizionata. Abbandonò il tranquillo manicomio della redazione, per entrare in quello ancora più tranquillo delle strade cittadine in un soffocante pomeriggio di giugno.

Spinse il panama all’indietro, verso la nuca e si passò il fazzoletto sulla fronte. Non sarebbe certo andato in biblioteca per farsi una cultura sulla paranoia; quella era una scusa per poter trascorrere in pace il pomeriggio. Aveva già letto tutto quanto c’era da leggere su quella malattia mentale, e su argomenti affini, più di due anni prima. Ormai era un esperto, in materia. Avrebbe potuto menare per il naso qualsiasi psichiatra, facendosi credere perfettamente sano… oppure no.

Si diresse verso il parco e sedette su una panchina all’ombra. Posò il cappello accanto a sé e si asciugò di nuovo la fronte.

Poi fissò l’erba di un verde lucente, i piccioni con la loro buffa andatura, uno scoiattolo rosso, che scendeva lungo il tronco di un albero e che, vedendolo, fece dietrofront, arrampicandosi velocissimo.

Ripensò alla barriera che l’amnesia aveva innalzato nella sua mente tre anni prima. Al muro che non era stato affatto un muro. La frase lo imbarazzava: affatto un muro. I piccioni sull’erba, ahimè… affatto un muro.

Non era un muro affatto: era uno spostamento, un cambiamento brusco. Una linea tesa tra due vite. Ventisette anni di una vita antecedente l’incidente. Tre anni di una vita successiva all’incidente.

Non era la stessa vita.

Nessuno lo sapeva. Fino a quel pomeriggio non aveva mai neppure accennato alla verità — se poi era la verità — con nessuno. Se n’era soltanto servito per concludere il colloquio con Candler, sicuro che quello l’avrebbe presa come una battuta di spirito. Ma anche così… bisognava stare attenti. Se si usa spesso una battuta del genere la gente comincia a sentirsi perplessa.

Per fortuna durante l’incidente automobilistico aveva riportato, tra le molte ferite, anche la frattura della mascella e solo grazie a quella era ancora libero e non rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Quando aveva ripreso conoscenza, quarantott’ore dopo che la sua macchina era andata a schiantarsi contro un camion a una quindicina di chilometri dalla città, si era trovato la faccia ingessata a metà, e questo gli aveva impedito di parlare per tre settimane.

Durante quelle tre settimane, malgrado il dolore e la confusione di cui erano state piene, aveva avuto occasione di riflettere. E aveva inventato il muro. L’amnesia, la comoda amnesia, tanto più credibile della verità che conosceva lui solo.

Ma la verità era proprio quella?

Eccolo spettro che lo ossessionava da tre anni a quella parte! Dall’istante stesso in cui si era svegliato nel candore di una camera d’ospedale e aveva scorto uno sconosciuto, vestito in maniera strana, seduto accanto a un letto di cui lui non aveva mai visto l’uguale in nessun ospedale da campo. Un letto sormontato da una strana struttura. Staccando lo sguardo dalla faccia dello sconosciuto per osservare il proprio corpo aveva visto che una gamba e tutte e due le braccia erano ingessate, e che la gamba, sollevata quasi ad angolo retto, era tenuta in posizione da una fune che scorreva in una carrucola.

Aveva aperto la bocca per domandare chi era, che cosa gli era successo, e si era accorto di avere ingessata anche la mascella.

Allora aveva fissato lo sconosciuto, sperando che avesse abbastanza buon senso di informarlo volontariamente, e l’altro aveva sorriso, dicendo: — Salve, George! Finalmente sei sveglio, eh? Ti riprenderai presto.

C’era qualcosa di strano In quella lingua… Finalmente era riuscito a riconoscerla. Inglese. Si trovava dunque in mano degli inglesi? Era una lingua che conosceva pochissimo, eppure capiva perfettamente quell’uomo. E perché lo chiamavano George?

Forse i suoi occhi avevano mostrato perplessità, un atroce smarrimento, perché l’altro si era chinato sul suo letto. — Sei ancora confuso George — aveva detto. Hai avuto un bel guaio. Sei finito, con il tuo coupé, contro un autocarro di ghiaia. Due giorni fa. E ora hai ripreso conoscenza per la prima volta. Stai meglio, ma dovrai restare in ospedale per qualche tempo, fino a che tutte le fratture si saranno saldate. Però non c’è niente di grave.

Poi era venuta un’ondata di dolore, che aveva spazzato via tutto, obbligandolo a chiudere gli occhi.

— Adesso vi faccio un’ipodermoclisi, signor Vine — aveva detto un’altra voce, nella stanza. Ma lui non aveva osato aprire gli occhi. Era più facile sopportare il dolore senza vedere.

Aveva avvertito la puntura dell’ago nel braccio, e poi più niente.

Tornando in sé — dodici ore dopo, come aveva saputo in seguito — si era ritrovato nella stessa cameretta, nel medesimo letto, ma questa volta una donna, in uno strano costume bianco, era ritta ai piedi del letto, intenta a leggere un foglio fissato a un pezzo di cartone.

Vedendolo aprire gli occhi, gli aveva sorriso. — Buongiorno, signor Vine. Spero che stiate meglio, ora. Vado a dire al dottor Holt che vi siete svegliato.

Si era allontanata, tornando dopo pochi minuti con un uomo vestito suppergiù come lo sconosciuto che l’aveva chiamato George.

Il dottore l’aveva guardato sorridendo. — Finalmente un paziente che non può lamentarsi e neppure scrivere! — aveva detto. Poi si era fatto serio. — Soffrite? Chiudete gli occhi una volta per rispondere di sì. Due volte se invece vi sentite bene.

Il dolore non era insopportabile e lui aveva abbassato le palpebre per due volte. Il dottore aveva annuito, soddisfatto.

— Quel vostro cugino — aveva detto — è venuto molto spesso a trovarvi. Sarà felice di sapere che ora siete abbastanza in forma per… ecco, per ascoltare, se non per parlare. Penso che non potrà farvi male vederlo stasera.

L’infermiera gli aveva rimboccato le coperte e poi — per fortuna! — se n’era andata col medico, lasciandolo solo a mettere un po’ di ordine nel caos dei suoi pensieri.

Ordine? Tutto questo era successo tre anni prima e non era riuscito ancora a riordinarli adesso.

Non riusciva a spiegarsi come avesse potuto capire perfettamente l’inglese, quella lingua barbara che conosceva appena. Come mai un incidente stradale l’aveva messo in grado di parlare correntemente una lingua quasi sconosciuta?

Un altro particolare inspiegabile, era quello del nome. George aveva detto l’uomo che si trovava al suo capezzale quando lui si era svegliato. Signor Vine aveva detto l’infermiera. George Vine era un nome inglese. Non il suo.

Ma c’era una cosa mille volte più sorprendente delle altre. Lo sconosciuto — il “cugino”, come lo chiamava il medico — gli aveva detto parlando dell’incidente: «Sei finito con il tuo coupé contro un autocarro pieno di ghiaia». E il fatto sorprendente, contraddittorio, era che lui sapeva che cosa fossero un coupé e un autocarro. Non che si ricordasse di averli mai guidati, e neanche dell’incidente, né di quello che era successo dopo. Ricordava solo di essere stato seduto sotto la tenda, a Lodi… e… non riusciva a capire come l’immagine di un’auto coupé, di un veicolo azionato da un motore a benzina, potesse sorgere nella sua mente, se quèl concetto non le era mai stato presente prima.

C’era un’assurda confusione tra due mondi. Uno era netto, chiaro e definito. Il mondo in cui aveva trascorso i suoi ventisette anni di vita, dove era nato il 15 agosto 1769, in Corsica; dove (così almeno gli era sembrato, la notte avanti, nella sua tenda a Lodi) si era coricato dopo la sua prima importante vittoria come generale dell’esercito inviato in Italia.

E, in contrasto con quello, c’era il mondo sconvolgente in cui s’era svegliato, dove tutto era candido e la gente parlava un inglese diverso dalla lingua che aveva sentito a Brienne, a Valenza, a Tolone, ma che capiva perfettamente e sapeva di poter parlare, non fosse stato perla mascella immobilizzata nel gesso. Il mondo dove lui si chiamava George Vine e dove, cosa più strana di tutte, si usavano parole che lui non conosceva, che non poteva assolutamente conoscere, e che tuttavia suscitavano immagini nella sua mente.

Coupé, autocarro. Erano entrambi (la parola gli si era presentata spontaneamente alla mente) automezzi. Si era concentrato sul significato della parola automezzo, sul particolare funzionamento di quel veicolo, e aveva subito trovato l’informazione. Il blocco del cilindro, gli stantuffi mossi dall’esplosione dei vapori della benzina incendiata da una scintilla di elettricità prodotta da un generatore…

Elettricità. Aveva riaperto gli occhi e fissato la lampada velata appesa al soffitto; sapeva (chissà come) che quella era la luce elettrica. Approssimativamente, sapeva anche che cosa fosse l’elettricità.

L’italiano Galvani… Sì, aveva letto di alcuni esperimenti fatti da Galvani, che però non avevano portato ad alcuna realizzazione pratica simile a quella della lampadina. Poi, sempre fissando la luce velata, aveva visto con gli occhi della mente la forza dell’acqua che muoveva la dinamo; i chilometri di filo, i motori che azionavano generatori. Aveva trattenuto il respiro per la meraviglia davanti al concetto che gli era venuto incontro uscendo dalla sua mente o, meglio, da una parte di essa.

Gli impacciati, incerti esperimenti di Galvani, avevano appena preannunciato il mistero spiegabilissimo di quella luce che se ne stava lassù, sul soffitto. E, cosa infinitamente strana, solo una parte della sua intelligenza la trovava misteriosa mentre un altro settore la considerava con la massima naturalezza e ne capiva il funzionamento nelle sue linee generali.

La luce elettrica, aveva pensato, era stata inventata da Thomas Alva Edison, verso il… che buffo! Stava per dire verso il 1900, mentre era soltanto il 1796!

Poi l’orribile verità gli si era presentata alla mente, e lui aveva cercato — dolorosamente e invano — di rizzarsi a sedere sul letto. Era stato proprio nel 1900, glielo diceva la sua memoria, ed Edison era morto nel 1931… E un uomo chiamato Napoleone Bonaparte era morto centodieci anni prima, nel 1821.

Allora si era sentito impazzire.

Pazzo o sano che fosse, soltanto l’impossibilità di parlare lo aveva salvato dal ricovero in manicomio; gli aveva dato il tempo di riflettere, di rendersi conto che la sua sola speranza di salvezza stava nel dichiararsi vittima di un’amnesia, nel fingere di non ricordare nulla della vita prima dell’incidente. Non si manda nessuno in manicomio per un’amnesia. Ti dicono chi sei, e ti lasciano tornare a quella che, secondo loro, era la tua esistenza. Ti permettono di raccogliere i fili spezzati e di tesserli di nuovo, mentre cerchi di ricordare.

Tutto questo era successo tre anni prima. Domani sarebbe andato nello studio di uno psichiatra… per dirgli che lui era Napoleone!

3

Il sole si era abbassato parecchio. Un aereo che aveva l’aria di un grosso uccello passò ronzando nel cielo. Guardò in su e cominciò a ridere piano, tra sé… Non la risata sguaiata della pazzia. Era una risata autentica, genuina, perché sgorgava dall’immagine assurda di Napoleone Bonaparte che viaggiava in un aereo come quello, dall’irresistibile incongruenza di quell’idea.

Gli venne in mente, allora, che lui non era mai stato in aereo, per lo meno non se ne ricordava. Forse ci era stato George Vine; durante i suoi ventisette anni di vita, George Vine doveva pur aver volato. Ma questo significava forse che “lui” era stato in aereo? Questa domanda si perdeva in un interrogativo più vasto.

Si alzò e riprese a camminare. Erano quasi le cinque: presto Charlie Doerr avrebbe lasciato il giornale e sarebbe tornato a casa per cenare.

Forse era meglio telefonare a Charlie e assicurarsi che fosse in casa davvero quella sera.

Andò al bar più vicino e formò il numero. Trovò Charlie per un pelo. — Qui parla George — disse. — Sei a casa, stasera?

— Certo, George. Ero stato invitato per un poker, ma ho rimandato quando ho sentito che venivi tu.

Come facevi a sapere… Oh, te l’ha detto Candler?

— Sì. Non sapevo se avresti telefonato, così non ho avvisato Marge. Ma che ne dici di cenare insieme fuori? Per lei va senz’altro bene. La chiamo ora e glielo dico, se puoi.

— No, grazie, Charlie. Sono già invitato. E, per quanto riguarda il poker, non rinunciare. Sarò da te alle sette. Mica dovremo parlare tutta la sera: basterà un’oretta. Comunque non usciresti prima delle otto.

— Non preoccuparti. Non ho alcuna voglia di andarci e tu non vieni a trovarmi da un bel pezzo. Alle sette, allora.

Uscì dalla cabina telefonica, si avvicinò al bancone, e ordinò una birra. Chissà perché aveva rifiutato l’invito a cena. Forse nel suo subcosciente voleva rimandare di un paio d’ore quel colloquio penoso. Eppure voleva bene a Charlie e Marge.

Sorseggiò lentamente la birra per farla durare a lungo. Doveva mantenersi lucido quella sera, perfettamente lucido. Aveva ancora il tempo di cambiare idea, si era tenuto aperta una via d’uscita, per quanto angusta. Poteva ancora andare da Candler il mattino seguente e dirgli che non se la sentiva.

Sbirciando sopra l’orlo del bicchiere si guardò riflesso nello specchio del bar. Piccolo, capelli color sabbia, naso lentigginoso, la corporatura bassa e tarchiata corrispondeva, ma il resto! Neppure la più lontana rassomiglianza.

Mandò giù lentamente una seconda birra, tirando le cinque e mezzo.

Uscì e cominciò a camminare, questa volta verso la città. Passò davanti al Blade e diede un’occhiata su, al terzo piano, alla finestra dove si trovava quando Candler lo aveva mandato a chiamare. Chissà se sarebbe tornato ancora a quella finestra, per contemplare il mondo in un pomeriggio di sole?

Forse no.

Pensò a Clare. Gli andava di vederla quella sera?

Ecco, per essere sincero, proprio no. Ma se fosse scomparso per un paio di settimane senza neanche salutarla, avrebbe potuto farci una croce sopra. Lei non avrebbe più voluto saperne.

Meglio avvertirla.

Si fermò ad un altro bar e le telefonò a casa. — Sono George. Senti, domani vado fuori città, per lavoro. Non so quanto resterò assente. Può essere questione di giorni o di settimane. Potremmo vederci stasera?

— Ma certo, George. A che ora?

— Subito dopo le nove, ti va? Prima devo passare da Charlie per questioni di lavoro. Non credo che riuscirò a liberarmi prima delle nove.

— D’accordo George. Vieni quando vuoi.

Si fermò a una bancarella di hamburger anche se non aveva appetito, e riuscì a mandar giù un panino imbottito e un pezzo di pasticcio di carne. Erano ormai le sei e un quarto, e se fosse andato a piedi sarebbe arrivato a casa di Charlie proprio all’ora giusta. S’incamminò.

Charlie gli venne Incontro sulla soglia. Posandosi un dito sulle labbra, accennò con la testa in direzione della cucina, dove Marge stava rigovernando — Non le ho detto niente, George — bisbigliò. — Si metterebbe in agitazione.

Lui avrebbe voluto domandargli perché Marge dovesse preoccuparsi tanto, poi pensò che era meglio star zitto. Forse aveva paura della risposta. Se Marge si preoccupava per lui, era brutto segno. Eppure gli sembrava di essersi comportato bene in quei tre anni.

Comunque non ebbe il tempo di fare domande, perché Charlie lo introdusse subito nel soggiorno, comunicante con la cucina, senza tacere un attimo. — Che buona idea quella di venire a giocare a scacchi, George! Peccato però che Marge debba uscire, stasera; c’è un film che le interessa in un cinema qui vicino. Io sarei andato a fare quella partita tanto per ammazzare il tempo ma non ne avevo molta voglia.

Prese scacchi e scacchiera da un armadietto e sistemò il tutto su un tavolino.

Marge entrò con due grossi bicchieri pieni di birra fresca sopra un vassoio, che posò accanto alla scacchiera. — Ciao George — disse. — Allora, te ne vai per un paio di settimane?

Lui annuì. — Ma non so dove. Candler, il direttore, mi ha chiesto se ero libero per un servizio fuori città e io ho acconsentito volentieri. Mi dirà i particolari domani.

Charlie gli tese i pugni chiusi, un pezzo in ciascuna mano, e lui scelse la sinistra. Bianco. Disposero i pezzi sulla scacchiera: Re, Regine, pedoni.

Marge stava trafficando col cappello davanti allo specchio.

— George se te ne vai prima che io torni — disse — ti saluto adesso. Auguri.

— Grazie, Marge. Ciao.

Fecero qualche mossa prima che la donna, finalmente pronta, venisse a salutare il marito con un bacio.

Per un attimo i loro occhi si incrociarono e lui capì che Marge era preoccupata. La cosa lo spaventò un poco.

Quando la porta si richiuse, lui disse: — Lasciamo perdere il gioco, Charlie. Andiamo al sodo, perché ho un appuntamento con Clare alle nove. Non so quanto starò lontano, dunque devo salutarla.

Charlie lo guardò. — Tu e Clare fate sul serio? — domandò.

— Non so.

Charlie afferrò il suo bicchiere e mandò giù un sorso Poi parlò con voce chiara e precisa. D’accordo — disse — andiamo al sodo. Domattina alle undici abbiamo appuntamento con un certo Irving, dottor J.E. Irving, in Appleton Block. È uno psichiatra, consigliato dal dottor Randolph. Gli ho telefonato oggi pomeriggio, dopo aver parlato con Candler, che a sua volta aveva già chiamato Randolph. Ecco che cosa ho raccontato: prima di tutto ho dato il mio nome, poi ho spiegato che ho un cugino che da qualche tempo a questa parte si comporta in modo strano e che avrei voluto fargli esaminare. Non ho detto, però, il nome del cugino e neanche quali siano le sue stranezze. Ho evitato di rispondere alle domande dicendo che preferivo fosse lui a giudicare, senza pregiudizi. L’ho informato che ti avevo convinto io a rivolgerti a uno psichiatra. Io conoscevo soltanto Randolph che in genere non fa visite private e che mi aveva indirizzato a lui. Gli ho anche detto che sono il tuo parente più stretto. Se riuscirai a convincere Irving di essere davvero pazzo e lui deciderà di farti ricoverare, io insisterò per sentire anche il parere di Randolph, che avevo già richiesto in principio. E questa volta lui acconsentirà.

— Non hai detto da quale malattia mentale ti sembravo afflitto?

Charlie scosse la testa. — Dunque, domani nessuno dei due andrà in ufficio — disse. — Io partirò da casa alla solita ora, così Marge non si accorgerà di mente, ma ti raggiungerò in centro, diciamo nella hall del Christina, alle undici meno un quarto. E se riuscirai a convincere Irving che sei da internare andremo subito anche da Randolph e sistemeremo la faccenda in giornata.

— E se io cambiassi idea?

— Disdirei l’appuntamento, ecco tutto. Be’, ora abbiamo finito. Terminiamo la partita a scacchi; sono solo le sette e venti.

Lui scosse la testa. — Preferivo parlare, Charlie. Ti sei dimenticato di programmare la giornata di dopodomani. Ogni quanti giorni verrai a prendere le notizie da riferire a Candler?

— È vero, me n’ero scordato. Ogni volta che saranno permesse le visite. Tre volte alla settimana: lunedì, mercoledì e venerdì pomeriggio. Domani è venerdì, così, se entrerai in gabbia, non potrò vederti prima di lunedì.

— D’accordo. Senti un po’, Candler ti ha mai parlato della storia che dovrei andare a controllare?

L’altro scrollò la testa lentamente. — Neanche una parola. Di che si tratta? O è un segreto di stato?

Guardò Charlie, perplesso. Poi, all’improvviso, sentì che non poteva dire la verità: non la conosceva. Ma, ammettendolo, avrebbe fatto la figura dello sciocco. Non se n’era accorto, quando Candler gli aveva spiegato la ragione per cui non poteva dirgli niente. Ma adesso gli sembrava un’idiozia.

— Se lui non te l’ha raccontata — disse — è meglio che stia zitto anch’io, Charlie. — E poiché quello non era un motivo molto convincente, aggiunse: — Ho promesso a Candler di non farne parola.

I bicchieri erano vuoti ormai e Charlie li portò in cucina per riempirli di nuovo.

Lui lo seguì sentendosi più a suo agio nella semplicità della cucina.

Sedette a cavalcioni di una sedia, puntando i gomiti sullo schienale, mentre Charlie si appoggiava al frigorifero.

— Alla tua salute! — disse Doerr. Bevvero, poi domandò: — Ce l’hai pronta, la storia da raccontare al dottor Irving?

Lui annuì. — Candler ti ha detto che cosa dovrei raccontargli?

— Che sei Napoleone? — Charlie scoppiò a ridere.

Ma era naturale quella risata? Guardò Charlie e capì che il suo sospetto era del tutto assurdo. Doerr era un tipo schietto ed onesto. Charlie e Marge erano i suoi migliori amici; lo erano stati per tutti e tre gli annidi cui aveva memoria. E molto più a lungo. Molto di più, secondo loro. Ma al di là di quei tre anni… c’era qualcos’altro.

Si schiarì la gola perché le parole cominciavano ad uscirgli con difficoltà, ora. Ma doveva chiedere, doveva essere sicuro.

— Charlie, voglio farti una domanda maledettamente imbarazzante. Questa faccenda è tutta chiara e onesta?

— Eh?

— È piuttosto difficile chiederlo. Ma… tu e Candler mica pensate che io sia pazzo, vero? Mica state complottando per farmi ritirare, o almeno esaminare, senza mettermi in agitazione sino a che sarà troppo tardi?

Charlie lo fissava allibito. — Ehi, George, ma tu mi credi capace di una cosa simile?

— No. Ma potresti pensare che sia per il mio bene e quindi agire di conseguenza. Senti, se le cose stanno veramente così, se tu la pensi a quel modo, lasciami dire che non è un comportamento leale. Sto per andare da uno psichiatra per mentirgli, per convincerlo che sono un paranoico. Per comportarmi in modo disonesto nei suoi confronti. E voi sareste terribilmente sleali nei miei. Lo capisci, vero, Charlie?

Charlie era leggermente impallidito. — Davanti a Dio — disse — ti giuro che non è niente del genere, George. Io so soltanto quello che tu e Candler mi avete detto.

— Sei convinto che io sia sano di mente, completamente sano?

Charlie si passò la lingua sulle labbra. — Vuoi che ti risponda sinceramente?

— Sì.

— Non ne ho mai dubitato fino a questo momento. A meno che… Ecco l’amnesia, in un certo senso, è un’anomalia mentale, suppongo, e tu non sei mai riuscito a superarla. Ma tu non intendevi questo, vero?

— No.

— Allora te lo ripeto: mai, fino a questo momento… perché, George, questo mi ha tutta l’aria di una mania di persecuzione, se pensi veramente quello che hai detto. Una congiura per farti… Ma lo puoi capire anche da solo quanto sia ridicolo! Che motivo potremmo avere io e Candler per convincerti a mentire e a farti ricoverare in un manicomio?

— Scusami, Charlie — disse lui. — È stata un’idea momentanea. Naturalmente, non lo penso affatto. — Lanciò un’occhiata all’orologio da polso e soggiunse: — Finiamo questa benedetta partita, vuoi?

— Sì. Ma aspetta che riempio di nuovo i bicchieri.

Giocò malissimo, e riuscì a perdere in un quarto d’ora. Rifiutò l’offerta di Charlie che gli proponeva la rivincita e si abbandonò contro lo schienale della sedia.

— Charlie, hai mai sentito parlare di pezzi da scacchi rossi e neri?

— N… no. Li ho sempre visti bianchi e neri, oppure rossi e bianchi. Perché?

— Ecco… — sorrise. — Forse non dovrei dirtelo dopo averti fatto dubitare per un attimo della mia sanità mentale, ma da qualche tempo faccio sempre gli stessi sogni. Non si tratta di sogni particolarmente fuori dell’ordinario, solo che si ripetono con insistenza. Uno riguarda un gioco tra rossi e neri; non so neppure se si tratti di scacchi. Lo sai com’è nei sogni: sembra sempre che tutto abbia senso anche se non ce l’ha. Mentre sogno non mi chiedo neppure se quel gioco tra rossi e neri è una partita a scacchi o no; evidentemente lo so o mi sembra di saperlo. Ma poi… non so più niente. Capisci quello che voglio dire?

— Certo. Continua.

— Ecco, mi sono domandato se questa faccenda non potesse avere qualche relazione con quello che sta dall’altra parte del muro che non sono ancora riuscito a superare. Questa è la prima volta nella mia… be’, non nella mia vita, forse, ma nei tre anni che ricordo, che mi capita di fare sogni così insistenti. Mi domando se la mia memoria non… non stia cercando di aprire una breccia nel muro. Per esempio, ho mai posseduto dei pezzi da scacchi rossi e neri? Oppure nelle scuole che frequentavo, non si giocavano mai partite di basket o baseball tra squadre con quei colori? Oppure… non so, qualcosa del genere?

Charlie rifletté per alcuni minuti. Poi scrollò la testa.

— No — disse — niente del genere. Naturalmente c’è del rosso e del nero in una roulette… Rouge et noir. E questi sono anche i colori di un mazzo di carte da gioco.

— No, sono sicuro che carte e roulette non c’entrano. Non è… non è così. È un gioco tra rossi e neri. Loro sono i giocatori, non so come. Pensaci bene, cerca di ricordare da dove io, non tu, possa aver attinto quell’idea!

Lo guardò spremersi le meningi inutilmente per un po’, poi disse: — Lascia perdere, Charlie. Prova invece con quest’altro: Il Risplendente.

— Il risplendente cosa?

— Niente, Risplendente e basta. Significa niente per te?

— No.

— Va bene — disse lui. — Non pensarci più.

4

Giunse in anticipo alla casa di Clare, e ci passò davanti arrivando fino all’angolo, dove rimase in piedi sotto l’olmo a fumarsi una sigaretta sforzandosi tristemente di pensare.

In realtà non c’era proprio mente a cui pensare; c’era soltanto da dirle addio. Una parola semplice. E doveva eludere le domande di Clare sulla durata di quel servizio e sul luogo in cui stava per recarsi. Doveva mantenersi tranquillo e distaccato, come se non stesse per accadere niente di speciale a nessuno dei due.

Doveva essere così. Conosceva Clare Wilson ormai da un anno e mezzo, e l’aveva corteggiata per tutto quel tempo: non era leale. Bisognava dare un taglio netto, per il suo bene. Lui aveva diritto di chiedere a una donna di sposarlo, pressappoco quanto ne aveva un pazzo convinto di essere Napoleone!

Gettò via la sigaretta e la sbriciolò col tacco sull’asfalto del marciapiede, poi tornò verso la casa, salì fin sotto il portico e suonò il campanello.

Venne ad aprirgli Clare in persona. La luce proveniente dall’ingresso, alle sue spalle, trasformava i suoi capelli in un’aureola d’oro attorno alla faccia in ombra.

Provò un desiderio talmente forte di abbracciarla, che strinse i pugni per impedirsi di alzare le braccia.

— Ciao, Clare — disse stupidamente. — Come va… tutto?

— Non lo so, George. Lo chiedo a te. Non entri?

Si fece da parte per lasciarlo passare, e la luce le piovve sul viso dall’espressione dolce e grave. Lui capì che aveva intuito qualcosa, lo si sentiva anche dal tono di voce.

Non aveva nessuna voglia di entrare. — È una notte tanto bella, Clare — disse. — Facciamo due passi.

— Come vuoi, George. — Uscì sotto il portico e aggiunse:

— È bella davvero. Ci sono certe stelle… — Si voltò a guardarlo e domandò: — Ne hai una tua?

Lui trasalì leggermente. Poi fece un passo avanti e la prese sottobraccio guidandola giù per i gradini. — Sono mie tutte — disse con disinvoltura. — Vuoi comprarne una?

— Me la daresti, una? Magari solo una minuscola stella nana? Una di quelle che si vedono soltanto al telescopio?

Avevano imboccato una stradina secondaria, ormai, ed erano a una certa distanza dalla casa, quando la voce di Clare cambiò improvvisamente.

Il tono scherzoso scomparve, e la ragazza gli fece un’altra domanda: — Cosa non va, George?

Lui aprì la bocca per dire che non c’era proprio niente, ma poi la richiuse. Non era capace di mentirle e non poteva dirle la verità. Quella domanda tanto esplicita avrebbe dovuto rendergli più facile una spiegazione e invece gliela rendeva difficile.

— Vuoi dirmi addio per… per sempre vero George?

— Sì — disse lui, con le labbra aride. Non sapendo se fosse riuscito ad articolare il monosillabo, si inumidì le labbra e ci riprovò. — Temo proprio di sì, Clare.

— Perché?

Non ebbe il coraggio di girarsi e fissò diritto davanti a sé senza vedere. — Io… io non posso spiegarti, cara, ma è l’unica cosa che posso fare. Sarà meglio per tutti e due.

— Dimmi una cosa soltanto, George. Parti davvero? Oppure era una scusa?

— È vero. Parto. E non so quanto resterò lontano. Ma non domandarmi dove vado, ti prego. Non posso dirtelo.

— Forse posso dirtelo io, George. Ti spiace se te lo dico?

A lui spiaceva, gli spiaceva moltissimo. Ma come poteva ammetterlo? Non disse niente, dal momento che non poteva dire di sì.

Erano davanti al parco, ora, il piccolo parco del quartiere, grande quanto un isolato e che non offriva un po’ d’intimità, ma solo qualche panchina. Lui la guidò là dentro, oppure fu lei a guidarlo, non si può saperlo con certezza, e sedettero su una panchina. C’erano altre persone, ma non troppo vicine a loro.

Clare gli si strinse accanto sulla panchina. — Sei preoccupato per la tua mente, vero? — domandò.

— Be’, sì… In un certo senso è vero.

— E la tua partenza ha qualcosa a che fare con questo, no? Andrai in una clinica per farti esaminare, o per farti curare o per tutte e due le cose insieme?

— Qualcosa del genere. Ma non è così semplice, Clare, e io… Insomma, non posso parlartene.

Lei gli accarezzò una mano abbandonata su un ginocchio.

— Lo sapevo che si trattava di questo — mormorò. — E non ti chiedo affatto di parlarmene. Però… non dirmi quello che avevi intenzione di dire. Dimmi soltanto arrivederci, non addio. Puoi pure evitare di scrivermi, se non te la senti. Ma non fare l’eroe e non mettere fine a tutto adesso, per amor mio. Aspetta almeno fino a quando sarai tornato dal posto dove stai per andare. Vuoi?

Lui inghiottì. Clare aveva reso tutto così semplice, mentre in realtà era tutto così complicato. — E va bene, allora — disse, con immensa tristezza. — Se lo vuoi tu…

Lei si alzò bruscamente. — Torniamo indietro, George.

— È ancora presto.

— Lo so, ma a volte… Insomma c’è un momento psicologico adatto per concludere un appuntamento, George. Lo so che ti sembrerà sciocco, ma dopo quanto ci siamo detti, sarebbe inopportuno…

Lui rise. — Capisco cosa vuoi dire.

Tornarono sui loro passi, in silenzio. Lui non sapeva se sentirsi felice o disperato. Era troppo sconvolto.

Quando furono nell’ombra del portico, Clare si voltò e lo guardò diritto negli occhi: — George! — disse.

Silenzio.

— Insomma, George, piantala di fare l’eroe, o il martire, … che altro intendi fare! A meno che tu non mi ami… Che questo sia un modo elegante per mandarmi a spasso. È così?

C’erano solo due cose che lui potesse fare. Una era darsela a gambe. Decise per la seconda alternativa. La prese tra le braccia e la baciò. Avidamente.

Quando ebbe finito, e non finì molto in fretta, aveva il respiro più rapido, la mente piuttosto annebbiata e stava dicéndo proprio quello che non avrebbe voluto mai dire: — Ti amo, Clare. Ti amo.

— Anch’io ti amo, tesoro. Tornerai da me, vero?

— Sì — disse lui. — Sì.

C’erano sei chilometri tra la casa di Clare e la sua stanza d’affitto, ma preferì andare a piedi, e gli sembrò di metterci pochi secondi.

Sedette davanti alla finestra della sua cameretta, a luce spenta, pensando, ma i pensieri correvano nello stesso circolo vizioso in cui erano prigionieri da tre anni.

Non si era aggiunto alcun fattore nuovo. Solo che ora lui stava per andare a fondo alla cosa, e forse la faccenda si sarebbe risolta, in un modo o nell’altro.

Là, fuori dalla sua finestra, le stelle brillavano come diamanti nel cielo. Una di quelle era forse la stella del suo destino? In tal caso l’avrebbe seguita, magari fin dentro il manicomio, se conduceva fin là. Era intimamente convinto che non fosse per caso, per una strana coincidenza, che gli si chiedeva di dire la verità sotto la parvenza di una menzogna.

La stella del suo destino.

Risplendente? No, la parola sgorgata dal sogno non aveva valore di aggettivo, era un nome. Il Risplendente? Che cos’era Il Risplendente?

E i rossi e i neri? Aveva considerato, riflettuto a tutto quello che Charlie gli aveva suggerito e ad altro ancora. Gli scacchi, per esempio.

Ma non si trattava di quelli.

I rossi e i neri.

Be’, comunque fosse, ora stava correndo incontro al mistero a tutta velocità, non se ne allontanava.

Dopo un poco se ne andò a letto, ma ci mise parecchio prima di addormentarsi.

5

Charlie Doerr uscì dallo studio con la scritta PRIVATO e gli strinse la mano. — In bocca al lupo, George — disse. — Il dottore è pronto per il colloquio.

Lui ricambiò la stretta con calore. — Potresti anche andartene — disse. — Ci vedremo lunedì, primo giorno di visite.

— Ti aspetto qui, invece. Tanto mi son preso mezza giornata di vacanza, ricordi? E poi potremmo anche fare fiasco.

Lui lasciò andare la mano di Charlie e lo fissò negli occhi.

— Che vuol dire, Charlie, potremmo anche fare fiasco?

— Ecco — l’altro assunse un’aria perplessa — può anche darsi che ti trovi normale o che prescriva un certo numero di sedute nel suo studio, o… — concluse senza convinzione — o che so io.

Lui guardò Charlie con scetticismo. Avrebbe voluto domandargli: sono pazzo io o lo sei tu? Ma sembrava una domanda da pazzi, in quel momento. Tuttavia doveva essere sicuro che Charlie non si fosse lasciato sfuggire qualcosa di mente; forse era entrato involontariamente nel ruolo che volevano fargli interpretare, quando aveva parlato al medico pochi istanti prima. — Charlie, non ricordi quel… — Ma anche quella domanda gli sembrò pazzesca quando vide Charlie fissarlo con sguardo vuoto. La risposta gli stava già scritta in faccia; non era necessario farla salire alle labbra.

— Certo che ti aspetterò. In bocca al lupo, George!

Lui lo guardò negli occhi e annuì, poi si voltò e attraversò la soglia con la scritta PRIVATO, Richiuse la porta alle spalle, e guardò l’individuo seduto dietro la scrivania, che si era alzato in piedi. Un tipo robusto, dalle spalle quadrate e dai capelli grigio ferro.

— Il dottor Irving?

— Sì, signor Vine. Volete accomodarvi, prego?

Si abbandonò nella poltrona comodamente imbottita che stava di fronte alla scrivania del dottore.

— Signor Vine, il primo colloquio è sempre un po’ difficile per il paziente. Fino a che non mi conoscerete meglio, troverete imbarazzante parlare di voi stesso, superare la naturale reticenza. Preferite raccontare le cose a modo vostro o volete che vi ponga delle domande?

Lui rifletté qualche istante. Aveva pronta una storia, ma quelle poche parole scambiate con Charlie nella sala d’aspetto avevano cambiato tutto.

— Forse è meglio che mi facciate delle domande — disse.

— Benissimo. — Il dottor Irving teneva in mano una matita e aveva un foglio bianco davanti a sé, sulla scrivania. — Dove e quando siete nato?

Lui inspirò profondamente. — Per quanto ne so io, in Corsica, il 15 agosto 1769. Naturalmente non ricordo il momento della mia nascita. Tuttavia i miei ricordi risalgono all’epoca della mia fanciullezza trascorsa in Corsica. Restammo là fino a che io avevo dieci anni, poi fui mandato a scuola a Brienne.

Invece di scrivere, il medico batté leggermente con la matita sul foglio. — In che mese e anno siamo, adesso?

— Nell’agosto del 1947. Sì, lo so che dovrei avere quasi centottant’anni. Voi mi domanderete come io possa spiegare questo particolare. Non lo spiego. E neanche sono in grado di spiegare come mai Napoleone Bonaparte sia morto nel 1821.

Si abbandonò completamente nella sua poltrona e incrociò le braccia, fissando il soffitto. — Non tento neppure di spiegare tutti i paradossi e le incongruenze. Li riconosco come tali. Ma secondo la mia memoria e prescindendo da tutti i pro e i contro della logica, io sono stato Napoleone per ventisette anni. Non starò a raccontarvi che cosa accadde in quel periodo di tempo, perché è già tutto scritto nei libri.

«Però nel 1796, dopo la battaglia di Lodi, mentre mi trovavo al comando dell’esercito in Italia, me ne andai a dormire. Per quanto ne so io, proprio come se ne va a dormire tutta la gente del mondo, in ogni paese e in ogni epoca. Ma quando mi svegliai, in realtà senza alcuna idea di quanto tempo fosse passato, ero in un ospedale di questa città, e fui informato che il mio nome era George Vine, che eravamo nell’anno 1944 e che avevo ventisette anni.

«Il particolare del ventisette corrispondeva, ma soltanto quello. Nient’altro. Non ricordo nessun momento della vita di George Vine precedente al suo… al mio risveglio in ospedale dopo l’incidente. Ora so molte cose sulla sua vita, ma soltanto perché mele hanno raccontate. Conosco il luogo e la data della sua nascita, dove andò a scuola e quando cominciò a lavorare al Blade. So quando entrò nell’esercito e quando fu congedato, verso la fine del 1934, per un’imperfezione al ginocchio dovuta a una ferita. Non era una ferita ricevuta in battaglia, sia ben chiaro. E non c’era scritto affatto psiconeurotico sui documenti relativi al mio… al suo congedo.

Il medico smise di giocherellare con la matita. — La pensate così da tre anni e non avete mai detto niente a nessuno? — domandò.

— Già. Dopo l’incidente ebbi tutto il tempo di riflettere, e decisi che era meglio accettare quello che mi dicevano sulla mia identità Altrimenti mi avrebbero rinchiuso in un manicomio. Per essere sincero io ho cercato disperatamente di trovare una risposta ai miei interrogativi. Ho studiato la teoria del tempo di Dunne… perfino Charles Fort! — Improvvisamente rise — Mai letto niente di Casper Hauser?

Irving annuì.

— Forse agiva esattamente come agivo io. Chissà quanti fingono di essere colpiti da amnesia di non ricordare quello che è accaduto prima di una certa data, per non dover ammettere che i loro ricordi non corrispondono ai fatti!

— Vostro cugino — disse Irving — mi ha informato che prima dell’incidente, voi eravate un po’… fissato come dice lui, su Napoleone. Come spiegate la cosa?

— Vi ho già detto che non riesco a spiegarmi niente. Però posso constatare la verità di questa affermazione. Evidentemente io (George Vine, se mai sono stato George Vine) mi interessavo molto a Napoleone, avevo letto parecchio sudi lui e ne parlavo spesso. Quello che bastava perché i colleghi del Blade mi avessero appioppato il soprannome di Napo.

— Ho notato che voi fate una distinzione tra voi stesso e George Vine. Siete o non siete lui?

— Lo sono da tre anni. Prima di quel momento… non ricordo di esserlo stato. Anzi non credo di esserlo stato affatto. Credo, sempre con l’incertezza che provo riguardo a ogni cosa, di essermi svegliato tre anni fa nel corpo di George Vine.

— E che cosa avreste fatto per centosettant’anni e rotti?

— Non ne ho la minima idea. A proposito, io non dubito che questo sia il corpo di George Vine, né di averne ereditato le capacità e le facoltà, tranne i ricordi personali. Per esempio, sapevo svolgere perfettamente il suo lavoro al giornale, benché non ricordassi nessuna delle persone che affermavano di essere miei colleghi. E poi possedevo la sua conoscenza dell’inglese e sapevo scrivere a macchina. Inoltre la mia calligrafia era identica alla sua.

— Se ritenete di non essere Vine, come spiegate questo?

— Credo che una parte di me stesso sia George Vine e che l’altra non lo sia. Credo che si sia verificato un transfert singolare al di fuori della normale esperienza umana. Questo non significa necessariamente che si tratti di un avvenimento soprannaturale… e neppure che io sia pazzo. Non è vero?

Irving non rispose. — Avete tenuto segreto tutto per tre anni, e per ragioni comprensibili — si limitò ad osservare. — Ora, presumibilmente per altri motivi, vi decidete a parlare. Quali sono questi altri motivi? Che cosa ha modificato il vostro atteggiamento?

Era proprio la domanda che più lo preoccupava.

— Mi sono deciso perché non credo alle coincidenze — rispose lentamente. — Perché la situazione è cambiata. Perché sono stanco di fingere, e preferisco rischiare di venir segregato come paranoico pur di arrivare alla verità.

— In che cosa è cambiata la situazione?

Ieri il mio datore di lavoro mi ha pregato di fingermi pazzo per una ragione di ordine pratico. E di fingere proprio il tipo di pazzia di cui sono affetto, se lo sono veramente. Naturalmente, sono disposto ad ammettere la possibilità che io sia pazzo, posso agire soltanto partendo dal presupposto di non esserlo. Voi sapete di essere il dottor Williard E. Irving e potete agire soltanto in base a questa convinzione. Ma come fate a sapere di esserlo veramente? Potrebbe anche darsi che voi foste pazzo, tuttavia potete agire solamente pensando di non esserlo.

— Ritenete che il vostro datore di lavoro abbia ordito una congiura… contro di voi? Credete che qualcuno stia cospirando per rinchiudervi in un ospedale psichiatrico?

— Non so. Ecco che cosa mi capitò ieri pomeriggio. — Inspirò profondamente, poi si tuffò a capofitto nel racconto. Riferì a Irving il suo colloquio della sera prima con Charlie Doerr e il suo strano comportamento nella sala d’aspetto.

— Ecco tutto — disse, quando ebbe finito. Poi fissò la faccia impassibile del medico più con curiosità che con preoccupazione, cercando di leggerci qualcosa, e aggiunse con la massima naturalezza: — Sono certo che non mi credete. Che mi considerate pazzo. — Guardò Irving diritto negli occhi e continuò: — Non avete scelta, a meno che non pensiate che io stia snocciolando tutta una serie di bugie per convincervi che sono malato. Insomma, come scienziato e come psichiatra, non potete neppure lontanamente ammettere la possibilità che le cose di cui io sono convinto (che so con certezza!) siano obiettivamente vere. Non ho ragione?

— Temo di sì. Dunque?

— Dunque andate in fondo e firmate la richiesta di internamento. Io starò al gioco in tutti i particolari; farò firmare il secondo certificato medico dal dottor Ellsworth Joyce Randolph.

— Non solleverete obiezioni?

— Servirebbero a qualcosa, se ne sollevassi?

— Ad una cosa soltanto, signor Vine. Se il paziente è prevenuto nei riguardi di uno psichiatra, è meglio non affidarlo alle cure di quel particolare sanitario. Se voi credete che il dottor Randolph sia implicato in un complotto contro di voi, vi consiglierei di andare da un altro.

— Anche se io scegliessi proprio Randolph? — domandò lui, piano.

Irving agitò una mano, seccato. — Naturalmente, se voi e il signor Doerr preferite.

— Preferiamo.

La testa dai capelli color grigio ferro annuì gravemente.

— Dovete però rendervi conto di una cosa. Se io e Randolph decideremo per il vostro ricovero in una casa di cura, non sarà certo per tenervi sotto sorveglianza speciale, ma per guarirvi con opportune terapie.

Lui annuì. Il medico si alzò. — Scusate un attimo. Faccio una telefonata a Randolph.

Guardò Irving passare in un’altra stanza. Pensò che c’era un telefono anche sulla scrivania, ma che certo non se ne era servito per non lasciargli udire il colloquio.

Rimase lì seduto, in silenzio, finché il medico tornò. — Il dottor Randolph è libero — disse. — Ho chiamato un tassì che ci accompagni al suo studio. Vi spiace se dico due parole anche a vostro cugino?

Lui rimase lì seduto, e non guardò il dottore che lasciava la stanza, dirigendosi verso la sala d’aspetto. Avrebbe potuto cercare di afferrare qualche parola origliando, ma non lo fece. Si accontentò di starsene lì seduto, finché sentì la porta della sala d’aspetto aprirsi alle sue spalle, e la voce di Charlie che lo chiamava: — Vieni, George. Il tassì sarà già arrivato, ormai.

Presero l’ascensore, e quando uscirono trovarono l’auto-pubblica. Il dottor Irving diede l’indirizzo all’autista.

— Bella giornata — disse, quando furono pressappoco a metà del percorso. Charles si schiarì la gola e convenne:

— Bella davvero.

Poi nessuno disse più niente per tutto il resto della corsa.

6

Indossava un paio di pantaloni grigi e una camicia dello stesso colore con il colletto aperto e senza una cravatta che potesse servirgli per impiccarsi. Mancava anche la cintura, per la stessa ragione, ma i calzoni erano stretti in vita e non c’era pericolo che scendessero. Come non c’era pericolo che gli capitasse di cadere da una delle finestre, perché erano tutte munite di sbarre.

Se ne stava lì, appoggiato al muro, a guardare gli altri sette. Era lì da due ore, e gli sembrava da due anni.

Il colloquio col dottor Randolph si era svolto senza difficoltà: era stato praticamente una replica di quello con Irving. Ovviamente, Randolph non aveva mai sentito parlare di lui.

Era quello che lui si aspettava.

Si sentiva calmissimo, ora. Aveva deciso che per un po’ si sarebbe astenuto dal pensare, dal preoccuparsi, perfino dal sentire.

Fece alcuni passi e si avvicinò ai giocatori di scacchi. Era una partita da gente sana, dove venivano rispettate le regole.

Uno degli uomini alzò gli occhi e domandò: — Come vi chiamate? — Era una domanda perfettamente normale; l’unica cosa strana era che lo stesso individuo avesse ripetuto la stessa domanda ben quattro volte da due ore à quella parte.

— George Vine — rispose.

— Io sono Bassington, Ray Bassington. Chiamatemi pure Ray. Siete pazzo voi?

— No.

— Alcuni di noi lo sono, altri no. Lui sì — Guardo l’uomo che stava suonando un pianoforte immaginario. — Sapete giocare a scacchi?

— Non molto bene.

— Capisco. Ceniamo presto, qui. Qualunque cosa vogliate sapere, non avete che da domandarmela.

— Come si fa a uscire di qui? Sentite un po’, non è una battuta di spirito. Dico sul serio. Com’è la procedura?

— Tutti i mesi ci si presenta davanti ad un gruppo di medici dell’ospedale. Quelli fanno alcune domande e decidono se potete andarvene o se dovete restare. A volte vi piantano dentro degli aghi. Come vi hanno classificato?

— Classificato? Che significa?

— Debolezza mentale, psicosi-depressiva, demenza precoce, malinconia involutiva…

— Oh paranoia, credo!

— Male. Allora vi pungono con degli aghi.

Un campanello suonò, chissà dove.

— La cena — disse l’altro giocatore di scacchi. — Mai tentato di suicidarvi? O di ammazzare qualcuno?

— No.

— Allora vi lasceranno mangiare a una tavola A, con coltello e forchetta.

La porta della corsia si aprì, versò l’esterno, e la figura di un infermiere si inquadrò nella soglia. — È ora — disse. Uscirono tutti, tranne l’uomo che se ne stava seduto su una sedia, fissando il vuoto.

— E quello? — chiese a Ray Bassington.

— Salta il pasto, stasera. Psicosi maniaco-depressiva che sta per entrare nella fase malinconica. Gli lasciano saltare un pasto. Se non è in grado di scendere neanche a quello seguente, lo portano giù loro e lo nutrono per forza. Avete una psicosi-depressiva, voi?

— No.

— Be’, siete fortunato. È tremendo, durante le crisi. Ecco, da questa parte.

Era un vasto locale. Tavoli e panche erano affollati di uomini vestiti di grigio, come lui Mentre attraversavano la soglia, un infermiere lo afferrò per un braccio e disse: — Sedete là.

Era proprio accanto alla porta. Un piatto di alluminio pieno di cibo messo lì alla rinfusa, e un cucchiaio. — Non potrei avere coltello e forchetta? — domandò. — Mi hanno detto…

L’infermiere lo mandò avanti con una spinta. — Periodo di osservazione. Sette giorni. Nessuno può avere le posate prima che sia finito il periodo di osservazione. Sedete.

Sedette. Nessuno a quel tavolo aveva le posate. Tutti gli altri stavano già mangiando, alcuni rumorosamente e disordinatamente. Lui tenne gli occhi fissi sul piatto, per quanto il cibo fosse tutt’altro che invitante. Giocherellò col cucchiaio, e riuscì a mandar giù qualche pezzo di patata pescata nella broda dello stufato, e un paio di bocconi di carne legnosa.

Il caffè era in un bicchiere di alluminio. Chissà perché? Poi capì quanto fosse facile rompere un bicchiere normale e quanto potessero diventare pericolosi i cocci delle solite tazze usate nei bar.

Il caffè era lungo e freddo: non riuscì a berlo.

Si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Per un attimo. Quando li riaprì il piatto e la tazza che gli stavano davanti erano vuoti e il suo compagno di sinistra mangiava a quattro palmenti. Era l’uomo che suonava il piano invisibile.

Pensò che se fosse rimasto a lungo in quel posto la fame gli avrebbe fatto mangiare anche quella roba. Non gli andava l’idea di restarci a lungo.

Dopo un po’ si sentì un altro campanello e tutti si alzarono — una tavolata per volta, a un segnale che lui non riuscì a individuare — e uscirono in fila. Il suo gruppo, che era entrato per ultimo, uscì per primo.

Ray Bassington era dietro di lui, sulle scale. — Vi ci abituerete — disse. — Come vi chiamate?

— George Vine.

Bassington rise. La porta venne chiusa nuovamente alle loro spalle, dall’esterno.

Fuori era buio. Lui si avvicinò a una delle finestre, e guardò fuori, attraverso le sbarre. C’era una sola stella lucente, che brillava proprio in cima al grosso platano del cortile. Era una stella? Be’, l’aveva seguito fin lì. Passò una nuvola e la nascose.

C’era qualcuno in piedi accanto a lui. Girò la testa e vide l’uomo che suonava il piano invisibile. Aveva la faccia abbronzata, dall’aria straniera, con gli occhi di un nero intenso; in quel momento sorrideva, come per una misteriosa barzelletta.

— Siete nuovo, qui? Oppure vi hanno appena trasferito da un altro reparto?

— Sono nuovo. Mi chiamo George Vine.

— Piacere, Baroni. Musicista. Lo ero, almeno. Adesso… lasciamo perdere. Volete sapere qualcosa su questo posto?

— Certo. Come si fa ad uscirne.

Baroni rise, senza allegria, ma neppure troppo amaramente. — Prima di tutto, bisogna convincerli che ci si è ristabiliti. Vi spiace raccontarmi che cosa avete? Ad alcuni dà fastidio, ad altri no.

Lui guardò Baroni, domandandosi a che categoria appartenesse. Finalmente disse: — A me non importa. Io… credo di essere Napoleone.

— E lo siete davvero?

— Che cosa?

— Napoleone! Se non lo siete davvero, è un conto. Può darsi che vi dimettano in sei mesi o giù di lì. Se invece lo siete sul serio… è un bel guaio. Probabilmente finirete i vostri giorni qui dentro.

— Perché? Voglio dire che se lo sono davvero, non sono affatto pazzo e…

— Non è questo il punto. Bisogna vedere se loro vi ritengono sano o no. Secondo la loro logica, se credete di essere Napoleone, non siete affatto sano. La cosa è dimostrata. Resterete qui.

— Anche se dico loro che sono convinto di essere George Vine?

— La sanno lunga, sulla paranoia. Per questo siete qui dentro. Ogni volta che un paranoico si stanca di questo posto; cerca di mentire perché lo mandino fuori. Mica sono nati ieri. Loro lo sanno.

Be’, questo in linea di massima, ma come… All’improvviso, un brivido gli corse giù perla schiena. Non finì neppure la domanda. «Vi pungono con gli aghi»… Ecco che cosa aveva voluto dire Ray Bassington.

Baroni annuì. — Il siero della verità — disse. — Quando un paranoico ha raggiunto lo stadio in cui può considerarsi guarito se dice la verità, quelli si assicurano che la dica sul serio prima di lasciarlo libero.

Si era cacciato volontariamente in una bella trappola! Probabilmente avrebbe finito i suoi giorni in quel posto, ormai.

Appoggiò la testa alle sbarre di ferro e chiuse gli occhi. Poi sentì dei passi che si allontanavano, e capì di essere rimasto solo.

Aprì gli occhi e guardò nel buio: ora le nuvole avevano nascosto la luna.

«Clare» pensò «Clare!»

Una trappola.

O lui era sano, o era pazzo. Se era sano, era caduto in trappola, e se c’era una trappola, doveva esserci anche il cacciatore. Magari i cacciatori.

Se invece era pazzo…

Volesse Iddio che fosse pazzo davvero! Così tutto avrebbe avuto un senso, e un giorno o l’altro se ne sarebbe potuto uscire da quell’inferno, tornare al suo posto al Blade, ricordandosi finalmente di tutti gli anni che aveva passato lì. O che George Vine aveva passato lì.

Ma qui stava il guaio. Lui non era affatto George Vine.

E c’era un altro ostacolo. Lui non era pazzo.

Le gelide sbarre di ferro premevano contro la sua fronte.

Dopo un po’ sentì aprire la porta e si voltò a guardare. Erano entrati due infermieri. Una speranza insensata, Irragionevole gli nacque dentro, lo travolse. Ma non durò a lungo.

— A letto, ragazzi! — disse uno dei due. Guardò l’uomo affetto da psicosi maniaco-depressiva e imprecò. — Accidenti! Ehi, Bassington, aiutatemi a trasportare quel tipo.

L’altro infermiere, un uomo tarchiato dai capelli tagliati corti come un lottatore, si avvicinò alla finestra.

— Siete nuovo, qui. Vine, nevvero?

Lui annuì.

— Andate in cerca di guai, o avete intenzione di fare giudizio?

La mano destra dell’uomo si contrasse in un pugno, il braccio si preparò pronto a scattare.

— Non voglio guai, ne ho abbastanza.

L’altro si calmò. — Bene. Continuate a pensarla così e andremo d’accordo. Lì c’è la cuccetta libera. Quella a destra. La rifarete voi stesso domattina. Statevene buono e badate ai fatti vostri. Se sentiremo rumore in corsia verremo noi e metteremo tutto a posto. A modo nostro. Non credo che vi andrebbe il sistema.

Lui non osò parlare, e si limitò a un cenno di assenso col capo. Poi si voltò e entrò nello stanzino che l’infermiere gli aveva indicato. C’erano due cuccette, là dentro. Una era vuota e sull’altra stava disteso supino il paziente affetto da psicosi maniaco-depressiva che poco prima sedeva su una sedia. Ora fissava ciecamente il soffitto con gli occhi spalancati. Gli avevano sfilate le pianelle, per il resto era completamente vestito.

Si diresse alla sua cuccetta, sapendo che non poteva fare assolutamente niente per quel disgraziato: impossibile raggiungerlo attraverso l’involucro di desolazione che ogni tanto lo avvolgeva tutto.

Sollevò la coperta grigia della brandina, e ne scoprì un’altra, pure grigia, stesa sopra un’imbottitura discretamente morbida. Si sfilò camicia e calzoni, e li appese ad un gancio infisso alla parete, ai piedi del letto. Poi cercò con gli occhi un interruttore per spegnere la luce, ma non ne vide. Mentre guardava, la luce si spense da sé.

Una sola lampada restava ancora accesa in un punto imprecisato della corsia, e al suo chiarore riuscì a togliersi scarpe e calze e a infilarsi sotto le coperte.

Rimase tranquillo per un poco; sentiva solo due rumori, entrambi deboli e lontani. In un punto imprecisato della corsia, qualcuno cantava piano a se stesso una nenia senza parole; più in là, qualcun altro singhiozzava. Nel suo stanzino, invece, non sentiva neppure il respiro del compagno che gli giaceva accanto.

Poi udì il passo strascicato di piedi nudi davanti alla porta aperta e qualcuno disse: — George Vine.

— Sì?

— Parlate più piano! Sono Bassington. Volevo dirvi di quell’infermiere. Avrei dovuto avvisarvi prima. Non stuzzicatelo.

— Non l’ho fatto.

— Visto. Siete stato in gamba. Vi farebbe a pezzi, se gliene deste l’occasione. È un sadico. Molti infermieri lo sono. Ecco perché sono diventati castigamatti. Così si chiamano, quelli. E se li licenziano da una parte perché sono troppo brutali, se ne vanno da un’altra. Domattina tornerà ancora lui. Per questo ho voluto avvertirvi.

L’ombra scomparve dalla soglia.

Lui rimase sdraiato nell’oscurità, soffrendo, più che pensando. Ponendosi domande. I matti sapevano di esserlo? Potevano dirlo? Erano tutti sicuri, come lo era lui…?

— Napoleone Bonaparte!

Era una voce chiara, distinta, ma veniva dalla sua mente o da fuori? Sedette sulla cuccetta, aguzzando gli occhi nel buio, ma non riuscì a distinguere alcuna forma, nessuna ombra, nel rettangolo della porta.

— Sì? — disse.

7

Solo allora, dopo essersi rizzato a sedere sulla cuccetta e aver risposto «Sì» si accorse con che nome era stato chiamato.

— Alzati. Vestiti.

Mise le gambe giù dal letto, e si alzò. Allungò un braccio per prendere la camicia, e stava già infilandosela quando si bloccò e chiese: — Perché?

— Per sapere la verità.

— Chi siete?

— Non parlare forte. Ti sento. Sono dentro e fuori di te. Non ho nome.

— Allora, che cosa siete? — Lo disse forte, senza pensarci.

— Uno strumento del Risplendente.

Si sedette di colpo sulla cuccetta, e si chinò macchinalmente a cercare a tentoni le scarpe.

Anche la sua mente brancolava nel buio, in cerca di qualcosa che non sapeva bene cosa fosse. Finalmente trovò una domanda da fare. La domanda. Ma non la pose a voce alta, questa volta; la formulò col pensiero, si concentrò su di essa, mentre infilava le gambe nei pantaloni.

— Sono pazzo?

— No! — La risposta fu chiara e tagliente. Ma era stata realmente pronunciata? O quel suono era soltanto nella sua mente?

Trovò finalmente le scarpe, e le calzò. Mentre trafficava con le stringhe, pensò: «Chi… che cosa… è Il Risplendente?».

— Il Risplendente è quello che è la Terra. È l’intelligenza del nostro pianeta. È una delle tre intelligenze del Sistema solare, una delle molte nell’universo. La Terra è una; si chiama Il Risplendente.

«Non capisco» pensò lui.

— Capirai. Sei pronto?

Terminò di allacciare anche l’altra stringa e si alzò. La voce disse: — Vieni. Cammina senza far rumore.

Era come se qualcuno lo conducesse per mano, anche se lui non sentiva alcun contatto fisico e non vedeva nessuno accanto a sé. Camminava fiducioso, in punta di piedi, sapendo che non avrebbe urtato contro gli ostacoli, né inciampato. Attraversò lo stanzone, poi la sua mano tesa sfiorò la maniglia di una porta.

La girò piano, e l’uscio si aprì verso l’interno. La luce lo accecò. — Aspetta — disse la voce. Lui non si mosse. Sentiva dei rumori provenire dal corridoio illuminato: fruscio di carta, di pagine voltate.

Poi da un’altra. sala giunse un grido acuto. Una sedia si mosse rumorosamente e qualcuno si allontanò di corsa in direzione del grido. Una porta si aprì e si richiuse.

— Vieni — disse la voce. Lui spalancò la porta e uscì, passando davanti alla scrivania e alla sedia vuota, che stavano appena fuori dallo stanzone.

Altra porta altro corridoio. La voce disse: — Aspetta. — Poi: — Vieni. — Questa volta c’era un infermiere addormentato. Lui passò in punta di piedi poi scese alcuni gradini.

«Dove sto andando?» pensò.

— Verso la pazzia — disse la voce.

— Ma avevate detto che io non sono… — Questa volta aveva parlato forte e il suono della sua voce lo fece trasalire più della risposta all’ultima domanda. Nel silenzio che seguì a quelle parole, si udì (proveniente dal fondo delle scale) il ronzio di un centralino telefonico e qualcuno che diceva: — Sì… Bene, dottore salgo subito. — Rumore di passi e la porta di un ascensore che si chiudeva.

Scese tutti i gradini, voltò a sinistra, e si trovò nell’ingresso principale. La scrivania era vuota e accanto c’era il centralino telefonico. Ci passò davanti, e si diresse al portone. Era sprangato, ma lui abbassò la sbarra pesante.

Uscì nella notte. Camminò silenziosamente sull’asfalto, sulla ghiaia poi le sue scarpe calpestarono l’erba, e non fu più necessario avanzare in punta di piedi. Era buio come nel ventre di una balena; tutt’intorno, sentiva la presenza di alberi; e ogni tanto le foglie gli sfioravano la faccia. Procedeva rapidamente, con sicurezza. Infine allungò una mano e sentì un muro di mattoni.

Si protese e riuscì ad aggrapparsi alla sommità del muro e a scalarlo. In cima erano incastrati cocci di vetro, che gli tagliarono gli abiti e le mani. Ma non sentì dolore; solo il contatto umido e appiccicoso del sangue.

Percorse una via illuminata, poi altre strade buie e deserte, e infine un vicolo ancora più tenebroso. Aprì il cancello posteriore di un cortile e si avvicinò al retro di una casa. Spalancò una porta secondaria ed entrò. C’era una stanza illuminata nella parte anteriore dell’edificio; vedeva il rettangolo di luce in fondo al corridoio. Andò verso il locale illuminato, ed entrò.

Qualcuno che stava seduto a una scrivania si alzò. Qualcuno… un uomo di cui conosceva la fisionomia, ma che non riusciva a…

— Sì — disse l’uomo, ridendo — mi conosci, ma non mi riconosci. La tua mente è parzialmente sotto controllo e la tua capacità di ricordare è sospesa. A prescindere da questo e dall’anestesia, sei coperto di sangue per le ferite causate dal vetri sul muro, ma non senti dolore, la tua mente è normale e sei perfettamente sano.

— Di cosa si tratta? — domandò lui. — Perché mi hanno portato qui?

— Perché sei sano di mente. Questo mi spiace, perché non puoi esserlo. Non tanto per via dei ricordi della tua vita prècedente, che hai conservato dopo essere stato mosso… capita, a volte… quanto perché sai qualcosa che non dovresti sapere… qualcosa del Risplendente e del Gioco tra i rossi e i neri. Per questa ragione…

— Per questa ragione, cosa? — incalzò lui.

L’uomo misterioso sorrise. — Per questa ragione devi sapere anche il resto. Perché tutto equivarrà a niente. La verità ti farà impazzire.

— Questo non lo credo!

— È naturale — disse l’altro. — Se tu potessi immaginare la verità, non ti farebbe impazzire. Ma non ne sei neppure lontanamente in grado.

Sentì la rabbia crescergli dentro.

Fissò la faccia nota e al contempo sconosciuta, poi guardò la propria uniforme grigia strappata e insanguinata, le mani ferite e sporche di sangue. Le dita si contrassero come artigli per il desiderio di uccidere qualcuno. Quel qualcuno chiunque fosse, che stava in piedi davanti a lui.

— Chi siete? — domandò.

— Sono lo strumento del Risplendente.

— Lo stesso che mi ha condotto qui, o un altro?

— Uno è tutti, tutti sono uno. Tra l’insieme e le sue parti non c’è differenza. Uno strumento è uguale all’altro, e i rossi sono i neri e i neri sono i bianchi e non c’è nessuna differenza; Il Risplendente è l’anima della Terra. Ho usato la parola anima perché, nel vostro vocabolario, è quella che più si avvicina al significato esatto.

L’odio lo stava quasi accecando.

— Che cos’è Il Risplendente? — domandò. Le sue parole risuonarono come una maledizione.

— Se lo sapessi — replicò l’uomo misterioso — impazziresti. Vuoi saperlo davvero?

— Sì. — Anche quel semplice monosillabo vibrò come un’imprecazione.

Le luci andavano abbassandosi. O erano i suoi occhi? La stanza si oscurava e al tempo stesso arretrava. Stava trasformandosi in un cubetto di luce tenue, visto di lontano e dall’esterno, da un luogo imprecisato nelle lontananze tenebrose, e arretrava sempre, diventando un puntino luminoso. E dentro quel punto c’era la cosa odiata, l’uomo… ma era poi un uomo?, che stava in piedi accanto alla scrivania.

Nelle tenebre. Nello spazio. Lontano, fuori dalla Terra… una sfera nella notte, una sfera che si allontanava, stagliata contro il buio dello spazio eterno, un disco nero che occultava la vista delle stelle.

Infine si fermò, e anche il tempo si arrestò. E accanto a lui, dal vuoto, parlò la voce dello strumento del Risplendente.

— Contempla — disse — l’Essere della Terra.

Lui contemplò. Non si verificò alcuna trasformazione esteriore, ma avvertì un mutamento interno, come se i suoi sensi fossero stati alterati per dargli modo di percepire una realtà fino a quel momento invisibile.

La sfera della Terra cominciò a risplendere. A risplendere intensamente.

— Ora vedi l’intelligenza che governa la Terra — disse la voce. — La somma dei neri, dei bianchi e dei rossi che sono uno, divisi soltanto come sono divisi i lobi di un cervello, la triplice unità.

Poi la palla lucente e le stelle che le facevano da sfondo sbiadirono, e l’oscurità si fece sempre più profonda, finché si accese una debole luce che andò aumentando sempre più, e lui si ritrovò nella stanza, con l’uomo in piedi accanto alla scrivania.

— Adesso hai visto — disse l’uomo — ma non comprendi. Vuoi sapere che cos’hai visto? Che cos’è Il Risplendente? È un’intelligenza di gruppo, la vera intelligenza della Terra, una delle tre intelligenze esistenti nel Sistema solare, una tra le molte dell’universo.

«Che cosa sono gli uomini, dunque? Gli uomini sono pedine, in partite che a voi sembrano incredibilmente complesse, tra i rossi e i neri, i bianchi e i neri. Partite giocate da una parte contro l’altra dello stesso organismo, per distrarsi e trascorrere allegramente un istante dell’eternità. Ci sono anche partite più complesse, tra galassie. Ma lì gli uomini non c’entrano.

«L’uomo è un parassita caratteristico della Terra, che tollererà sua presenza per un poco. Non esiste in nessun’altra parte del cosmo, e anche qui non resterà per molto. Giusto per la durata di qualche partita sulla scacchiera, guerre che lui crede di combattere da sé… vedo che cominci a capire.

L’uomo presso la scrivania sorrise.

— Vorresti sapere di te. Non c’è niente di meno importante. Era stata fatta una mossa prima di Lodi. Toccava ancora ai rossi, e ci voleva una personalità più forte, più spietata; era una svolta decisiva nella storia, cioè nel gioco. Capisci ora? E qualcun altro diventò imperatore.

Lui riuscì a malapena a spiccicare due parole: — E poi?

— Il Risplendente non uccide. Tu devi essere sistemato da qualche altra parte, in un’epoca qualsiasi. Molto più tardi, un uomo di nome George Vine era rimasto ucciso in un incidente stradale; il suo corpo era ancora utilizzabile. George Vine non era pazzo ma aveva un’ammirazione fanatica per il personaggio di Napoleone. La sostituzione fu divertente.

— Non ne dubito. — Impossibile gettarsi sull’uomo ritto accanto alla scrivania. L’odio stesso li divideva come un muro. — Dunque George Vine è morto?

— Sì, e tu ora sai troppo; devi impazzire così non saprai più niente. La conoscenza della verità ti farà impazzire.

— No!

Lo strumento sorrise.

8

La stanza, quel cubetto di luce, si oscurò e sembrò inclinarsi. Sempre in piedi lui si sentì rovesciare all’indietro, e la sua posizione da verticale stava diventando orizzontale.

Il peso era tutto sul dorso e sotto c’era il morbido sostegno della sua cuccetta, il contatto ruvido della coperta grigia. E lui poteva muoversi. Si mise a sedere.

Aveva sognato? Era uscito veramente dall’ospedale psichiatrico? Alzò le mani, le unì e sentì che erano umide e appiccicose. E anche la stoffa della camicia, anche le ginocchia, le cosce e i pantaloni lo erano. E ai piedi aveva le scarpe.

Il sangue delle ferite che si era fatto salendo sul muro. E ora l’azione dell’anestetico andava scomparendo, tutto cominciava a fargli male, mani, torace, stomaco, gambe. Acuti morsi dolorosi.

— Non sono pazzo!!! Non sono pazzo!!! — disse forte. Gridava?

Una voce disse: — No, non ancora. — Era la voce che aveva sentito prima, nella corsia? O quella dell’uomo che stava in piedi accanto alla scrivania? Oppure entrambi avevano la stessa voce?

— Domanda: «Che cos’è l’uomo?» — ordinò la voce.

Lui obbedì meccanicamente.

— L’uomo è un prodotto dell’evoluzione che non ha vie d’uscita, che è arrivato troppo tardi per competere; è sempre stato dominato dal Risplendente a cui serviva da passatempo, che era già vecchio e saggio prima ancora che lui camminasse eretto.

«L’uomo è un parassita su un pianeta già occupato prima del suo arrivo, popolato da un Essere che è uno e molti, un miliardo di cellule ma un’unica mente, un’unica intelligenza, un’unica volontà… come su ogni altro pianeta popolato dell’universo.

«L’uomo è uno scherzo, un pagliaccio, un parassita. Non è niente. E sarà ancora meno.

«Vieni e impazzisci.»

Lui scese di nuovo dal letto. Oltrepassò la soglia dello stanzino, camminò lungo la corsia, fino alla porta che dava sul corridoio. Un po’ di luce trapelava da una fessura in basso. Ma questa volta la sua mano non si alzò per afferrare la maniglia. Lui rimase lì, davanti all’uscio chiuso, e questo cominciò a risplendere. Lentamente divenne luminoso e i suoi contorni divennero visibili.

Come se un riflettore nascosto chissà dove le fosse stato puntato contro, la porta diventò un rettangolo di luce nelle tenebre circostanti.

— Ecco davanti a te una cellula del tuo dominatore — disse la voce. — Una cellula non intelligente in se stessa, ma che è una parte (sia pur minuscola) di un’unità intelligente, una fra i milioni di unità che costituiscono l’intelligenza che domina la Terra… e te stesso. E questa intelligenza, vasta quanto la Terra, è solamente una di milioni di intelligenze che dominano l’universo.

— La porta? Io non…

La voce tacque; si era spenta ma in fondo alla mente di lui rimase l’eco di una risata silenziosa.

Si appoggiò con forza e vide quello che doveva vedere. Una formica che si arrampicava su per la porta.

La seguì con lo sguardo e un orrore senza nome si impadronì di lui. Cento cose che gli erano state dette e mostrate si fusero in un mosaico di puro orrore. I neri, i bianchi, i rossi; le formiche nere, le formiche bianche, le formiche rosse, i giocatori di uomini, lobi separati di un solo cervello di gruppo, l’intelligenza che era una. L’uomo, un evento passeggero un parassita una pedina; un milione di pianeti nell’universo, ciascuno abitato da una razza d’insetti che costituiva un’una intelligenza per quel pianeta… e tutte le intelligenze riunite costituivano la singola intelligenza cosmica… Dio!

Quella parola brevissima non volle uscirgli di bocca. Diventò pazzo, invece. Si gettò contro la porta, nuovamente buia, picchiando con le mani insanguinate, con le ginocchia, con la testa, con tutto se stesso, anche se ormai aveva già dimenticato perché e che cosa volesse schiantare.

Quando obbligarono il suo corpo a calmarsi, infilandolo in una camicia di forza, era pazzo furioso: demenza precoce, non paranoia.

Quando lo rimisero in libertà guarito, undici mesi dopo, era un pazzo tranquillo: paranoia, non demenza precoce.

La paranoia, si sa, è una strana malattia: un delirio lucido, coerente, logico nella sua illogicità, che lascia integre tutte le altre funzioni fisiche e psichiche. Una serie di shock da metrazolo aveva dissipato la demenza precoce e gli aveva lasciato soltanto la convinzione di essere George Vine, il reporter.

Siccome anche i medici dell’istituto psichiatrico erano convinti della stessa cosa, quella non fu riconosciuta come un’idea fissa, e il paziente venne dimesso, con tanto di certificato che lo dichiarava sano di mente.

Sposò Clare. Lavora ancora al Blade, per un tipo di nome Candler. Gioca a scacchi con suo cugino, Charlie Doerr. Frequenta ancora, per controlli periodici, il dottor Irving e il dottor Randolph.

Chi di loro sorride segretamente tra sé? A che vi servirebbe saperlo? Sì, era, è, uno dei quattro.

Ma non ha importanza, non capite? Niente ha importanza!

FINE